Eleaml




Giuseppe Cesare Abba

Storia dei Mille

Giorni Pericolosi

Nei dieci mesi che volsero dalla pace di Villafranca alla spedizione
dei Mille, l'Italia di mezzo diede prove di virtù civili
meravigliose, ma col Piemonte corse dei pericoli gravi forse quanto
quelli che il Piemonte stesso aveva corsi, prima della guerra del
1859. I duchi, gli arciduchi, i legati pontifici fuggiti dalle loro
sedi, fin da prima di quella guerra, non avevano più osato tornarvi;
e allora Parma, Modena, Bologna con la Romagna fino alla Cattolica,
si strinsero in un solo Stato, che nel bel ricordo della gran via
romana da Piacenza a Rimini, chiamarono l'Emilia. Spento così d'un
tratto ogni vecchio sentimento di gelosia, conferirono la Dittatura
al Farini, romagnolo venuto su, da giovane, nelle cospirazioni, e poi
maturo ed esule fattosi alla vita dell'uomo di stato vicino al
Cavour, in Piemonte. Si crearono un esercito proprio, con gioventù
propria e d'ogni parte d'Italia; e il loro governo procedeva
d'accordo con quello di Toscana, libera anche essa, e col suo grande
statista Bettino Ricasoli risoluta d'unirsi al regno di Vittorio
Emanuele. Intanto quelle regioni si chiamavano, tutte insieme, Italia
centrale.
Quello Stato provvisorio era tranquillo come se non ci fosse in aria
nessuna minaccia, ma senza mostrarne paura, conosceva i pericoli tra
i quali viveva. L'Austria, che non aveva potuto aiutar con l'armi i
principi fuggiti a tornare, dichiarava caso di guerra l'ingresso
anche d'un solo soldato piemontese nell'Italia centrale: la Russia
era apertamente ostile non soltanto a che Toscana e Ducati e
Legazioni si unissero al regno di Vittorio Emanuele, ma ancora a che
si scegliessero un Sovrano: la Prussia consigliava il Piemonte di
rimetter esso stesso in trono i principi fuggiti. I diplomatici
italiani avevano un bel dire fin da allora ai prussiani che la
Germania mostrava desiderio di rompere i legami posti anche a lei dai
trattati del 1815: quegli uomini di Stato, sebbene sapessero che
presto la Germania avrebbe fatto ciò che già faceva l'Italia,
insistevano perché il Piemonte si contentasse della Lombardia, si
consolidasse bene e lasciasse tempo al tempo. In quanto a Napoleone
III, questi diceva di non voler correre i rischi di una nuova guerra
che l'Austria avrebbe immancabilmente intrapresa se fosse avvenuta
l'annessione dell'Emilia e della Toscana al nuovo regno; ed erano
avversi all'Italia la Spagna, la Baviera, persino il Belgio.
Sola l'Inghilterra si mostrava amica al nuovo Stato, che si veniva
formando; sola suggeriva agli Italiani dell'Emilia e della Toscana di
stare saldi nella loro risoluzione. Al Piemonte consigliava di fare,
di osare senza domandare e di non darsi briga né dell'Austria né
della Francia, né di nessuno. E il Ricasoli e il Farini erano uomini
da sentir bene il consiglio, perché stavano al governo di popolazioni
che sapevano ragionare il loro diritto. Come s'erano formate le
grandi potenze, esse che mormoravano e minacciavano perché Piemontesi
e Lombardi volevano aiutare i loro fratelli del centro a divenir
com'essi liberi, e tutti insieme Italiani? L'Austria, la Francia, la
Prussia, la Russia si erano costituite in secoli di violenze e di
usurpazioni, calpestando popoli, che due o tre di esse ritenevano
ancora con la forza; gli Italiani non conquistavano, non usurpavano
nulla; non abbattevano se non delle dinastie che loro erano state
imposte. Ora perché esse, le grandi potenze, volevano impedirli?
Si ragionava così, e così stavano le cose nel principio del 1860,
quando appunto Cavour, che dopo la pace di Villafranca, sdegnato
contro Napoleone e fin contro il Re, si era ritirato dal governo,
tornava alla presidenza dei Ministri. Egli allora osò da uomo che
sapeva di aver dei collaboratori potenti, e un popolo pronto a tutto.
E d'accordo con lui, il Ricasoli per la Toscana e il Farini per
l'Emilia, pubblicarono il Decreto che convocava i Comizi, in tutta
l'Italia centrale, pel plebiscito. In quei Comizi, i votanti dovevano
dichiarare se volessero l'unione alla Monarchia costituzionale di
Vittorio Emanuele, ovvero il regno separato. E nell'Emilia su
2,916,104 abitanti, comprese donne e fanciulli, 426,006 voti furono
per l'unione; contrari, solo 756. Nella Toscana, su 1,806,940
abitanti votarono per l'unione 366,871, pel regno separato 54,925.
Così l'Europa, che tante sciagure aveva versate o lasciato versare
sull'Italia, da secoli, vide meravigliata Emiliani e Toscani concordi
ed entusiasti fondersi con Piemontesi e Lombardi; e i duchi e gli
arciduchi - parole di Cavour - "sepolti in perpetuo sotto il cumulo
di schede deposte nelle urne."
Protestarono i principi che vedevano levati via per sempre i pretesi
loro diritti; protestò l'Austria, protestò quasi tutta l'Europa, ma
nessuno si mosse: e un regno dell'Alta Italia, di undici milioni, fu
fatto.
*
Allora, anche a uomini molto arditi, parve di aver avuto tanta
fortuna, che pensare ad altro sembrava temerità e follia. L'Europa
poteva, alla fine, saltar su e dire di aver tollerato anche troppo.
Infatti mostrò ancora il suo broncio il 2 aprile, nella seduta
inaugurale del nuovo Parlamento in Torino; nella qual seduta, con
manifesta avversione, non si fecero vedere i rappresentanti
diplomatici di Russia, Prussia, Spagna e del Belgio. E se i limiti
del nuovo regno fossero stati segnati dalla valle del Po, forse il
Governo avrebbe potuto facilmente persuadere lo spirito pubblico a
mantenersi cheto per alcuni anni, aspettando e preparando altri
eventi. Ma i confini erano già di là dall'Appennino; e aver a far
parte del regno la Toscana, la gran maestra antica della vita civile
italiana, voleva dire esser costretti a continuare l'impresa
nazionale. Napoleone III lo aveva ben capito, e di malumore aveva già
detto ad un suo ministro che l'unione della Toscana al regno di
Vittorio Emanuele portava di conseguenza l'unità italiana. Però al
Conte di Cavour l'unità non pareva ancora possibile. L'idea sua era
sempre di dar assetto al nuovo regno; promuoversi tutte le libertà;
svolgerne le forze già così rigogliose e omogenee; farlo ricco,
colto, solcarlo di strade ferrate e di canali; dotarlo di ogni sorta
di opere pubbliche; farne insomma il Belgio in grande dell'Europa
meridionale. Così, intanto gli Italiani dello Stato Pontificio e
delle Due Sicilie, avrebbero sentito e desiderato la prosperità dello
Stato settentrionale anche per sé; e forse, prima che passasse un
decennio, si sarebbero mossi spontaneamente per unirsi a goderla.
Egli aveva allora appena cinquant'anni, e poteva ripromettersi di
vivere ancora tanto da guidare quel movimento.
Senonchè Mazzini sin dal 2 marzo aveva scritto: "Non si tratta più di
repubblica o di monarchia, si tratta di unità nazionale; d'essere o
non essere. Se l'Italia vuole essere monarchica sotto la Casa di
Savoia, sia pure: se dopo la riscossa vuol acclamare liberatori e non
so che altro il Re e Cavour, sia pure. Ciò che ora vogliamo è che
l'Italia si faccia." Il gesto era preciso, diritto; Sicilia, Napoli,
Roma tutto doveva venire nell'unità nazionale: per Mazzini, pel suo
partito, che era anche fatto di uomini di guerra, l'ora era buona; o
coglierla, quali che si fossero i pericoli, o non vederla tornar mai
più. Egli fin dal 1856 aveva rivolta la sua azione al Mezzodì per far
procedere di laggiù in su la propaganda rivoluzionaria: nel '57, per
tentarvi una rivoluzione, d'intesa con lui era andato a morir colà
Pisacane: nel '59, temendo che la pace di Villafranca e le sue
conseguenze portassero a far guarentire dall'Europa l'intangibilità
delle Due Sicilie, egli Mazzini, aveva mandato Crispi in Sicilia a
promuovervi agitazioni e a prepararvi l'insurrezione. Ora dunque
bisognava gettare il dado, e cominciare appunto dalla Sicilia.
*
Certo la convinzione di Mazzini l'aveva in parte, almeno nel cuore,
anche il Cavour. Egli dopo Villafranca, in uno scatto di magnanima
ira, aveva detto: "Mi hanno troncato la via a fare l'Italia con la
diplomazia dal Nord; ebbene, la farò dal Sud con la rivoluzione!" Ma
poi si era frenato. E se Mazzini vedeva le cose da credente che
subordinava tutto alla propria fede, e andava incontro ai fatti,
fosse pure per trovare il martirio, Cavour col suo tatto del
possibile guardava da uomo di Stato che misura le probabilità e vi
conforma l'azione. Il regno delle Due Sicilie gli pareva un organismo
da lasciar vivere ancora; le idee sue rispetto a quello non si erano
peranche mutate.
L'anno avanti, nel maggio, appena salito al trono Francesco II, egli
lo aveva invitato a unirsi al Piemonte contro l'Austria. Ma Francesco
aveva preferito la neutralità, sperando che Russia, Prussia,
Inghilterra si sarebbero messe dalla parte dell'Austria, e che la
guerra del '59 sarebbe finita come quella del '48. Cavour il 25
giugno, cioè dopo la battaglia di Solferino e San Martino, sempre
sperando di convincere quel Re a divenir italiano, gli aveva mandato
il conte Ruggero Gabaleone di Salmour come inviato straordinario, con
l'istruzione di dirgli che il concetto dell'indipendenza italiana
aveva informato sempre il Governo piemontese; che perciò da anni,
consigliando con l'esempio e con la voce agli altri principi d'Italia
quelle interne riforme che dessero soddisfazione ai legittimi
desiderii dei popoli, aveva mirato soprattutto a consociarli nello
stesso intento di nazionalità, unico mezzo per disarmare le fazioni.
Quel diplomatico doveva ricordare al Re avere il Piemonte ammonito
sempre che, seguendo altra via, i governi avrebbero dovuto combattere
non più le sette, ma il sentimento universale della nazione, e che
nella funesta lotta non essi sarebbero stati vincitori. L'inviato
doveva anche dire che mentre la guerra era guerreggiata in Lombardia,
l'ostinata neutralità del re di Napoli sarebbe considerata come una
diserzione o un segreto patteggiamento coll'inimico. In quanto alle
Due Sicilie, poi, doveva dire essere noto che colà più che altrove
fremevano passioni ardenti, rancori profondi, ire lungamente
compresse che aspettavano ansiosamente l'occasione di prorompere
terribili e irrefrenate: che le occasioni non tarderebbero, e con
esse gli incitamenti e le seduzioni entro e fuori del regno: che
confidare nella sola forza, far puntello al trono d'armi mercenarie,
era partito che non solamente doveva ripugnare all'animo onesto del
giovane Re, a partito mal sicuro e pieno di pericoli. Pensasse il Re
che la presenza di un esercito francese in Italia doveva commuovere
il paese dove aveva regnato Gioachino Murat; e dove era morto
compianto: ci pensasse, e collegandosi sinceramente col Piemonte,
dichiarasse pronta guerra all'Austria e mandasse parte dell'esercito
sul Po e sull'Adige, a combattere a fianco di Vittorio Emanuele e di
Napoleone. L'inviato doveva anche pregare il Re di far vuotare le
carceri politiche, di riaprire le vie del ritorno ai proscritti, di
sanar le piaghe della Sicilia; ma su questo e su tutto il resto aveva
trovato sordi i cuori.
Tuttavia Cavour non si era stancato. Al principio del 1860, appena
tornato al governo, quando temeva ancora l'intervento dell'Austria
nell'Italia centrale, aveva ritentato di condurre il re di Napoli ad
allearsi col nuovo regno di Vittorio Emanuele. Ma Francesco II e il
suo governo si erano messi invece a cospirargli contro, istigati dal
Nunzio Pontificio, dalla Spagna, dalla regina Sofia di Baviera stessa
sposa del Re, fantasticanti tutti insieme una lega cattolica. E
assoldavano austriaci per Napoli e pel Papa, concentravano soldati
negli Abruzzi, miravano a suscitar tumulti nella Romagna.
Allora Cavour cambiò tono, e fece avvertire badassero bene a non far
mettere piede di soldato borbonico nel pontificio. Essi, cocciuti,
non ascoltavano consigli neppur dall'Inghilterra. La quale alla fine
diceva loro tirannia, ingiustizia, oppressione essere le
caratteristiche del governo dell'Italia meridionale; quelle
dell'Italia settentrionale, libertà e giustizia; e che in tutti i
paesi del mondo, la gente anche la più volgare capiva la differenza
esistente tra un governo giusto e umano e un governo ingiusto e
spietato. Ostinato ognor più, non ascoltavano nemmeno la Russia loro
amicissima, che per bocca del suo primo Ministro diceva a Napoli che
la polizia del Regno, spiaceva fino al capo della polizia russa; e
questi era allora Kakoskine, uomo addirittura feroce. Anche la
Francia consigliava invano minori asprezze.
Pareva tempo da non usar più nessun riguardo, ma forse il giovane Re
ispirava ancora a Vittorio Emanuele una certa pietà: Era figlio di
Maria Cristina di Savoia, sposata nel 1832 al grossolano e cattivo
Ferdinando II, trattata male nella reggia e morta consunta nel 1836.
Essa aveva avuto quell'unico figlio. E si sapeva che quando era nato,
non volendo concedere a lei di allattarlo, le avevano fatto entrare
in camera per nutrice una donna di Santa Lucia, piagata a una gamba,
con le tracce della scrofola al collo, con pochi capelli in testa,
quasi tignosa e con figli rachitici o che non si reggevano in piedi.
Aveva rivelate queste miserie un abate Terzi, che Maria Cristina
aveva condotto con sé dal Piemonte per confessore. E l'abate aveva
anche narrato che vicina a morte, avendo chiamato il Re, la infelice
regina s'era sentita rispondere che il Re dormiva. Così era spirata
soletta come una povera, con al capezzale un oscuro frate; e il
popolo napoletano l'aveva chiamata santa.
Per disgrazia sua, quel povero bambino, orfano di madre, mal visto
erede al trono, non aveva potuto morire anch'esso, era stato educato
a odiare ogni cosa italiana. Ed ora regnava. Se Vittorio Emanuele
aveva voluto che il suo Governo usasse dei riguardi a quel parente
nato e vissuto infelice, come uomo di cuore aveva fatto bene.
L'agitazione per la Sicilia.
Ma la Nazione non aveva nessun dovere di sentimenti pietosi. E allora
la voce di Mazzini che dopo la pace di Villafranca aveva gridato: "Al
Centro mirando al sud," si mise a gridare: "Al Sud mirando al Centro,
Roma:" e infiammò i cuori, e diresse le aspirazioni degli italiani
del Nord verso la Sicilia. Egli e i Comitati suoi e il partito
repubblicano che nel 1859 aveva saputo lealmente servire in guerra la
monarchia, s'accinsero al preparar un'impresa che pareva folle, e che
invece doveva riuscire a fini meravigliosi. L'uomo per condurla,
tutti lo designavano: Garibaldi.
Intanto Mazzini aveva fatto partir per la Sicilia Rosolino Pilo. Era
questi un uomo di quarant'anni, nato in Palermo dalla famiglia dei
conti Capeci, sangue d'Angiò, tutta devota ai Borboni. Egli unico di
quella famiglia aveva dato il suo cuore alla patria. Dal '49 era
esule; nell'esiglio aveva conosciuto Mazzini e n'era divenuto
l'apostolo. Nel 1857, doveva andar compagno di Pisacane alla impresa
finita in Sapri; ma i barcaroli coi quali aveva aspettato il
passaggio del vapore Cagliari, lo avevan mal servito, il vapore era
passato, ed egli era ridisceso a Genova, a sentir poi la tragica fine
dell'amico. Da allora aveva vissuto con quella spina nel cuore. Ora,
d'intesa con Mazzini e con Garibaldi, partiva il 26 marzo su di un
povero legno viareggino per l'isola sua. Garibaldi gli aveva detto
che qual si fosse il suo destino laggiù, rammentasse che tutto vi si
doveva fare in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele. Pilo,
repubblicano, aveva accettato il motto, ed era partito con Giovanni
Corrao, anche questi siciliano, arditissimo uomo del popolo. Avevano
navigato quattordici giorni, erano riusciti a sbarcar presso Messina,
e s'eran messi a percorrere l'isola, annunziando Garibaldi.
Anche Cavour era ormai quasi convinto che non si poteva più lasciar
la questione napolitana al tempo, ma gli doleva che Garibaldi e
Mazzini si pigliassero col loro partito l'onore d'essere i primi. E
perciò d'accordo col Fanti, Ministro della guerra non amico di
Garibaldi, avea già fatto profferire al nizzardo generale Ribotti
d'andar in Sicilia a capitanarvi l'insurrezione. Ribotti gli pareva
uomo da ciò. Era stato al servizio della rivoluzione siciliana del
'48; per essa aveva tentato di portar l'armi in Calabria, era stato
preso e condannato, e aveva sofferto anni di carcere dai Borboni. Ma
Ribotti non aveva accettato. Forse indovinava che laggiù, solo il
gran nome di Garibaldi e l'ingegno suo di guerra e la sua figura,
avrebbero potuto trovar la vittoria.
*
In quei giorni venne come la folgore una lieta notizia: a Palermo era
scoppiata l'insurrezione. E si diceva che all'alba del 4 aprile, da
un convento chiamato della Gancia, un Francesco Riso, giovane di 28
anni, aveva con alcuni compagni data la mossa, e che un Salvatore La
Placa s'era azzuffato con la milizia, in certi quartieri della città
abitati da pescatori e retaioli. Ma la gioia si cambiò in ira quando,
subito appresso, oggi una voce, domani l'altra, si seppe che quei
generosi erano stati oppressi; che le squadre di campagna, già scese
vicino a Palermo, s'erano ritirate nei monti; che tredici compagni di
Riso, oltre quelli morti combattendo, erano stati fucilati; che egli
giaceva pieno di ferite e prigioniero; che lo stato d'assedio era
proclamato, e che erano arrestati il padre di Riso con altri
cittadini cospicui di Palermo. Dunque la rivoluzione era domata! No,
non doveva essere: l'Italia superiore la faceva sua propria.
Da quel momento tutti cominciarono a chiedere che facesse Garibaldi,
e se non si muovesse, e se non era ancora andato, e perché non fosse
ancora laggiù. E non dicevano già, che dovesse muoversi il governo di
Vittorio Emanuele; tutti avevano il sentimento del rischio cui si
sarebbe messo d'aver mezza Europa addosso: a tutti bastava che si
muovesse lui, Garibaldi, che quanto a gente per seguirlo ce ne
sarebbe stata anche troppa. Ma si sentiva che bisognava far presto,
perché il Governo borbonico aveva compreso che la Sicilia non mirava
più, come nel '20 e nel '48 a separarsi da Napoli o a rifarsi regno
da sé; ma che il suo moto era di tendenze unitarie, con mira
all'Italia superiore. Perciò quel Governo prometteva largamente
strade ferrate, portifranchi, casse di sconto, prestiti alle grandi
città; mentre si ingegnava di reprimere la insurrezione nell'interno,
mandando colonne mobili a disarmare la gente. Se Francesco II avesse
dato una costituzione quale l'isola la voleva del '48, chi poteva
dire che la Sicilia non si sarebbe acconciata? Bisognava proprio far
presto.
*
Non si vuol mica dire che nel settentrione i liberali bruciassero
tutti dal desiderio di vedere andar gente ad aiutar la Sicilia e
Napoli a liberarsi dai Borboni, a unirsi al resto d'Italia. V'erano
allora i ragionatori che trovavano gli argomenti forti in contrario.
Ma come mai si voleva fare un solo stato di quest'Italia così lunga e
sottile, senza un centro, e nel napoletano senza strade né nulla? Eh
già, rispondevano altri, ragionatori anch'essi, queste cose le diceva
pure Napoleone I. Diceva che se tutta la parte d'Italia dal Monte
Velino in giù e con essa la Sicilia fosse stata gettata dalla natura
tra la Sardegna e la Corsica la Toscana e Genova, la Penisola avrebbe
avuto un centro quasi egualmente distante da tutti i punti della sua
circonferenza: ma così come era fatta, quella parte dal Velino che
formava il Regno di Napoli, gli pareva di clima, d'interessi, di
bisogni, diversi da quelli di tutta la valle del Po e di quella
dell'Arno. Però non avrebbe detto così se a' suoi tempi avesse avuto
il telegrafo, la navigazione a vapore, le strade ferrate. Tutte
queste cose levavano via dall'Italia un bel po' degli inconvenienti
della sua configurazione. Del resto, Napoleone aveva soggiunto che
nonostante tutto, l'Italia era una sola nazione, una di costumi, di
lingua e di letteratura; affermava che in un tempo più o meno lontano
i suoi abitanti si unirebbero sotto un solo governo; e passate in
rassegna le condizioni storiche di tutte le grandi città, dichiarava
solennemente di pensare che Roma sarebbe senz'altro quella che gli
Italiani si sceglierebbero per capitale.
Altri ragionatori dicevano che il Re di Napoli teneva un esercito di
più di 120 mila soldati, bene armati e con cavallerie e artiglierie
delle migliori d'Europa. Era vero. Ma ai giovani che ascoltavano solo
il cuore, il cuore diceva una cosa molto semplice, cioè che quei
cento ventimila soldati non erano tutti, come un sol uomo, nel pugno
di quel Re, così che ei li potesse lanciar di colpo nel punto
dell'isola dove Garibaldi anderebbe a sbarcare. Allora i savi
soggiungevano che intorno all'isola vigilava una crociera di chi sa
quante navi, forse trenta, forse quaranta: ma quelli del cuore
sentivano che se anche le navi fossero tante, il mare era vasto, e
che una catena intorno all'isola non era possibile a tenersi così
stretta, che di notte o di giorno un marinaio come Garibaldi non
riuscisse a passare.
(NdA: Si seppe poi, a cose finite, che la crociera intorno all'isola
era composta di 14 legni e di 2 rimorchiatori da guerra, con aggiunti
ad essi 4 piroscafi mercantili della Società di navigazione siciliana
e 2 della napolitana, armati e dati da comandare ad ufficiali
militari. In tutto adunque erano 22 legni. La vigilanza, da Capo San
Vito a Mazzara, era affidata alla Partenope, fregata a vela da 60
cannoni; al Valoroso, pure a vela da 12 cannoni; allo Stromboli,
pirocorvetta da 6 cannoni e al Capri, da 2. Comandavano quella
crociera, un Cossovich capitano di vascello imbarcato sulla
Partenope, e sullo Stromboli era imbarcato l'Acton, baldanzoso uomo
che partendo da Napoli aveva detto al Re di voler buttar a mare
Garibaldi. Da Mazzara a Capo Passaro, da Capo Passaro al Faro, dal
Faro a Trapani, incrociava il resto della flotta.)
Invece una preoccupazione grave davvero, e tale da togliere l'ardire
a molti, riguardava il poi, se mai la spedizione sbarcasse. Della
Sicilia si sapeva poco qual fosse nell'interno. Nella sua solitudine
pareva quasi fuor della vita. E quasi più del suo tempo presente si
sapeva del suo passato ma bene antico. Molti parlavano di quelle sue
città di due milioni d'abitanti, del suo popolo d'otto milioni che
nutriva sé eppure faceva ancora chiamar l'isola sua granaio d'Italia;
sapevano enumerare le sue civiltà, greca, latina, araba; la sua
monarchia normanna che seppe valersi di quelle civiltà, farsi amare
dai vinti e lasciare, a traverso i secoli, il desiderio ancora di
quel regno. Ma all'infuori dei marinai, chi mai sapeva della Sicilia
presente? Chi vi era mai stato? Forse qualche ricco, e anche soltanto
nelle grandi città, Palermo, Messina, Catania, Siracusa; ma l'interno
dell'isola non era guari conosciuto neppur sulla carta. Però si
indovinava e si amava il suo popolo, perché avevano insegnato a
pregiarlo i suoi profughi, ne' dieci anni da che stavano rifugiati in
Piemonte; gente degna, patrizi, letterati, avvocati, medici,
architetti o artigiani valenti e virtuosi. Se dalla Sicilia era
venuto via quel fior di gente, non poteva darsi che non vi fosse
laggiù un popolo degno di loro; bisognava andarvi, per dir così, a
scarcerare l'anima dell'isola, farla espandersi nella vita italiana.
Quante energie, quanta luce, quante virtù, aggiunte all'anima della
nazione! Queste cose non si pensavano per l'appunto così, ma si
sentivano vagamente, come nell'adolescenza si sentono le prime aure
dell'amore cui si va incontro, e sono la vita.
Ma intanto, quale rischio l'andarvi! Certo Garibaldi si sarebbe
gettato su qualche costa, lontano dalle città marittime, dove non
fossero milizie, per non farsi opprimere appena giunto. E da quella
costa si sarebbe mosso a trovar nell'interno sui monti qualche
posizione forte, per chiamarvi a sé gli insorti e fare un esercito
tale da poter affrontare in campo quello dei regi, o magari piombar
sulla capitale. Ma quanti scontri avrebbe dovuto sostenere nelle sue
prime marcie, e chi mai sapeva in quali condizioni? E se gli fosse
avvenuto di perdere? Pazienza i morti, ma i feriti, in che mani
sarebbero rimasti? Come li avrebbe trattati il nemico offeso per
quell'assalto che gli veniva da gente di fuori? E chi fosse riuscito
a salvarsi da quelle mani, in quali boschi, in quali tane, senza
cure, solo, disperato sarebbe andato a finire? Si fantasticavano cose
orrende. Eppure l'aria del tempo, la fede in Garibaldi e una certa
voluttà di andare a patire per una grande idea, faceva vincere anche
quelle tetre preoccupazioni.
E appunto, qual era allora lo spirito dell'esercito del Borbone? A
sentir gli esuli siciliani e napoletani, in quell'esercito v'erano
dei generali, dei colonnelli, persin dei vecchi capitani, che
sapevano bene quanta era stata la gloria dei loro padri. Da fanciulli
li avevano visti tornare dalle guerre napoleoniche di Spagna e di
Russia, dopo aver empito il mondo delle loro geste e dei loro nomi.
Nel 1815 li avevano visti sotto re Gioachino tentar l'impresa di
cacciar l'Austria dalla Lombardia. Nel 1848 avevano marciato essi
stessi alla guerra quasi fino al Po; erano tornati indietro afflitti,
quando il loro Re spergiuro li aveva richiamati; e quelli che non
avevano ubbidito ed erano andati a Venezia, vi si erano fatti
ammirare. Pepe, Ulloa, Rossarol! Appresso, a sentir le risorte glorie
dei Piemontesi in Crimea e poi quelle recenti del 1859, dovevano aver
patito di non essere stati mandati a quella bella guerra, fatta per
cacciare lo straniero. E così forse era entrato nell'animo
dell'esercito lo scontento. Ma in quel momento non si sapeva se
amassero o odiassero. Forse contro i piemontesi avrebbero combattuto
fieramente, se ne fossero scesi nel Regno a guerra di Re: ma contro
Garibaldi avrebbero combattuto solo per disciplina. Dovevano anche
trovarsi nelle file molti ai quali quel nome incuteva sgomento. Non
era egli colui che undici anni avanti si era fatto conoscere a
Velletri e a Palestrina, quando i napolitani erano marciati su Roma
per rimettere il Papa in trono? Insomma, bene bene non si sapeva
nulla dello spirito vero dell'esercito laggiù: certo, a volerlo
giudicare dalle opere contro la Sicilia, doveva essere feroce ancora
come era stato nel '48. Ma si sarebbe visto alla prova cosa valessero
quelle milizie in cui ufficiali e sott'ufficiali avevano quasi tutti
grossa famiglia; e si sarebbero visti anche gli stranieri mercenari
che non si chiamavano più svizzeri, ma di svizzeri erano formati e di
bavaresi e d'austriaci, d'un po' d'ogni gente.
In quanto alla marineria, saperne qualcosa sarebbe stato più
interessante. Ma neppur essa si conosceva guari. Però degli ufficiali
malcontenti ve ne dovevano essere; e anzi, alcuni dicevano che quelli
del Fieramosca, quando nel gennaio del '59 avevano scortato a
Gibilterra i grandi cittadini del Regno liberati dalle galere ma
condannati alla deportazione, erano stati visti con le lagrime agli
occhi e il dolore sul viso.
Così dicevano i meridionali profughi antichi o recenti dal Regno. Tra
essi i Siciliani erano i più ardenti. Parlavano della loro isola,
facendone ritratti vivissimi coll'immaginosa parola. I loro Vespri
parevano un fatto recente. Conoscevano la storia della loro
indipendenza dai Vespri fino al 1735, come se l'avessero vissuta; si
vantavano di aver avuta da quell'anno bandiera e amministrazione
distinta dalla napolitana, e Parlamento proprio: tutte cose
confermate nella Costituzione del 1812, quando i Borboni, perduto il
continente, si erano rifugiati laggiù e vi avevano trovato sicurezza,
protetti dalla generosità del popolo e dall'Inghilterra. Ma essi,
tornati sul trono di Napoli, avevano poi tradito tutto, e cominciato
a offender l'isola e il suo popolo, chiamandola negli atti pubblici:
"Terra di là dal faro", quasi come a dire paese barbaro. Onde le sue
rivoluzioni del '20 e del '48, e un odio crescente sempre e tanto,
che l'isola si sarebbe messa sotto l'Inghilterra, la Russia, la
Francia, sotto chi si fosse che l'avesse voluta, pur di esser levata
da dipender da Napoli. Ora quella passione si rivolgeva all'Italia, a
chiamar lei, l'Italia del nord che doveva ascoltarla. E Garibaldi
dov'era, che cosa faceva?
Garibaldi e Cavour.
Garibaldi stava in Torino alle prese col Conte di Cavour, perché
avvenuta la cessione di Nizza alla Francia, credeva che egli la
avesse patteggiata fin dal '57, quando aveva concertato con Napoleone
l'aiuto militare del '59. Invece la cessione era seguita per una
soperchieria di Napoleone, che oltre la Savoia, per non opporsi
all'annessione dell'Emilia e della Toscana al regno di Vittorio
Emanuele, aveva voluto anche Nizza. Cavour aveva fatto di tutto per
salvarla, ma non v'era riuscito; e Garibaldi pareva contro di lui
implacabile. Ma il 7 aprile gli capitarono a Torino il Bixio e il
Crispi, i quali "a nome degli amici comuni per l'onor della
rivoluzione, per carità della povera isola, per la salute della
patria intera," lo pregarono di mettersi a capo di una spedizione e
di condurla in Sicilia. E Garibaldi che forse meditava un moto
popolare in Nizza stessa, per salvarla lui se Cavour non aveva
potuto; messo in disparte questo e ogni suo pensiero, accettò e
decise di far l'impresa.
Par quasi certo che Egli n'abbia parlato con Vittorio Emanuele e che
n'abbia avuti incoraggiamenti. Però il Re, il 15 aprile, volle ancora
scrivere al Cugino di Napoli che era "giunto il tempo in cui l'Italia
poteva esser divisa in due stati potenti, uno del Settentrione
l'altro del Mezzogiorno: che Egli pel bene suo lo consigliava di
abbandonare la via fino allora tenuta: e che se ripudiasse il
consiglio, presto egli, Vittorio Emanuele, sarebbe posto nella
terribile alternativa o di mettere a pericolo gli interessi più
urgenti della stessa sua propria dinastia, o di essere il principale
strumento della rovina di lui. Qualche mese che passasse ancora senza
che egli si attenesse all'amichevole suggerimento, egli, il Re di
Napoli, sperimenterebbe l'amarezza delle terribili parole: troppo
tardi."
E scritto così, Vittorio Emanuele partì lo stesso giorno 15 aprile
pel suo viaggio trionfale in Toscana e nell'Emilia, dove andava per
la prima volta da Re.
*
La sera di quel 15 aprile Garibaldi si presentò improvviso alla Villa
Spinola nel territorio di Quarto, allora ignoto borgo poco discosto
da Genova, sulla riviera orientale. In quella villa se ne stava
Augusto Vecchi esule Ascolano, suo antico ufficiale di dieci anni
avanti, alla difesa di Roma.
- Buona sera, Vecchi; vengo come Cristo a trovare i miei apostoli, ed
ho scelto il più ricco, questa volta. Mi volete?
- Per Dio, Generale, e con piacere immenso! -
Pare una pagina romanzesca, ma allora appunto cominciava il periodo
in cui le cose più vere ebbero l'aria di fantasie.
In quella villa il Generale si stabilì, e vi chiamò i suoi.
Per andare in Sicilia occorrevano armi, ed egli senz'altro mandò in
Milano a prenderne di quelle già comprate col fondo del milione di
fucili, fatto raccogliere da lui per sottoscrizione nazionale.
Sennonché là, Massimo d'Azeglio, governatore, non solo rifiutò di
concedere che se ne portasse via una parte, ma le fece mettere tutte
sotto sequestro. Scrisse poi d'aver temuto che quelle armi finissero
in tutte altre mani che quelle di Garibaldi, certo temeva di Mazzini,
ma in quel momento l'atto suo diede grandemente da sospettare che il
Governo fosse avverso a ogni impresa garibaldina.
Veramente il Conte di Cavour desiderava proprio più che mai che la
spedizione non si facesse. Temeva che Garibaldi, una volta mosso si
lasciasse trasportare dal suo vecchio pensiero di Roma, e invece che
in Sicilia andasse a sbarcare su qualche parte della costa
pontificia, senza riguardo al pericolo di tirare addosso a sé e al
Regno una guerra dalla Francia. Sperava, anzi, che ogni cosa
sfumasse. Il 24 aprile mandò apposta il colonnello Frapolli da
Garibaldi, per indurlo ad abbandonare ogni disegno; e il Frapolli,
amico del Generale, gli parlò delle difficoltà che si opponevano ad
una discesa nell'isola o nel continente. Gli ricordò persino le
tragedie di Murat, dei Bandiera, di Pisacane. Non si sa che viso
facesse il Generale a tali moniti del Frapolli, ma certo è che questi
tornò a Torino da Cavour, persuaso che Garibaldi non partirebbe. E,
in verità, il Generale era già inclinato a rompere ogni preparativo,
perché dalla Sicilia aveva notizie non buone. Ondeggiò tutti quei
giorni pensando alla tremenda responsabilità di una catastrofe. Il 27
gli giunse un telegramma da Fabrizi da Malta, quasi lugubre:
"Completo insuccesso nelle provincie e in Palermo; molti profughi
raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta." Così diceva il
telegramma. E la parola del Fabrizi valeva quella che Garibaldi
stesso avrebbe detto. Era un vecchio patriota di quelli sfuggiti nel
1831 alle forche di Modena; e sempre poi aveva vissuto in esilio a
onorare l'Italia e a farla stimare dagli stranieri. Egli non poteva
che dire la verità. E perciò Garibaldi deliberò di lasciar andar
tutto, e di tornarsene nella sua solitudine di Caprera: anzi, diede
ordine di tenergli un posto sul vapore che doveva partire il 2 maggio
per la Sardegna. Cavour lo seppe, e scrisse a Napoleone che ormai di
una impresa di Garibaldi non c'era più da temere.
Ma allora si erano fatti attorno al Generale tutti i più ostinati a
voler andare in Sicilia: Bertani, Bixio, Crispi e tanti altri minori,
che nella Villa Spinola tennero con lui una specie di gran Consiglio,
il 30 aprile, anniversario della sua bella vittoria del '49, contro i
francesi, sotto Roma. In mezzo a quel consesso, tra i discorsi
roventi di quei patrioti, come uomo ispirato da una luce improvvisa,
Garibaldi balzò su d'un tratto a dire: "Partiamo. Ma subito, domani!"
Domani era troppo presto: bisognava pensare ad avere i legni da
navigare! Ma insomma un po' di giorni, tre o quattro, sarebbero
bastati. Intanto quegli operosi avrebbero raccolta la gente da fuori.
Dacché egli aveva detto: "Partiamo," lasciasse fare, che ad eseguire
c'era chi ci pensava.
Il Conte di Cavour, ignorando quella nuova deliberazione, era partito
il 1 maggio per Bologna, a raggiungervi nel giro trionfale il Re, cui
sperava di strappare l'ultima parola che impedisse a Garibaldi ogni
tentativo d'allora e di poi. Narrano gli intimi del Conte e del Re
che si trovavano con essi in Bologna, avere il Cavour manifestato fin
l'intenzione di fare arrestar Garibaldi, se si fosse ostinato a
tentar qualche cosa, e d'andar egli stesso a porgli addosso le mani,
se non si trovasse chi avesse l'ardimento di farlo. E sarà vero,
perché allora egli temeva troppo che l'Imperatore dei Francesi,
credendosi canzonato da lui, pigliasse qualche violenta deliberazione
contro l'Italia. Ma ormai alla forza delle cose neppur egli poteva
più resistere. E saputo ciò che a Genova si faceva, stette col Re a
Bologna, per non tornare a Torino in quei giorni a farsi tormentare
dalla diplomazia. Però prese le sue precauzioni. E temendo sempre che
Garibaldi volesse fare un colpo contro Roma, ordinò alla divisione
navale del contrammiraglio Persano d'andare in crociera tra Capo
Carbonara e Capo dello Sperone a Sant'Antioco, o, in altre parole,
dinanzi al Golfo di Cagliari. Gli ingiungeva però di non "adoperar le
macchine"; e che cosa intendesse di voler dire con ciò non si sa bene
ora, né lo seppe allora forse neppure il Persano. Poi non tornò a
Torino se non la sera del 5 maggio, e là, da Genova, gli piovvero le
notizie. Che fare? Adesso non c'era altro che lasciar fare; e giacché
la spedizione non si poteva più impedirla senza che sorgessero chi sa
quali guai nel paese, pensò subito di mettersi sul gioco di
dominarla, e di rispondere alle proteste che lo avrebbero tempestato.
Genova nel gran giorno
In Genova, sin dagli ultimi di aprile, stavano già molti dei più
vogliosi di partire per la Sicilia, e altri ve ne furono chiamati nei
primi tre giorni di maggio. Per le vie di quella città tutta lavoro,
dove la gente va attorno sempre con l'aria di chi non ha tempo da
perdere, quei forestieri che riempivano i caffè e le passeggiate
stonavano alquanto. Ma forse nessuna città era adatta come Genova a
farvi quell'adunata e a servir di copertura al Governo. Il quale
così, negli ultimi momenti, poté far bene le viste di non accorgersi
di nulla, proprio come se nulla vi fosse, e tutto pareva inteso,
consentito, voluto dalla città intera, ma con somma prudenza.
Il 5 maggio ogni cosa era pronta. Allora Garibaldi scrisse al Re
cominciando: "Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle
mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quelle d'alcune centinaia
dei miei vecchi compagni d'arme." Pareva che volesse rammentare a
Vittorio Emanuele che l'anno avanti egli per il primo, nel suo
discorso del 10 gennaio in Parlamento, aveva trovato la espressione
giusta come un'eco delle "grida di dolore" giunte a lui da ogni parte
d'Italia. E soggiungeva di saper bene a quale impresa pericolosa si
sobbarcava, ma che poneva confidenza in Dio e nella devozione dei
suoi compagni. Prometteva che grido di guerra sarebbe l'unità nel
nome di Lui, Vittorio; e sperava che se mai l'impresa fallisse,
l'Italia e l'Europa liberale non dimenticherebbero che era stata
determinata da motivi puri affatto da egoismo. Disse, che riuscendo,
un nuovo e brillantissimo gioiello avrebbe ornato la corona di Lui;
ma non celava l'amarezza sua per la cessione della sua terra natale.
E, certo per non compromettere il Re, finiva scusandosi di non
avergli detto il suo disegno, per tema che egli lo dissuadesse dal
fare quel passo. Mesta e solenne lettera, nella quale era serenamente
espresso il dubbio e la speranza e il sentimento dell'ora. Spiace in
essa quel tanto che c'è di finzione: ma insomma, i tempi erano tali,
da giustificare questo ed altro.
Il Generale scriveva pure all'Esercito italiano, esortando ufficiali
e soldati a star saldi nella disciplina, a non abbandonare le fila
per seguir lui. Scriveva all'Esercito napolitano per ricordare ai
figli dei Sanniti e dei Marsi che erano fratelli dei soldati di
Varese e di San Martino. E anche non dimenticava i Direttori della
Società dei Vapori Nazionali, cui nella notte doveva menar via il
Piemonte e il Lombardo, scusandosi di quell'atto di violenza, e
raccomandandoli al paese perché rimettesse qualunque danno, avaria o
perdita che loro potesse seguirne.
In tutte quelle lettere e in parecchie altre di quel giorno, una
frase qua un'altra là rivelavano un sentimento sicuro ma anche una
misteriosa tristezza.
Il 5 maggio 1860.
La sera di quel 5 maggio, coloro che erano destinati a partire,
ricevuto un ordine aspettato tanto, quale da solo quale con qualche
amico, come se andassero a diporto, così consigliati per non dar
nell'occhio alla polizia, cominciarono a uscir da Genova per la Porta
Pila, sulla via del Bisagno. Andavano alla Foce o a Quarto, secondo
che loro era stato detto. E trovavano sul loro cammino folle di
cittadini di ogni classe, donne, uomini, che senza parere davano loro
l'augurio, e ciascuno un poco dell'anima sua.
Nino Bixio scese al porto. "Là - scrive il Guerzoni - in una andana
tra il Lombardo e il Piemonte e proprio costa a costa tanto da
toccarsi coi due vapori, riposava una vecchia carcassa di nave
condannata da tempo, che chiamavano "Nave Joseph". Bixio nella sua
mente ne aveva fatta la prima base di operazione di tutta la mossa.
Già da parecchi giorni la Joseph andava ricevendo a poco per volta
delle casse misteriose, degli involti sospetti, che avevano le più
strane somiglianze di casse da munizioni e d'involti di fucili...
Bixio aveva ordinato che per la sera del 5 maggio tra le nove e le
dieci, una quarantina d'uomini si raccogliessero in silenzio su
quella nave, e stessero ad aspettare la sua venuta e i suoi ordini.
Gli uomini erano parte marinai fedeli, parte volontari ma del fiore.
Alle nove e mezzo arrivarono sulla Joseph Bixio e lo scrittore di
queste pagine. Appena a bordo Bixio cavò di tasca un berretto da
tenente-colonnello, se lo calò sulle orecchie, e disse: - Signori, da
questo momento comando io, attenti ai miei ordini. - E gli ordini
furono: buttarsi col revolver in pugno sui vicini vapori, fingere di
svegliarvi la gente di guardia, fingere di costringere i fochisti ad
accendere, i marinai a salpar l'ancora, i macchinisti a prepararsi al
loro mestiere, sgombrare, pulire il bastimento, allestirlo in fretta
per la partenza. E così fu fatto nel massimo ordine e silenzio, e non
senza accompagnare di molti sorrisi quella farsa con cui quella
epopea esordiva. Fra tutte queste operazioni se ne andarono quattro o
cinque ore, e già i primi chiarori dell'alba cominciavano a rompere
dalla punta di Portofino. Bixio era inquieto e principiava a perdere
anche quell'ultimo avanzo di pazienza che in quei giorni di febbre e
rabbia gli era restato. Finalmente, verso le quattro del mattino
tutto era pronto, e i due piroscafi uscirono dal porto, girando verso
Quarto, punto designato dell'imbarco."
Ma prima di tirar avanti per Quarto, i due piroscafi si pigliarono su
una parte dei Mille, che stava alla foce del Bisagno. Ivi erano
avvenute delle scene pietose di questa sorte. Tra quei giovani c'era
un Luzzatto da Udine, cui fu detto che tra la folla si aggirava la
madre sua, venuta così da lontano a cercarlo. Voleva benedirlo o
tirarselo via da quel cimento? Il giovanetto le si fece incontro, e
le andò tra le braccia; ma la sua prima parola fu di pregarla a non
gli dir di tornarsene, perché a lui sarebbe stato mortale il dolore
di partir lo stesso dopo averla disubbidita. Altri padri, madri
sorelle andavano tra quei gruppi, pregando, scongiurando, incuorando,
e alla fine dando il bacio quasi della morte; e quando i due vapori
apparvero e accolsero quei giovani, chi aveva assistito a quelle
scene dovè tornarsene nella città col cuore quasi sollevato.
Uguali cose avvenivano a Quarto. Là verso le dieci c'era folla anche
più fitta che alla foce. Tutta la via che si svolge intorno a quel
piccolo seno di acque era stipata. Nella villa Spinola entravano,
dalla villa uscivano frettolosi uno dopo l'altro incessanti
messaggeri; a ogni momento si faceva tra la folla gran silenzio, si
udiva dire: "Eccolo!" No, non era ancora Garibaldi. Poi la folla fece
un'ultima volta largo più agitata, tacquero tutti: finalmente era
Lui!
Garibaldi attraversò la strada seguìto da Turr e da Sirtori, allora
già colonnelli, e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello
della Villa, discese franco giù per gli scogli. E cominciarono i
commiati. Tra gli altri bello e forte è narrare quello di uno Stefano
Dapino cui suo padre, vecchio amico di Mazzini e dei fratelli
Ruffini, aveva accompagnato fino a quel passo. Quel padre aveva con
sé anche un altro figliuolo più giovane. Conversavano tranquilli come
se il figlio partisse per una caccia; poi senza parole, senza sospiri
il padre abbracciò il figlio, stettero un poco stretti prima essi
due, poi tutti e tre, finché Stefano che aveva alla spalla la
carabina, baciò il fratello, gli fece segno come a raccomandargli il
padre, si staccò da loro e discese per dove scendevano alle barche i
suoi compagni. E quel padre e quell'altro figlio si persero fra la
folla, portando alla casa lieta di altre gioie, ricchezza, bellezza,
onore, quell'amara gioia d'esser stati a quella fortissima prova.
Piccole cose tra le grandi, nelle ore dell'attesa, qua e là per e vie
di Quarto, sugli usci delle casupole, quelli che dovevano partire si
sentivano dare dai pescatori, dai marinai, certi consigli semplici,
ma d'amore.
Avete mai navigato? - No. - Se temete di avere il mal di mare, appena
a bordo, coricatevi supino e state sempre così, non patirete. - Se vi
daranno del biscotto mangiatene poco, e bevete poi pochissimo, se no
guai! - Sbarcherete in Sicilia, oh sbarcherete! Ma,... vini traditori
laggiù! - E la gente? - Come noi... però molto facili a tirare... Ma
chi la rispetta... Soprattutto la famiglia bisogna rispettare
laggiù... Ma voi avrete altro pel capo... Coraggio! -
A poco a poco tutti discesero nelle barche, queste presero il largo.
Verso le undici, d'una di queste già più in alto, si udì una voce
limpida e bella chiamare "La Masa!" E un'altra voce rispose:
"Generale!" Poi non si udì più nulla. E su quell'acqua stetterro le
barche a cullarsi aspettando. Quelli che v'erano su parlavano del
Governo, di Cavour, di Vittorio Emanuele, dell'accordo, del
disaccordo tra loro e Garibaldi e della finzione; e siccome le ore
passavano, i più cominciavano a temere che i vapori non venissero, e
che si dovesse tornare a terra mortificati, fors'anche a farsi
arrestare. Oh quel Cavour! La voleva vincer lui!
Ma quando furon visti i segnali rossi e verdi dei due legni, e poi i
legni stessi venir con già a bordo la gente che v'era stata imbarcata
alla foce: quelle barche scoppiarono di grida di gioia. In un lampo
vogarono ai due legni; e in meno di mezz'ora, chi sul Lombardo, chi
sul Piemonte, quell'altro mezzo migliaio di uomini furono su, come
ognuno seppe ingegnandosi; braccia, ganci, scale, corde, tutto fu
buono a salirvi.
La Partenza
Bellissima fu l'alba di quella domenica 6 maggio 1860. Il mare, un
po' mosso durante la notte, si era chetato. Da bordo, a guardare
indietro, si vedevano la collina del Bisagno, là, cupa nella fredda
ombra; e lontano, profilati nell'azzurro, azzurro anch'essi, i monti
lungo la riviera d ponente che sfumavano via via verso Savona fin
dove se ne perdevano le forme. Le cittadette e le borgate di quella
riva biancheggiavano appena, e mettevano degli strani sensi di
desiderio domestico nella gioia della partenza.
Ma quando i due vapori sbuffarono e i mossero, a vederselo dinanzi,
là a prua, il promontorio di Portofino pareva dire: "Venite pure,
oltre me lontana, molto lontana, sta la terra misteriosa, che andate
a cercare." Dalle navi, rispondevano all'invito quelle mille anime;
vecchi amici, compagni d'armi che, cercandosi un posto a bordo,
s'incontravano, si abbracciavano e: - Anche tu? E tu? E tu? - gioia
d'amarsi meglio per aver sentito e voluto fare una stessa gran cosa.
Ma ci fu un momento che dai due vapori Garibaldi e Bixio si
scambiarono coi portavoce delle non liete parole. Diceva Garibaldi a
Bixio:
- Quanti fucili avete a bordo?
- Mille e cento.
- E di munizioni?
- Nulla
- E le barche di Bogliasco?
Per guardar che si guardasse non si scoprivano da nessuna parte le
barche di cui il Generale chiedeva, e che si dovevano trovare in
quelle acque ad aspettare i due vapori. Eppure quelle barche avevano
nella notte imbarcate le armi e le munizioni raccolte a Bogliasco!
Dunque si doveva star là tanto che comparissero? E se in Genova il
Governo, destato a forza dalle grida di qualche Console, dovesse di
necessità accorgersi che dal porto erano stati menati via i due
vapori? Se fosse costretto a spedir una delle sue navi da guerra a
catturarli, a ricondurli nel porto, quando mai si potrebbe poi
ritentare l'impresa? Non era di quelle che si fanno due volte. Il
generale Turr che in quel momento stava vicino a Garibaldi, narra che
questi "rimase qualche tempo meditabondo, che poi alzò verso il cielo
il capo dicendo: 'Anderemo avanti egualmente!' E che, stato un altro
poco, ordinò di navigare verso Piombino."
*
Ora ecco ciò che era avvenuto. La sera avanti un manipolo di giovani
genovesi, scelti dal Bixio e dall'Acerbi, erano stati mandati al
ponte di Sori. - Là - aveva lor detto Bixio - troverete due uomini
coi quali vi riconoscerete questa parola d'ordine che vi do. Essi vi
consegneranno le casse raccolte a Bogliasco; con quelle vi metteranno
nelle barche, e vi condurranno, come siamo intesi, a trovarci. -
Chi erano i due uomini? A qualcuno di quel giovani balenò il dubbio
che potessero essere quegli stessi che già nel 1857 avevano guidate
le barche comandate da Rosolino Pilo, cariche dei fucili e delle
munizioni per Pisacane, che doveva passar sul vapore Cagliari. Quegli
uomini avevano menato pel golfo il povero Rosolino così male, che
egli e il gruppo di esuli che aveva seco non erano riusciti a trovar
il vapore su cui Pisacane magnanimo aveva continuato senz'armi la sua
avventura.
Ora se quegli uomini erano forse gli stessi di allora? I giovani
mandati dal Bixio a Sori avevano ragione di volersi accertare e ne
domandarono i nomi. - A voi non ispetta per ora sapere né il nome né
chi vi guiderà - disse Bixio - né dove incontrerete i vapori: andate;
tutto, si spera, andrà a seconda. - Allora la gioventù aveva imparato
a ubbidire fortemente, e quei giovani si recarono a Sori, dove
trovarono i due uomini, che erano proprio quelli dei quali avevano
dubitato.
Tuttavia si imbarcarono essi e ogni cosa. Ma di quei due uomini che
dovevano guidarli in mare, uno si era già allontanato, e l'altro non
volle entrare con loro in nessuna barca. Lo pregarono, lo
supplicarono e persino lo minacciarono, ma egli si slanciò in un
leggerissimo canotto a due remi, e celerissimo si allontanò, gridando
che lo seguissero alla luce del fanale che stava accendendo sulla sua
poppa. Il fanale stette acceso una ventina di minuti, poi si spense;
e per quanto quei giovani gridassero dietro a quell'uomo, egli non si
fece più vivo. Sperarono che tornasse, passarono le ore; e intanto i
rematori, tutti di Conegliano, vogarono al largo verso ponente.
Benché fosse notte alta, i giovani si accorsero di esser condotti
male; ma i barcaiuoli giurarono di aver avuto l'ordine di andar allo
scoglio detto di Sant'Andrea presso Sestri Ponente, che là avrebbero
trovato i vapori e che là i due uomini li avrebbero raggiunti.
Durarono così molte ore, finché sicuri di essere ingannati
costrinsero i barcaiuoli a volgersi verso levante, e quando fu l'alba
videro da lontanissimo due vapori verso Portofino. Indovinarono che
vapori erano; e allora (l'espressione è di uno di loro che ne scrisse
pochi anni dipoi), il loro dolore fu immenso come il mare. Intanto i
due uomini, i due traditori che gli avevano ingannati, erano stati
tutta la notte a scaricare mercanzie di contrabbando, sete e
coloniali; certo approfittando del fatto che i doganieri lungo le
rive o non v'erano o facevano cattiva guardia, per ordini avuti di
non disturbar nessuno quella notte di misteriosa faccenda.
Se Bixio che aveva dato gli ordini a quei giovani, sicuro nella sua
fierezza di mandarli a gente dabbene, avesse potuto avere quei due
ribaldi là sul suo ponte, chi sa qual pena avrebbe loro inflitta!
Egli era uomo da metterseli sotto i piedi, o da impiccarli all'albero
della sua nave, come anticamente si faceva ai pirati.
L'Ordine del giorno
Dunque i due vapori navigarono via verso Piombino.
E tutto il 6 e la notte appresso e la mattina del 7, non ebbero
incontri. I volontari che a poco a poco si erano messi al posto che
ognuno aveva saputo trovarsi, e sopra coperta o sotto nelle sale dei
vapori, passavano le ore dormendo, conversando, leggendo. Ma a mezza
mattina quelli che stavano sul Lombardo, furono chiamati in coperta,
dove dal ponte di comando fu loro letto l'ordine del giorno. Diceva
così:
"La missione di questo corpo sarà, come fu, basata sull'abnegazione
la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi
Cacciatori delle Alpi servirono e serviranno il loro paese con la
devozione e la disciplina dei migliori militanti, senz'altra
speranza, senz'altra pretesa che la soddisfazione della loro
intemerata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompense
allettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della
vita privata, allorché scomparve il pericolo; suonando l'ora della
pugna, l'Italia li rivede ancora in prima fila, ilari, volenterosi, e
pronti a versare il sangue loro per essa. Il grido di guerra dei
Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del
Ticino, or sono dodici mesi: 'Italia e Vittorio Emanuele', e questo
grido pronunciato da voi metterà spavento ai nemici d'Italia."
Quella lettura destò qualche mormorio qua e là tra le gente del
Lombardo; ma la nobiltà dei certe frasi e il nome del Generale che le
parlava, imponevano silenzio ad ogni passione. Il motto 'Italia e
Vittorio Emanuele' scontentava moltissimi, i quali, repubblicani di
fede, non avrebbero voluto sentirsi legare da quelle parole. Ma non
vi furono gravi rimostranze. A quell'ora stessa, lo stesso ordine del
giorno era letto sul Piemonte e vi faceva lo stesso effetto.
A Talamone
Intanto i due vapori costeggiavano quasi la terra. Pareva già passato
tanto tempo dalla partenza, che i meno esperti, vedendo una torre su
cui sventolava la bandiera tricolore, credettero di esser già in
Sicilia, e che quella fosse la bandiera della rivoluzione trionfante.
Ma non erano che in Toscana. Quella torre e quel gruppo di case che
le stavano intorno, si chiamavano Talamone. E quando le navi furono
là vicinissime, fu vista una barca vogare loro incontro: e nella
barca stava un ufficiale con in capo un enorme cappello a feluca, che
non lasciava quasi vedere un altro ufficiale che quello aveva seco.
Erano i comandanti del forte e del porto. Scambiarono dei saluti col
Piemonte, vi montarono su, vi si trattennero un poco con Garibaldi,
poi tornarono nella loro barca; e poco appresso i due vapori
gettavano l'ancora in quel porto. Ivi, alla lesta, Garibaldi discese
a terra col suo stato maggiore, vestito da generale dell'esercito
piemontese, come l'anno avanti in Lombardia, e come se fosse in terra
sua fece sbarcare i Mille.
Il villaggio fu invaso. Quei poveri abitanti, marinai, pescatori,
carbonai della Maremma, si trovarono con le case messe sossopra da
quella gente che pagava, ma voleva mangiare. Forse pensavano che
anticamente così s'erano visti invasi i loro padri dai corsari; ma
saputo chi erano quei forestieri e l'uomo che li conduceva, si
sbrigavano con gioia per contentarli. Garibaldi undici anni avanti
era passato per la Maremma, e vi aveva lasciato la sua leggenda.
Intanto, tra quei volontari, i più vaghi delle cose belle
contemplavano il paesaggio. A guardare il mare vedevano l'Elba, la
Pianosa, Montecristo, il Giglio, quasi in vasto semicerchio come a
una gran danza: a guardar verso terra, vedevano il monte Amiata, e i
più colti indovinavano in quelle lontananze Santafiora e Sovana, nomi
pieni di storia. Tra l'Amiata e il mare, faceva tristezza un lembo
della Maremma infelice.
Là doveva essere Orbetello, fortezza dell'antico Stato dei Presidii
fondato da Carlo V, quando spenta la repubblica di Siena e dato il
suo territorio a Cosimo de' Medici, volle tenere per sé quel lembo di
dominio, diffidando certo del popolo senese e più del fiorentino che
aveva fatto la meravigliosa difesa nel 1530 contro le sue milizie.
Ora quel lembo di terra, dopo vicende molte, era toscano, italiano,
libero. Era stato anche del Re di Napoli fino al 1805. Ecco che ora
vi faceva sosta Garibaldi, per pigliarvi, se si può dir così,
l'abbrivio, a levar via dal trono gli eredi di quei Re.
In faccia a Talamone verso sud, forse a dieci chilometri di mare, i
contemplatori ammiravano il monte Argentaro selvoso sulle sue cime,
che guardate da quell'umile spiaggia parevano eccelse. Gli stava ai
piedi la cittadetta di Santo Stefano. Ricordo allora quasi fresco,
ivi, nel 1849, s'era fatto portare da Talamone in una barca da
pescatori Leopoldo II, fuggito da Firenze con la sua famiglia. Da
Santo Stefano con ignobili infingimenti, ingannati i toscani, era poi
partito per Gaeta, dove aveva cospirato per far venire gli Austriaci
in Toscana. E gli Austriaci lo avevano servito a rimetterlo in trono.
Ma adesso erano appena passati undici anni, si era avverata la
minaccia fattagli dai più nobili uomini del paese; ed egli da un anno
se n'era dovuto andar via per sempre.
In un gruppo d'eruditi raccolti all'ombra di un ciuffo di olivi, a
ridosso di Talamone, si parlava d'una battaglia vinta là attorno dai
Romani contro i Galli Cesati. Quarantamila morti! Ma come mai tanta
strage con l'armi d'allora? Certo doveva avvenire nell'inseguimento
dei vinti. E dai Galli passavano a dir di Mario. Anche Mario reduce
da Cartagine per tornarsene a Roma, era sbarcato lì a Talamone. Ora
Garibaldi non era quasi un Mario buono? E Roma non era il suo
pensiero? Se gli fosse venuto in mente di andare anch'egli di là a
Roma! Non era egli il Generale della repubblica romana? Erano ardenti
discorsi.
Ma, a questo proposito, nascevano in quello e anche in altri gruppi
discussioni vive sull'ordine del giorno udito a bordo il mattino.
Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva lasciato
loro il motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte.
Difatti si staccarono poi dalla spedizione e se ne tornarono di là
alle loro case, soltanto sei o sette giovani cari. Seguivano il sardo
Brusco Onnis che del motto 'Italia e Vittorio Emanuele' era rimasto
quasi offeso. Repubblicano inflessibile, si era imbarcato a Genova
sperando forse che Garibaldi, una volta in mare, si ricordasse
d'essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne andava, e se
ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro
nessun raffaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più
grandi soddisfazioni che cuor d'allora potesse avere, e il sacrificio
meritava rispetto.
I Mille
Ma cosa si stava a perder tempo in Talamone, mentre in Sicilia la
rivoluzione pericolava, e si poteva, giungendovi, trovarla spenta?
Questo lo sapeva Garibaldi.
Intanto su quella spiaggia i Mille si vedevano bene tra loro la prima
volta, come in una rassegna.
Ora, chi parla di quei tempi e di quelle cose, dice presto: il 1860,
la Sicilia insorta, il gran nome di Garibaldi, quello di alcuni suoi
illustri, la partenza da Quarto, la traversata maravigliosa, lo
sbarco a Marsala, Calatafimi, Palermo e la liberazione finale; due o
tre date e un numero d'uomini, pochi più di Mille, e per la storia in
grande è quasi tutto.
Ma quei Mille chi erano? Che cosa erano? Non certo una specie di
compagnia di ventura all'antica; non una parte di vecchio esercito
costituito, staccata a scelta o per caso; nessuna legge li obbligava,
non erano soldati di professione, non avevano tutti quella media di
età che di solito hanno i soldati; non una cultura comune ed uguale,
e nemmeno una divisa uniforme. Vestivano quasi tutti alla borghese e
alle diverse fogge, dalle quali, a quei tempi, si riconoscevano
ancora a qual regione d'Italia e a qual classe sociale uno
appartenesse. E parlavano quasi tutti i dialetti della penisola.
Erano, per dir così, parte dell'esercito popolare militante di cuore
nel partito rivoluzionario: vecchi, figliuoli di giacobini, di
napoleonidi, di Murattisiti; uomini di mezza età, educati dalla
Giovane Italia, tra le congiure e le insurrezioni; giovani nei quali
la letteratura classica e la romantica s'erano fuse in una bella
temperanza a fecondare l'amor di patria. Con essi, degli artigiani
che dalle diverse scuole politiche e dai fatti belli dell'ultimo
decennio, erano stati destati al concetto della nazione.
Di loro fu subito detto che erano eroi favolosi, pazzi sublimi, ed
altre simili iperboli, e anche delle ingiurie. Invece di volenterosi
com'essi ve n'erano in Italia a migliaia; ma ad essi intanto era
toccata quella fortuna. Uno che vi era e dei migliori, scrivendone
poi nella vita di Garibaldi, con quattro pennellate alla brava disse
che erano un popolo misto "di tutte le età e di tutti i ceti, di
tutte le parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti
gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù" e vi notò "il
patriota sfuggito per prodigio alle forche austriache e alle galere
borboniche, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca
d'un romanzo, l'innamorato in cerca dell'oblio, il notaio in cerca di
un'emozione, il miserabile in cerca d'un pane, l'infelice in cerca
della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse, ma la cui
lega purificata dalla santità dell'insegna, animata dalla volontà
unica di quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi
fatata."
Così li ritrasse il Guerzoni, caro al Generale e vivido ingegno, e fu
felice pittore.
Narrar di loro, descriverne gli aspetti, farne rivivere la fisionomia
morale, resuscitare coi ricordi i loro sentimenti e quelli dell'epoca
ora quasi estinti, è un giusto servigio che vuole essere reso alla
storia. La quale si avvia a non più fermarsi solo nelle reggie per
trovarvi le dinastie, o nei campi per descriver battaglie e celebrare
capitani; ma già accoglie nelle sue pagine il personaggio popolo, che
ai fatti col proprio sangue e col proprio danaro dà il cuore. E il
cuore governa il mondo, e il sentimento fa i veri miracoli della
storia.
*
A colpo d'occhio, si poteva dire che per un quarto quei Mille erano
uomini fra i trenta e i quarant'anni e per un altro bel numero tra i
quaranta e i cinquanta; forse dugento stavano tra i venticinque e i
trenta. Gli altri, i più, erano tra i diciotto e i venticinque. Di
adolescenti ce n'erano una ventina, quasi tutti bergamaschi. Alcuni
qua e là tra quei gruppi parevano trovarvisi per curiosità, perché‚
vecchi oltre i sessanta; e invece vi stavano a spendere le ultime
forze di una vita tutta vissuta nell'amore della patria. Il
vecchissimo passava i sessantanove, aveva guerreggiato sotto
Napoleone e si chiamava Tommaso Parodi da Genova; il giovanissimo
aveva undici anni, si chiamava Giuseppe Marchetti da Chioggia,
fortunato fanciullo cui toccava nella vita un mattino così bello!
Seguiva il medico Marchetti padre suo, che se l'era tirato dietro in
quell'avventura.
In generale, certo più della metà erano gente colta; anzi si può dire
che soldati più colti non mossero mai a nessun'altra impresa. Alcuni
di essi, i vecchi, avevano combattuto nelle rivoluzioni del '20 del
'21 del '31; molti nelle guerre del '48 e del '49 e nelle
insurrezioni di poi. Nella guerra del 1859 avevano militato quasi
tutti, volontari nei reggimenti piemontesi o tra i Cacciatori delle
Alpi sotto Garibaldi. E quasi tutti avevano tenuto il broncio al
paese perché‚ non si era mosso quanto avevano sperato, tanto almeno
che il Piemonte non avesse avuto bisogno dell'aiuto francese. Pronti
essi sempre a dar la vita, credevano che tutti dovessero esserlo come
loro, e che la rivoluzione bastasse a vincere i grandi eserciti e a
far cadere le fortezze. Per essi a ogni modo, quell'aiuto era stato
un gran dolore, perché lo aveva recato Napoleone, che allora
chiamavano con forte rancore: 'l'Uomo del 2 dicembre'.
Ma v'erano pure certuni che ragionando con la storia per guida,
sebbene un po' da romantici, trovavano che anzi l'aiuto francese era
stato ammenda giusta d'una colpa antica. Non era stata la Francia di
Carlo VIII la causa prima della servitù tre volte secolare d'Italia?
I francesi del 1494 avevano, per dir così, gettato il dado,
provocando altri a giocarsi con loro il possesso d'Italia: ora,
quelli del 1859 erano venuti a riparare il danno fattole dai loro
avi. Qualcosa di provvidenziale pareva di vederlo sin nelle date
capitali di quella storia. Non era finita la gara antica proprio nel
1559, con quel tal trattato di Castel Cambresis che, esclusi i
Francesi, avevano messo l'Italia, direttamente o indirettamente,
quasi tutta nelle mani degli Spagnuoli? Ed ecco che dopo trecento
anni giusti, la Francia era venuta a strappar la Lombardia dalle mani
dell'Austria, erede in qualche guisa degli Spagnuoli. E giusta era
venuta con alla testa un imperatore di sangue italiano; come era
stato un italiano Emanuele Filiberto, colui che trecent'anni avanti
aveva finita la gara antica tra Spagnuoli e Francesi, vincendo per la
Spagna a San Quintino. Non era quasi da dire che gli italiani
d'allora si fossero pigliata la sola vendetta possibile contro i
Francesi? Questi per primi li avevano disturbati mentre lavoravano a
resuscitare il sapere antico per sé‚ e per l'Europa; ed essi,
all'ultimo, avevano dato il genio di un loro guerriero per farla
finita a beneficio del loro nemico, dovesse pure essere poi peggiore
di essi. Adesso quell'Italiano che imperava in Francia ed era venuto
con centocinquantamila soldati pareva un riparatore. Anche l'Europa
intera non sembrava fare ammenda di qualche suo vecchio torto? Se
essa gridava ma lasciava che in Italia gl'italiani facessero ciò che
loro sembrava meglio, non poteva dire che si contenesse a quel modo
per un tacito consenso di giustizia verso il popolo che trecent'anni
indietro le aveva dato i frutti del proprio studio, l'arte sua, e per
essa aveva scoperto la terra e aperte le vie a studiar il cielo, con
Colombo e con Galileo?
*
I giovani dai venti ai venticinque anni quasi tutti sentivano in sé‚
vivi e presenti i fratelli Bandiera con la loro storia, intesa nella
prima adolescenza, tra le pareti domestiche, dai padri e dalle madri
angosciate. Quell'Emilio di 25 anni, quell'Attilio di 23, disertati a
Corfù di sulle navi austriache; la loro madre corsa invano colà, per
supplicarli di smettere il loro disegno d'andar a morire; le loro
risposte a Mazzini che li consigliava di serbarsi a tempi migliori; e
poi l'imbarco, il tragitto nell'Ionio e lo sbarco sulla spiaggia di
Crotone, presso la foce del Neto, - che nomi! - e il primo scontro a
San Benedetto coi gendarmi borbonici, e le plebi sollevate a suon di
campane a stormo contro di loro gridati Turchi; e il secondo scontro
a San Giovani in Fiore, - poesia, poesia di nomi! - e l'inutile
eroismo contro il numero, e la cattura e la Corte marziale e le
risposte ai giudici vili e la condanna e la fucilazione nel Vallo di
Rovito; tutto sapevano, tutto come canti di epopea studiati per puro
amore. E suonava nei loro cuori la strofa amara ed eroica del canto
di Mameli:
L'inno dei forti ai forti,
Quando sarem risorti
Sol li potrem nomar.
Un po' più in qua negli anni, quei giovani avevano sentito il grido
di Pio IX: "Gran Dio, benedite l'Italia!" andato a suonare fin nei
più riposti tugurii. Avevano viste le rivoluzioni nelle quali, troppo
fanciulli, non avevano potuto cacciarsi; e le guerre del '48 e del
'49, e le cadute, e le disperazioni, e le speranze rinate; e nel '57
la gran tragedia di Carlo Pisacane coi suoi trecento, tra plebi
mutatesi anche allora in furie contro di loro andati per redimerle,
combattuti, accerchiati, oppressi, morti.
Ma dunque tutte le spiaggie del Regno erano tombe aperte per chiunque
tentasse di portarvi un po' di libertà? Cresceva la febbre in quei
cuori.
E ve n'erano che avevano concepito il pensiero di andar laggiù per un
ricordo di scuola di qualche anno addietro: un luogo dell'Odissea e
dell'Eneide; o il racconto letto in Plutarco della libertà data dai
Siracusani ai prigionieri ateniesi, solo per averli sentiti cantare i
cori di Euripide; o un episodio della guerra servile dei tempi
romani. E v'era chi più che delle cose antiche era pieno delle
recenti, per aver letto nella storia del Colletta i supplizi del
Caracciolo e del Sanfelice, o la fine della repubblica Partenopea nel
1799.
Altri ancora s'era inebriato dei canti popolari siculi, uditi nella
melodia viva di qualche volontario siciliano conosciuto l'anno avanti
nei Cacciatori delle Alpi. Ve n'era fin uno, e lo narrava, che aveva
avuto la spinta a quel passo da un fatto da nulla, ma che sul suo
cuore aveva potuto più che la scuola e i libri. Un giorno di luglio
dell'anno avanti, stando egli in Brescia alla porta di uno degli
ospedali zeppi ancora dei feriti di Solferino e di San Martino, aveva
veduto fermarsi un carro di casse d'aranci e di filacciche e di
bende. Venivano dalle donne di Palermo! O santa carità della patria!
Dunque in quella terra lontana si pensava a chi pativa per tutti? E
aveva anche inteso dire dai medici che quelle cose erano uscite
dall'isola trafugate, perché‚ la polizia di laggiù, guai! Dunque
c'era in Italia una tirannide più cruda di quella dell'Austria? Ed
egli aveva fatto voto di andare a dar la sua vita laggiù, se mai
fosse venuta l'ora di levar quella tirannide dal mondo.
La formazione del piccolo esercito
Sapeva Garibaldi ciò che faceva, nè in Talamone stava certo a perdere
tempo. Ivi doveva trovare le munizioni da guerra o andar avanti lo
stesso a pigliarle in Sicilia al nemico. Ma frattanto vi faceva dar
forma alla spedizione, comporre le compagnie combattenti e tutti i
corpi che deve avere un esercito per entrar in guerra. Non poteva già
scendere in Sicilia alla testa di uno stormo disordinato!
Al suo quartier generale diede per capo il colonnello Stefano Turr
che allora aveva trentacinque anni. Da giovane tenente dell'esercito
austriaco, il Turr era passato in Piemonte l'anno '49; sapeva cos'era
stato il dolore della sua Ungheria e dell'Italia quell'anno; sapeva
cosa voleva dire essersi trovato condannato a morte e liberato quasi
nell'ora del supplizio, e cos'erano le gioie e le ansie del
cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Aveva combattuto
l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a Tre Ponti aveva
sparso il suo sangue tra i Cacciatori delle Alpi. Bellissimo uomo,
alto e diritto, con due gran baffi e un gran pizzo scuri, e occhi
pensosi ma vigili e mobilissimi sotto la fronte quadrata a torre.
Novecento anni avanti sarebbe stato un fiero capo di quegli Ungheri
che vennero a turbare il regno di Berengario; ma ora, con la
gentilezza acquistata dalla sua gente nei secoli e la sua nativa, era
un cavaliero che poteva tenere scuola d'ogni cortesia. Finita quella
guerra divenne diplomatico, apostolo di lavoro e di pace. Scavò
canali di navigazione nella sua Ungheria, tagliò l'istmo di Corinto;
va ancora pel mondo gridando all'umanità la concordia, l'amore e il
bene.
Ungherese come il Turr, un po' più giovane di lui, aiutante anch'esso
del Generale, v'era il Tukory, che veniva ad offrir l'ingegno e la
vita a quest'Italia, la quale, nel Cinquantanove, in certa guisa
aveva disdetto la fratellanza di sventure e di speranze, che
l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così senza
raffaccio, ma con dolore. Egli aveva militato per la Turchia contro
la Russia durante la guerra di Crimea, e s'era trovato a difendere la
fortezza di Kars contro quei soldati dello Czar che nel '49 gli
avevano rovinato la patria. Servire un barbaro per odio contro un
altro barbaro gli doveva essere stato grande strazio; ma con
Garibaldi a faticare per l'Italia era quasi felice. Però s'indovinava
che era molto deluso del mondo, e morire come morì poi a Palermo non
gli dovette parere amaro.
Poi c'era il Cenni di Comacchio, uomo di quarantatré anni, avanzo di
Roma e della ritirata di San Marino; uno tutto fremiti, che ad averlo
vicino pareva di camminar col fuoco in mano presso una polveriera.
Amico del Cenni v'era l'ingegnere Montanari di Mirandola, anch'egli
avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta per
la tetraggine che gli avevano impressa le meditate sventure del
paese. Anche aveva molto patito nelle carceri di Mantova e di
Rubiera. Ma contrasto quasi d'arte gli stava a lato un senese, che da
giovane aveva fatto versi, sembrati al Niccolini degni del Foscolo.
Nei suoi ventisei anni bellissimo e forte, era sempre gaio come se
gli cantasse un'allodola in core. Era quel povero Bandi, che cinque
ferite di piombo non poterono poi uccidere sul colle di Calatafimi; e
doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi
vecchio e a ghiado, da uno a lui sconosciuto.
E v'era Giovanni Basso, nizzardo, ombra più che segretario del
Generale, ch'egli aveva visto sublime a Roma, umile ma ancora più
sublime da povero candelaio alla Nuova York. E c'erano il Crispi,
allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu
quasi ucciso mentre si lanciava a coprir Garibaldi. C'erano il
Griziotti pavese di trentott'anni, matematico di bella mente ma di
cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di cinquanta, antico parroco
del Mantovano, che come l'eroe dell'Henriade andava tra quelli che
uccidevano, senza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il
tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino,
bel capitano di mare, che pareva andasse studiando Garibaldi, per
divenire simile a lui nell'anima come gli somigliava già un po' nel
volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto da
contenervi cento cuori d'eroe.
Allo Stato Maggiore generale presiedeva il colonnello Sirtori. Antico
sacerdote, aveva chiuso per sempre il suo breviario, portandone
scolpito il contenuto nel cuore casto, e serbando nella vita la
severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido, cuore
intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove con l'Ulloa napoletano,
era stato ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi
esule in Parigi, aveva visto indignato trionfare sull'uccisa
repubblica Napoleone III. E la vita gli si era fatta un lutto. Non
aveva perdonato all'Imperatore il 2 dicembre, neppure vedendolo poi
scendere nel Cinquantanove con centocinquantamila francesi a
liberargli la sua Lombardia; anzi, antico soldato della patria s'era
astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la guerra stessa,
com'era seguita, gli aveva insegnato a non illudersi più. Non aveva
guari speranze che quell'impresa si potesse far bene; consultato,
l'aveva sconsigliata, ma dichiarando che se Garibaldi ci si fosse
risolto, lo avrebbe seguito. Ed ora a quarantasette anni, era lì con
quella sua faccia patita, incorniciata da una strana barba ancor
bionda, esile alquanto della persona, silenzioso, guardato come se
portasse in sé qualcosa di sacro, forse le promesse dell'oltretomba.
Pareva il Turpino di quella gesta.
Da lui dipendevano, come capitani, un Bruzzesi romano di trentasette
anni; il matematico Calvino esule trapanese di quarant'anni, onore
dell'emigrazione siciliana; Achille Maiocchi milanese di trentanove,
e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della repubblica
veneziana, che non ne aveva ancor trenta.
Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitano, un gran bel
sessagenario che a guardargli in viso pareva di leggere la poesia del
Meli; il mantovano ingegner Borchetta di trentadue anni gran
repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito
piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi
doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicis, ma veramente
si chiamava Costantino Pagani.
*
E poi veniva il grosso del piccolo esercito.
Alla testa della prima compagnia chi se non il Bixio?
Era quel Bixio che nel Quarantasette, in una via di Genova, fattosi
alle briglie del cavallo di Carlo Alberto, gli aveva gridato:
"Dichiarate, o Sire, la guerra all'Austria, e saremo tutti con voi!"
Nel Quarantotto era volato in Lombardia con Mameli; con Mameli era
stato a Roma dove era parso l'Aiace della difesa, e il 30 aprile vi
aveva fatto prigioniero tutto un battaglione di francesi. Poi aveva
navigato portando per gli oceani le sue speranze. Ma nel
Cinquantanove aveva riprese le armi, non più riluttante a fare la
guerra regia, e facendola bene: adesso era capitano del Lombardo, ma
in terra avrebbe comandata la prima compagnia.
Il Dezza ingegnere e il Piva, che dovevano divenire generali
dell'esercito italiano, erano suoi luogotenenti. Marco Cossovich,
veneziano, uno che nel '48 aveva concorso a levar l'arsenale agli
Austriaci, e Francesco Buttinoni da Treviglio provato già nel '48 e
nel '49, erano loro sottotenenti, tutti e quattro già chi di trenta,
di trentacinque o trentasei anni; e sergenti e soldati benché fior
d'uomini tutti, badassero bene con chi avevano da fare, ché con
Bixio, non dico paurosi, ma solo inesperti o disattenti o svogliati,
c'era da essere inceneriti.
Ma ogni dappoco sarebbe divenuto un valente anche solo pel contatto
con sergenti come erano Ettore Filippini, Eugenio Sartori, Angelo
Rebeschini, Enrico Uziel, e tra commilitoni come Giovanni Capurro,
Emilio Evangelisti, Enrico Rossetti, e altri molti che Bixio aveva
impressi del suo sigillo. E poi vi erano nella compagnia Pietro
Spangaro, Raniero Taddei, Antonio Ottavi, già ufficiali di grido che
per nobile compiacimento si erano lasciati fondere con la massa dei
semplici militi, e vi facevano scuola di virtù militari.
La seconda compagnia, detta dei livornesi perché di Livorno era
Jacopo Sgarallino, il più popolare dei suoi ufficiali, e di Livorno
erano i suoi sergenti, fu affidata al colonnello Vincenzo Orsini.
Questi non veniva dalla storica famiglia Orsini di Roma e neppure da
quella romagnola da cui uscì Felice Orsini, uomo allora di recente
terribilità, per le bombe che aveva lanciate in Parigi contro
Napoleone III, e rimpianto per la nobile vita così sacrificata e per
la rassegnata morte sul patibolo. Il colonnello garibaldino era di
famiglia palermitana, uomo già di quarantacinque anni, ufficiale
dell'artiglieria borbonica da giovane, poi affiliato alla Giovane
Italia, passato al servizio dell'isola sua nella rivoluzione del '48,
cresciuto con essa, con essa caduto nel '49. Da quell'anno era
vissuto esule negli eserciti di Turchia, salendovi a colonnello
dell'arma ne' cui studi era stato allevato. Venuto il '59, era
tornato in Italia, e adesso era lì a riportar il braccio alla sua
Sicilia. Prevalevano nella compagnia per numero gli operai, anch'essi
però uomini intelligenti, che sapevano bene qual passo avevano fatto:
e i più erano toscani, e portavano nomi i nobiltà popolaresca antica.
Per la stessa ragione per cui la seconda compagnia fu chiamata dei
livornesi, la terza poteva dirsi dei calabresi perché di Calabria
erano il barone Stocco che la comandava, verde vecchio di
cinquantaquattro anni, e Francesco Sprovieri, Stanislao Lamensa,
Raffaele Piccoli, Antonio Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati
degli uomini insigni come Cesare Braico, Vincenzo Caronelli, Domenico
Damis, Domenico e Raffaele Mauro fratelli, Nicolò Mignogna, Antonio
Plutino, Luigi Miceli; e avvocati e medici e ingegneri, e futuri
deputati, senatori, ministri e generali, tutti fra i trentacinque e i
cinquant'anni, tutti di Calabria e di Puglia. Pareva la compagnia dei
savi!
La quarta toccò a Giuseppe La Masa, siciliano di Trabia, antico
all'esilio, già quarantenne. Era un singolarissimo uomo. Biondo quasi
ancora come un giovinetto e di carnagione che doveva essere stata
rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che un siciliano
sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno.
Poeta improvvisatore, giureconsulto, agitatore d'idee, s'era fatto
mandar via presto dall'isola natia, e a Firenze nel '47 aveva stretto
amicizia col fiore dei patriotti. Doveva aver sentito di sé grandi
cose e grandissime averne agognate; e fino a un certo segno le aveva
conseguite. Si diceva che nel gennaio del '48 avesse decretato lui la
rivoluzione di Palermo, per il 12 di quel mese preciso, genetliaco
del Re, firmando audacemente un proclama di sfida col proprio nome
per un Comitato che non esisteva. Ma non era vero. Però la
rivoluzione era scoppiata, ed egli nella guerra che n'era venuta tra
Napoli e la sua Sicilia era stato Capo dello Stato maggiore
dell'esercito. In un intermezzo di quella aveva condotto i Cento
Crociati isolani alla guerra di Lombardia; poi, finita male ogni cosa
nell'isola come altrove, si era rifugiato in Piemonte, aveva scritto
libri di guerra, infaticabile. Pochi giorni avanti la spedizione dei
Mille, quando Garibaldi esitava a fare la impresa, egli si era
offerto di condurla, e l'avrebbe condotta con grande animo, se non
forse con grande fortuna. Però non lo avevano voluto lasciar fare
neppure i siciliani. Pareva ambizioso. Un po' di quell'avversione che
poi lo tribolò, già gli si manifestava contro, e forse per questa non
ebbe sotto di sé in quella sua compagnia ufficiali di nome. Ma aveva
nel quadro de' suoi sott'ufficiali dei giovani eminenti. Vi aveva
Adolfo Azzi da Trecenta, di ventitré anni, che con Simone Schiaffino
si era diviso l'onore di far da timoniere a Bixio; vi aveva
l'avvocato Antonio Semenza, monzasco, che nell'animo aveva tutta
l'opera di Mazzini, e Francesco Bonafini, di Mantova, che riassumeva
in sé tutta la vigorosa gentilezza della sua regione. E nella
compagnia s'erano concentrati quasi tutti i bresciani, forse perché
del bresciano egli aveva preso qualche cosa. Nel '57 aveva sposata la
duchessa Felicita Bevilacqua sua fidanzata fin da prima del '48,
donna che lo aveva fatto signore del proprio destino, delle proprie
ricchezze sterminate, quasi fatto re d'un piccolo regno. Ora egli
abbandonava quegli splendori, per tornare all'amore della sua terra.
Ed era un prezioso elemento, e doveva presto mostrarlo in Sicilia,
dove raccolse le squadre paesane dei Picciotti, e le tenne ordinate
per Garibaldi.
Alla testa della quinta compagnia sonava il nome nizzardo degli
Anfossi, glorioso pel caduto delle cinque giornate di Milano. Ma
ahimè! Il vivo non era del valore del morto. Però la inquadravano
degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della
compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi Faustino
Tanara del parmigiano, una specie di Rinaldo combattente per la
giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il
cuore che egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano
un centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano
tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste di tutte le
tinte, e di grigie e di bianche parecchie. Mesto a pensarsi, vi si
trovavano parecchi trentini tra i quali Giuseppe Fontana, Attilio
Zanoli, Camillo Zancani, che morirono poi vecchi, senza la gioia di
aver visto libera la loro bella terra di Trento.
Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo di
trentatrè anni, alto, snello, elegante. Si sarebbe detto che se
avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte al dorso due ali
di cherubino. Parlava un bell'italiano con leggero accento
meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel
portamento pareva un soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi
un Creso vissuto tra le delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da
Mecenate. Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome anche
di principi siciliani che a lui, già nobilissimo della persona, dava
un'aria alta e singolarmente aristocratica. In lui v'era il generale
che sei anni dopo avrebbe comandata una brigata italiana all'attacco
di Borgoforte. E da lui fu detto un giorno che se alla morte di Pio
IX fosse venuto, come venne, al seggio di San Pietro il Vescovo di
Perugia, ch'ei ben conosceva, l'Italia avrebbe avuto il Papa italiano
iniziatore di quella vita che poi non ebbe.
Luogotenente del Carino era Alessandro Ciaccio, palermitano, uomo di
quarant'anni, esule da dieci. In mezzo alla compagnia pareva il
sacerdote di una religione non ancora predicata ma già viva nei
cuori. Non era tempra da uomo di guerra, ma da dar la vita per
qualche grande amore, sì: sarebbe stato capace di ber la cicuta e
morire conversando di cose alte e pure in mezzo a quei suoi militi
che, lui presente, si sentivano sempre come avvolti da un'aura casta
e purificatrice.
Altri ufficiali del Carini erano Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-
Amari, palermitani anch'essi; quello rivoluzionario per tradizione di
famiglia, questo un altezzoso uomo che pareva aristocratico e schivo,
ma era soltanto un distratto. Andava distratto fino nei
combattimenti. Altro singolare uomo era il sottotenente Achille
Cepollini, napolitano, di quarant'anni, vecchio difensore di Venezia,
letterato anzi professore di lettere, che fu visto a Calatafimi
l'ultima volta, e sparito non lasciò di sé traccia sicura, né di lui
se ne riseppe mai più.
Sfilava la settima compagnia, la più numerosa e la più signorile,
quasi tutta di studenti dell'Università pavese, lombardi di ogni
provincia, milanesi eleganti, veneti che la grazia natìa temperavano
alla baldanza dei compagni nati tra l'Adda e il Ticino.
La comandava Benedetto Cairoli, che allora aveva già trentacinque
anni. E pareva così contento, in quella sua bella faccia di giusto,
aveva un'aria così paterna, che uno avrebbe detto: "Certo a costui è
stato affidato ogni soldato dalla madre in persona, perché, se non è
necessario sacrificarlo, glielo riconduca puro e migliore." Ah, il
contatto con quell'anima! Molti vanno ancora pel mondo che vissero
giovinetti sotto quell'occhio, in quei giorni di altissima scuola; e
ne portarono la luce tra la gente, che, pur divenuta scettica, pensa
che un mondo migliore debba essere stato, e spera che torni.
Era luogotenente del Cairoli il Vigo Pellizzari, da Vimercate, bello
e giocondo giovane, di ventiquattro anni, nato coi più bei doni di
natura, ma sprezzatore superbo fin di sé stesso. Amava la vita,
avrebbe potuto averla felice, non volle. Scherzava con la morte,
pareva che l'andasse cercando per schiaffeggiarla, e che la morte lo
scansasse, tanto era ardimentoso. Sette anni di poi, le si diede
irato a Mentana gridando insulti ai francesi.
Sottotenenti della compagnia erano Biagio Perduca di venticinque anni
e Nazzaro Salterio di trentasei. Pavese quello, aveva personale
giusto, viso fiero ma a certi momenti dolcissimo. Non morì in guerra
e fu sorte crudele, perché doveva finire di là a quindici anni con la
luce della mente già spenta. Invece il Salterio visse cinque anni più
di lui, e quando fu l'ora sua cadde di colpo, sano e intero, nella
sua divisa di colonnello, come uno fulminato sul campo.
Furiere della compagnia era il marchese Aurelio Bellisomi da Milano,
allora sui ventiquattro, bellissimo giovane e colto assai, mazziniano
per fare l'unità nell'ora che passava, ma forse già vagheggiatore
dell'idea del Cattaneo, come di cosa da venir sicura col tempo,
conseguenza della stessa unità allora necessaria per conseguire
l'indipendenza. Ma non parlava guari delle sue idee federaliste per
non seminare discordie.
In quanto ai sergenti, quando s'è detto che si chiamavano Enrico
Cairoli, Luigi Mazzucchelli, Pompeo Rizzi, Camillo Ruta, par d'aver
detto tutto anche a chi non portò mai camicia rossa. Erano giovani
tra i venti e i ventisett'anni, e son già morti da un pezzo; ma di
essi soltanto Enrico finì come erano degni di trovarsi a finire
tutti, in quel bel giorno di Villa Glori, sotto le mura di Roma, uno
contro venti.
Il caporal furiere era Luigi Fabio, il buon Fabio morto poi quasi
sessantenne, ma di cuor sempre giovane. E i quattro caporali erano lo
studente Ferdinando Cadei, che cadde a Calatafimi, Giuseppe
Campagnuoli, Alessandro Casali, Luigi Novaria; quello di Caleppio,
questi tre di Pavia. Tra quei compagni di ventitrè anni il Novaria ne
aveva trentatré, pareva un vecchio, ma stonava poco perché versava
larga la sua vena di ilarità, sebbene talvolta fosse canzonatore
mordace, e talvolta pigliasse il tono fin di Tersite.
Così la compagnia era fortemente inquadrata. Contava centotrenta
militi, ventitré dei quali erano proprio pavesi. E tra quei
centotrenta, ventiquattro erano studenti di legge, dodici di
medicina, quattordici di matematica, due di farmacia. Di commercianti
ve n'erano una dozzina, di possidenti e di impiegati una trentina.
Gli altri erano artigiani e operai, ma tutta gente anche questa che
sapeva bene dove andava. Allegri e vibranti di vita, parevano avviati
a conquistarsi un regno ognuno per sé. Ma dei più cari a ricordarsi
fu un giovanetto, forse non ancora ventenne, che durante la
traversata cantava sempre, accompagnato da due altri pavesi Giuseppe
Tozzi e Luigi Rossi. In quelle notti del Tirreno empiva il mare e il
cielo con le arie eroiche del Nabucco e dei Masnadieri, con una voce
che faceva tacere tutti e pigliava i cuori. Si sentiva che l'anima
sua si inebriava di un'acre voluttà di morire; e forse fu poi felice
quell'ora a Palermo, su d'una barricata, combattendo e cantando: "Si
vola d'un salto nel mondo di là," cadde morto. Lo chiamavano Pùdarla,
ma il suo vero nome era Angelo Gilardelli.
E l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua
Bergamo Francesco Nullo, che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini
pavese, certo di darla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il
Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria, quel
cuore avrebbe mandato luce come il sole; e se lo avesse lanciato
nell'inferno, avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. Così
dicevano coloro che avevano già lette sin da allora queste immagini
nelle poesie di Petofi. A Roma il 3 giugno del '49, nell'ora dello
sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi di Villa
Corsini, percotendo, insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo, e
nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testa che sembrava una mazza
d'armi, ma l'espressione della sua faccia ricordava quella di certi
santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea che
gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava:
"Appiccati!" ma lo abbracciava e gli dava subito ragione, intenerito
e devoto. Per tutte queste sue doti, e perché aveva già
quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto
Vittore Tasca, Luigi Dall'Ovo, Daniele Piccinini, coi loro
bergamaschi, quasi un centinaio e mezzo di quella gente Orobia,
quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la patria per suo culto,
sia che ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai
siciliani formidabile per gli ardimenti sulle barricate, e per la
serena fidanza nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente,
senza perdere dignità né d'atti né di parole.
Vittore Tasca aveva trentanove anni, ed era una strana testa, che con
un po' di studi forse sarebbe riuscita d'un artista. Con quelli
ch'egli aveva fatti era rimasto qualcosa di mezzo tra un commerciante
geniale e un agricoltore. Conosceva le vie del Levante dove era
andato per seme di filugello, e si trovava appunto sulle mosse di
tornarvi, quando sentì della spedizione garibaldina. Allora piantò
ogni cosa e seguì Garibaldi, cui si diè tutto e cui nella tarda età
dedicò quasi bosco sacro una sua villetta in Brembate, dove fino al
1892 raccolse ogni anno anche da lontano i suoi amici, a commemorare
in una cerimonia all'antica il gran Duce.
Il Dall'Ovo che aveva anch'egli trentanove anni, era una figura su
per giù sul fare del Tasca, forse un po' meno aspro ma anch'egli
burbero e buono. Non sapeva che da quell'umile posto di sottotenente
della compagnia, le sorti della guerra e dell'esercito nazionale lo
avrebbero elevato su tanto, da fare di lui un colonnello. E da
colonnello doveva invecchiar nell'esercito per uscirne alfine e
sparire come tanti, che si rincantucciarono a rivivere del loro
passato, dei quali non si seppe più se fossero vivi o morti.
Ma Daniele Piccinini che più di lui e più del Tasca personificava in
sé il bergamasco cittadino insieme e valligiano e di monte, come
rimase vivo e presente a tutto il mondo garibaldino! Nato a
Pradalunga in Val Seriana, da una famiglia radicata tra le rocce e
ricca e forte ivi come una volta quelle dei feudatari, ma però tutta
di virtù patriarcali; candido a trent'anni come un adolescente,
valoroso come un personaggio dei 'Reali di Francia', allora ancora
molto letti nelle campagne; in quel maggio era disceso dal suo
paesello a vedere se non si tornasse a far qualche cosa per l'Italia,
e aveva dato il suo nome di tono guerriero antico alla compagnia
bergamasca. Fu lui quello che a Calatafimi, in un momento che
Garibaldi si trovò tanto vicino ai nemici da farsi colpire fino da un
colpo di pietra, gli si lanciò quasi irato davanti, e coprendolo col
suo pastrano da pioggia onde la camicia rossa non lo facesse più far
da bersaglio, osava gridargli che non a lui stava bene andare a farsi
uccidere come un soldato qualunque. "Chi è quel giovane?" domandò
allora Garibaldi, guardando quella bella figura. "Piccinini di
Bergamo," gli fu risposto. Il Generale non se ne scordò più, né il
Piccinini lasciò più di seguirlo. Due anni dipoi, in Aspromonte,
ruppe la spada di capitano per non consegnarla intera al capitano dei
bersaglieri che lo faceva prigioniero: prigioniero con gli altri
compagni garibaldini stipati nel forte di Bard in Val d'Aosta, si
rannicchiò in una cannoniera dove stette quasi notte giorno a
languire di nostalgia e di dolore civile. Poi nel 1866 volle far la
guerra del Trentino da semplice milite, perché aveva giurato di non
portare spada mai più. Tornato poi a' suoi monti, non ne uscì per
venti anni. Alla fine si lasciò vincere dal desiderio d'andare a
visitare la Sicilia e la Calabria che egli aveva percorse e voleva di
nuovo percorrere a piedi, per vedervi quanto fosse migliorato il
popolo e quanto la terra. Non poté giungere fin laggiù. Un giorno
dell'agosto 1889 a Tagliacozzo gli accadde di esser ferito per
disavventura da un giovane amico. E morì là, quasi lieto di morire
tra quei monti, dove suona ancora con tanta mestizia il nome della
battaglia perduta da Corradino. Ora la sua salma è chiusa nel piccolo
camposanto della sua Pradalunga, a cui salgono i clamori del Serio
sonante che passa. Càpita là talvolta ancora adesso qualche vecchio
forestiero che fa chiamar il custode per farsi mostrar la terra dove
sta Daniele. Entra in quel recinto, cui con forse quattro lenzuola
cucite insieme si potrebbe fare un velario, svolta a sinistra,
nell'angolo c'è una cappelletta nuda. "Sta qui," dice il custode.
Qui? Pensa il forestiero. E vorrebbe gridare: Su, Piccinini! D'uomini
come te v'è ancor penuria nel mondo. Risorgi e insegna!
Un po' della tempra del Piccinini erano quei bergamaschi tutti, anche
i più popolani; anime esaltate dal patriottismo e un po' mistiche.
Nel 1863, quando la Polonia fece la sua terza rivoluzione, uno stormo
di quei militi tornati dall'ottava compagnia dei Mille, volò laggiù
con Francesco Nullo. E il 5 maggio, terzo anniversario della partenza
da Quarto, entrarono nella Polonia russa a Olkusz, dove s'imbatterono
subito nei Cacciatori finlandesi del generale Szakowskoy, coi quali
impegnarono un combattimento. Il Nullo cadde ai primi colpi, e morì
magnifico fin nella caduta; essi combatterono fin che furono tutti
morti o feriti o ridotti a non poter più. Elia Marchetti si trascinò
ferito a morte fin nel territorio austriaco; dove un austriaco
capitano, ammirandolo se lo raccolse in casa e ve lo tenne con
religione a morire. Quelli che sopravvissero furono mandati in
Siberia. Nelle miniere di Jskutz logorarono la vita sette anni,
invidiando i morti, e parecchi vi morirono. Quelli che erano scampati
alla strage e alla cattura, camminando come belve, valicando
montagne, passando fiumi, vennero dietro il sole a cercar la patria.
E per le terre dell'Austria vi giunsero. Ma non si erano ancora
riposati di tanta via, che scoppiò la guerra del 1866. Allora tutti
tornarono in campo, e Giuseppe Dilani detto Farfarello, umile
operaio, andava a farsi uccidere dagli Austriaci, nelle terre
trentine nostre a Monte Suello, vecchio nei patimenti a ventisette
anni.
E Luigi Perla, con quel suo visetto arguto? Oh! Egli andò nel 1870 a
morire a Digione per la repubblica, alla testa di un battaglione che
gli fu affidato. La Francia riconoscente lo fregiò, morto, della
Legion d'onore; ma già egli era compensato nell'aver potuto morire
per quel nome di repubblica, che alla sua mente semplice pareva
realtà di tutte le belle cose sognate.
Quei bergamaschi fecero scuola. Così, come alcuni in Polonia e come
il Perla in Francia, ultimo alunno di quell'antica compagnia, figlio
d'uno di quei bergamaschi, Ettore Panzeri ufficiale degli Alpini
nell'esercito della nuova Italia, andava a morir giovinetto per la
Grecia a Domokos nel 1897, bella favilla dell'antico fuoco
garibaldino, che ridiede dopo tanti anni quella tardiva vampata.
I Carabinieri genovesi
Ora ecco i Carabinieri genovesi, quasi tutti di Genova, o in Genova
vissuti a lungo, mazziniani ardenti, armati di carabine loro proprie,
esercitati nel tiro a segno da otto o nove anni i più, gente che
s'era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta, elegante.
Li comandava Antonio Mosto, tutto di Mazzini, uomo non molto sopra i
trent'anni, ma che ne mostrava di più: barba piena, lunga, sguardo
acuto, ficcato lontano come per guardare se al mondo esistesse il
bene quale ei lo sentiva in sé. Quanto al coraggio, era per lui cosa
tanto naturale, che non poteva credere vi fosse altri che non ne
avesse. In tutta la campagna i borbonici non ebbero per lui una
palla, ma il cuore glielo straziarono uccidendogli il fratello Carlo,
che piantato lo studio all'Università di Pisa, aveva ripreso la
carabina. E la fortuna gli serbava di tornare illeso anche dalla
guerra del 1866. Ma l'anno appresso, a Mentana, una palla francese lo
colpì di tale ferita, che lo rese invalido fin che nel 1880 morì.
Suo luogotenente era Bartolomeo Savi, un fierissimo repubblicano,
tutto nudrito di studi classici, e già ben sopra la quarantina; uomo
austero e cruccioso, che guardava sempre con un certo piglio di
rimprovero Garibaldi, perché s'era lasciato tirare dalla parte del
Re. Ma lo seguiva perché gli pareva di non aver diritto di negar il
suo braccio alla patria, soltanto pel motivo che la patria si andava
rifacendo nel nome di un re. E lo seguì poi fino al giorno che, dopo
Aspromonte, tutto gli parve falsato, e, poco appresso, tediato della
vita si uccise.
Inquadravano la compagnia Canzio, Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno,
dei quali i tre ultimi non tornarono più; e tra tutti, quei
trentasette carabinieri dovevano pagare un gran tributo fin dal primo
scontro di Calatafimi, dove cinque morirono, dieci furono feriti. Ma
la vittoria fu dovuta in gran parte alle loro infallibili carabine.
Le Guide
Mancavano i cavalli, né c'era tempo di far una corsa nella vicina
Maremma a pigliarne un branco al laccio, ma le Guide furono ordinate
lo stesso. Erano ventitré. Le comandava il Missori, l'elegantissimo
milanese, passato dal culto delle eleganze a quello delle armi, e
come da prode lo seppero tutti. Basti che in quella guerra l'Italia
dovette a lui e a pochi altri se a Milazzo Garibaldi non fu
sopraffatto e ucciso da un branco di cavalieri napoletani, che essi a
rivoltella sgominarono, mentre il Generale che si trovava a piedi
poté, uccidendolo, liberarsi dal capitano di quelli ruinatogli
addosso furioso, menando fendenti.
Sergente delle Guide era Francesco Nullo, il più bell'uomo della
spedizione. Aveva trentaquattro anni, era mercante come Francesco
Ferrucci. Allora gli entrò la passione di cavalier di ventura
dell'umanità, e non ebbe più requie finché non gliela diede tre anni
di poi, nel cimitero di Miekov, il generale russo che ve lo seppellì
con onori militari da generale pari suo. Sapeva quel russo di dover
andare punito nel Caucaso, ma nonostante, a quella nobile figura di
morto volle mostrare il suo nobile cuore di uomo.
Compagni più che sottoposti al Missori e al Nullo, erano certi degni
uomini come Giovan Maria Damiani da Piacenza, che a sedici anni aveva
combattuto a Novara, dove gli era morto un fratello; e Giuseppe
Nuvolari da Roncoferraro nel Mantovano ricchissimo di possessioni e
già sui quaranta; due puritani, niente allegri, provati nell'esilio,
pensierosi sempre, quasi scontrosi.
Semplice guida era Emilio Zasio da Pralboino, di ventinove anni, che
uscito di modesta casa pareva figlio di principi, tanto ambiva le
cose signorili; fantastico, impetuoso, temerario e nell'amare e nel
volere sempre grandioso. Luigi Martignoli, da Lodi come Fanfulla, che
a trentatré anni doveva morire a Calatafimi, somigliava un po' al
Zasio nel portamento non nella bellezza; ma bello ancor più di Zasio
era il conte Filippo Manci da Poro nel Trentino, giovinetto di ventun
anni. Tutti e due furono infelici. Sopravvissuti a quelle guerre e
alle altre venute dopo, dovevano finire quasi insieme nel 1869, col
raggio della mente già spento per dolori così crudeli, specie quelli
del Manci, che chi li conobbe ingiuriò la morte perché non se li
aveva presi quando le andavano incontro sani d'anima e lieti.
E poi tra quelle Guide erano scritti l'avvocato Filippo Tranquillini
e Egisto Bezzi trentini anch'essi come il Manci; Domenico Cariolato
da Vicenza, che di ventiquattro anni era già un veterano della difesa
di Roma; il medico Camillo Chizzolini da Marcaria e l'ingegnere Luigi
Daccò da Marcignano giovanissimi tutti, che parevano figli del
sessagenario Alessandro Fasola novarese, già carbonaro nel 1821 col
Santarosa, profugo, poi soldato di tutte le guerre sino a quella del
1859, e che ora correva a quell'impresa romanzesca con la baldanza
d'un giovanetto che fa la sua prima volata fuori casa.
L'Intendenza
Poiché la spedizione doveva avere una Intendenza, questa fu formata
sul serio, benché in verità, la cassa di guerra non contenesse che
trentamila povere lire. E vi fu messo a capo Giovanni Acerbi, avanzo
dei martirii di Mantova, il quale andava rivendicando nelle
cospirazioni e nelle guerre l'onor del nome, macchiato da uno del
casato che aveva venduto l'ingegno e le lettere all'Austria, prima
ch'egli nascesse. Aveva compagni Ippolito Nievo, Paolo Bovi,
Francesco De Maestri e Carlo Rodi, tre veterani questi ultimi,
mutilati ciascuno d'un braccio, che parevano intervenuti per dire ai
giovani: "Vedete che cosa ci si guadagna? Eppure non fa male!" In
quanto al Nievo andava tra quella gente, per dir così, come Orfeo tra
gli Argonauti. Chi lo guardava indovinava che era già grande, o che
era destinato a divenirlo. Egli era noto per due suoi romanzi
sentimentali: 'Angelo di bontà' e 'Il conte pecoraio'; e anche si
sapeva da qualche amico suo che ei stava lavorando alle sue
maravigliose 'Confessioni d'un Ottuagenario', e che le lasciava
imperfette per accorrere alla grande impresa. Diceva egli stesso che
gli sarebbe tanto rincresciuto morire senza averle finite! Nel 1859
aveva cantati gli 'Amori garibaldini', liriche scintillanti come
spade, scritte sull'arcione cavalcando alla guerra di Lombardia, e
stampate sul punto di partire per la Sicilia. E, 'Partendo per la
Sicilia', fu appunto il titolo che egli dava all'ultima, non uscita
dal suo petto ma rappresentata nella pagina da una fila di
interrogativi. Forse egli presentiva che non sarebbe più ritornato?
Difatti spariva dal mondo nel marzo del 1861, in una notte di
tempesta nel Tirreno, con un vapore che fu ingoiato, passeggeri e
tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero
l'Epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi
trovato sulla riva d'Ischia, l'isola dei poeti.
Il corpo sanitario
Più necessario allora che non l'Intendenza, fu ordinato anche il
Corpo sanitario, sotto il vecchio dottor Pietro Ripari da Solarolo
Rainiero, che de' suoi cinquantott'anni ne aveva passati molti nelle
carceri dell'Austria e del Papa. Ma per tormenti che vi avesse
durati, non si era mai stancato di adorare la propria idea, e
tant'era che per essa, con l'età che aveva, lì si metteva al caso
d'andare a sperimentare anche le galere del Borbone e a finir la vita
tra i ferri. Aveva con sé Cesare Boldrini, mantovano, uomo di
quarantaquattro anni, e Francesco Ziliani del bresciano, di ventotto,
valenti medici e bravi soldati. Il Boldrini, nel seguito della
guerra, volle poi essere soltanto ufficiale combattente. E il 1°
ottobre cadde a Maddaloni, comandante di un battaglione rimasto
celebre col suo nome; consolazione grande questa al prode nei dolori
che durarono due mesi a consumarlo e a farlo morire. Il Ziliani
bellissimo, robustissimo e giocondo, per qualche cosa che aveva nel
far suo metteva la soggezione, e temperava solo con la sua presenza
anche i più spensierati e chiassosi. Dove egli capitava, fossero pur
allegri i discorsi, tutti diventavano serii, le lingue si facevano
caste, di cose frivole nessuno sapeva più dirne. Crebbe su agli alti
gradi, ma non se ne volle giovare: tornò modestamente alle case
patriarcali da dove non uscì che per le altre guerre; vi si chiuse
alla fine a farsi crescere intorno una famiglia secondo il suo cuore,
e in mezzo ad essa invecchiò, ricordando ed amando i campi e le
plebi.
Altri medici in quel piccolo corpo erano Oddo-Tedeschi d'Alimena e
Gaetano Zen di Adria; e del resto se ne trovavano sparsi in tutte le
compagnie, combattenti dei migliori e da combattenti infermieri. A
Calatafimi ne furono visti tra un assalto e l'altro deporre il
fucile, tirar fuori ferri e bende, curare qualche ferito; ripigliar
su l'arma, e andar a farsi ferire.
*
La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più
che per metà composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne contava
più d'un centinaio e mezzo che erano già o divennero poi avvocati; e
così come questi un centinaio di medici, un mezzo centinaio di
ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi,
dieci pittori o scultori, parecchi scrittori o professori di lettere
e di scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi. V'era anche una
donna, Rosalia Montmasson savoiarda, moglie di Crispi, che volle
seguir il marito in quel pericolo; poi centinaia di commercianti e
centinaia di artefici, operai il resto, contadini quasi nessuno.
Non sarà inutile aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini
erano lombardi, centosessanta genovesi, il resto veneti, trentini,
istriani e delle altre provincie dell'Italia superiore e centrale,
con forse un centinaio di siciliani e napolitani tornanti
dall'esilio. Non ve n'erano affatto delle provincie di Aquila,
Benevento, Caltanissetta, Campobasso, Chieti, Caserta, Forlì, Pesaro,
Ravenna e Siracusa. Stranieri accorsi per amor d'Italia ve n'erano
diciotto, uno dei quali africano, l'altro d'America, e questi era
Menotti, il figlio del Generale.
Di quel centinaio di meridionali trentacinque appartenevano alla
parte peninsulare del Regno; gente degna davvero tutti. Ma sette di
essi erano venerandi per chi sapeva la storia dei loro dolori.
Avevano portato per dieci anni la catena negli ergastoli di Procida,
di Montefusco o di Montesarchio; condannati a trenta, a venticinque,
a vent'anni di ferri per amore di libertà. Ma il 9 gennaio del 1859,
proprio la vigilia del giorno in cui Vittorio Emanuele diceva, lassù,
lontano, nel Parlamento piemontese, la sua storica frase delle 'grida
di dolore'; avevano ricevuto laggiù col gran Poerio, col Settembrini,
con Silvio Spaventa, la beffarda grazia di andar banditi, deportati
in America. Re Ferdinando, sentendosi divenuto odioso a tutta Europa,
che lo chiamava da un pezzo negazione di Dio, aveva voluto dare quel
segno della sua clemenza, a sessantasei delle sue vittime. Di queste
si sa il viaggio a Cadice, la liberazione avvenuta a bordo
nell'Atlantico per opera del figlio di Settembrini, la discesa a Cork
in Irlanda e il rifugio in Piemonte. Ora di quei sessantasei, sette
erano lì che se n'andavano tra i Mille, come sette vendette.
Bisognava esser nati con cuori veramente eroici per mettersi dopo
tanto patire a quel passo, o aver lo spasimo di riveder lui il Re
crudele; e poiché egli era già morto, incontrarsi almeno con qualche
suo rappresentante per afferrarlo al petto e farlo domandar pietà.
Questo diciamo noi, forse perché in generale siamo ancora tanto
deboli, che ci compiacciamo di pensar da violenti; ma que' sette
erano forti e miti. Allora non erano più nel fior degli anni. Achille
Argentino ingegnere di Sant'Angelo dei Lombardi ne aveva trentanove;
Cesare Braico, medico di Brindisi, trentasette; Domenico Damis,
gentiluomo di Lungro, trentasei; Stanislao Lamnesa, legale di
Saracena, quarantotto; Raffaele Mauro, gentiluomo di Cosenza,
quarantasei; Rocco Morgante, farmacista da Fiumara, cinquantacinque;
Raffaele Piccoli di Castagna diacono, quarantotto. E Mauro aveva a
casa cinque figliuoli, Lamensa quattro. Non li avevano più veduti dal
1849, anno della loro condanna; ora andavano a ritrovarli per quella
via. Parlavano poco, ma se dicevano gli orrori delle galere nelle
quali erano stati, a quelli che ascoltavano avveniva di augurarsi che
essi vi fossero ancora chiusi, d'aver dieci vite, d'andar a darle
tutte per liberare da tante miserie dei cristiani come loro. Al
paragone quelle dello Spielberg dovevano esser state sopportabili,
umane. Ma ce n'erano ancora tanti altri negli ergastoli del Regno!
Tutto il Regno era un carcere, dunque era bello andare a sfondarlo.
L'Artiglieria e il Genio
Perché fu allora cosa inaspettata, si narra qui un po' fuor di posto
che in Talamone fu pur formata l'Artiglieria. Fin dalla prima ora
della sua discesa a terra, Garibaldi aveva visto nel vecchio castello
una colubrina, lunga come la fame, montata su di un cattivo affusto,
a ruote di legno non cerchiate, e pel logoro di chi sa quanti anni
divenute poligonali. Portava in rilievo sulla culatta l'anno del suo
getto, 1600, e il nome del fonditore Cosimo Cenni, certo un toscano.
Una delle maniglie in forma di delfino le era stata rotta, ma due
segni di cannonate ricevute le facevano onore. Forse non aveva mai
più tuonato dal 9 maggio 1646, quando novemila francesi condotti da
Tommaso di Savoia erano giunti in quel golfo su d'una flotta di galee
e tartane. Adesso là nel castello non faceva più nulla, e Garibaldi
se la prese.
Il giorno appresso, vennero da Orbetello tre altri cannoni, uno dei
quali non guari migliore della colubrina, ma due erano di bronzo
bellissimi, alla francese, fusi nel 1802. Sulla fascia della culatta
d'uno si leggeva "L'Ardito" su quella dell'altro "Il Giocoso". I nomi
piacquero; convenivano agli umori di quella gente. Quei cannoni non
avevano affusto, ma laggiù in Sicilia qualcuno avrebbe saputo
incavarseli, e per questo c'erano tra i Mille i palermitani Giuseppe
Orlando e Achille Campo, macchinisti valenti, i quali difatti fecero
poi tutto alla meglio sei giorni appresso.
Ma chi aveva dato quei cannoni?
Garibaldi aveva mandato il colonnello Turr, al comandante della
fortezza di Orbetello con questo scritto:
"Credete a tutto quanto vi dirà il mio aiutante di campo, colonnello
Turr, e aiutateci con tutti i mezzi vostri, per la spedizione che
intraprendo per la gloria del nostro Re Vittorio Emanuele e per la
grandezza della patria."
Il comandante, che era un tenente-colonnello Giorgini, quando lesse
quel foglio si dovette sentire un grande schianto al cuore.
L'aiutante di campo di Garibaldi gli chiedeva delle munizioni!
Impossibile.
Ella è militare, - disse al Turr - e sa che cosa significhi
consegnare le armi e le munizioni di una fortezza, senza ordine dei
capi.
Ma se gli ordini li riceveste dal Re? - rispose il Turr - basterà che
gli inviate questa mia lettera.
E lì per lì, sotto gli occhi del Comandante, scrisse al conte
Trecchi, notissimo aiutante di campo di Vittorio Emanuele:
"Caro Trecchi,
Dite a Sua Maestà che le munizioni destinate per la nostra spedizione
sono rimaste a Genova; ora preghiamo Sua Maestà di voler dar ordine
al Comandante della fortezza di Orbetello di provvederci con quanto
più può del suo arsenale.
Colonnello Turr."
Porgendo la lettera al Comandante, il Turr gli disse che siccome la
risposta non verrebbe se non forse in una settimana, su di lui
Comandante peserebbero tutte le incalcolabili conseguenze di quel
ritardo; lo informò della spedizione; lo accertò dell'intesa tra il
Re e Garibaldi; insomma seppe far tanto che quell'ufficiale, solo
facendosi promettere che l'impresa non sarebbe volta contro gli Stati
del Papa, diede tutte le cartucce che aveva pronte, e casse di
polvere e quei tre cannoni e quant'altre cose poté. E tutto fu
caricato e condotto a Talamone, dov'egli stesso volle recarsi per
veder Garibaldi e la spedizione. Vollero accompagnarlo due suoi
ufficiali, e insieme il maggior Pinelli che comandava un battaglione
di bersaglieri, diviso tra Orbetello e Santo Stefano. Temeva questi
che quei soldati gli scappassero mezzi per imbarcarsi con Garibaldi,
e voleva pregarlo di non riceverli a bordo. Il Generale accolse tutti
con grato animo, ma non senza pensare che al Giorgini dovevano
seguire de' guai. E gliene seguirono, perché il povero Comandante fu
poi tenuto a lungo nella fortezza di Alessandria sottoposto a
Consiglio di guerra; ma alcuni mesi dopo, nel tripudio della patria,
fu mandato sciolto di pena.
Ora dunque la spedizione possedeva anche delle artiglierie, e
bisognava formare il corpo dei Cannonieri. A ordinarli e comandarli
venne messo il colonnello Vincenzo Orsini, che per questo dovette
lasciare la 2° Compagnia cui si era appena presentato. Egli chiamò a
sé quanti avessero già militato nell'artiglieria, e ne trovò una
ventina. Ai quali ne aggiunse dieci altri, inesperti nell'arma, ma
studenti quasi tutti di matematica nell'Università di Pavia. E fu di
questo numero Oreste Baratieri, giovinetto sui diciannove, pigliato
appunto allora dalla fortuna che non lo abbandonò più per trentasei
anni, e doveva elevarlo tanto da farlo brillar come un astro e
spegnerlo poi in un giorno, come nulla, nel buio. Egli aveva allora
compagni in quell'artiglieria strana, giovani come lui, Luigi Premi
da Casalnovo, Arturo Termanini da Casorate, saliti poi anche essi
nell'esercito nazionale e assai alti, ma senza clamori. Vi aveva
Domenico Sampieri di Adria, uomo di trentadue anni, avanzo della
difesa di Venezia e degli esigli di Smirne e d'Epiro, e divenuto
anch'egli Generale dell'esercito nazionale. Rimasto oscuro e modesto,
vi si trovava insieme ad essi Giuseppe Nodari, da Castiglione delle
Stiviere, anima d'artista, che dappertutto laggiù avea sempre la
matita in mano a schizzare dal vero bivacchi, fatti d'arme e figure
caratteristiche, delle quali s'ornò poi la casa dove morì medico,
trentott'anni di poi. E giovane mistico, nato per ogni sacrificio, vi
stava bene col Nodari l'ingegnere Antonio Pievani da Tirano, che già
deliberato a farsi frate, solo quando fu finita l'opera di rifar la
patria, entrò nei Francescani, per andar missionario nel mondo
barbaro. E invece, tradito dalla salute, morì nel 1880, in una cella
del convento di Lovere, sul lago d'Iseo, sulle cui rive deliziose
eran nati quattro compagni suoi nei Mille, Zebo Arcangeli, Gian Maria
Archetti, Carlo Bonardi e Giuseppe Volpi, questi ultimi due a lui
carissimi e morti in guerra.
Poiché ormai quel piccolo esercito aveva tutte le sue membra fuorché
il Genio, fu ordinato anche questo: una dozzina e mezza di operai, di
macchinisti, d'ingegneri, con Filippo Minutilli da Grumo d'Appula per
Comandante, uomo di quarantasette anni, severo, di poche parole, cui
si leggeva in viso, e certo lo aveva dentro, qualche profondo dolore.
Pativa l'esilio dal 1849; era stato in Oriente, in Malta, in
Piemonte; lasciava in Genova coi figliuoli la moglie, eroica donna
messinese, che si era sentita il cuore di cucire per lui la camicia
rossa, e di scendere alle porte di Genova, a dirgli addio, mentre
egli passava per andar a Quarto ad imbarcarsi.
Luogotenente del Minutilli fu l'ingegnere Achille Argentino, uno dei
liberati l'anno avanti dalle galere di Re Ferdinando, dei quali si è
detto.
Formati così anche i piccoli corpi dell'Artiglieria e del Genio, gli
uomini che vi appartenevano andarono a piantar sul Piemonte un
piccolo laboratorio. E subito, e i giorni dipoi, pur non avendo
strumenti, fabbricarono scatole di mitraglia con ogni sorta di
rottami e di lamiere di ferro rinvenute nelle stive dei due vapori.
Con le lenzuola di bordo fecero sacchetti per le cariche da cannone,
e fabbricarono cartucce da fucile, metà delle quali passarono sul
Lombardo.
La diversione
Tutto cominciava ad andare per bene: solo sembrava strano che la
spedizione continuasse a stare a perdere un tempo prezioso.
Ma nel pomeriggio dell'8 corse vagamente la voce che Garibaldi avesse
deliberato di gettarsi nel Pontificio, per marciare senz'altro su
Roma. Una sessantina di uomini, presi qua e là nelle campagne e
raccolti in drappello, erano partiti sin dalla sera avanti, per la
strada che, girando il golfo, mena da Talamone in Maremma. Marciava
alla loro testa un Zambanchi. Era un forlivese già sulla cinquantina,
quadrato, barbuto, di poca testa, assai rozzo e millantatore. E aveva
fama d'esser uomo di sangue, perché nel '49, a Roma, era stato crudo
contro tre preti, i quali, volendo entrare nelle città travestiti da
contadini, avevano dato del capo nei suoi avamposti. Egli li aveva
tenuti prigionieri; poi, senza averne ordine dal Governo, gli aveva
fatti fucilare. Per tal suo fatto gli pesava addosso l'accusa di
sterminatore di preti e frati, e sin d'averne colmato un pozzo.
A chi non sapeva tutto, pareva che quella compagnia fosse
l'avanguardia, e che la spedizione dovesse tenerle dietro. E i più
giovani lo credevano, ma gli anziani no. Delle otto compagnie,
Garibaldi ne aveva affidate tre a comandanti siciliani, una ad un
calabrese; ora come poteva darsi che egli volesse far loro il torto
di non andare in Sicilia? Però il fatto che quel piccolo drappello se
n'era andato per entrare nel Pontificio a farvisi distruggere forse
ai primi passi, se tutta la spedizione non lo volesse seguire, non si
capiva. Vi era chi diceva che Garibaldi avesse fatto così, per
levarsi dai piedi quel Zambianchi che gli era odioso: ma altri faceva
osservare che forse si esagerava perché non a un uomo così fatto
Garibaldi avrebbe dato da condurre quel manipolo, in cui si erano
trovati a dover andare dei giovani come il Guerzoni, il Leardi, il
Locatelli, il Ferrari, il Fumagalli, il Pittaluga, e avvocati,
scrittori, scultori, e quattro medici come Fochi, Bandini e Soncini
da Parma, e Cantoni da Pavia, e tanti altri, proprio gente già di
conto. Pensavano forse meglio quelli che dicevano che il Generale
aveva mandato quel manipolo nel Pontificio affinché n'andasse la voce
a Roma e a Napoli, a generar confusione in quei governi; e che quanto
al Zambianchi qualcuno, forse il Guerzoni, avesse l'ordine di
levargli il comando, se mai venisse l'occasione di doversene liberare
per qualche suo sproposito o qualche violenza.
Verso sera le trombe suonarono, le compagnie si ordinarono, scesero
al porto, tornarono a imbarcarsi sui due vapori. Quella tornata a
bordo levò via ogni dubbio. E allora nacque negli animi una generosa
pietà per i compagni partiti. Che brava gente! Avevano compìto il più
duro sacrificio che si potesse ideare: perdevano la vista di Lui e
l'epopea che s'erano sentita nel pensiero, per andar a crearne un
episodio oscuro, non sapevano dove, pochi, bene armati, ma condotti
da un uomo disamato. Parlando d'essi, molti confessavano che
comandati a quel passo non avrebbero ubbidito; ma i più lodavano
l'ubbidienza di quei sessanta come indizio di gran virtù, e
testimonianza del più alto valore.
A Santo Stefano
Garibaldi aveva fretta di partire, ma non aveva fatto imbarcare le
compagnie per questo. Alcuni dei suoi uomini per cattiveria o per
braveria, avevano dato noia a qualcuno di Talamone, ond'egli,
sdegnato, si era risolto a levar tutti da terra. Così i due vapori
stettero carichi all'ancora tutta la notte dall'8 al 9; e solo
all'alba salparono pel golfo a Santo Stefano, breve tratto. La
cittadetta si svegliava. Viste dal porto, le sue case parevano
edificate l'una a inseguir l'altra su su, per arrivare in alto a
trovar i giardini, i vigneti, gli oliveti pensili tra le rocce.
Vi scesero Bixio, Schiaffino e Bandi, per andare ai magazzini del
governo, e in qualche modo farsi dare carbone, perché la traversata
della Sicilia era ancora lunga, e poteva anche capitare di dover
andare chi sa quanti giorni, fuggendo di qua e di là pel
Mediterraneo, perseguitati dalle navi napoletane. Il Bandi s'accostò
al custode dei magazzini e cominciò colle buone a tentarlo. Ormai
sapevano tutti colà che Orbetello aveva dato armi, e in quei giorni
quel custode poteva fare uno strappo anch'egli ai regolamenti. Ma
colui nicchiava, e il Bandi non riusciva a convincerlo. Allora gli
cadde là Bixio, che preso al petto il custode fedele, lo scosse un
poco, e, miracoli di quell'uomo, il carbone andò a bordo per dir così
da sé. E andarono a bordo e viveri e barili d'acqua. V'andarono anche
per imbarcarsi stormi di bersaglieri, ma Garibaldi aveva promesso all
maggior Pinelli di respingerli, e non li volle. Tre soli che poterono
salire a nascondersi sul Lombardo, seguirono la spedizione, e
divennero poi ufficiali dei migliori nella bella compagnia.
Le armi
Durante la sosta a Santo Stefano furono distribuite le armi alle
compagnie; solenne momento! Faceva pensare a un altro ancor più
solenne, quello di quando vicina l'ora della battaglia, i reggimenti
d'allora caricavano i fucili con quell'indescrivibile ronzio di
bacchette tutte piantate a un tempo nelle canne, che dava il
raccapriccio e il cupo sentimento della morte. Quelle armi erano
vecchi fucili di avanti il '48, trasformati da pietra focaia a
percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri. Stava legata a
ciascun fucile una baionetta nel fodero cucito a un cinturone di
cuoio nero, con certa piastra da fermarselo alla vita e certa
cartucciera proprio da far malinconia a provarsela. Oggi non se ne
vorrebbe servire, per così dire, neppure un bandito. Eppure nessuno
se ne lagnò. Insieme con quell'arma, ognuno ricevette venti cartucce,
e se le mise a posto con gran cura. Quelle povere cose erano tutte le
risorse di cui Garibaldi poteva disporre. Povero Garibaldi!
Nell'ultimo momento che stette in quelle acque, un suo compagno
d'altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi
aveva perduto una gamba combattendo pei liberali del Perù, bel
soldato, vivacissimo ingegno, voleva seguirlo così mutilato com'era
anche a quella sua bella guerra. Egli dovette supplicarlo di
andarsene, e infine comandarglielo. Furono lagrime! Ma Stefano
Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da terra salpare l'ancora,
stringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva già il suo
proposito bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi.
Di nuovo in mare
Era quasi il tocco dopo mezzodì, quando il Piemonte e il Lombardo si
mossero verso l'isola del Giglio. Finalmente!
Garibaldi era stato tutti quei due giorni in angustia. Certo egli
ignorava ciò che si seppe poi, e cioè che il Ricasoli, governatore
della Toscana, aveva telegrafato al prefetto di Grosseto di "tenersi
estraneo a quanto succedeva" nel golfo di Talamone. Ma lo avesse
anche saputo, temeva del Farini, temeva del Cavour, né avrebbe potuto
giustamente lagnarsi di loro, se gli avessero fatto giungere addosso
la squadra di Persano a pigliarselo. Il momento era ben più cruccioso
che quello di Genova. Nei tre giorni della sua partenza, tutta
l'Europa avea avuto tempo di mettere il Governo di Torino alla
stretta o di catturare lui o di prepararsi alla guerra. E allora che
rovina! Le genti del mezzodì deluse e cadute nell'accasciamento; egli
e il suo partito umiliati; Vittorio Emanuele costretto a rinnegare il
pensiero unitario! Ci sarebbero voluti molti anni a rimetter su gli
animi; e intanto, prima che tornasse un'occasione, sarebbero divenuti
vecchi, sarebbero forse morti il Re, Cavour, Mazzini, lui, tutta
quella generazione; e non si sapeva che cosa sarebbe poi avvenuto.
Ora dunque egli e tutti sulle due navi respiravano contenti. Girata
la punta dell'Argentaro, ecco a destra l'isola del Giglio con la sua
costa erta e rocciosa e col suo borgo su in cima. Una freschezza, una
pace! Quanti di quei naviganti già vecchi e stanchi avranno pensato
di venirvi un dì a trovarsi un posticino lassù, per invecchiarvi del
tutto e morirvi, pensando alla loro odissea! Ma ora l'odissea non era
finita, anzi andavano a crearne forse l'ultimo canto.
Più in là del Giglio, Montecristo, l'isola dei sogni; e lungo la
costa occidentale dell'Argentaro a guardare in su torri, torri e
torri. Che strano arnese da guerra doveva essere stato quel monte! E
poi a sinistra Giannutri, luogo da capre selvatiche e da conigli.
Di là da quelle isolette i due vapori pigliarono il largo; dunque
alle coste romane non c'era proprio più da pensarci, e presto
sarebbero entrati nelle acque napolitane.
Veniva ai Mille la sera e la malinconia. Cosa si pensava di loro
nelle loro città, nei loro villaggi, nelle loro case? Davvero tutta
l'Italia doveva stare in grande ansietà. Ormai la spedizione era via
da quattro giorni; ogni istante poteva esser quello di una grande
tragedia, in qualche punto del Tirreno. Se i due vapori si fossero
imbattuti nella crociera napolitana, avrebbero dovuto arrendersi o
avventarsi cannoneggiati contro le navi borboniche, lanciarsi
all'arrembaggio da disperati, e farsi saltar in aria con esse o
pigliarsele. Chi sapeva mai! Con Garibaldi e con Bixio alla testa,
tutto era possibile. Ma se invece fossero stati catturati e menati
nel porto di Napoli, dove quel Re potesse veder Garibaldi e i suoi
là, sotto le finestre della reggia, prima di farli morire forse
tutti, o empirne le sue galere? Chi amava, pensava così e temeva e
sperava; e forse non sarà mancato chi anche peggio della cattura avrà
augurato una tempesta di cannonate sui due vapori e il fondo del mare
a chi vi era su, per tomba.
Ma i due vapori andavano ancora sicuri. E andarono tutta la notte e
tutto il giorno dipoi, che era il 10, senza veder che cielo ed acqua
come se fossero nell'Oceano. A bordo, i pavesi cantavano. Tutto era
quieto. Solo a una cert'ora prima del mezzodì, ci fu un po' di
trambusto, perché uno del Lombardo si era gettato in mare, pel dolore
di non essere riuscito a farsi inscrivere nei Carabinieri genovesi.
Fu subito fermato il vapore; una lancia vogò come saetta, giunse dove
quell'uomo si dibatteva tra le onde, e uno della lancia si chinò, lo
tirò su mezzo morto ma come fosse un gingillo. Quel forte dalle
braccia così gagliarde doveva essere, era certo il figlio di
Garibaldi. A bordo si diceva così, perché così le moltitudini fanno
la loro poesia, e infatti quel forte era proprio Menotti.
Dopo, sul meriggio, il Piemonte cominciò a filar via più spedito e il
Lombardo a rimanere indietro. La distanza s'allungava ora per ora...
Dove voleva andare il Generale così solo? Forse aveva pensato di
dividere in due la spedizione, per non correre tutti la stessa sorte,
se mai fosse stata avversa? Chi lo sapeva! Divisi, Piemonte e
Lombardo, l'uno o l'altro sarebbero riusciti ad approdare, e
riuscendo tutt'e due, una volta sbarcati, facile sarebbe stato
riunirsi nell'isola.
Era un nuovo dolore per quei del Lombardo, poiché se Bixio era Bixio,
ben più fortunati erano coloro che si trovavano a correr le sorti del
Generale, ora che la prova era così vicina. Finire con lui come che
fosse, ognuno se lo poteva augurare.
In un certo momento, mentre gli animi erano agitati così, Bixio
chiamò tutti a poppa. Era furioso: Aveva scaraventato un piatto in
viso a uno che s'era lamentato dei superiori, e aveva perduto a lui
il rispetto. - Tutti a poppa! -
E Bixio di lassù, dal ponte del comando, fremente come un'aquila
librata sull'ali, già per piombare sulla preda, parlò:
"Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo.
Sono stato naufrago, prigioniero, ma son qui e qui comando io. Qui io
sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio. Dovete
ubbidirmi tutti: guai chi osasse un'alzata di spalle, guai chi
pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col mio uniforme, colla mia sciabola,
con le mie decorazioni, e vi ucciderei tutti. Il Generale mi ha
lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi
impiccherete al primo albero che troveremo, ma in Sicilia, ve lo
giuro, vi sbarcheremo."
Veramente esagerava, perché l'atto di colui che lo aveva offeso era
affatto individuale, e non meritava quel suo fiero discorso. Però
quand'egli ebbe finito e voltò le spalle, forse per non farsi vedere
commosso, tutte le braccia erano alzate a lui, tra grida di lode. Ma
da quel suo discorso parve a tutti di aver indovinato che il disegno
di Garibaldi era proprio di tentar lo sbarco, egli e Bixio, ognuno da
sé. Difatti il Piemonte era già quasi fuori della lor vista, sicché
prima che fosse notte fatta, non ne scorgevano neppur più il fumo. E
passò sul Lombardo un soffio di gran malinconia. Erano congetture. Di
certo vi era che cominciava la notte dei pericoli veri. Ormai la
marineria napoletana doveva sapere da un pezzo che la spedizione era
in mare, e che si era forse già tesa tutta davanti all'isola ad
aspettarla. Garibaldi andava ad esplorare.
Egli, prudentissimo e in guerra sempre geloso del proprio segreto,
soltanto dopo salpato da Santo Stefano, poiché allora nessuno avrebbe
più potuto propalar nulla, aveva detto al suo aiutante Turr di
chiamargli Crispi, Castiglia e Orsini siciliani, per determinare il
punto di sbarco. E in quella conferenza, abbandonato il suo primo
pensiero di scendere a Castellamare del Golfo, aveva deliberato di
tentarlo a Porto Palo, sulla costa tra Sciacca e Mazzara, dove è fama
che il 16 giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni che
invasero l'isola, chiamati e guidati da Eufemio di Messina. Ma
certamente questo fatto di mille anni avanti non entrò per nulla
nella scelta di Garibaldi: perché né egli, né quegli uomini che
stavano con lui, se anche lo sapevano, erano teste da fissarvisi su.
Comunque sia, per andare a Porto Palo, i due vapori dovevano fare
falsa rotta verso la Berberia, e poi, se le acque parevano libere,
voltar di colpo verso Sicilia a trovarlo.
Ma assai dopo il mezzo di quella notte dal 10 all'11, Garibaldi
giunto presso l'isoletta di Maretimo, che nel gruppo delle Egadi è la
più lontana dalla costa di Sicilia, deliberò di fermarsi celato
dall'isoletta e a lumi spenti, per aspettare il Lombardo. Da ponente
e da tramontana vedeva i fanali delle navi napolitane in crociera, e
in quei momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempi quasi favolosi
di Rio Grande d'America. Stato un pezzo in quel silenzio come in
agguato, inquieto pel Lombardo che non appariva, tornò indietro per
cercarlo. E coloro che stavano sul Lombardo e che a quell'ora
vegliavano, quando rividero il Piemonte lo credettero una nave nemica
che corresse loro incontro a investirli. Lo credette lo stesso Bixio.
Piantato sul suo ponte, egli fece levar su tutti e inastar le
baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vapore, e al
timoniere di voltar tutto a sinistra, per andare alla disperata
addosso a quel legno. A prora Simone Schiaffino, capitan Carlo
Burattini d'Ancona, Jacopo Sgaralino di Livorno, con dietro una
folla, stavano pronti per lanciarsi all'arrembaggio, tutto il ponte
del Lombardo fremeva, e mancava poco al grand'urto. Ma allora sonò la
voce di Garibaldi:
- Capitan Bixio!
- Generale! - urlò Bixio. - Indietro! Macchina indietro! Generale,
non vedevo i fanali.
- E non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica? -
La commozione era stata così grande, il passaggio dallo sgomento,
dall'ira, dalla ferocia alla gioia così repentino, che la parola
'crociera' non fece quasi niun senso, e tutto fino a un certo segno
tornò quieto. Intanto Garibaldi e Bixio si concertarono, poi i due
vapori ripresero la via l'un presso l'altro verso l'Africa, sempre
però il Piemonte un po' avanti. Così andarono fino all'alba, e per le
prime ore del mattino, in quell'acque tra la Sicilia e le coste di
Barberia, ma senza mai perder di vista il gruppo delle Egadi; Levanzo
lontana, Maretimo più in qua, ancor più in qua verso loro la
Favignana. A bordo del Lombardo un Galigarsia, nativo di
quell'isoletta, povero milite che doveva morire quattro giorni dipoi
a Calatafimi, diceva ad un gruppo di quei suoi compagni che in
quell'isoletta così bella v'era un carcere profondissimo sotto il
livello del mare, dove stavano chiusi sette compagni di Pisacane
sopravvissuti all'eccidio di Sapri. Condannati al patibolo e poi
graziati, morivano ogni ora un po' in quella fossa maledetta.
Ma il sentimento del pericolo presente, la maravigliosa vista delle
cose in contrasto col disgustoso stato in cui tutti si trovavano,
pigiati da tanto tempo su quel legno, non lasciavano quasi posto alla
pietà per chi dolorava altrove. Del resto, l'ora era decisiva: o
presto quei miseri sarebbero usciti liberi, o avrebbero avuto dei
nuovi compagni.
La Sicilia!
Tutti intanto sui due legni stavano accovacciati per ordine
severissimo dei Comandanti, ma tutti guatavano dall'orlo dei
parapetti certi monti che dapprima parevano nuvolaglia e che
svolgevano via nell'aria vaporosa i loro profili sempre più netti.
Quei monti per quei cuori eran già tutta la Sicilia che si animava,
che esultava, che cantava alla loro venuta. E poco appresso, quando
cominciò ad apparire una striscia bianca tra mare e terra, si diffuse
la voce che là fosse Marsala.
Marsala! Tra quella e i due vapori erano libere le acque. Che
fortuna! Pareva che quella striscia bianca e tutta la terra movesse
loro incontro, tanto la distanza si stringeva, tanto i due legni
filavano agili, aiutati anche da un po' di ponente che appunto allora
si era messo. Dunque ancora forse qualche breve ora, e i due vapori
avrebbero atterrato. Tutto dipendeva da questo, che non si
staccassero da Marsala navi da guerra a incontrarli a cannonate. Ma
la speranza era grande.
Sul ponte del Piemonte che andava sempre avanti, quei del Lombardo
vedevano Garibaldi circondato da un gruppo dei suoi, coi cannocchiali
all'occhio. Guardavano due legni da guerra bianchi, ancorati nel
porto. Ad un tratto il Piemonte rallentò, si fermò quasi, pigliò su
qualcuno da una barca peschereccia che veniva da Marsala. E da colui
Garibaldi seppe che quei due legni erano inglesi; che dal porto di
Marsala, nella notte, n'erano partiti due napolitani per Sciacca e
Girgenti; che in quella mattina stessa delle milizie venute il dì
avanti eran tornate via dalla città, dirette a Trapani. La fortuna,
dunque, era proprio tutta dalla parte di Garibaldi! E il Piemonte
filava e il Lombardo dietro con Bixio, che non sapendo ciò che
Garibaldi sapeva, tempestava i suoi di star giù, minacciava ira ai
marinai se gli sbagliassero manovra: Ma di sbarcare era anch'egli
sicuro: anzi a un certo momento che passò vicino al suo un piccolo
legno inglese, egli gridò: "Dite a Genova che il general Garibaldi è
sbarcato a Marsala oggi 11 maggio, alle una pomeridiana!"
Quella sicurezza di Bixio passò in tutti i cuori. Perciò non fece
quasi senso l'apparizione di due pennacchi neri, lontani, in giù a
destra; fumo di due navi da guerra certo, che dovevano venire a
furia. Fulmini se mai giungessero in tempo! Ma esse quel tanto spazio
non potevano divorarselo; la terra era ormai vicinissima: si
distingueva già il molo e fino la gente. Un altro po' di ansietà,
poi...
Lo sbarco
E poco appresso il Piemonte imboccava il porto, e vi si andava a
posare in mezzo come in luogo suo. Bixio, nella rapina dell'animo
tempestosa, lanciò il Lombardo come un cavallo sfrenato, andasse pure
ad investire, a spaccarsi, magari a sommergersi, tanto meglio! Così,
una volta sbarcati, quelli che vi stavan su avrebbero capito che non
v'era più via di ritorno. E si fermò così fuori del molo destro, a
poche braccia da quella riva. Era il tocco dopo mezzodì. Nessuna
poesia potrà mai dire l'anima di quella gente in quell'ora.
Ecco il momento degli uomini di mare. Benedetto Castiglia, capo della
marineria da guerra sicula nel 1848; capitano Andrea Rossi da Diano
Marina, capitan Giuseppe Gastaldi da Porto Maurizio, Burattini, Assi,
Sgarallino, Schiaffino e tutti quelli che com'essi erano marinai,
scesero a raccoglier nel porto quante barche vi si trovavano. E per
amore o per forza le fecero lavorare.
Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le
artiglierie dai due vapori, perché in men di due ore quelle navi che
si vedevano sempre più vicine potevano giungere a tiro e fare una
strage. Intorno al Lombardo e al Piemonte parve un finimondo.
Intanto Turr con Missori, Pentasuglia, Argentino, Bruzzesi, Manin,
Miocchi, discesi primi, salirono alla città, su cui cominciavano a
sventolare bandiere d'altre nazioni, ma le più inglesi. E dalla città
alcuni cittadini calavano al porto timidamente. Dei ragazzi li
precedevano a corsa; sopraggiungevano frati bianchi, che davano
poderose strette di mano a quegli strani forestieri sbarcati in armi
e tutti vestiti alla borghese, salvo pochi in qualche divisa
piemontese o in camicia rossa, forse una cinquantina. E quei frati
facevano delle domande strane, da curiosi ma semplici; e udendo da
uno dir che era di Venezia, da un altro di Genova, di Milano, di
Roma, di Bergamo, inarcavano le ciglia, maravigliati come se l'esser
essi potuti giungere nella loro Sicilia da quelle città, fosse cosa
quasi fuori del naturale.
In un'ora o in un'ora e mezzo al più, tutta la spedizione fu a terra.
Qualcuno si ricordò che quel giorno era venerdì, malaugurio; qualcun
altro disse che era pur venerdì il giorno in cui Colombo partì da
Palos, e che andassero al vento le superstizioni...! Ma a un tratto
tuonò una prima cannonata. Le navi borboniche giungevano a tiro.
Erano tre: due a vapore più vicine, la terza a vela tirata a
rimorchio da una di esse e lasciata poi indietro per far più alla
lesta. Ma anche quella si avvicinava. E avrebbe potuto tirar qualche
poco prima, ma avevano indugiato alquanto i lor fuochi, perché i due
legni inglesi Argus e Intrepid ancorati nel porto avevano pregato a
segnali di bandiere di non tirare, finché i loro uffiiciali da terra
non fossero tornati a bordo. Difatti dei marinai in calzoni bianchi
uscivano da Marsala e scendevano frettolosi al mare. E allora quelle
navi cominciarono a sfogarsi contro gli sbarcati, le due a vapore con
tiri quasi in cadenza, quella a vela addirittura a fiancate.
Però i loro proiettili o davano in acqua, sguisciando poi a rotolar
sulla riva già mezzi morti, o non oltrepassavano guari la linea del
molo. Cadde qualche granata in mezzo alle compagnie già ordinate, ma
queste pronte, si gettarono a terra e lasciarono scoppiare: una di
quelle colpì e sfasciò mezzo un casotto da doganieri del molo;
un'altra fece tremare la settima Compagnia, passandole parallela alla
fronte, così che due braccia più a sinistra la mieteva tutta. "Alte
le teste!" gridò Cairoli; e la Compagnia stette salda.
Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi
regolavano la corsa a gruppi. Un po' curvi, un po' carponi, un po'
ritti, regolandosi alle vampate dei cannoni nemici, correvano quei
gruppi su per il pendio verso la porta della città e vi entravano.
Cara Marsala! E di qua e di là si spandevano per le vie traverse,
perché in faccia a quella maestra era andata a porsi una delle
fregate, e tentava, coi suoi tiri, d'infilare la porta. Poca gente
per quelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d'altri usci e
dalle finestre donne e uomini guardavano paurosi; e ve n'erano che
applaudivano, i più parevano gente trasognata.
Garibaldi, sbarcato degli ultimi, saliva anch'egli ma lento alla
città, portando la sciabola sulla spalla come un contadino la zappa.
E ogni poco si volgeva a guardar il porto. Gusmaroli e altri pochi
che lo seguivano, avrebbero voluto portarlo via di peso dal pericolo
d'essere ucciso o soltanto ferito in quel primo istante. Senza di lui
non si sapeva cosa sarebbe stato di quel gruppo d'uomini, fossero pur
molti i grandi e i forti tra loro. Egli da solo era un esercito. Ma
nessuno osava dirgli che si guardasse, nessuno, neppur Bixio, venuto
via addirittura l'ultimo da bordo. Egli aveva voluto prima far
portare a terra tutto ciò che gli era parso buono a qualcosa, poi non
avendo più nulla da farvi, aperti egli stesso i rubinetti delle
macchine affinché il Lombardo s'empisse d'acqua, era disceso.
Intanto le navi borboniche continuavano a tirare. E fu saputo subito
che le due fregate a vapore si chiamavano Stromboli e Capri, e che
quella a vela, tanto maestosa, era la Partenope. Ah! La Stromboli!
V'erano tra gli sbarcati quei tali sette che vi avevano navigato su
nel 1859 fino a Cadice, con gli altri deportati che dovevano andare a
finire in America. Ora la riconoscevano ai profili. Non erano più
quei tempi, sebbene fossero ancora tanto vicini: né era più l'11
luglio del 1849, quando, comandata da un Salazar, la Stromboli aveva
inseguito i trabaccoli siciliani che, fallito loro lo sbarco in
Calabria, andavano a rifugiarsi nelle Ionie. Lo Stromboli allora
aveva issato bandiera inglese, perfidamente ingannando quei
siciliani, e li aveva catturati e condotti a lunghe pene nelle
carceri dei Borboni. Adesso era lì mortificata con quegli altri due
legni, cui non restava che pigliarsi il Piemonte per menarlo via.
Quanto al Lombardo l'avrebbero dovuto lasciar là giacere, come un
mostro marino sputato sulla spiaggia.
Testimoni di quei fatti stettero i due vapori inglesi, ammirando la
discesa e la prontezza e l'ordine con cui tutto era avvenuto. E non
sapevano che si sarebbe subito gridato e ripetuto poi lungamente pel
mondo che essi avevano aiutato Garibaldi, e che anzi per aiutarlo
s'erano trovati là apposta. Furono voci false. L'Argus stava in quel
porto da parecchi giorni per proteggere gli inglesi residenti in
Marsala, L'Intrepid v'era giunto di passaggio da poche ore, e poche
ore dopo se n'andava per Malta.
Il proclama
A guardia del porto, se mai dalle navi borboniche sbarcasse della
gente, rimasero la 7° Compagnia e i Carabinieri genovesi. Con le loro
infallibili carabine, quei genovesi, che, per dir così, davano in una
capocchia di chiodo a trecento metri, avrebbero presto levato ogni
voglia di sbarcare a chi l'avesse tentato. Da mare dunque Garibaldi
non aveva da temere. Da terra sì. Per questo mandò ricognizioni verso
Trapani e verso Sciacca, fece uscire dalla città quanto poté più
delle Compagnie, fors'anche non si fidando dei vini del paese pei
loro effetti sulle teste di quei suoi uomini, i quali in cinque
giorni non avevano mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte
quasi imputridita. Per esplorare il paese montò egli stesso sulla
cupola della Cattedrale, cui passarono subito ben vicine due granate
delle navi che avevano visto gente lassù. Disceso andò al Municipio,
e di là disse alla Sicilia la sua prima parola:
"Siciliani!
Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi, accorsi alle vostre
eroiche grida, avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con
voi, ed altro non cerchiamo che di liberare il vostro paese. Se
saremo tutti uniti sarà facile il nostro assunto. Dunque, all'armi!
Chi non prende un'arma qualunque, è un vile o un traditore. A nulla
vale il pretesto che manchino le armi. Noi avremo i fucili, ma per il
momento ogni arma è buona, quando sia maneggiata dalle braccia di un
valoroso. I Comuni avranno cura dei figli, delle donne, dei vecchi
che lascerete addietro! La Sicilia mostrerà ancora una volta al
mondo, come un paese, con l'efficace volontà d'un intero popolo,
sappia liberarsi dei suoi oppressori."
Di questo proclama, affisso alle cantonate di Marsala, furono mandati
esemplari alle città vicine, e lontano alle squadre che tenevano i
monti. Bisognava che la gran voce andasse, e infiammasse la
rivoluzione già quasi vinta.
I Marsalesi leggevano e cominciavano a comprendere, coloro che cinque
giorni avanti non avevano osato insorgere al grido di Abele Damiani,
loro concittadino, adesso pigliavano animo, seguisse poi ciò che
potesse, perché con quegli italiani c'erano pur Crispi, La Masa,
Orsini, Palizzolo, Carini, tutti dei loro, proprio dell'isola, e
tutti già celebri fin dal '48. E poi avevano visto Lui, Garibaldi in
persona. Se la colonna del generale Letizia, che il giorno avanti
aveva fatto la sua comparsa minacciosa, e se n'era andata credendo di
lasciarsi dietro tutto tranquillo, fosse anche rinvenuta; avrebbero
avuto da far con Garibaldi, con quei suoi ufficiali facili a
riconoscersi per uomini di guerra sul serio, con quella gente un po'
d'ogni età ma pratica d'armi e disciplinata, con loro infine e con al
loro città che si sarebbe difesa.
Anche il popolino pigliava via via confidenza con quei forestieri.
Nelle taverne, nelle botteghe dove essi entravano per rifocillarsi e
provvedersi di qualche cosuccia necessaria, la gente faceva subito
folla. E si tratteneva a sentirli parlare. Come erano buoni e
cortesi! Le donne osservavano che molti portavano i capelli lunghi,
cosa strana per soldati, e che avevano gli occhi azzurri e le mani e
i panni indosso da veri signori. I bottegai ricevevano le monete con
su l'effigie di Vittorio Emanuele, mirando e facendo mirare i gran
baffi del Re di cui avevano sentito parlar vagamente, domandavano se
Garibaldi fosse suo fratello. Davano i resti in mucchi di monete
luride e fruste, e facevano tutto gli uni e gli altri con gran
fidanza. Quelle non erano ore da inganni.
Correvano intanto dei racconti curiosi di particolari minuti dello
sbarco, un fatterello seguito qua o là, a questo o a quell'altro di
questa, di quella Compagnia. Faceto, nel serio, ma vero, si diceva
che appena sceso a terra, un Pentasuglia, pratico del mestiere, era
entrato nell'ufficio del telegrafo, dove l'impiegato aveva appena
finito di annunziare a Palermo e a Trapani che gente armata sbarcava
da due legni sardi. Ripicchiavano appunto da Trapani, domandando
quanti fossero gli sbarcati; e il Pentasuglia aveva risposto egli
stesso: - Mi sono ingannato, sono due vapori nostri. - Poi, stato un
istante ridendo a sentirsi dare dell'imbecille da Trapani, subito
aveva tagliato il filo.
*
Dunque la gran notizia era andata, e a quell'ora la avevano già a
Napoli nella reggia. Ivi che sgomento e che collera! Se ne
aspettavano ben altra. Il giorno 6 avevano saputo della partenza di
Garibaldi da Genova, e protestato col telegrafo a tutte le Corti
d'Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva aver favorito. La
mattina del 7, il Re era andato a far le sue divozioni a San Gennaro,
e il Governo aveva mandato ordini alla flotta "d'impedire a ogni
costo lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la forza; di
catturare i legni." Poi erano stati quattro giorni d'angoscia
mortale. E ora lo sbarco era avvenuto! Ma ancora assai che l'invasore
era andato a mettersi dal punto più lontano dalla Capitale! Tempo e
spazio per schiacciarlo non sarebbe mancato. Pure il colpo era
tremendo.
Ancor più tremendo il colpo doveva essere sentito a Palermo, dove il
luogotenente del Re, principe di Castelcicala, e i generali e
l'esercito avevano così vicino l'uomo temuto. Chi sapeva mai in quale
trambusto era la gran città, se anche la popolazione era già venuta a
conoscere che il Garibaldi annunziato da Rosolino Pilo stava in
Sicilia davvero?
Intanto a Marsala bisognava vegliare. Potevano giungere nella notte
numerose truppe da Trapani, da Sciacca, dal mare; e l'impresa
garibaldina, così ben riuscita nella traversata e nello sbarco,
finire là in quella piccola città come già quella di Pisacane a
Sapri.
Ma la notte passò tranquilla; verso l'alba furono ritirati gli
avamposti, raccolte le compagnie e tutto approntato per la prima
marcia verso l'interno.
In marcia
Alla chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale. Ognuno
sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato; ognuno, per quanto
piccolo, aveva coscienza della propria responsabilità. Quasi staccati
dal mondo, ridotti per dir così in un campo chiuso dove erano discesi
a mettersi da sé, comprendevano, chi più chi meno, molti forse
confusamente, che trovarvisi non voleva dire soltanto essere in
guerra contro altri soldati ne' quali da un'ora all'altra si
sarebbero imbattuti; e che quella che erano venuti a cercare non era
una guerra come tutte le altre. Vincere dovevano ad ogni costo,
perché dall'isola non potevano più uscire che vincitori; ma
soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza
dunque che ognuno desse tutto sé stesso, e che tutti insieme si
facessero amare dal popolo siciliano per virtù e purezza in tutte le
azioni. Perciò si udirono fieramente rimproverar dai compagni certi
pochi che nella notte s'erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da
Milano, piccolo soldatino della 6° Compagnia, di diciannove anni, uno
dei quattro fratelli che l'anno avanti erano stati Cacciatori delle
Alpi, diceva che chi era là per aiutare quel mondo a mutarsi, doveva
badare ad essere austero ancor più che prode. - Per di più, quella
che stava per accendersi era sotto un certo aspetto una vera guerra
civile. E se per quella trafila doveva passare l'Italia a divenire
nazione, bisognava badare a farsi onore e a far onore anche al nemico
pur vincendolo, per lasciargli possibile l'oblio della sconfitta
senza viltà, e facile e pronto il ritorno all'amore.
Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non
avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli, così come uno quasi senza
che se ne avveda si ritempra d'aria pura.
Schierate fuor di Marsala sulla via che mena a Sciacca, stavano tutte
le compagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello e
fresco, la guazza sull'erbe magre di quello spiazzo pareva quasi una
brinata. Il mare dormiva: lontani, già verso l'Egadi, i legni
napolitani rimorchiavano il Piemonte. E per tutto era una quiete
diffusa, anche nella città che pareva avesse già dimenticato il
turbamento del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravano intorno
alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là per seguirle.
Faceva senso tra gli altri un signore, forse di trentacinque o
quaranta anni, taciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli
di là fino all'ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido
alla 6° Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e modesto.
Una tromba suonò in distanza, poi comparve Garibaldi a cavallo.
Indossava camicia rossa, portava i calzoni grigi da generale ma senza
le strisce d'argento, e in capo teneva il suo solito cappello dalla
foggia che allora si diceva all'Orsini o anche all'ungherese, come
glielo hanno poi fatto gli scultori quasi in tutti i monumenti; e gli
sventolava dietro un gran fazzoletto annodato al collo. Teneva il
mantello americano ripiegato sull'arcione davanti. Dietro di lui
cavalcavano il suo stato maggiore e alcuni delle Guide, Nullo tra gli
altri, bellissimo nella sua divisa del '59, tutta grigia con alamari
neri e galloni da sergente. Pareva col suo cavallo un solo getto di
bronzo. Il Missori indossava la giubba rossa da ufficiale con alamari
d'oro.
Al passaggio del Generale non furono presentate le armi. Egli certe
cose non le voleva. Tirò via, guardando le Compagnie molto ilare in
viso; poi queste si mossero, fianco destro, trombe in testa e
partirono. Quelle trombe suonavano le arie semplici ma pungenti de'
bersaglieri di La Marmora; il passo delle compagnie era franco,
nessuno si sentiva più mareggiare il terreno sotto, come il giorno
innanzi dopo lo sbarco; e quando spuntò il sole cominciarono i canti.
A forse un miglio da Marsala, la testa della colonna svoltò per una
via traversa che, staccandosi dalla consolare, menava verso l'interno
tra vigneti allora già in pieno rigoglio. Passati i vigneti
cominciarono gli oliveti, e pareva che quella prima marcia dovesse
condurre a vedere meravigliose colture. Verso le undici la colonna
fece il grand'alto in una conca, presso una casa bianca, fresca,
silenziosa, con a ridosso delle fitte macchie d'olivi vetusti. Là,
Garibaldi, seduto a' piedi d'uno di quegli alberi, come se fosse
l'ultimo di quella gran Compagnia, si mise a mangiar del pane. Tutta
la conca era popolata di gruppi, tutti mangiavano gagliardamente il
saporito pane di Marsala; quanto a bere, pei novellini che s'erano
imbarcati senza fiaschetta, c'era presso la casa un pozzo, e intorno
a questo molti facevano ressa contendendosi un poco d'acqua. Il
Generale guardava con certa compassione quei poveri ragazzi: "Poveri
ragazzi!" come fu udito dire egli stesso.
Ripresa la marcia, spuntato il valichetto del colle in cui giaceva
quella conca, la colonna si vide davanti una distesa ondulata
senz'alberi, senza case, il deserto. - Come la Pampa! - dicevano
alcuni che nella loro vita avevano visto l'America. E in quel deserto
s'inoltrò la spedizione, sotto un sole, ah che sole! E che peso i
panni! Felici coloro che ne avevano appena indosso tanto da non
andare scoperti.
E quella prima marcia fu una gran prova, ma nessuno rimase indietro.
Eppure c'erano dei giovanetti che ad ogni passo parevano doversi
lasciar cadere in terra sfiniti. Ma lo spirito li reggeva, e
continuavano a marciare, aiutati anche dai compagni più esercitati
che levavano loro fino il fucile, tanto che ricogliessero un po' di
fiato.
Dove mai si sarebbero fermati?
Per quanto guardassero a sinistra, a destra e davanti, nulla, mai un
ciuffo d'alberi, mai una casa. Cosa era dunque la Sicilia già granaio
d'Italia? Degli uomini pratici di campi dicevano che tutta quella
miseria dipendeva dal disboscamento, altri che dai latifondi, dal
feudalesimo, dai frati. Il fatto era che quel deserto metteva un
senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bello trasformarsi in
un esercito di legionari alla romana con la marra, la vanga, gli
aratri di Lombardia! Ma là non c'erano le acque di Lombardia; anzi
non ci si trovava neppure da dissetarsi. E alcune voci intonavano il
coro del Verdi: 'Fonti eterne, purissimi laghi...'
*
Finalmente quando già si faceva sera, apparve lontano un corpo di
casa massiccio e scuro, su di un rilievo un po' più spiccato di
quella campagna. Era il maniero di Rampagallo, quello che si chiamava
bellamente feudo, come se là il feudalesimo fosse ancora una cosa
viva. E tutto, dai muri massicci, alle finestre, alla gran porta, ai
cortili dentro, ai contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva
infatti una fisionomia d'antichità corrucciata.
Le Compagnie si accamparono davanti a quel vasto casamento su di un
pendio erboso, che dopo l'arsura della lunga giornata pareva dar un
carezzevole senso di refrigerio. A pié dei loro fasci d'arme,
mangiarono il loro pane, e in silenzio si addormentarono.
Ma i pochi che per servizio dell'accampamento vegliavano, videro di
prima notte entrar nel gran cortile di Rampagallo una piccola schiera
d'uomini, forse sessanta, condotti da tre o quattro cavalieri, alti
su degli stalloni piuttosto che sellati, bardati, con attraverso
sulle cosce dei lungi fucili. Gli uomini a piedi erano armati di
doppietta, con alla vita la ventriera per le cartucce e qualche
pugnale. Vestivano panni strani, parecchi avevano sopravesti e
cosciali di pelli caprine, e portavano in capo dei berretti quasi
frigi o dei cappellacci a cencio. I loro capi, fratelli Sant'Anna e
barone Mocarta, passarono da Garibaldi. Egli fece liete accoglienze a
quel primo manipolo che la Sicilia armata gli dava; la scena era
quasi da medio evo: pareva proprio che in quelle ore in quel luogo
quei signori fossero giunti per prestare l'omaggio a un
conquistatore.
Ma Garibaldi che sapeva ricevere come un re, nello stesso tempo
sapeva parere quasi inferiore a chi gli si presentava, onde quel
fascino e quel suo dominio sui cuori, da cui subito quei siciliani si
sentirono presi. E uscivano da quel ricevimento, magnificando.
A Salemi
A levata di sole, il giorno appresso che era domenica, la colonna si
mise in cammino. Andava alla testa la 1° Compagnia con Bixio, il
quale aveva l'ordine d'avanzarsi fino a Salemi, grosso borgo che fu
presto veduto apparire lontano in cima a un monte. Bella vista a
guardarlo, ma poveri petti! La salita lassù fu faticosissima e lunga;
però, quando le compagnie vi giunsero, provarono un forte
compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: "Garibaldi!
Garibaldi!" storpiandone il nome con alterazioni strane; ma insomma
era un vero delirio. E le campane squillavano a festa; e una banda
suonava delle arie eroiche. Via via che le compagnie giungevano nella
piazza, si trovavano avvolte da uomini, da donne, persin da preti; e
tutti abbracciavano, molti baciavano, molti porgevano boccali di vino
e cedri meravigliosi. Ma v'erano anche dei poveretti, troppi! i quali
stendevano la mano per dar a capire d'aver fame, facevano certi segni
da parer nemici se non fossero stati i loro occhi pieni di umiltà. -
E noi pure abbiamo fame! - rispondevano quei soldati stizziti, ma
parecchi davano degli spiccioli a quella povera gente, che largiva
loro dell'Eccellenza.
E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Turr. E' questo? No.
Passava Carini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e
prestanti tra i grandi della spedizione, per essa doveva essere
Garibaldi. Chi sa quale se lo immaginavano! Ma quando lo videro, quei
siciliani quasi quasi si inginocchiarono. Oh che viso, che testa, che
santo! Egli sorridendo si levò come poté dalla turba, e andò a
mettersi al suo lavoro.
Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi
tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a
quell'altra che fosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello.
Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi
drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento,
trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la
doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e
tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano
un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle
grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di
Sofia regina. E spiacevano.
Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.
Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! - dicevano i militi, e pareva
loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina
superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O
bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar
loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già
dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri
genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della
Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo
Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero
Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt'e due da Reggio Emilia,
ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da
quella parte il servizio di campo era bene affidato.
Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di
officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di
Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi
strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano
a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la
colubrina, rimessa un po' a nuovo anch'essa sul suo carretto,
facevano buona promessa che nello sparo non si sarebbero,
rimboccandosi indietro, avventati addosso ai loro serventi.
E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monaco,
raggiante di quell'allegrezza che ognuno ricorda d'aver letto in viso
ai sacerdoti del '48. Chi non aveva udito benedire la patria da
qualche pulpito, in quell'anno che pareva ancora tanto vicino? E poi
appresso, dall'oggi al domani, le chiese erano divenute mute. Pio IX
s'era disdetto, e la coscienza delle moltitudini tra la patria e la
religione s'era confusa. Pure, a non lungo andare, le moltitudini
avevano poi ripreso lume da sé, e poiché la patria doveva a ogni modo
rifarsi, o s'erano messe ad aiutar la grand'opera, o se non altro
avevano lasciato che si andasse svolgendo, spettatrici non ostili né
indifferenti. Ma laggiù nell'isola, dove il clero viveva ancora delle
passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi
patriotti.
Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane
di forse trent'anni, che parlava come se fosse uscito allora da un
cenacolo miracoloso, donde avesse portato via il fuoco degli apostoli
nell'anima e nella lingua. Piacque ma non a tutti. Tra quella gente
dell'alta Italia, v'erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli
uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo
chiamò l'Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono
il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che la
parola di lui immaginosa e ardente era una forza di più.
Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolata, e tra quello
scorcio di giornata e tutta l'altra appresso si poté calcolare alla
grossa che quegli insorti fossero già due migliaia. Non dovevano
essersi mossi da lontanissimo, anzi era da presumersi che fossero
tutti della estrema parte occidentale dell'isola; dunque una volta
che Garibaldi si fosse avanzato verso il centro, si sarebbe trovato
tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventù
pronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano
ossequenti, guatavano con occhio cupido i fucili del Mille, che per
quanto meschini erano sempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti
d'arme, essi così saldi a star al fuoco e a sparar da fermi contro il
nemico, essi così destri e fieri nei loro duelli ad armi corte, se
sentivano parlar d'attacchi alla baionetta, quasi raccapricciavano.
Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14, e poi tutto quanto
questo giorno con tedio grande e grande stizza di tutti, perché il
mal tempo li faceva indugiar lassù in quell'ozio. Ed essi erano
tormentati da un desiderio inquieto di trovarsi alla prima prova, per
esperimentare il nemico con cui avevano da fare, e di cui, non
sapendo nulla di preciso, sentivano dir le cose più stravaganti.
Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Che
faceva?
Il nemico
Da Palermo, sin dall'alba del 6, era partita una colonna comandata
dal generale Landi, vecchio di settant'anni, promosso di fresco a
quel grado. Da soldato egli aveva combattuto contro le rivoluzioni
siciliane, sin da quella del 1820, ed era venuto su grado grado in
quella milizia stagnante, che sentiva d'essere mantenuta più per
assicurare il Re contro i sudditi che per difendere il Regno. Questo
se ne stava infatti sicuro, coperto com'era dallo Stato pontificio e
protetto dal mare.
Quel Landi era un uomo pio. In marcia si era fermato a sentir messa
a Monreale, per santificare la domenica, proprio quella domenica in
cui Garibaldi con la spedizione faceva il suo primo giorno di mare.
Poi, continuando la sua via molto adagio, andando in carrozza alla
testa della sua colonna, il 12 aveva fatto sosta in Alcamo. Di là
partito la notte per Calatafimi, v'era giunto la mattina del 13,
appunto mentre Garibaldi saliva a Salemi. Da Calatafimi aveva scritto
lettere dogliose al Comandante in capo dell'isola, annunziando che
prima di marciar su Salemi, dove sapeva trovarsi una banda di 'gente
raccogliticcia', voleva aspettare un battaglione del 10° di linea che
gli avevano promesso. Ignorava ancora lo sbarco di Garibaldi,
ignorava che quelle genti raccogliticce erano i Mille con Garibaldi
in persona. Ma, il 14 sapeva già qualche cosa di più, e scrivendo
parlava di 'emigrati sbarcati'. Si proponeva d'andare il 15 ad
attaccarli. Poi risolse d'aspettar a Calatafimi, "posizione tutta
militare, molto vantaggiosa all'offensiva ed alla difensiva ed
essenzialmente necessaria ad impedire che le bande si scaricassero su
Palermo da quel lato della Consolare". E il 15, fermo nel suo
proposito, scriveva che "tentare un assalto a Salemi sarebbe
un'imprudenza ed un avventurare la colonna fra la imboscata nemica."
Mostrava dunque di ignorare il numero degli avversari ma di temerli:
e veramente spie la Sicilia non ne diede a lui allora, né ad altri
dopo; però egli li chiamava già 'Garibaldesi'. Tuttavia non nominava
Garibaldi quasi che a scriver quel nome temesse di vedersi apparir lì
innanzi il terribile uomo. Forse ripensando al passato, rammentava
che quel giorno stesso cadeva l'anniversario di due grandi fatti: il
15 maggio del 1848, re Ferdinando spergiuro aveva fatta far la strage
nelle vie di Napoli, chiuso il Parlamento, tradita la nazione; il 15
maggio del 1849, oppressa la rivoluzione in tutta la Sicilia, il
generale Filangeri era entrato in Palermo vittorioso. E rammentando,
forse quel povero Landi sperava.
*
Non si potrebbe dire se Garibaldi, pensando anche egli a quelle date,
abbia aspettato quel giorno 15 come una scadenza di buon augurio. Un
po' preso da certi fili era egli pure, e spesso la sua bella stella
Arturo guardata da lui gli aveva fatto venir su dal cuore il
consiglio buono. Comunque sia, all'alba del 15 maggio, fatto leggere
alle compagnie un suo ordine del giorno che piantava nei cuori le
risoluzioni supreme, mise il suo piccolo esercito in marcia.
Le compagnie mossero con la sinistra in testa, e così andava innanzi
alle altre la 8° bergamaschi; orgoglio di Francesco Nullo e di
Francesco Cucchi, gran ricco questi che dato di suo largamente a
denaro, adesso era pronto a dar l'anima. Ma i carabinieri genovesi la
precedevano, e le guide erano già assai più oltre di questi.
Discendeva quella gente da Salemi per le giravolte che fa la via
calandosi nella valle; e Garibaldi, fermo ancora appena fuor da
Salemi lassù, a quei che giunti a mezzo la china si volgevano a
guardarlo, pareva librato nell'aria. Il popolo della cittadetta
affollava il ciglio del monte attorno alle mura, e gridava a modo suo
gli augurii a chi se n'andava... Certamente quello sarebbe stato
giorno di battaglia, e molti di quegli uomini che partivano non
avrebbero veduto andar sotto quel sole che nasceva.
Coi Mille camminavano le squadre. Ed essi non già più così, ma le
chiamavano 'Picciotti', dilettandosi in questo nome paesano che
pareva l'espressione del confidente abbandono con cui quegli uomini
si erano messi nelle mani di Garibaldi. Per vezzo chiamavano
'Picciotto' qualcuno delle compagnie che avesse tipo più di
meridionale: carissimi pel gran valore militare, ma dolci a ricordare
anche per questa cosa da nulla, Ferdinando Secondi da Dresano
studente di legge e Giuseppe Sisti da Pasturago studente di
matematica, della compagnia Cairoli. Parevano proprio nati dalla più
bella gente aristocratica dell'isola. Altri d'altre compagnie si
erano fin vestiti da 'picciotti'; bellissimo tra tutti Francesco
Margarita da Cuggiono che col berretto frigio nero, con la giacca
mezza fatta di peli e cosciali pure fatti di pelle, pareva un tipo di
baronetto da star bene in uno di quei feudi là intorno. Avevano
smesso i panni di gala e i cappelli a cilindro, alcuni che s'erano
imbarcati a Genova forse appena usciti dal teatro o da qualche
salotto, e anch'essi vestivano alla siciliana.
Dal capo alla coda della colonna, correva come un fluido che fondeva
sempre più in un sentimento di forza e d'allegrezza tutti quegli
animi; e via via che la colonna avanzava, pareva che ognuno fiutasse
nell'aria la misteriosa presenza del nemico. A un certo punto, si
ripiegò sulla colonna un drappello di uomini che scendevano da certi
pagliai fuori di mano nella campagna. Parevano irati.
Erano quelli della mezza squadra della Compagnia Bixio, che andati
agli avamposti da quarantott'ore, erano stati via sotto la pioggia e
fin senza pane. Raccontavano che poco avanti era capitato a trovarli
lo stesso Bixio, e che li aveva assai bruscamente ripresi, come se
avessero avuto qualche gran torto. Ma essi, pazienti, da quel
terribile che non mangiava, non dormiva, tempestava giorno e notte
non lasciando quiete neppur le pietre, si erano lasciati dir tutto; e
ora lieti di ricongiungersi ai compagni, vi portarono in mezzo la
gran notizia, Sì! Il nemico doveva essere, anzi era certo non
lontano, già in posizione. Dunque tra poco la battaglia.
E intanto si vedevano le squadre dei 'Picciotti' svoltare per le vie
traverse, anche i cinquanta o sessanta che andavano a cavallo, e
allontanarsi, pigliare i monti. Dove andavano? Nessuno ci capiva
nulla.
La bandiera
Durante una breve sosta, che fu fatta fare alla colonna, passò
l'ordine di mandar la bandiera al centro della 7° Compagnia, quella
del Cairoli. Da Marsala fin là, quella bandiera l'aveva custodita la
6° del Carini. E la portava Giuseppe Campo palermitano, uno che
nell'ottobre avanti aveva tentato la rivoluzione a Bagheria presso
Palermo, e che lasciato quasi solo era fuggito dall'isola a Genova.
Ma ora tornava portabandiera dei Mille. Egli dunque con sei militi
della 6° andò al centro della 7° salutato da questa con molto onore.
E allora alla bandiera fu tolto per la prima volta l'incerato da
Stefano Gatti mantovano. Sfavillarono al sole da una parte del
drappo, ricchissimi nei tre colori, emblemi d'argento e d'oro che
figuravano catene infrante e cannoni ed armi d'ogni sorta, con su
un'Italia, in forma d'una bellissima donna trionfante colla corona
turrita. E dall'altra parte, a lettere romane trapunte in oro,
spiccava questa leggenda:
A GIUSEPPE GARIBALDI
GLI ITALIANI RESIDENTI A VALPARAISO
1855.
Su tre grandi nastri pendenti dalla cima dell'asta tutto bullettine
d'oro, brillavano pure d'oro tre parole che allora facevano sospirare
come roba da sogni impossibili ad avverarsi, tre cose che ora perché
si hanno pare siano sempre esistite: 'Indipendenza, Unità, Libertà'.
Allora volevano esprimere semplicemente delle speranze e dei voti, ma
dicevano insieme che i donatori di quella bandiera, in quelle terre
d'America da dove veniva, tra i nativi e gli stranieri, sentivano più
amari che in Italia il rammarico, la vergogna, il danno di non avere
un nome patrio come gli inglesi, i francesi, gli spagnuoli, tutti gli
europei emigrati come loro, pur sentendosi, da lavoratori, pari e
forse migliori. Ciò forse avevano voluto significare a Garibaldi,
mentre egli dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli ora
in quell'angusta valletta siciliana, tra gente nata e tenuta
nell'ignoranza dell'esistenza d'un'Italia, sventolava quella bandiera
e gettava le sorti della nazione.
Fatto un altro po' di cammino, la colonna giungeva a Vita, piccolo
borgo, case rustiche, molte catapecchie, una chiesa. Parecchi di
quelli che posarono l'occhio su quella chiesa, non immaginarono di
certo che la sera di quel giorno vi sarebbero stati portati dentro
feriti, a patire, a veder morire, a morire. Faceva brutto senso veder
la gente di quel borgo fuggire a gruppi, a famiglie intere,
trascinare i vecchi e pigliare i monti, carica di masserizie,
mandando lamenti. Pareva che fuggissero a un'invasione di barbari. Ma
quella gente sapeva cosa c'era là vicino e ricordava eccidii recenti.
La colonna traversò il borgo, e poco distante fece alto.
Passò Garibaldi frettoloso; domandò se le Compagnie avessero
mangiato; se no, mangiassero pure. Ma che cosa? Senza scomporre
troppo gli ordini, e anche ridendo giocondamente, chi volle si
adagiò, e si misero tutti a sbocconcellare il loro pane: molti
sbrancarono alquanto in certi piccoli campi di fave lì ai lati della
via, e con quel companatico fecero il loro pasto.
Allora furono viste alcune Guide tornar trottando per lo stradale che
si stendeva innanzi. Tra quelle il sessagenario Alessandro Fasola
pareva ringiovanito. Poi fu un correre di cavalli dal luogo dove
stava Garibaldi alle Compagnie, e subito s'udirono due squilli di
tromba. Tutti a posto e via come stormi, pigliarono quasi a volo un
colle a destra brullo, ronchioso, arso dal sole. Vi si piantarono in
cima ordinati.
E di lassù, oltre una breve convalle, forse a duemila metri, videro
su di un altro colle rimpetto schierato il nemico. Era un balenio
d'armi che coronava la vetta gran tratto; due macchie scure parevano
due cannoni; certe linee nette profilate nel fianco del colle
facevano indovinare dei terrazzi sostenuti forse da muri a secco;
filiere di fichi d'India rotte qua e là si spandevano dal ciglio
d'alcuni di quei terrazzi; forse nascondevano delle linee di soldati.
Su di un balzo del colle sorgeva una casetta; pochi alberi grami
lassù; in molti punti pareva la roccia nuda.
Di là da quel colle facevano sfondo alti monti. Grigio, con aspetto
più di rovina che d'abitato, si vedeva lontano in alto, a pie' d'un
castello, un gruppo grande di case, che non si sapeva ancora chiamare
Calatafimi. Nelle gole dei monti a sinistra formicolavano turbe di
gente; le squadre partite da Salemi erano anch'esse lassù; ogni tanto
vi scoppiavano delle grida.
E quelli dall'altra parte, i napolitani, videro anch'essi e lo
narrarono poi per anni. Videro quella linea che s'era formata
rimpetto a loro con movimenti non soliti tra gli insorti, rotta a
tratti da macchie rosse. E stupirono. Non capivano cosa volessero
dire, o dubitavano che quei rossi fossero casacche di galeotti
fuggiti da non sapevano quale bagno. I soldati ignoravano che fosse
là Garibaldi, ma s'accorgevano d'essere dinanzi a gente che doveva
sapere star in battaglia.
Mancava poco al mezzogiorno.
Il combattimento
Dal 1814 quando i napolitani di Murat salirono fino al Po, senza
saper bene se si sarebbero incontrati amici o nemici coi loro vecchi
commilitoni dell'esercito italico del Viceré Eugenio; e poi si
offesero scambiando con essi delle cannonate: da allora non si erano
più trovati di fronte italiani delle due parti estreme, armati per
darsi battaglia. L'ora dunque era solenne.
I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi.
Garibaldi su di una sporgenza del colle, tra certe rocce che gli
facevano riparo dinanzi a mezzo la persona, stava con Turr, Sirtori,
Tukory, osservando il nemico. Aveva dato l'ordine di tener chete le
Compagnie che non sparassero, e queste stavano chete, anzi a terra
sdraiate.
I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tutti, già un po'
più giù nel pendio verso il nemico: dietro di loro la 8° e la 7°
Compagnia giacevano stese in cacciatori a quadriglie, e così era
formata da loro la prima linea. La 6° e la 5° Compagnia sul ciglio
del colle, sdraiate anch'esse in ordine aperto formavano la seconda
linea; tutto il battaglione di Bixio, e cioè la 4°, la 3° e la 2°
Compagnia, stavano in riserva sul versante dalla parte di Vita, ma
solo pochi passi dal ciglio; più in giù, quasi alla falda, era
rimasta la 1° Compagnia, quella di Bixio, il quale la aveva lasciata
al suo luogotenente Dezza. Egli si era portato avanti forse per
trovarsi sempre vicino al Generale, per non perderlo di vista mai,
quasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarlo, o, non lo
potendo, volesse morirgli al lato.
Passavano le ore, e Garibaldi, che di solito preferiva assalire, non
si risolveva all'attacco.
Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento
italiano? Chi lo sa! Ma si può crederlo perché aveva ordinato di
portar nel punto più alto la bandiera tricolore, e di farla
sventolare. Ad ogni modo sembrava che avesse risolto
cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d'assalir primi.
E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldini,
certo Natale Imperatori della 6° Compagnia Carini, che conosceva
quella sonata, disse subito: "Vengono i Cacciatori!"
E difatti, contro il grigio e il verde del suolo, furono viste prima
come un formicolio, poi più nette, spiccate le divise cilestrine
discendere alla sfilata, agili, giù pei terrazzi del loro colle,
serpeggiando tra i ciuffi di fichi d'India. Erano addirittura due
Compagnie. Giunti all'ultima falda del colle, s'avanzarono pel po' di
spazio che faceva la valletta, e cominciarono i loro fuochi di sotto
in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi erano i
Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco delle
quadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al
tiro giudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando
molto in alto: ma alla fine cominciarono anch'essi con le loro
carabine di pochissimo scoppio, ma secco, acuto, e le palle andavano
al segno. Allora quei Cacciatori si arrestarono a scambiare ancora
pochi tiri, così da fermi, coi Genovesi. Ma subito le trombe
garibaldine suonarono l'attacco alla baionetta. Bisognava levar le
Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioni, perché i
più non avevano che dieci cartucce, e i fucili non portavano più che
a quattrocento metri. Le Compagnie, a quegli squilli, balzarono ritte
come sorgessero dalla terra improvvise, e si rovesciarono giù dal
colle una dietro l'altra, correndo scaglionate oblique giù per la
china, ma mirabilmente composte, poi s'allargarono in ordine sparso,
quando i cannoni napolitani cominciarono a trarre granate.
Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel
movimento, fatto così di lancio e con sicurezza da veterani, produsse
in loro un effetto indicibile. Ma non si sgomentarono. E fu bene,
perché per la loro mirabile resistenza meritarono d'esser lodati
nell'ordine di Garibaldi il giorno appresso; e la lode poté forse
sugli animi più della stessa vittoria riportata da chi li lodava.
Così il bel fatto d'arme era cominciato.
In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via,
lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d'Abruzzo, di
Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose
e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8
- 8° Cacciatori! - E indossavano delle divise di tela cilestrina,
giubba corta, elegante, su cui s'incrociavano pittorescamente le
corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e
foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d'allora, era
perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili
degli zuavi. Poveri ragazzi!
Come fanno stringere il cuore l'eleganza delle divise indosso ai
morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi!
Coloro che giacciono non hanno più né vita né nome, né paese né
nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro
sangue, né l'erba su cui spirarono l'ultimo fiato. Solo non li
vedranno mai più; essi son morti.
Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perché vi si
poteva patire, morire, per far trionfare un'idea, più che perché vi
si potesse provar la gioia e la gloria di vincere.
Rispettate i nemici, rispettate i feriti! - gridò Francesco Montanari
di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle - sono italiani
anch'essi! -
E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal
dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà.
A che ormai descrivere il fatto d'armi di Calatafimi?
Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all'ultima della storia
moderna, si somigliano tutte. Sono furia d'uomini contro uomini che
s'avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da
lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin
che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi "dagli
uomini sul vinto orso rissosi."
Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sé
sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come
chi riceve la morte in campo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a
Vaterloo, quando nella tragica ora della sconfitta già imminente,
grida con voluttà disperata che vorrebbe tutti nel petto i proiettili
dei cannoni inglesi rombanti nell'aria. Sublime ci pare quell'oscuro
lanciere francese, che là, in una delle ultime cariche di cavalleria,
gittò la sua lancia in mezzo a un quadrato inglese, per andare a
raccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde
egli e il suo cavallo sulle siepi di baionette, schiacciando altri e
morendo. Chi mai ci pare più grande di lord Cardigan, quando ricevuto
l'ordine di assalire la batterie russe a Balaclava, sa che vi morrà
egli, l'ultimo di sua schiatta, forse con tutti i suoi seicento
cavalieri; ma snuda la spada e gridando: "Avanti, ultimo dei
Cardigan!" galoppa alla morte come se volasse al cielo?
Ma quel Montanari e quel suo grido, son ben più degni di storia.
Quello di Calatafimi fu fatto d'arme che appena potrebbe stare come
frammento episodico di una di quelle grandi battaglie. Eppur e per
l'importanza e per l'influenza sua sulla vita della nostra nazione,
conta quanto e forse più di ciascuna d'esse per le altre. E il
Generale? L'arte di Garibaldi, mirabile già nell'aver saputo creare
in tutti i suoi un sentimento profondo, sicuro, superbo della loro
situazione, nei tre giorni avanti; in quello del fatto d'armi, stette
tutta nell'averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di
folgori, fino al momento in cui, non essendo più possibile in nessun
modo lasciare il campo non vincitori, poté abbandonar ognuno al
comando di sé stesso, certo egli che da quel momento si sarebbero
svolte le più recondite virtù e le forze e l'ingegno d'ognuno, dalla
calma pontificale di Sirtori al furore di Bixio, all'impeto geniale
di Schiaffino, all'audacia di Edoardo Herter, d'Achille Sacchi, di
cento altri, e, si può dire di tutti, perché un codardo che è uno, in
quell'ora, in quel luogo, non ci poté più essere. E il merito di
questo miracolo fu tutto del Generale. L'anima sua era entrata, era
presente in tutte quelle anime, fosse egli in qual si volesse punto
del campo. Due momenti della pugna furono esclusivamente suoi: uno,
quello di quando Bixio, che era Bixio, osò domandargli alla maniera
sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata, ed egli
rispose che là si faceva l'Italia o si moriva: l'altro, quello
dell'ultimo assalto, quando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il
ciglio del colle, su cui si erano ridotte via via risalendo le
schiere nemiche scacciate da terrazzo a terrazzo in su. Là
disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file
come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime: "Riposate,
figliuoli, poi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu in quel momento
che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonici
facevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d'essersene accorto,
e continuò a mantenere quell'aria sicura che creava la sicurezza
altrui, in quel quarto d'ora in cui, se i borbonici avessero osato
rovesciarsi giù alla baionetta, in più di duemila quanti erano
ancora, la rotta era sua. Essi invece, raccolti lassù, urlavano:
'Viva lo Re'; rotolavano sassi, e tiravano schioppettate a chi si
faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu Edoardo Herter da
Treviso, medico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita da
uomo, tanto aveva esile l'aspetto, ma i suoi muscoli erano d'acciaio.
Parlò con Garibaldi un istante, poi si lanciò su per un greppo.
'Ah piangerà tua madre!'
fu cantato di lui, e appena su, cadde riverso colpito nel petto a
morte.
In quel momento l'artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla strada,
dove alla fine aveva potuto mettersi a tiro, e un suo proiettile andò
a cadere tra i regii. Fu come il segno della ripresa, perché poco
appresso si fece come un subbuglio, e fu gridato: "La bandiera, la
bandiera in pericolo!" E la bella bandiera di Valparaiso fu veduta
salire, come se andasse da sé, trascinando dietro ai lembi delle sue
pieghe quanti vi s'affollavano presso.
Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Elia, a Menotti, a Schiaffino,
ora Schiaffino la portava all'ultima prova. E giù, staccati dalla
loro fronte, uno stormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora
le si formò un viluppo intorno, cozzo breve, fiero, feroce, vera
mischia; e la bandiera sparì, lasciando uno dei suoi nastri nel pugno
di Gian Maria Damiani. E Schiaffino, il superbo nocchiero del
Lombardo, giacque là morto.
E' questo il momento d'annunziarmi una pubblica sciagura? - gridò
Garibaldi a chi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel
momento, in un altro punto della battaglia scoppiava un urlo di
gioia... Un cannone era preso. Fumigava ancora la sua gola
dell'ultimo colpo sparato contro quelli che vi s'erano lanciati su
primi, primo Achille Sacchi da Pavia, giovanetto di diciassett'anni,
che cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacque morto.
"Ancora uno sforzo!" e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino i
moribondi; l'ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso.
I napolitani non vi ressero, si volsero, rovinarono via.
Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i
Cacciatori finivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si
ritiravano confusi giù pel declivio del colle perduto; quei
Cacciatori, come stessero in un campo a istruirsi, facevano le loro
fucilate a quadriglie, allontanandosi lentamente. Fin Garibaldi
stette a mirarli un pezzo, in quelle loro belle mosse; ma poi diede
ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il
colle, già si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse
la 6°, Carini. E quell'ultimo strascico del fatto d'arme fu presto
levato. Tutta la colonna borbonica si sprofondò nel vallone, sparì un
momento, poi ricomparve di là. Saliva l'erta per Calatafimi. La
chiudeva un manipolo di cavalli, forse mezzo squadrone, che durante
il combattimento s'era tenuto giù sullo stradale, certo aspettando di
potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece ora proteggeva
la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella gente
serpeggiare su per l'erta lunga, stendersi e di nuovo sparire poi più
su, a poco a poco, in Calatafimi.
Dopo la vittoria
Sul colle conquistato riposarono i vincitori. E cominciò subito la
raccolta dei feriti gravi, che non avevano più potuto reggersi, e
giacevano giù pei fianchi del colle, molti, troppi, per un fatto di
così pochi combattenti e di così corta durata. Tra grave e non gravi
erano 182, i morti 31. Le ferite erano orribili, lacerate, larghe,
massime quelle fatte dalle palle ogivali cave dei Cacciatori. Pochi
napolitani che i loro non avevano potuto portar via, si lasciavano
pigliar su meravigliati di vedersi trattati bene, mentre s'erano
forse aspettati d'essere uccisi. All'allegrezza della vittoria si
mescolava così quella grande malinconia. E s'era messo un vento
freddo che faceva frizzar la pelle. Calavano intanto dalle montagne
le squadre dei 'Picciotti', e invadevano il campo di battaglia,
meravigliati anch'essi del combattimento contemplato dall'alto, come
dai gradini d'un anfiteatro una lotta di gladiatori.
Garibaldi guardava sempre una strada che da ponente, per una gola,
metteva in quella specie di conca da cui sorgevano su i due colli,
quello della sua posizione del mattino e quello conquistato su cui si
posava coi suoi. Forse temeva l'arrivo di un corpo nemico da Trapani.
Ma aveva fatto mettere gli avamposti, e dato l'ordine a Bixio di
collocare le artiglierie. Aveva anche già detto di voler salire a
Calatafimi il giorno appresso, e sapeva lui per quali vie si sarebbe
incamminato. Per quella fatta dai Napolitani nella ritirata no certo:
e questo capivano tutti, perché tentar un attacco da quella parte
sarebbe stata una follia. Ma egli era allegro in viso, e ciò bastava.
Uno strano sentimento, che tutti dovettero provare, ma di cui si
accorsero e se lo spiegarono per dir così solo i più raffinati allora
e molto di poi anche gli altri, ripensando a quelle ore, fu quello
dell'isolamento in cui si trovavano. Non erano passati che dieci
giorni da quando avevano lasciato Genova, eppure pareva loro d'essere
via da mesi e mesi, d'aver navigato molto, d'aver camminato molto,
d'esser già quasi gente dimenticata. Si sapeva nell'Alta Italia che
erano sbarcati, che erano stati accolti bene? Qualche spirituale
forza dava almeno in quel momento un senso vago del dove si trovavano
e della loro vittoria? A Milano, a Genova, a Torino e nella Venezia
gemente in mani austriache, per tutti i borghi e i villaggi da dove
qualcuno d'essi s'era mosso, cosa si pensava, cosa si sperava, cosa
si temeva per loro? Ah! Un filo di telegrafo per mandare la gran
notizia alla patria e riceverne una parola. Certo da Napoli sarebbe
taciuta o mandata pel mondo svisata, falsata la notizia della
battaglia a far piangere.
E intanto erano scene di gioia, come a rivedersi dopo anni ed anni,
nell'incontrarsi fra loro amici di casa, di scuola, di Compagnia che
si erano perduti di vista durante il combattimento e che si
ritrovavano sani e salvi. Ed erano lamenti per i caduti, il tale giù
ai primi colpi, il tal altro a mezzo al colle, un altro addirittura
in cima quasi in braccio ai nemici. Andavano a cercarli, a guardarli,
a baciarli. E così i nomi dei morti e dei feriti, il modo, il come,
il dove, il quando, tutti i particolari se li scambiavano, e
parlavano commossi, ma tuttavia ancora con un po' del sentimento
egoistico d'essere usciti salvi dal pericolo in cui altri aveva
lasciato la vita. Si sa; il vero dolore, quello grande e sincero
viene dopo, quando il sangue si è rimesso in calma e la pietà si
ridesta.
Tra le Compagnie che si erano riordinate, si faceva un gran parlare
dell'importanza del fatto; qua e là in quel campo ci parevano dei
piccoli Parlamenti. Quelli che avevano sentito Garibaldi, quando
aveva detto a Bixio: "Qui si fa l'Italia o si muore," commentavano le
solenni parole, e pareva proprio a tutti di sentirsi piantato in
cuore che il fatto d'armi, piccolo in sé, era già come un'ultima
battaglia risolutiva, da combattersi ancora sì, non si sapeva dove né
quando, ma già vittoriosi. E ciò voleva dire l'Italia fatta sin da
quel giorno, su quel colle.
Il qual colle aveva tuttavia un nome di malaugurio. Era stato subito
detto che si chiamava 'Pianto dei Romani', perché ivi, più di duemila
anni indietro, questi erano stati vinti dai Segestani e dai
Cartaginesi. Ma quel nome di mestizia era un'invenzione, o per lo
meno una interpretazione errata. 'Pianto' non è che il vernacolo
siciliano 'Chiantu', o piantamento di viti; e uno n'era stato fatto
far su quel colle da un'antica famiglia Romano. E difatti, quei tali
terrazzi dovevano essere stati fatti per dei poderosi filari di viti,
sebbene allora vi si vedessero soltanto arbusti grami, e piante che
esalavano un tristo odore di cimitero. Così, e durante il
combattimento, aveva detto il livornese Giuseppe Petrucci della
compagnia Bixio, facendo parer ai vicini di fiutar davvero un'aria di
morte.
*
La notte calò rapida come nelle giornate più corte dell'anno. E in
quel crepuscolo fu commovente veder un gruppo di sei o sette
Francescani, i quali dopo aver combattuto fino con tromboni,
partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da
Castelvetrano. A quell'ora se ne andavano giù dal colle nei loro
tonaconi grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come
se tornassero da aver fatto la questua tra quei soldati che avevano
fame, e stavano divorando pane e cacio distribuito in fretta già
quasi nel buio. Poi le Compagnie si addormentarono.
Al tocco dopo la mezzanotte la sentinella dell'avamposto verso
Calatafimi diede l'alto a due persone che le venivano incontro.
- Amici, galantuomini di Calatafimi.
- Avanti. -
Tutto l'avamposto fu subito in piedi.
- Cosa volete? -
Con l'anima nelle parole, quei due galantuomini recavano che i
Napoletani avevano abbandonato Calatafimi, marciando verso Alcamo,
che stava di là, di là...
La notizia era lieta. Levava la gran preoccupazione di ciò che
sarebbe potuto avvenire il giorno appresso. Da Palermo, a quell'ora,
poteva già esser giunto per nave a Castellamare un corpo di aiuto ai
vinti, e con tutta comodità aver marciato da Castellamare a
Calatafimi. Ora se i Napolitani se n'erano invece andati, ciò voleva
dire che a Palermo non c'era un generale che avesse occhi. Bene,
bene! Quei galantuomini furono condotti da Garibaldi, che stava ben
desto nella casupola sul colle, e che gli accolse con gioia. Fatta
l'ambasciata, volevano tornarsene; ma egli, non li volendo lasciar
esporsi a pericoli, se li tenne fino al mattino. Avrebbero marciato
con lui. Ed essi non s'accorsero che forse diffidava di loro, tanto
era buona e incredibile la notizia che gli avevano portato.
*
Nel brivido che dà l'alba, prima ancora che le trombe suonassero le
sveglie, molti di quei militi, mezzo intirizziti dalla gran guazza,
giravano già pel campo a rivedere i morti. Di questi ve n'erano che
parevano dormirsene sicurissimi d'essere svegliati a lor tempo, tanta
era la pace che avevano nel volto. Così Giuseppe Belleno, così
Giuseppe Sartoriio, tutti e due Carabinieri genovesi; questo colpito
nel petto proprio nel momento che fulminava un gran fante borbonico,
mirato a prova da lui. Aveva data e ricevuta la morte in un punto.
Poco discosto giaceva Ferdinando Cadei di Caleppio, bel giovane di
ventun'anno, che adagiato sul fianco destro pareva sogguardasse
timidamente. Carlo Bonardi da Iseo non si trovava più nel luogo
dov'era caduto e rimasto morto bocconi, né per quanto gli amici suoi
cercassero là attorno vedevano le sue larghe spalle da atleta, né il
mantello che portava rotolato a bandoliera ancora nell'ultimo
istante. Cosa n'era mai stato? Invece il gran Schiaffino copriva
ancora la terra là dove l'anima sua lo aveva lasciato. Era solo un
po' scolorito in viso. In uno dei punti, dove la resistenza del
nemico era stata più forte, giaceva Luciano Marchesini da Vicenza,
col capo su d'un sasso nero che pareva un libro. "Come il Battaglia
l'anno scorso a San Fermo!" diceva Odoardo Rienti da Como. E narrava
di Giacomo Battaglia poeta, che combattendo tra i Cacciatori delle
Alpi cadde a San Fermo colpito in fronte, e tratto di tasca un suo
Dantino se lo pose sotto il capo e sul poema divino spirò. Un po' più
in su, e proprio sulla cima del colle, dove erano stati fatti gli
ultimi colpi, giaceva come un assiderato Eugenio Sartori da Sacile.
La morte che, toccandolo quasi per saggiarlo a Venezia nel '49, lo
aveva lasciato tornare alle mense patriarcali di casa sua, se l'era
preso lì. Egli no, non pareva in pace! Gli occhi non gli si erano
ancora chiusi, e, dopo tante ore, il suo viso esprimeva sempre una
gran collera da battaglia.
E via via cercati così, i morti furono rivisitati quasi tutti. Ma
alla fine bisognò pure che i vivi gli abbandonassero. Sarebbero poi
venuti i seppellitori a scavare a ogni morto una buca lungo il corpo,
ve l'avrebbero fatto rivoltar giù forse con malgarbo, poi o sul corpo
o sul dorso, poche badilate di terra e addio. Un dì, chi sa quando,
qualcuno verrebbe a scoprire delle ossa.
*
Le compagnie partirono. E per la stessa china e poi per la stessa
erta fatta dai Napolitani la sera avanti, marciarono a Calatafimi.
Ivi trovarono la gente ancora scompigliata. Quei poveri abitanti
avevano visto dalle loro case, il combattimento del Pianto Romano, e
poi i borbonici tornare vinti tra loro. Erano stati gran parte della
notte tremando che il mattino portasse loro uno scontro nelle stesse
vie della città tra le loro case: invece i borbonici erano partiti.
Ma potevano sopraggiungerne di nuovi. Insomma la fisionomia generale
era triste. Nella via maestra si trovavano a ogni passo i segni della
sosta fattavi dai vinti; nelle poche botteghe, misere assai, non
c'era più nulla; quelli avevano portato via ogni cosa.
Ma le Compagnie, a poco a poco, misero un po' di fidanza e
d'allegrezza; tanto più poi nel pomeriggio, quando fu lor letto
l'ordine del giorno di Garibaldi. Era uno de' suoi più eloquenti, e
parve la voce di tutta la patria.
"Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso
tentare ogni cosa, e ve lo mostrai ieri conducendovi alla vittoria
contro un nemico superiore per numero e per le sue forti posizioni.
Io avevo contato sulle vostre fatali baionette, e vedete che non mi
sono ingannato.
"Deplorando la triste necessità di dover combattere soldati italiani,
debbo confessare d'aver trovato una resistenza degna di causa
migliore. E questo vi mostra quanto noi potremo fare, quando
l'intiera famiglia italiana sarà riunita intorno a una sola bandiera.
"Domani il continente italiano sarà parato a festa, per la vittoria
dei suoi liberi figli e dei nostri prodi siciliani.
"Le vostre madri, le vostre amanti, usciranno nella via superbe di
voi, con la fronte alta e radiante.
"Il combattimento ci costò molti cari fratelli, morti nelle prime
file; e nei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i
nomi di questi martiri della nostra santa causa.
"Paleserò al nostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore
condussero alla lotta i più giovani e i più inesperti militi, e che
domani li guideranno alla vittoria su altri campi, a rompere gli
ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra Italia
carissima."
I nemici! Ve n'erano in Calatafimi parecchi, feriti il giorno avanti
e abbandonati là, perché per via avrebbero patito troppo. I vincitori
andavano a trovarli nelle chiese e nei conventi, li confortavano, li
carezzavano. Ed essi dicevano che non sarebbero più tornati alle loro
bandiere. Cominciava già allora la fratellanza; solo qualcuno guatava
bieco e mormorava sdegnoso.
Dai Francescani, prodigava la sua carità un padre Luigi, il quale fu
poi amorosissimo nei giorni appresso ai garibaldini portati là da
Vita, dove non c'era luogo per tenerli se non ammucchiati come nelle
prime ore dopo il combattimento. Forse quel frate si sentì prendere
fin da allora da quella forza per cui ebbe il coraggio di spogliar
l'abito, di lasciarsi portar via dalla rivoluzione nella vita nuova
italiana; e tornato al secolo divenne col tempo uomo di cattedra,
uomo di Stato in Roma, dove coloro che lo avevano conosciuto laggiù
continuarono a chiamarlo in segreto "padre Luigi".
Le emozioni del giorno avanti, il bisogno di raccoglimento, la
stanchezza, non svogliarono di visitar il paese intorno chi aveva
sentimento dei luoghi e delle cose. Uscendo dalla parte occidentale
molti andavano in poco tempo alle rovine di Segesta, e vi si
appressavano esaltandosi via via. Quelle trentasei colonne del tempio
dorico rimaste in piedi come parte di un'opera incompiuta, tanto
sembravano recenti; il teatro poco più in là, ispiravano una
malinconia magnanima. Era mai possibile che fosse stata abitata da
gente così ricca e grandiosa da aver eretto quei monumenti, una terra
ora popolata quasi solo di miseri? Quelle colonne parevano vive e
pensanti, quel tempio pareva aver ancora un'anima cui facesse dolore
vedersi intorno caprai indifferenti, nei quali tuttavia l'uomo antico
doveva starsene addormentato. Ora quei visitatori si lusingavano
d'essere capitati a svegliarlo.
La marcia ad Alcamo
Garibaldi non perdeva tempo: all'alba del 17 rimise la sua gente in
cammino.
Da Calatafimi un'ultima occhiata d'addio al colle del Pianto Romano,
poi via per Alcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche
per quelli dei feriti che, sentendo di potersi reggere, piuttosto che
starsene inoperosi, avevano voluto seguire la colonna, chi col
braccio al collo, chi con la testa bendata, chi a piede nelle file,
chi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e di Santi,
illustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni
rimasti a Vita nella chiesa o nelle case, dove mancavano di tutto e
pativano, e qualcuno stava forse per morire, sebbene il vecchio
Ripari e Ziliani e Boldrini e gli altri medici facessero prodigi
d'amore.
Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori
il proprio rigoglio, onde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che
paese! Se quel trionfo di verde fosse venuto crescendo così come
pareva, la via doveva menare davvero alla terra promessa. Intanto
qualche cosa di paradisiaco si vedeva già. La fama di Garibaldi era
andata a rinnovare le fantasie già note altrove; onde, agli sbocchi
delle stradicciole campestri che mettevano in quella via, gruppi di
donne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per mano, gli
gridavano dei saluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavano,
altre dicevano "Beddi!" ai giovani soldati.
Via via andando si scoprivano, tra le biade peste, arnesi militari
dei borbonici; e quei villici li additavano imprecando agli
'schifiosi' che li avevano gettati nella ritirata. Poi, già nelle
vicinanze di Alcamo, comparvero delle carrozze di signori che
venivano incontro a Garibaldi, tirate da pariglie superbe. A un certo
punto comparve il mare del Golfo così azzurro, sotto un cielo così
terso, che tra per quella vista e la bella campagna e il
tutt'insieme, fu un'ora di incanto. In qualche gruppo della colonna
scoppiarono canti lombardi, di quelli della regione dei laghi.
Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei
primi fiori della nostra poesia, perché tutto ciò che vi si vedeva
ricordava la 'Rosa fresca aulentissima' di Ciullo o di Cielo. Allora
la variante non importava. E poi ecco Alcamo con le sue belle case e
i suoi giardini coi muri passati dai palmizi, che si spandevano fuori
torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersi dato che il delizioso
'Contrasto' fosse avvenuto davvero con di mezzo uno di quei muri o la
siepe d'uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico!
La città, quasi moresca d'aspetto, quasi mesta, era in festa
religiosa, ma pareva allegrarsi a poco a poco, per l'arrivo di quegli
ospiti d'oltremare. E poi si esaltò addirittura per un fatto quasi
incredibile, di cui si parlava già sin dal giorno avanti in
Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire. Garibaldi si era
lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione in
chiesa. Egli schiettamente, semplicemente, in mezzo al popolo, si
sottomise alla Croce che il frate gli impose sulla spalla,
proclamandolo guerriero mandato da Dio. La scena fu un po' strana, ma
il Generale stette con tanta sincerità di spirito, che neppure i più
filosofanti della spedizione trovarono nulla a ridire. Fu un lampo di
misticismo sprigionato dall'anima di lui, formata d'un po' di tutte
le anime grandi che furono, e anche di quella di Francesco d'Assisi,
dietro al quale, nato nel suo tempo, egli si sarebbe scalzato dei
primi a seguirlo.
A Partinico
Fu dunque un giorno lieto quello d'Alcamo; ma l'altro appresso,
quando la colonna partì acclamata e marciò a Partinico, qual diverso
mondo le si apprestava a così breve distanza! Per Alcamo la milizia
borbonica battuta a Calatafimi era passata senza che nessuno le si
fosse fatto contro per impedirla; ma Partinico la aveva affrontata, e
per le vie e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A
entrare in quella città, parve di affacciarsi a uno degli orrendi
spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzione ellenica di
quarant'anni avanti.
Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti
bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano
a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come
furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d'incendi
non ancora ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati,
popolo d'ogni ceto, urlavano gloria ai militi correnti dietro a
Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli
occhi, e andò a posarsi all'altro capo, in un bosco d'olivi, mesto
come non era ancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti
alcuni sodatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei
Partinicotti e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani
disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola.
Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come
fanciulli.
Sprazzo di sereno nella tempesta, chi si potrebbe tenere dal
narrarlo! Garibaldi sedeva in quel momento a pie' d'un olivo. Aveva
appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu
presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno dei giovani della
spedizione, il quale portava una manata di fragole in un canestrino
fatto di foglie. "Generale," disse il Cenni, "questo cacciatore delle
Alpi vi offre le fragole." Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane,
poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: "Di
dove siete?" - "Genovese" rispose il giovane quasi tremando. E allora
il Generale in dialetto genovese. "E avete ancora la madre?"
"Generale sì;" e gli occhi del giovane videro allora molto lontano.
"Cosa direbbe - continuò Garibaldi - se fosse qui a vedere che mi
piglio le vostre fragole?" Ma intanto tese la mano e ne levò due o
tre per gradire, soggiungendo: "Andate, andate, godetevele voi, che
vi parranno più buone che a me."
Dopo non lungo riposo, le Compagnie si rimisero in marcia,
allontanandosi quasi con gioia da quel luogo di sangue. Alcuni
Partinicotti le seguirono armati di doppiette e di pugnali. Ve n'era
uno che pareva di bronzo, tutto vestito di velluto biancastro, con a
cintola due pistole. Il Sampieri dell'artiglieria diceva che erano
dell'aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali egli, nell'esilio
suo in Grecia, ne aveva conosciuti alcuni, vecchi ancora di quei di
Bozzaris. Si sarebbe detto che quell'uomo non fosse fatto che ad
uccidere, e invece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava
quasi scusandosi l'eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia
di Palermo, bella, grande: "Vedrete, vedrete! Il palazzo reale!" E
forse tutto il suo patriottismo era per l'isola sua, pel regno, pel
piccolo regno di Sicilia, indipendente da tutto il mondo. Seguì la
marcia di Garibaldi senza più staccarsi, divenne amico di qualcuno in
tutte le Compagnie, portava la letizia in tutti i crocchi e le buone
promesse. Nove giorni di poi, il mattino del 27, nell'assalto di
Palermo, fu visto l'ultima volta, sotto il Ponte dell'Ammiraglio,
disteso morto presso un Cacciatore borbonico, che moribondo egli
stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui.
Al Passo di Renda
Sul vespro di quel giorno la colonna garibaldina entrò nell'ombra di
un anfiteatro di monti, dove si immerse quasi a celarsi. In
quell'ora, tutto là intorno pareva minaccioso, dalle falde ronchiose
ai profili di quei monti dentati in alto e taglienti. Il po' di piano
traversato dalla strada consolare dava un senso di freddo. E il
luogo, al dire dei Siciliani, era infame per istorie truci di
masnadieri. Passo di Renda voleva dire pericolo di non uscirne vivo
chi vi si avventurasse da solo.
Le Compagnie, rifinite dalla stanchezza e dalla fame, si gettarono in
terra ciascuna, per dir così, dove fu fermata; e per un po' fu
silenzio profondo. Ma poi qua e là furono accesi dei fuochi con gli
arbusti raccolti per quelle ripe, e intorno ai fuochi quei militi si
misero come al solito a sgranocchiare il loro pane. Da otto giorni
non si cibavano quasi d'altro che di pane e cacio come il Generale,
semplice uomo che faceva divenir semplici tutti e senza voglie, senza
bisogni.
Quella sera si mise a dormire in un cantuccio di quell'accampamento,
tra corte rocce ferrigne, dove i più novelli tra i suoi andavano
timidamente a passargli vicino per guardarlo. Ma era veramente
Garibaldi quell'uomo coricato su quella povera coperta, sotto quel
mantello, con la sella del suo cavallo per origliere? Ed era
Dittatore, e voleva levar via dal trono il Re delle Due Sicilie, egli
così povero e che riposava così tranquillo, senza guardie né nulla?
Pareva un sogno. Contemplatolo un poco, quei giovinetti se ne
tornavano alle Compagnie, a dire che egli dormiva e che perciò tutto
doveva andar bene. Ma tutti sentivano di trovarsi a una breve
camminata da Palermo, da dove un generale un po' ardito avrebbe
potuto condurre una colonna a sorprenderli; e guai se anche un'altra
colonna mandata a sbarcare a Castellamare, per Alcamo e Partinico,
per la via stessa che essi avevano fatta, fosse giunta alle loro
spalle.
Invece quella notte passò quieta, senz'altra noia che d'un po' di
pioggia. ma all'alba, che bella sveglia! Da un'altura di
quell'anfiteatro scese sul campo improvviso un suon di banda, che
parve venuta dall'infinito a far una melodia nota, ma tal quale come
laggiù non gustata mai da nessuno in nessun teatro del mondo, e
nemmeno in cuore dal Verdi, che l'aveva creata. Era il suo bolero dei
'Vespri Siciliani'. Benedetto lui! L'anima sua tornava a soffiare
l'entusiasmo in quei cuori, in quel luogo, come già sul mare da
Quarto a Marsala coi canti dei 'Masnadieri', col coro del 'Nabucco'
"Va' pensiero sull'ali dorate." Una voce di tenore limpida e potente
s'accordò subito ai suoni, adattandovi i bei versi del 'Giovanni da
Procida' del Niccolini "Le Siciliane Vergini," e qualche parte del
campo applaudiva.
Ripetuta tre o quattro volte, quell'aria dei 'Vespri' mise una grande
agitazione. E non era più lo scoppio di gioia idillica d'Elena, che
nel melodramma scende dalla scalea incontro al coro di fanciulle, che
le portano fiori; ma passava come un vento eroico di martirio, che
invitasse amici e nemici a morir insieme per la pace del mondo.
Il piccolo esercito si levò tutto; e allora fu un andare verso un
punto dove la strada consolare mette da quell'orrido passo alla vista
della Conca d'Oro. Tutti si fermavano là incantati. Vedevano giù in
basso quel paradiso; e in fondo Palermo che pareva infinita; e nel
tremolare della marina un fitto di antenne, navi da guerra certo le
più, navi di tutta Europa e forse d'America, corse là per vedervi la
gran scena che vi doveva avvenire. Di quella scena essi dovevano
essere poi attori! Ma quando, come, con quali sorti? Sapevano che
laggiù tra quelle mura stavano ventimila soldati, ma insomma v'erano
pure dugentomila cittadini. E alcuni, quasi col sentimento dei
diecimila di Senofonte quando scopersero il mare, gridavano: Palermo,
Palermo!
Di là, il vecchio Ignazio Calona mostrava gli sbocchi dei monti da
dove erano discesi i Napolitani di Florestano Pepe e di Filangeri,
nel 1820 e nel 1849. A quelle due rivoluzioni egli aveva partecipato
di venticinque anni e di cinquantatré, e si poteva immaginare con
qual animo se tanto glie ne avanzava adesso, che ne aveva
sessantacinque. E diceva con foco giovanile che nel maggio del 1849,
quando Palermo si preparava all'ultimo sforzo per respingere
Filangeri già vincitore del resto dell'isola, laggiù nella pianura
che si vedeva tra la città e il Monte Grifone, ogni giorno accorreva
gente d'ogni ceto a scavar fossati, ad alzar ripari, e che tutti
lavoravano insieme signori e plebe, anche le dame e le più nobili
fanciulle. A quei discorsi i giovani si esaltavano.
Così per tutta la mattinata fu una grande vivezza nell'accampamento,
dove quei militi si facevano giocondamente ognuno da sé le più umili
cose; si lavavano le camicie a una gran cisterna, si rattoppavano le
scarpe, si ricucivano gli strappi dei panni così mal ridotti, che
coloro che avevano indosso i più signorili parevano ormai i peggio
vestiti. Ma alle belle persone, al portamento elegante, quella
miseria dava quasi maggior risalto. Altri davano una ripulita ai
fucili o si ingegnavano di raccomodarne i guasti. I cannonieri
stavano intorno ai loro pezzi. Appoggiato alla gran colubrina,
Antonio Pievani da Sondrio leggeva il Vangelo, e lo spiegava ad
alcuni che aveva intorno. Tutti ascoltavano raccolti e pensosi, e
facevano venire in mente i Puritani di Cromwell. Passava qualche
scettico, stava un istante, poi se n'andava compreso di rispetto per
quel soldato credente.
Ma in un canto dell'accampamento v'era qualcuno che, per dir così,
teneva il posto che nei poemi cavallereschi hanno le Orche e i
mostri. Sdraiato in terra, legato mani e piedi, vestito alla
siciliana con certa eleganza, custodito da alcuni 'Picciotti' delle
squadre del barone Sant'Anna, stava un uomo grande e forte, di viso
cattivo. Guardava sprezzante e taceva. I garibaldini che andavano a
vederlo, sentivano dire che egli era un tal Santo Mele, il quale sin
dallo scoppio della rivoluzione aveva principiato a correre la
campagna con alcuni ribaldi, rubando le casse pubbliche e
assassinando gente. Aveva fino incendiato il villaggio di Calamina. E
tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia che gli pareva
d'aver diritto d'esercitare; anzi, se ne gloriava. I Siciliani che
dall'esiglio erano tornati nell'isola con Garibaldi, dicevano che
colui doveva essere 'Maffioso'; e spiegavano ai compagni la natura
d'una tenebrosa società, che aveva le sue fila per tutta l'isola, in
alto, in basso, nelle città, nelle campagne, dappertutto. Piace
rammentare che i continentali scusavano l'isola, narrando che anche
da loro vi erano state compagnie di malfattori che avevano esercitato
una giustizia di loro genio, favoriti dalle plebi delle campagne e
anche dai ricchi delle città, quando le leggi parevano torte contro
la giustizia vera; e dicevano che quelli erano passati e che sarebbe
passata anche la 'Maffia'.
Quel Santo Mele il giorno appresso sparì. Forse la 'Maffia'
potentissima gli aveva dato aiuto fino in quell'accampamento.
Noiosissima cosa, nel pomeriggio di quel giorno cominciò a piovere.
Senza tende, senza coperte era un gran brutto stare; ma il campo non
si attristò per questo; anzi, vi fu un momento di gaiezza fin troppa.
Era stato macellato un gran bove donato da un Comune là presso, e in
certi pentoloni mandati pure da quel Comune, cuochi improvvisati
cuocevano di quel bove a pezzi, e del riso. Ma quando si fu sul punto
di scodellare, e tutti si sentivano già quasi nello stomaco quel
ristoro, s'accorsero di non avere né gamelle né cucchiai, e una
risata generale empì l'aria di chiasso. Però vi fu l'ingegnoso che si
prese la parte sua di riso in una foglia di fico d'India, e allora
tutti ai fichi, e nel cavo di quelle foglie coriacee un po' di quel
cibo poterono gustarlo tutti. Quanto a vino ce n'era nel campo a
botti.
Seguitò la pioggia tutto il resto del giorno e anche quella notte,
sicché la dimane quella gente, fradicia fino alla pelle, faceva un
brutto vedere. Garibaldi guardava mesto. Egli nella notte aveva fatto
levar via una specie di baldacchino che alcuni di quei suoi militi
gli avevano formato sopra con dei mantelli sostenuti da pali, mentre
dormiva. Ma alfine anche quel giorno venne il sole, e ognuno tornò a
sentirsi bene.
Intanto Garibaldi aveva meditato una mossa. Voleva piantar nella
mente dei difensori di Palermo che egli avesse deliberato di
assalirli da Renda per la via di Monreale, e creare in essi
l'illusione che egli potesse scendere a farsi pigliare come in una
trappola su quella via. Così la sera del 20, messo in marcia il
battaglione Carini, lo fece calare nel villaggio di Pioppo, a pie'
dei monti e già sul lembo della Conca d'oro. Ivi tenne quelle
Compagnie tutta la notte. All'alba del 21 si spinse avanti egli
stesso dove erano già i Carabinieri genovesi, con le compagnie del
battaglione Bixio passate anch'esse durante la notte. Quasi subito
l'avanguardia venne alle schioppettate con gli avamposti napolitani,
mentre che a sinistra, su pei fianchi dei monti, si svolgeva una loro
ala, certo per aggirare la gente garibaldina, calarle addosso e
metterla in rotta tra gli aranceti del piano.
Quel mattino i napolitani parevano di buon umore. Ma la loro ala
girante s'abbatté nelle squadre di Rosolino Pilo, che stava a mezza
costa, e dovette arrestarsi. Allora s'impegnò lassù un fuoco
vivissimo di fucileria, a cui le squadre ressero bravamente, per più
di due ore, finché i borbonici furono costretti a ritirarsi. E giù
nel piano le Compagnie garibaldine, menate avanti, indietro e poi
ancora avanti per modo che esse stesse non ci capivano più nulla,
verso il mezzodì ricevettero l'ordine di ritirarsi. Videro Garibaldi
tornar dalla fronte col suo Stato maggiore in sì gran fretta, che
avrebbero potuto credere di doversi sentir dietro i compagni
dell'avanguardia fuggenti; ma bastò loro guardar in faccia il
Generale, e la breve ritirata di ritorno al Passo di Renda fu fatta
con calma. Risalite lassù trovarono sul ciglio del passo i cannoni in
posizione con le gole chinate verso la pianura, dove, volgendosi a
guardarla, vedevano brillar non lontano le armi dei nemici distesi.
Forse questi si apparecchiavano a farsi avanti. E allora pareva di
capire che Garibaldi avesse mirato a tirar fuori di Palermo una parte
di difensori per piombarle addosso, e se la fortuna lo secondasse,
romperli, ed entrare con essi in Palermo, che sarebbe insorta.
Invece seguì una gran quiete. Ma in quella quiete si sparse una
notizia dolorosa. Rosolino Pilo, che su quei colli di San Martino,
con le sue squadre, aveva così ben rintuzzato l'attacco dei regii,
era stato colpito al capo da una palla di rimbalzo, mentre scriveva
un biglietto a Garibaldi. Ed era morto, povero prode, con in vista la
sua Palermo laggiù, sospirata dall'esilio per undici anni. Alla testa
delle sue squadre rimaneva l'amico suo Corrao, uomo di gran coraggio
ma incolto e di poco prestigio; e così con la gran figura di Pilo
veniva a mancare una delle forze più vive della rivoluzione. Perciò
si diffuse una gran mestizia, Garibaldi fu visto afflittissimo; e
facilmente il pensiero de' suoi passava da Pilo a lui, che da una
palla poteva essere spento da un'ora all'altra.
E allora?
Marcia notturna
Venne intanto la sera, una sera cupa che minacciava una notte di
pioggia. Eppure le Compagnie furono fatte mettere sotto le armi e in
marcia, di nuovo come il giorno avanti sulla via per discendere a
Pioppo. Dunque Garibaldi si ostinava davvero a tentar Palermo da
quella parte e con un attacco notturno? Fosse pure! Gli animi erano
ben disposti, perché quello stare con la gran città alle viste e con
le spalle mal sicure cominciava a diventar fastidioso. E marciarono.
Ma là dove la via chinava, dove sul mezzodì avevano visto i cannoni
in batteria, i cannoni non c'erano più, e le Compagnie invece di
scendere, si videro fatte girar a destra per entrare in un sentiero
che non poteva menare se non sulle creste di certi monti, dei quali
nei due giorni passati nel campo di Renda avevano potuto considerare
l'asprezza. All'imbocco di quel sentiero, soldato per soldato
ricevevano tre pani da alcuni uomini, che agli ordini del capitano
Bovi, bolognese, facevano fretta ai passanti che pigliassero e
andassero. Quei tre pani volevano dire tre giorni forse di marcia per
le montagne. Erano dunque preziosi; onde i più dei soldati non
sapendo dove se li mettere, inastate le baionette ve li infilzavano,
e tiravano via col fucile in spalla sbilanciato a quel modo,
celiando. Ma come fu notte chiusa e il sentiero venne a mutarsi in
sterpeto, si fecero alquanto tristi. Sennonché a un certo punto
trovarono Garibaldi che tribolava a mandare avanti dei contadini, i
quali curvi sotto lunghe stanghe portavano a spalle appesi a quelle i
cannoni smontati, dieci o dodici per ciascun pezzo. E li esortava, e
li metteva sul gioco di moversi ognuno con tutte le sue forze, li
aiutava persino, e per insegnar loro come dovevano stare sotto la
stanga ci si metteva egli stesso. In quel mestiere lo secondavano il
Castiglia, il Rossi, il Burattini, i marinai del Lombardo e del
Piemonte, già sin da Salemi formati in una piccola Compagnia.
Con quell'esempio la colonna sfilava, un uomo dietro l'altro oramai,
ché per due non c'era più luogo. E cominciò una pioggerella che
presto divenne fitta tra quelle tenebre, dando alla gente il senso di
camminare nelle nubi. Ah le belle vie di Milano, di Venezia, di
Genova, tutte inondate di luce, a quell'ora! I pani, inzuppandosi,
cascavano giù dalle baionette, cascava qualche uomo a ogni passo;
tuttavia si rideva ancora, ma, per dir così, d'un malinconico riso
interiore. Metteva un po' di sgomento il non veder più nulla, salvo
dei gran fuochi indietro nel campo di Renda abbandonato, e un altro
gran fuoco solitario avanti, lontano, verso il quale si accorgevano
di marciare; mentre dal fondo, sulla sinistra, salivano a intervalli
i gridi d'allerta delle sentinelle napolitane. Dalla testa della
colonna veniva il nitrito d'un cavallo, insistente, selvaggio. A un
tratto s'udirono due colpi di fuoco. Fu un fremito per tutta quella
sfilata: forse l'avanguardia s'era imbattuta nel nemico. Ma poi non
si udì più nulla. E sempre tirando avanti, passò la voce che quei
colpi erano stati scaricati da Bixio nella testa del suo cavallo, per
farlo smetter di nitrire; atto proprio da Bixio che aveva voluto far
quella marcia del diavolo in sella. Era vero. Andando avanti, i
soldati passavano vicino a un cavallo spianato là morto fuori de'
piedi.
Quando fu quasi l'alba, le Compagnie si trovarono a calare dalle
ultime falde di quei monti su d'una grossa borgata. Pioveva ancora.
Credevano d'aver camminato lontano, e invece la Conca d'oro era
ancora lì davanti ad essi come quando stavano a Renda, solo che
adesso la vedevano da oriente. Mirabile marcia! Garibaldi che per
natura si ricordava così poco delle cose fatte, ebbe ragione quando,
riparlandone dopo molti anni, disse che neppure in America si era
trovato a farne fare una a' suoi, somigliante a quella del Parco. E
non un uomo si era perduto; qualche ritardatario aveva saputo
serrarsi presto alla colonna; anche i cannoni erano venuti per quelle
balze.
Ma in quale stato, povera gente! Il borgo di Parco sia lodato sempre
pel modo come la accolse. Non ci fu casa che non si aprisse a
ristorare qualcuno, a rasciugare i panni, a rifornirne che non poteva
più tener indosso i propri, ridotti in cenci, a rincalzare chi non
aveva più scarpe in piede. Ma ancora più da lodarsi quel borgo,
perché si prese in seno tutta quella gente, e se la tenne celata
tutto quel giorno e la notte appresso, senza che nulla ne trapelasse
ai borbonici, campeggianti nella Conca d'oro.
Un frate strano
Cotesto giorno, uno di quei soldati fu fermato da un giovane monaco
che egli avea già veduto girare pel borgo, e soffermarsi qua e là a
parlare coi suoi compagni. E capì subito che era un'anima tormentata
da qualche gran cruccio. Avviato il discorso, il monaco si spiegò:
avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo tratteneva.
Seduti a pie' d'una delle tre grandi croci che sorgevano su d'un
poggio a figurarvi il Calvario; quei due parlavano già come vecchi
amici. E il garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare
nella sua Compagnia, vi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali
e molti militi siciliani tornati dall'esilio; e che l'esser frate non
voleva dire; che già altri frati avevano combattuto per Garibaldi a
Calatafimi e che anzi, un francescano lo seguiva già da Salemi. Il
monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che quella
ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva
bisogno. L'unità d'Italia e la libertà pel vero popolo siciliano
erano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse
da tutte le ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate
da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per quel poco
che avevano già corso dell'isola, quanta era la miseria e quanta
l'abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e
nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un
mezzo per opprimere di più. In Sicilia era necessaria una guerra che
trasformasse la società e la vita, facendo guadagnare al popolo il
tempo che per forza gli era stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi
che la Sicilia era ancora quasi come doveva essere stata ai tempi
delle guerre servili di venti secoli avanti? Insomma quel monaco
voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli
oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto.
Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse
a quel modo, gli diceva che allora quella guerra ch'egli voleva
avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi, e molti.
E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si
doveva farla, contro di essi prima che contro d'ogni altro, ma col
Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch'egli ci si sarebbe
messo, ma che così come era fatta e per quel che era fatta, gli
pareva inutile. Se Garibaldi avesse guardato bene, si sarebbe accorto
che le plebi lo lasciavano solo coi suoi.
Allora il garibaldino accennò alle squadre che numerose tenevano i
monti qua e là. - E chi vi dice - esclamò il monaco con voce risoluta
- chi vi dice che non si aspettino qualche cosa di più? -
Il discorso era stringente. Il garibaldino che non si voleva dar
vinto, sentiva tuttavia che il monaco ne sapeva più di lui. Mirava
quel volto illuminato da una fiamma che non era la sua di mazziniano,
taceva un po' confuso e anche alquanto impicciolito. Poi egli e il
monaco si levarono di là, si abbracciarono, e questi se n'andò. Egli
discese tra i suoi con l'animo turbato e scontento. Gli pareva d'aver
imparato molto in quel colloquio, e vagamente sentiva che l'unità
della patria non era tutto, che la libertà avrebbe scoperto molte
piaghe, alle quali poi col tempo altri avrebbe dovuto pensare. E se
ne ricordò e pensò a quel monaco trent'anni dipoi, quando proprio da
quella parte dell'isola parlò più alto l'antico dolore che quegli sin
da quel tempo remoto sentiva.
I borbonici all'offensiva
Tornando ai fatti allora presenti, i borbonici si erano svegliati la
mattina del 25 maggio, certi di avere ancora in faccia Garibaldi su
al passo di Renda, dove tutta la notte erano stati tenuti accesi dei
grandi fuochi. Ma allo schiarirsi s'accorsero che egli non era più
là. Dove mai poteva essere andato? Forse la prima supposizione fu
ch'egli si fosse ritirato indietro. Non passò loro neppur per la
mente che avesse fatto quella marcia inverosimile per andarsi a porre
sul loro fianco in quel nascondiglio di Parco. E non ne seppero nulla
tutto quel giorno, perché la Sicilia non dava spie, non ne seppero
fino al mattino appresso, quando videro coronarsi d'armati il poggio
che sorge sopra quel borgo. Certo là era lui; quelle che si vedevano
non potevano essere squadre. E deliberarono di andare a trovarlo.
Il dì stesso sul vespro mossero, e parve per assalire Garibaldi in
due colonne a tenaglia. Ma non era che un movimento per saggiarlo o
forse per tirarselo giù nel piano. Egli aveva scelta bene la sua
posizione; piantato Bixio a mezza costa col suo battaglione, il
battaglione Carini aveva schierato lungo la strada che sale per quel
dosso ed entra poi tra i monti verso Piana de' Greci. I cannoni erano
in batteria. Tutto era pronto per ricevere i borbonici. Ma la loro
ala sinistra si avanzò appena a tiro di fucile, e scambiò qualche
colpo con alcuni 'Picciotti' che stavano sulle più basse falde,
l'altra non si inoltrò neppur tanto. Erano dunque soltanto
ricognizioni, ma volevano dire che per l'indomani si preparava
qualche cosa di grosso.
E avvenne.
Alla levata del sole, un gran tratto della via da Palermo a Monreale
fu visto dal Campo di Garibaldi sfavillar tutto d'armi. Pareva che i
ventimila uomini del presidio fossero usciti tutti alla campagna,
tanto era lunga quella traccia, la cui testa entrò nei fitti pomari e
continuò a marciarvi nascosta, come s'indovinava dall'accorciarsi
delle sue code.
Garibaldi, fermo nelle sue posizioni, faceva lavorar di zappa il suo
Genio e la sua Artiglieria, come se si preparasse a ricevere
l'assalto. Aveva già mandati i Carabinieri genovesi alla posta, là
dove il primo incontro degli assalitori doveva naturalmente seguire,
certo che contro le loro carabine il nemico si sarebbe sentito cader
la baldanza. Antonio Mosto doveva pensare a reggervi quanto fosse
possibile a brava gente qual era la sua, e alla fine ritirarsi la via
che tutta la Colonna avrebbe pigliata, perché Garibaldi, contro ogni
apparenza data da principio alle proprie intenzioni, aveva deliberato
un'altra volta la ritirata, quasi la fuga. Infatti, quando i primi
colpi dei Carabinieri genovesi annunziarono che la colonna nemica
attaccava, egli mise le sue Compagnie in marcia con l'artiglieria già
avviata; passò egli stesso avanti a cavallo, disse qualche parola
d'incoraggiamento, e un po' di gran passo e un po' di corsa, in una
stretta lunga parecchie miglia, la marcia fu gagliardamente condotta.
Va' e va', anche quella volta le Compagnie furono messe a una dura
prova, perché quando trafelate giunsero a veder la Piana de' Greci, e
idealmente già vi si riposavano, con quel sentimento che devono avere
sin gli uccelli migratori di oltremare all'apparire della terra; ecco
le Guide a sbarrar loro la via e additare la salita a un monte. Uno
sgomento! Ma lassù era già il Generale, di lassù chiamavano con alte
grida ben note i più rotti alle fatiche; bisognava raggiungerli
perché il nemico tentava di precederli alla Piana de' Greci varcando
quel monte. Chi non era addirittura spossato ubbidiva.
Veramente il Comandante nemico che aveva ideato quel movimento, si
era ingannato sulla possibilità d'eseguirlo, data la mobilità delle
compagnie garibaldine. Contro altra gente forse gli sarebbe riuscito.
Ma esso non aveva ancor guadagnata la prima, e già Garibaldi gli
appariva sulla seconda delle cime che credeva di aver tempo a
varcare, avanti che i garibaldini avessero percorso la via da Parco
alla Piana. Così non ci fu che uno scambio di fucilate lassù da gola
a gola; poi i borbonici se ne tornarono indietro giù pel versante
verso Parco; Garibaldi, ridisceso dalla parte sua, andò a occupare la
Piana de' Greci.
Si chiama così la città degli Albanesi, adagiata in mezzo a una
campagna grigia, grigia essa stessa e tetti e muri e tutto. Almeno
aveva tale aspetto quel giorno, vista traverso l'aria infiammata del
mezzodì, che tremolava come una sottilissima rete di fil d'argento,
sì che uno avrebbe detto di poterla palpare solo a far quattro passi
avanti. Oh che sole! Che refrigerio sarebbe stato sdraiarsi appena
giunti tra quelle case! Ma la gente della città fuggiva. Cosa le
avevano fatto credere di quei forestieri, di quel Garibaldi di cui
anche i preti, i frati e le monache dicevano bene? Sapeva quella
gente che i garibaldini avevano i borbonici alle spalle, e temeva che
in quella sua città volessero far fronte al nemico e aspettarlo a
battaglia? Certo non era cosa che dovesse incuorarla a stare. Il
fatto è che fuggiva. Ed era proprio il 24 maggio, giorno che per
costume di secoli gli Albanesi della Piana salgono al Monte delle
Rose, a cantarvi con le fronti volte a oriente, verso l'antica
patria, lamentose parole nella loro antichissima lingua.
O bella Morea,
Da che ti lasciai non ti vidi più!
Quivi trovasi mio padre,
Quivi la madre mia,
Quivi i miei fratelli sepolti ho lasciati.
O bella Morea,
Da che ti lasciai non ti vidi più.
Quella data, quell'ascesa, quel canto ricordavano loro i dolori degli
avi tre secoli e mezzo indietro, che per non soggiacere ai Turchi
s'erano rassegnati a lasciar l'Albania, e col fior degli Epiroti
condotti da Giorgio Scanderberg avevano trovato rifugio in Sicilia,
portando seco loro le immagini e quanto possedevano di più caro.
Fiera e costumata gente, orgogliosa della sua origine, che ne' suoi
canti serba vivo il sentimento di quattro secoli, e sogna ancora che
uno del suo sangue possa, quando che sia, ricondurla nella vecchia
patria lontana.
Si può dire che i Garibaldini videro appena gli abitanti della città,
perché, accampati fuori, stettero stanchi, inquieti e pensosi
d'altro. Sapevano che da un'ora all'altra il nemico che li seguiva
sarebbe apparso. I Carabinieri genovesi che, sostenuto il primo
assalto al Parco, s'erano ripiegati sulla colonna, raccontavano che i
borbonici erano almeno cinque mila, mercenari bavaresi la più parte,
con artiglieria e cavalleria. E lamentavano di aver perduto nello
scontro Carlo Mosto e Francesco Rivalta, ai quali forse quei feroci
non avevano dato quartiere. Tutti dunque erano pensosi. Che cosa
meditasse il Generale lo ignoravano; se quella fosse una manovra o
una vera ritirata, nessuno poteva dirlo. Garibaldi ne scrisse poi,
riconoscendo egli stesso che quel giorno poteva essergli funesto, se
avesse avuto da fare con un nemico più diligente.
Verso sera, le Compagnie furono rimesse in marcia, e ancora quasi con
aria di ritirarsi in fretta. L'artiglieria e i pochi carri erano già
stati incamminati verso Corleone, scortati da poche dozzine di quei
militi, tra i quali i non ben guariti di Calatafimi. L'Orsini
comandante dell'artiglieria aveva ricevuto l'ordine di andare, andar
sempre; e la colonna gli si mise dietro persuasa che omai di Palermo
non si sarebbe più parlato, se pure non c'era da dubitare che tutto
dovesse finire con quanto già s'era sentito sussurrare due volte,
cioè che Garibaldi avrebbe sciolta la spedizione, lasciando a
ciascuno la cura di mettersi in salvo da sé. L'ora correva triste.
Ma dopo aver marciato un pezzo e fatta notte, la Colonna fu menata
fuor della via Consolare a piantarsi in un bosco, dove accampò. Il
luogo era selvaggio. E ordine fu dato di non parlare, di non accender
fuoco neppure per fumare, di sdraiarsi ognuno nel posto ove si
trovava senza più moversi per nulla.
Si discusse molto per trovare se tutte le cose che Garibaldi aveva
fatto nei due giorni avanti a quello, e ciò che fece nei due dipoi,
siano state fasi d'esecuzione d'un suo concetto svolto con intenzioni
ben determinate; o se tutta una sequela di fatti, non legati tra loro
da verun concetto, e venuti quasi fortuiti ora per ora, l'abbiano
condotto al resultato glorioso d'entrar in Palermo, nel modo, per dir
così, favoloso con cui v'entrò. E così, soltanto a discuterlo, si
disconobbe tutto il suo studio di quei giorni, che fu di trar da
Palermo una parte del grosso presidio; illuder questo, creandogli
l'opinione d'aver costretto lui a rifugiarsi co' suoi lontano;
illudere il Comando supremo della capitale, farlo sicuro ch'egli non
tornerebbe, tanto che vigilasse meno e si lasciasse sorprendere.
Certo nell'esecuzione di quel suo disegno vi furono dei momenti ne'
quali poté parere il disegno stesso non fosse ben fermo, né Garibaldi
lo contesterebbe. Ma poi, che contestare quando si sa come egli
pensava e sentiva? La guerra non la faceva per gusto, e non era per
lui né scienza né arte. Si trovava al mondo in queste nostre età, in
cui essa è ancora uno dei mezzi per far trionfar la giustizia, e la
faceva senza cercarvi né gloria né altro. Anzi ne dimenticava i fatti
appena li aveva compiuti. Non è forse vero che quando, per esempio,
scrisse di Calatafimi, che pur egli stimava uno de' suoi più bei
fatti d'armi, ne scrisse quasi come uno che non vi fosse stato
presente, e non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi che
verranno, tale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua
gloria di generale, cui nessuno preparava i mezzi di guerra, che
tutto doveva improvvisare ed eseguire, solo con l'aiuto d'uomini
devoti a lui come a un'idea; e col sentimento del bene, e con la fede
in qualche cosa di superiore da cui si credeva assistito, andava
avanti vincitore sempre, almeno moralmente anche quando era vinto.
In quel bosco, la forza misteriosa superiore da cui gli pareva
d'essere assistito, gli si rivelò nello splendore d'Arturo, la bella
stella che egli sin da giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo
udirono i suoi intimi rassicurarsi in quello splendore. Ciò almeno fu
detto e creduto per tutto il campo, dove sottovoce si diceva che il
Generale era lieto perché Arturo appariva fulgido più che mai.
E se era n'aveva cagione. In quella notte, poco distante dal bosco,
per la via consolare di Corleone, il nemico marciava sicuro di andare
dietro di lui rotto e in fuga, e mandava a Palermo la notizia, e la
notizia andava a Napoli, e Napoli diceva al mondo un'altra bugia
così: "Le regie truppe riportarono una segnalata vittoria. Garibaldi
battuto una seconda volta al Parco, perduto un cannone e sconfitto a
Piana de' Greci, fuggiva inseguito dalla milizia verso Corleone.
Gravi dissensi tra i ribelli."
Invece quelle milizie non avevano battuto nessuno, non preso cannoni,
né inseguivano lui ma la sua artiglieria, di cui in quella manovra
aveva saputo disfarsi; e lui si lasciava alle spalle coi suoi, più
d'accordo che mai coi ribelli siciliani, e prossimi a far con essi la
congiunzione.
Infatti all'alba, egli salì da quel bosco a Marineo, e vi si
trattenne fino alla sera; poi marciò a Missilmeri, dove, come gli
annunziava un messaggio del generale La Masa, lo aspettavano
quattromila isolani che questi aveva raccolti per lui.
Certo la posizione in cui Garibaldi s'era posto con quella mossa era
pericolosissima. Bastava che una spia ne avvisasse il Comandante
della colonna nemica da lui così ben elusa, perché essa tornasse
indietro a schiacciarlo sotto Palermo. Tanto era ciò facile, che
nella marcia di notte, da Marineo a Missilmeri, in un momento di
sosta fu quasi da tutti creduto di averla addosso. E allora? Il senso
della lor condizione era in tutti profondo. Ma non fu nulla. Ben
presto, ripresa la marcia, apparve non lontano una gran luminaria.
Era Missilmeri che li invitava.
Vi giunsero verso la mezzanotte e vi si posarono. Quanto erano
tornati vicini a Palermo? La gente di Missilmeri diceva loro che dopo
una piccola marcia, subito salito il monte a ridosso del paese,
l'avrebbero veduta.
E la rividero il giorno appresso, da quel monte di Gibilrossa. Di
lassù guardando a sinistra potevano anche scoprire quasi tutte le
terre che avevano percorse. Oltre certi monti lontani doveva trovarsi
Calatafimi. Come vi stavano i cari feriti gravi, dei quali non
avevano più risaputo nulla? E quanti vi erano morti?
Gibilrossa
Su quella sorta d'altopiano, se si può chiamar così la cima di
Gibilrossa, formicolava il campo dei 'Picciotti' di La Masa, che vi
facevano un sussurro come nelle selve il vento. Erano forse
quattromila, ma pochi gli armati almeno di fucili da caccia. Tuttavia
davano da sperare che, avventati a tempo opportuno, anche gli armati
soltanto di picche avrebbero fatto da bravi. Aveva detto Garibaldi
che ogni arma era buona, purché impugnata da un valoroso.
I continentali si frammischiavano a quelle squadre, a farsi
descrivere nelle belle e immaginose parlate sicule le parti
dell'isola da cui erano venuti. E osservavano che anche i più rozzi
di quei 'Picciotti' avevano pensieri e sentimenti elevati, e che
riusciva loro d'esprimerli quasi con eloquenza. Ispidi all'aspetto,
erano squisiti dentro come certi frutti maturati ai loro lunghi soli.
Ma anche pareva che alcuni di essi parlassero dialetti che sapevano
di lombardo e di monferrino! E di ciò si maravigliavano appunto i
lombardi, tra i quali Telesforo Cattoni del Mantovano, angelico
giovane a ventun'anni già dottore in legge e studioso di lettere, cui
l'ingegno lampeggiava negli occhi. Ma Domenico Maura calabrese,
dottissimo uomo sulla cinquantina, che sempre tra quei giovani
parlava di Dante, diceva che se la fortuna avesse secondato
Garibaldi, essi avrebbero poi trovato da maravigliarsi anche in
Calabria, sentendo in certi villaggi parlar piemontese dai
discendenti dei Valdesi scampati dalle persecuzioni. Quelli che lì in
Sicilia avevano del lombardo e del monferrino, erano discendenti
d'avventurieri e di favoriti tirati nell'isola dal gran Conte
Ruggero, quando vi condusse sposa Adelaide di Monferrato. Dietro
quella gentildonna uscita dal paese più cavalleresco d'Italia, erano
corsi a frotte nell'isola gentiluomini d'ogni grado, e Ruggero aveva
dato loro da abitare certi luoghi, che per il numero grande di quegli
ospiti furono poi chiamati villaggi lombardi. E coloro vi si erano
misti e fusi coi nativi, greci, arabi e normanni, pur conservando le
loro consuetudini e i loro dialetti. Aidone, Piazza, Nicosia, altre
cittadette erano di quei luoghi.
Nel pomeriggio di quel giorno, apparvero lassù alcuni uomini di mare
in calzoni bianchi, e si disse subito che erano ufficiali delle navi
inglesi ancorate nel porto di Palermo, saliti per vaghezza a visitare
quell'accampamento. Sapevano essi che v'avrebbero trovato Garibaldi?
E se lo sapevano, poteva ignorarlo il Comandante generale borbonico
di Palermo? Ciò dava dell'inquietudine. Essi intanto recavano che
nella gran città tutti erano persuasi della fuga di Garibaldi, che
anzi questo si leggeva stampato sulle cantonate, che l'ufficialità
del presidio esultava, ma che n'era addolorato e sgomento il popolo,
cui la sbirraglia raddoppiava gli insulti. Diedero per primi anche la
notizia che il governo di Napoli aveva chiamato 'filibustieri'
Garibaldi e i suoi appena partiti da Quarto, denunciandoli al mondo
come pirati; e il nome di 'filibustieri' fu subito preso per titolo
di vanto da quei giovani, come da altri in altri tempi altri nomi
vituperosi. Aggirandosi nell'accampamento, quegli Inglesi si
dilettavano di schizzare i profili dei più pittoreschi tra quei
Garibaldini; si facevano scrivere nei loro taccuini i nomi di questo
e di quello, davano delle strette di mano che parevano strappi;
insomma sembravano in festa, e si facevano promettere una visita
sulle loro navi.
Ma i politici, e tra quei militi ve n'erano molti, mormoravano. Ah
gli Inglesi? Sempre dove avevano toccato avevano lasciato l'ipoteca o
fatto mercato. Berchet li aveva ben giudicati ne' suoi 'Profughi di
Praga'! Essi forse agognavano che in Sicilia si versasse tanto sangue
che non fosse più possibile nessuna pace coi Napolitani: e poi
d'accordo con Napoleone si sarebbero presa l'isola, lasciando libero
lui di farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuele, e questo di
dargliela. Napoli con le sue provincie continentali sarebbe rimasto
ai Borboni. E così salvi questi, salvato al Papa il resto del regno,
l'Austria si sarebbe baciate le mani di veder questi contenti e di
tenersi il Veneto; la Russia contentissima, avrebbe applaudito; e
l'unità d'Italia, addio!
Queste cose si dicevano a Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e
di quelli che le ascoltavano chi le credeva già quasi belle fatte;
chi ci si arrabbiava a discuterle, a negarle, e chi crollava le
spalle, ridendo. A buon conto, se era vero qualcosa d'altro che già
si sussurrava, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani
delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle
porte. Questo era bene sapere, perché il tempo incalzava, si
avvicinava qualche grand'ora, e con quella tal colonna andata dietro
all'Orsini e che poteva da un'ora all'altra apparire alle spalle,
bisognava far presto.
*
Potevano essere le sedici all'italiana antica, come si contavano le
ore laggiù, quando si sentì dire che Garibaldi aveva chiamati a sé
tutti i suoi maggiori ufficiali e i Comandanti di tutte le Compagnie.
Grande commozione, grande attesa. Il campo pareva stare tutto in
ascolto. Si seppe poi subito che in quel consiglio Garibaldi aveva
fatti due casi: o ritirarsi a Castrogiovanni e là in luogo forte
attendere che la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dal
continente altre spedizioni; oppure gettarsi su Palermo. Si diceva
che tutti i Comandanti avevano gridato con entusiasmo: "A Palermo!" e
che anzi Bixio aveva soggiunto: "o all'inferno!" Allora corse per
tutta quella gente un tal fremito, che parve s'animassero fin le
rocce. La gran risoluzione era presa: presa in quel punto di
Gibilrossa dove fu fatto poi sorgere l'obelisco di marmo che vi si
vede biancheggiare dal mare e dai monti, a ricordanza di quell'ora
suprema.
Lassù fu anche stabilito l'ordine della marcia; impegno
delicatissimo, in cui Garibaldi seppe usare tatto squisito. Egli
aveva deliberato di tentare l'assalto di Palermo dalla Porta Termini,
piombando improvviso, all'arma bianca, sulla guardia quale e quanta
essa fosse. Ma in ciò non poteva adoperare le squadre del La Masa,
neppure quelle armate di fucile, perché non avevano baionetta. Eppure
non gli pareva né prudente né giusto, privar affatto i Siciliani di
quel grande onore di andar primi o almeno coi primi, alla presa della
loro capitale. Perciò risolse di far marciare alla testa un mezzo
centinaio di Cacciatori delle Alpi condotti dal Tukory, i quali
dovevano cadere come ombre addosso alla vedetta nemica. La avrebbero
trovata oltre certe case, a pie' di un altissimo pioppo. Bisognava
impedire come che fosse che quel povero ignoto soldato desse
l'allarme alla guardia del Ponte dell'Ammiraglio; sorte strana di un
semplicissimo uomo, dalla cui piccola vita poteva dipendere tutto un
mondo di cose grandi.
Dietro quel drappello doveva marciare un mezzo migliaio di
'Picciotti', poi i Carabinieri genovesi e appresso tutte le Compagnie
dei Cacciatori delle Alpi. Ultimo in coda, avrebbe seguito il grande
stormo.
Disposte così le cose, tutti quei corpi furono condotti a pigliar il
posto loro assegnato, nei pressi del Convento che sorge lassù, per
aspettarvi che imbrunisse.
I Cacciatori delle Alpi abbandonavano così quei luoghi, dove avevano
passato una delle loro giornate più tormentose, sotto un sole feroce,
senz'altro riparo che di poveri fichi d'India. E in tutta quella
giornata non avevano ricevuto che ognuno un pane e una fetta di carne
cruda, che avevano mangiato chi rosolandosela al fuoco sulla punta
della baionetta, chi scaldandosela sulle rocce arse dal sole, chi
tale e quale. Non erano mesti né lieti, si incamminavano forse alla
morte. Ma se avessero avuto fortuna, se fosse loro riuscito di
penetrar nella gran Palermo, e farvi levar su tutto il popolo come un
mare, e pigliarsela, che grido di gloria per tutta l'Italia, che
gioia poi poter dire: io v'era! A ogni modo, meglio quel cimento
supremo, meglio che star dell'altro in quelle incertezze, per finire
alla meno peggio e tornare se forse e chi sa come, nell'Alta Italia
mortificati.
Intanto che veniva la notte, furono fatte dai Comandanti
raccomandazioni amichevoli. Marciare in silenzio; non badare a rumore
che potesse venire da qualsifosse parte; non si lasciassero impaurire
dalla cavalleria, se mai, come era da prevedersi, ne fosse capitata
sui fianchi della colonna. Contro di essa bastava formare i gruppi,
giovandosi degli accidenti del terreno, e tirare ai cavalli. Del
resto, la fortuna di Garibaldi avrebbe sempre aiutato, e all'alba
sarebbero stati in Palermo. Con certa esaltazione qualcuno ripeteva
che Bixio aveva già detto: "A Palermo o all'inferno."
La calata a Palermo
Appena fu buio, la colonna si mise in marcia e cominciò subito la
discesa. Allora, di là, fu veduto il vastissimo semicerchio di monti,
che serra la Conca d'oro, coronarsi di fuochi, come se dappertutto vi
fossero dei piccoli accampamenti. Se si volesse così avvisare il
popolo di Palermo perché si preparasse, o confondere i borbonici non
si sapeva. Ma intanto quei fuochi empivano di una forza misteriosa
l'anima della colonna in marcia, fino a crear l'illusione che da
tutti quei punti movessero su Palermo tante altre colonne di insorti,
per assalirla da tutte le porte, e trovarvisi dentro insieme con
Garibaldi, il giorno seguente, a celebrar la festa dello Spirito
Santo. Era proprio la vigilia della Pentecoste. L'anno avanti, il 27
maggio, Garibaldi aveva vinto gli Austriaci in Lombardia a San Fermo;
il 27 maggio del 1849 aveva messo piede sul territorio del Regno a
Ceperano, dietro il Borbone fugato da lui, generale della Repubblica
romana: anche una terza volta quel giorno poteva segnargli forse una
bella data.
*
L'ampia strada, che oggi sale per agevoli giravolte a Gibilrossa,
allora non esisteva. Non era che un sentieruccio giù pel ripidissimo
pendio, dove bisognava camminare con l'olio santo in mano, sull'orlo
d'un borro tutto balzi e sfasciume. Eppure, per quella traccia calò
senza disgrazie tutto quel mondo, anche Garibaldi che andava su d'un
cavallo molto tranquillo, che finì poi nelle mani di Alberto Mario,
cui fu donato.
Perduto alquanto tempo a riordinarsi giù a piè del monte, la colonna
si rimise in marcia lenta e silenziosa. Ululavano per la campagna a
sinistra i cani da lontanissimo; da destra muggiva il mare; non era
molto buio; faceva quasi freddo, per la gran guazza.
Nel piano, la via correva fiancheggiata da muriccioli a secco tra
oliveti, e a tratti fra case mute e tetre. Da una di quelle case là
attorno, veniva un tintinno di pianoforte, che ora si udiva ora no, e
dava una di quelle malinconie che son fatte di dolore, d'amore, di
speranza, di desideri, d'un po' di tutto ciò che è gentile in noi.
Chi mai sonava in quell'ora tanto tranquilla, mentre stava per
cominciare la musica della morte?
E pareva che fosse ancora molto lontano il gran punto, il gran
momento, e che l'alba volesse venire più presto del solito, troppo
presto. Perciò fu fatto incalzare il passo, ma sempre più
raccomandando il silenzio. Poi la colonna sboccò nella via Consolare.
Allora le compagnie dei Cacciatori delle Alpi si misero per quattro,
serrando così più sotto, con l'ordine di tirar avanti senza badare a
chi si arrestasse, e di stringersi ai muri degli orti. I cuori
battevano già. Ma ad un tratto li schiantò addirittura un uragano di
grida e di fucilate scoppiato alla testa, perché a un certo punto che
si chiama Molino della Scafa, i 'Picciotti', credendo forse d'essere
già alle prime case di Palermo, si misero ad urlare. E molti di essi,
presi chi sa per qual cosa dal panico, si arrestarono, si scomposero,
si rovesciarono sui Carabinieri genovesi, cagionando il rigurgito di
tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro il La Masa; accorse
Garibaldi che richiamò lui alla calma; e volto ai Carabinieri
genovesi gridò: "Colonne di bronzo, le spalle anche voi?"
All'immeritato rimprovero, il Mosto rispose mesto, ma fermo: "Noi
siamo al nostro posto, e abbiamo aperte le righe per non esser
travolti."
Garibaldi sapeva bene cosa erano quei prodi; e del resto tutto ciò fu
un lampo, perché pigliata subito la corsa avanti, una corsa
impetuosa, serrata, gridata; il meglio della Colonna fu di lancio
sotto il fuoco dei Cacciatori borbonici, che difendevano il Ponte
dell'Ammiraglio. In quella prima luce apparvero il profilo a schiena
d'asino e i dieci o dodici pilastri interrati del ponte, brulicanti
d'uomini e d'armi nel fumo, visione da sogno, ma incancellabile anche
per chi non sapeva che quel ponte normanno aveva ben più di sette
secoli sulle sue pietre.
Così adunque la sorpresa tanto ben preparata era venuta in parte a
mancare. Ma quei Cacciatori che avevano dormito intorno al Ponte, con
l'animo sicuro che Garibaldi era in fuga lontano; a un assalto così
violento, presi alla baionetta, non ressero a lungo, e si ritirarono
fuggendo da disperati, tanto che invece d'andar a piantarsi dietro a
una loro gran barricata oltre il crocicchio di Porta Termini, come
avrebbero dovuto, giunti appena al crocicchio stesso, svoltarono a
Sant'Antonino, per sottrarsi a quei dannati Garibaldini che
giungevano di notte a quel modo. Questi inseguivano. E infilavano la
via del sobborgo sotto il fuoco d'un altro battaglione schierato
sulle mura a sinistra; si arrestavano al crocicchio, e subito si
mettevano a sbarrarsi la via alle spalle. Di lì minacciava la
cavalleria che moveva dalla chiesetta di San Giovanni Decollato. Ma
Faustino Tanara da Parma, con un plotone della sua Compagnia, e il
sacerdote siciliano Antonio Rotolo, con una grossa squadra di
'Picciotti', tennero quella cavalleria in rispetto.
Ora, a passar quel crocicchio faceva caldo. Dal mare lo spazzava la
mitraglia delle fregate, vi grandinavano le palle da Sant'Antonino.
Ma bisognava passarlo, che se no, chi sa quanta forza di nemici
poteva tornarvi, appena si fossero rimessi dal primo sgomento. E vi
era già Garibaldi col suo Stato Maggiore. Raggiava. Forse non sapeva
ancora che tra il Ponte dell'Ammiraglio e quel crocicchio, in sì
breve tratto, erano caduti Tukory, Benedetto ed Enrico Cairoli feriti
gravemente. Ben vedeva Bixio tempestar a cavallo su e giù ferito
anch'egli, rimproverando, ingiuriando quasi perché non s'era già
presa tutta la città, e sfogando la sua furia contro di uno che aveva
osato dirgli che si guardasse che sanguinava dal petto. Egli s'era
già levato da sé il proiettile. E molti in quel breve tratto erano i
morti. Giaceva sul Ponte il dottor La Russa di Monte Erice; giaceva
presso il ponte Stanislao Lamensa. La morte lo aveva fermato lì,
senza misericordia per i suoi dieci anni di ergastolo, né per i suoi
figliuoli che lo aspettavano in Calabria dal 1849. Sotto il Ponte,
fra parecchi altri amici e nemici, giaceva Giovanni Garibaldi,
popolano genovese, morto di fuoco e di ferro. Placido Fabris da
Povegliano, giovane tanto bello che i compagni d'Università lo
chiamavano Febo, giaceva per morto con tutta traverso al petto la
daga-baionetta d'un cacciatore ucciso da altri, mentre vibrava a lui
il colpo mortale. E non morì. Doveva, guarito, ricomparire quasi un
risorto, per andarsi a far ferire anche dagli Austriaci a Bezzecca
sei anni dopo. Bellissimi tipi di siciliani giacevano feriti.
Inserillo, Caccioppo, Di Benedetto, gente che continuò a dare il
proprio sangue fino a Mentana. Narciso Cozzo, il bello e biondo
patrizio palermitano che, uscito tre giorni avanti a raggiunger
Garibaldi, si era unito, nell'accampamento del Parco, alla 6°
Compagnia; camminava tra quei feriti, quei morti e quella calca,
quasi andasse invulnerabile ammirando. Pareva un Normanno di
settecent'anni addietro, tornato a guardare come dai moderni si
combattesse. A lui la morte diè tempo e spazio fino al Volturno, e il
1° ottobre, nella gran battaglia garibaldina, là se lo colse.
Bisognava dunque passar oltre quel crocicchio infernale, e a un cenno
di Garibaldi il passo terribile fu traversato, fu invasa alla corsa
la via per la Fiera Vecchia. Piazza della Fiera Vecchia! Lì all'alba
del 12 gennaio 1848, quel La Masa che ora conduceva i 'Picciotti'
aveva lanciato il suo grido di guerra quasi da solo, a piè di quella
statua di Palermo che ora non v'era più, perché la polizia l'aveva
fatta levare. Ma era la piazza della Fiera Vecchia davvero quel
largo? Non ci si vedeva nessuno, precisamente come nel 1848.
Garibaldi quasi impallidì. Un cittadino, di tra i due battenti d'un
uscio socchiuso, gli gridò: "Evviva!" Qualche finestra si aperse,
qualche testa si sporse, ma gente non ne compariva né con armi né
senza. Fu un istante da tragedia. Ma appunto per questo avanti!
Garibaldi col suo Stato maggiore, preceduto dai più ardenti, seguito
dall'onda de' suoi si inoltrò per quelle vie deserte fino a piazza
Bologni. Ivi smontò, e nell'atrio del palazzo che dà il nome alla
piazza, si assise. Proprio si assise! Ora la sua tranquillità faceva
quasi paura.
Giungevano intanto i suoi da tutte le parti con notizie diverse,
confuse, assurde: giungeva Bixio a piedi con in pugno la spada
spezzata a mezzo, furibondo, terribile. Veniva a pigliarsi venti
uomini di buona volontà, per andare a farsi uccidere con loro a
Palazzo reale. "Tanto, - gridava - tra due ore siamo tutti morti!" E
già si avviava, già voltava l'angolo di via Toledo, quando Garibaldi
lo fece chiamar indietro.
Garibaldi in quel momento era quasi giulivo. Aveva riso d'un colpo
che sfuggitogli da una delle sue pistole, gli aveva sforacchiato il
lembo dei calzoni sopra il malleolo, dove fu poi ferito due anni
appresso in Aspromonte: aveva confortato due giovani prigionieri
napolitani; aveva baciato nel nome di Benedetto Cairoli qualcuno
della 7° Compagnia, e baciandolo gli aveva detto che intendeva di
baciare in lui tutti i presenti. Giulivo era anche perché
cominciavano a comparire dei cittadini ansanti, trasecolati. Dunque
era vero, era entrato, era Lui? E guardavano quei capelli ancora così
biondi, quella barba, quel torso erculeo nella camicia rossa, quelle
gambe un po' esili e quei piccoli piedi da gentiluomo. Adoravano. Era
lui e non avevano creduto! Il romore della fucileria di Porta
Termini, l'avevano preso per uno dei tranelli della polizia, che già
parecchie volte aveva sull'alba fatto sparare qua e là; e sempre chi
era stato pronto a scendere, credendo di gettarsi nella rivoluzione,
era invece caduto in mano dei birri. Così raccontavano quei
cittadini. Dunque, se la città non era subito insorta, nulla di male,
purché si facesse, purché non si lasciasse tempo ai nemici di
riaversi: barricate! barricate! Non si sentì più gridar altro che
barricate. Garibaldi diede l'ordine all'Acerbi, mantovano, di
mettersi a quel lavoro, e gli designò compagno il palermitano duca
della Verdura; formò un comitato provvisorio per il governo della
città presieduto dal dottor Gaetano La Loggia: ma veramente il
governo era lui.
E le campane cominciarono a martello, perché la polizia aveva fatto
levar via il battaglio da tutte. Prima suonò quella di San Giuseppe,
poi un'altra, poi altre e altre; tutta la città si svegliava: Santa
Rosalia! Santo Spirito! Che c'era mai? Garibaldi? Garibaldi era
venuto dentro in quel giorno di festa religiosa, certo lo aveva
voluto Iddio. E nessuno, forse nessuno, pensò che quell'uomo con sì
poca gente era entrato a tirar su la città, su di sé, sui suoi, lo
sterminio.
Tra quei cittadini vi erano fin dei preti. Quello alto, maestoso, con
la gran testa già grigia, era l'abate Ugdulena; e quell'altro smilzo,
pallido, vibrante, era prete Di Stefano. E giunsero degli uomini in
divisa che parevano di cavalleria, giubba rossa, calzoni azzurri.
Disertori forse? Al portamento no; e poi non avevano armi. Donzelli
del comune erano, che venivano dal Palazzo pretorio. Dunque la
magistratura cittadina, il Pretore, i Decurioni erano già in moto?
No. Essi erano borbonici quasi tutti, e quasi tutta l'aristocrazia
borbonica se n'era fuggita a Napoli, o ritirata sulle navi in rada,
stava al sicuro. Ma insomma quelli erano i Donzelli del Palazzo. Sui
bottoni dorati delle loro divise, si leggeva la sigla: S.P.Q.P.
'Senatus populusque palermitanus'. Ma Giuseppe Giusta, artigiano,
lingua di fuoco, lesse subito a modo suo: "Sono Pochi Quanto Prodi."
Il frizzo non destò allegria perché quello non era momento da celie;
anzi, qualcuno disse che Giusta celiava per farsi dar giù, forse, un
po' di paura. Ah la paura! Strana affezione. V'erano lì dei giovani
che nella notte, durante la marcia, avevano forse tremato; e adesso
si sarebbero messi da soli a qualsifosse cimento.
Perché adesso era davvero aperta la via a tutte le prove, e la città
s'avviava a divenir tutta un campo. Verso Sant'Antonino si
combatteva; da porta Macqueda, i cannoni del generale Cataldo
tiravano lungo la gran via; quelli del generale in capo Lanza, da
Palazzo reale, spazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che il forte
di Castellamare tacesse ancora. Si sapeva già che ivi comandava il
Colonnello d'artiglieria Briganti; si seppe poi che un suo figliuolo
capitano era stato ai mortai, aspettando l'ordine di cominciar il
fuoco, e che rapito dalla voglia di mandar la prima bomba sulla città
ribelle, aveva già mormorato contro suo padre, minacciando persino
d'andar egli stesso a scuoterlo. Ma verso le sette l'ordine gli fu
mandato, e allora si udì un gran tonfo a Castellamare, e su nell'aria
un gran rombo. La prima bomba piombò. Cominciava quel bombardamento,
che con terribili pause di cinque minuti tra bomba e bomba, doveva
durare tre giorni e farne piovere sulla città ben mille e trecento. E
subito scoppiarono qua e là degli incendi. A mezzogiorno in punto si
misero poi a tirare anche le navi.
Intanto Garibaldi era passato col suo Quartier generale nel Palazzo
pretorio. Là, con un suo decreto da Dittatore, sciolse il Municipio,
per nominare, come fece il dì appresso, un nuovo Pretore e nuovi
Senatori. Ora la città, anzi la Sicilia era lui. Da quel centro si
diramavano i suoi ordini alle piccole colonne che si erano spinte in
tutti i versi alla periferia della città. Erano gruppi di Cacciatori
delle Alpi, cui si univano fidenti e volenterosi i 'Picciotti'
entrati il mattino, e via via cittadini d'ogni ceto usciti di casa
con armi o senza. E dove avveniva uno scontro coi borbonici, i
disarmati aspettavano bramosi che qualcuno cadesse, ne prendevano
l'arma, le cartucce, il posto, e combattevano esultanti. Un grosso
nerbo della 8° Compagnia avanzò per vie traverse, verso Palazzo reale
fino alla gran Guardia, e di lì fugò il generale Landi, quel povero
vecchio Landi, già battuto a Calatafimi.
Un po' della 6° con parte della 7° e alcuni Carabinieri genovesi,
andavano per pigliare il convento dei Benedettini; la 5° si spingeva
verso porta Macqueda, fino a Villa Filippina. Ma dir Compagnie non è
preciso. Queste si erano frante e si frangevano ognor più in
manipoli, e ogni manipolo seguiva il più stimato fra quelli che lo
componevano, o chi si mostrava più ricco di partiti. Così dei vecchi
ubbidivano a dei giovinetti; uomini in divisa d'ufficiali si
lasciavano consigliare da studenti che non avevano mai visto una
caserma; qualcuno come Vigo Pellizzari che, caduto Benedetto Cairoli,
era divenuto il Comandante della 7°, rivelava qualità di vero uomo di
guerra; Giuseppe Dezza della 1° suppliva da bravissimo il Bixio, che,
non potendo più reggere dal molto sangue perduto, era stato costretto
da Garibaldi a ritirarsi in casa Ugdulena, e aveva ubbidito
mordendosi per ira le mani.
*
I borbonici avevano lasciato passare il momento buono ad invadere la
città, come avrebbero potuto. Quattro o cinque ufficiali audaci che
si fossero mossi ciascuno alla testa d'un mezzo battaglione, e
avessero marciato verso il centro tutti a un tempo, pur seminando di
morti e di feriti la via, bastavano a schiacciar tutti. Ma forse
nessuno aveva osato cimentarvisi, per paura di entrare a farsi
seppellire sotto un po' di tutto, da tutte le case, mobili, pietre,
olio ardente. Adesso, dopo quattro ore dall'entrata di Garibaldi,
sarebbe già stato difficile riuscire, anche se i borbonici ci si
fossero provati; e già si vedeva che prima di sera sarebbe divenuto
addirittura impossibile. Poiché nelle vie sorgevano come per incanto
barricate per tutto. Dagli usci venivano fuori carri, carrozze,
botti; dalle finestre piovevano mobili, materasse, fin pianoforti. E
tutto era subito raccolto, ammontato, serrato insieme. Poi a forza di
picconi e di leve si spiantavano li lastre delle vie; e queste sì,
queste servivano bene! Parevano fatte apposta. E con esse, visto o
non visto, venivano alzate su delle vere mura, una barricata a dieci
metri dall'altra; fin troppe, come disse poi Garibaldi. Vi lavoravano
e uomini e donne e fanciulli, che si rissavano tra loro facendo a chi
ubbidisse meglio, se dai panni, dai capelli, dall'accento,
riconoscevano un garibaldino in chi comandava. Le popolane poi
parevano furie. "Signuri, nui riciano ca di li nostri trizzi
un'avianu a fari ghiumazzo pi li so mugghieri! Scillirati, infami!" E
davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di terra.
Il Comitato delle barricate, composto di cittadini esperti ancora del
1848, presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di
ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli dei tetti ad
ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da
buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.
Ma quelle milizie non si muovevano all'offensiva. Anzi, verso le
sedici, come si diceva là all'uso antico d'Italia, il general Cataldo
che occupava i pressi di Porta Macqueda, i Quattro venti e il
Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle spalle dai
'Picciotti', si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si
ripiegava il generale Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicché al
Palazzo e nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da
dodicimila soldati, sotto il generale Ferdinando Lanza, alter ego del
Re, uomo di 72 anni che aveva a lato Maniscalco, il fiero capo della
polizia. E allora le carceri non più custodite si apersero, e ne
sbucarono duemila condannati, orribile ingombro gettato tra i piedi
alla rivoluzione, perché potevano solo disonorarla. Ma Garibaldi
provvide. Vietò d'andar armati senza dipendere da un capo; vietò di
perseguitar i birri sperduti; decretò pena di morte al furto, al
saccheggio: fece tremare e fu ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di Castellamare, che nel pomeriggio di
quella prima giornata presero specialmente di mira il Palazzo
pretorio, sul quale misuravano l'arcata delle loro bombe. I nemici,
non da palermitani, ma da qualche birro vagante, dovevano aver saputo
che in quel palazzo si era messo Garibaldi, e perciò cercavano di
seppellirvelo sotto col suo Stato maggiore! Non vi riuscivano; ma le
loro bombe, cadendo nelle vicinanze, facevano delle grandi rovine.
*
A notte, quel fuoco da Castellamare cessò, e cessò anche quello della
fucileria quasi per tutto. Ma la veglia fu viva, incessante. Le
finestre delle case cominciarono a illuminarsi, per le vie ci si
vedeva quasi come di giorno. Ed era un andirivieni dalle parti della
città al Palazzo pretorio e di lì alle parti; sicché pareva che i
combattenti si dessero il cambio nei posti che occupavano, solo per
andar un po' dal Generale, e rifare nella vista di lui le speranze e
le forze. Egli aveva fatto mettere una materassa sulla gradinata
della fontana di Piazza Pretoria, rimpetto al gran portone del
Palazzo, e là, a pie' di una di quelle alte statue che la adornano,
riceveva notizie, dava ordini, riposava, Giovanni Basso da Nizza, suo
segretario e compagno sugli oceani, Giovanni Froscianti da
Collescipoli antico frate, Pietro Stagnetti da Orvieto, veterani
della Repubblica romana, gli facevano guardia: dall'altra parte della
piazza, nelle scuderie di palazzo Serradifalco, stavano sellati i
cavalli delle Guide. E sul portone di quel palazzo si vedeva Giovanni
Damiani, vigile come un'aquila, pronto a qualche partito supremo di
Garibaldi, se forse fosse venuta l'ora della disperazione.
Di quelli che andavano e tornavano, taluni si sentivano chiamar
dentro dagli usci di qualche casa o palazzo socchiusi. E là nei
cortili, sotto i porticati, giù nei sotterranei, trovavano donne,
uomini, fanciulli, signori e servi; e questi a gara se li pigliavano
in mezzo curiosi, e li tempestavano di domande: e di dove erano, e
come si chiamavano, e se avevano madri, sorelle. E stringendo loro le
mani, tastavano se queste erano fini; maravigliavano a udirli parlare
da gentili uomini. Li ristoravano di cibi e di vini squisiti;
empivano loro le tasche di biancherie; mostravano le coccarde
tricolori, triangolari come l'isola; li baciavano, li pregavano di
farsi portar da loro se mai cadessero feriti. E le donne esaltate
congiungevano le mani come in chiesa; e le fanciulle sorridevano
estatiche nei grandi occhi lucenti; e poi a veder coloro andarsene,
piangevano come sorelle amorose.
Nei posti in faccia al nemico, quelli che vegliavano, ricevevano le
notizie delle cose avvenute altrove. Ai Benedettini, Giuseppe Gnecco,
carabiniere genovese, si era lanciato alla gola di un ufficiale
borbonico e lo aveva tratto via seco prigioniero. Là e là, i tali
della tale Compagnia o della tal'altra, avevano formato barricate
mobili con botti rinvolte in materasse, e spingendole avanti a forza
di spalle sotto il fuoco dei borbonici, erano giunti fino alle case
occupate da questi, e balzati dentro, fulminei avevano preso le case
e i difensori.
Metteva una certa sicurezza negli animi sapere che ormai tutta la
parte bassa della città era in mano degli insorti, salvo il palazzo
delle Finanze in piazza Marina, che era ben tenuto d'occhio perché i
borbonici non potessero portar via il tesoro. Anche la caserma di
Sant'Antonio era stata presa, e molti vi si erano riforniti di
bellissime armi. Là Andrea Fasciolo, Carabiniere genovese, aveva dato
tutto il giorno lo spettacolo d'un coraggio che i suoi compagni, per
dire quanto era, chiamavano coraggio sfacciato.
Cominciava a disertare qualche ufficiale borbonico: al Palazzo
pretorio era giunto il tenente Achille De Martini, comandante dei
cannoni a Calatafimi, e si era dato anima e corpo a Garibaldi.
Intanto seguitavano a entrar in città da porta Termini e 'Picciotti'
e 'Picciotti'; da porta Macqueda era entrato Giovanni Carrao, con la
squadra che era stata di Rosolino Pilo. E la notte passava.
*
Ma i mortai di Castellamare suonarono presto la diana del 28, e
presto ricominciò il fuoco dappertutto. Dappertutto la rivoluzione
vinceva. Ma dolorose perdite si fecero fin dalle prime ore di quel
secondo giorno. Enrico Richiedei da Salò ed Enrico Uziel da Venezia,
furono uccisi da una palla di cannone che li compì tutti e due al
capo, lasciandoli morti sfigurati l'uno vicino all'altro quei due
fiori di giovinezza.
Antonio Simonetta milanese diciannovenne, puro come uno di quei
fraticelli che cantarono al letto di San Francesco morente, uscito
l'anno avanti incolume dalla battaglia di San Martino, cadeva al
convento dei Benedettini, dove gli amici ne cercarono poi invano il
corpo e la fossa. E ai Benedettini cadeva Giuseppe Naccari
palermitano, reduce dall'esilio coi Mille, cadeva senza aver ancor
riveduto la sua famiglia, anch'egli bellezza maschia, che nella 6°
Compagnia, per la molta somiglianza col gran lombardo morto a Roma
nel 1849, era chiamato Luciano Manara. Nel campanile di quel convento
fu ucciso Crispo Cavallini da Orbetello, altro bel forte cui toccò di
morire senza lasciar il nome alla schiera dei Mille. Egli fu
dimenticato come uno che non avesse avuto né parenti, né amici, né
nulla. E forse felice lui, se morendo, avesse potuto indovinare
quell'oblio; perché, diciamo noi, portar seco nella morte tutto sé
stesso, la gloria e il nome, deve esser una gioia più che da uomo.
Non insegnava così l'ordine del giorno di Garibaldi letto nella
traversata in alto mare?
Ai Benedettini combatteva il Mosto co' suoi Carabinieri, Carabiniere
infallibile anch'esso, e dal campanile fulminava gli artiglieri del
bastione Porta Montalto, obbligandoli a lasciar muti due pezzi. Lo
secondavano tranquillamente, con tiri che coglievano, Giambattista
Capurro, giovinetto che aveva la testa bendata per una ferita in
fronte, ed Ernesto Cicala benché già toccato malamente da una
scheggia di granata. Vicini e mirabili per la calma, facevano i loro
tiri Stefano Dapino e Bartolomeo Savi, testa d'oro da cherubino,
tanto era biondo, il primo; l'altro arruffato quella sua testa grigia
piena sempre delle tragedie di Sofocle.
Si combatteva dunque dappertutto e si dimenticava ogni cosa. Ma se
qualcuno non si sentiva più dalla fame, i conventi dei frati erano là
divenuti ospizi. Ivi le cucine fervevano. Bastava dar una corsa là, e
uno ci trovava il cuoco e il cantiniere, pronti a scodellare e a
mescere. Si ristorava e via, tornava benedetto a farsi onore. Dei
frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi;
qualche vecchio brontolava pauroso, perché delle rivoluzioni ne aveva
già viste troppe e tutte finite male, quella del '20 e quella del
'48.
Si dava da mangiare anche nei refettorii e nei parlatorii dei
monasteri. Folle di monacelle bianche si premevano a guardar dalle
porte, e parevano stormi alati d'angeli, discesi come nella poesia a
contemplar i figli degli uomini. Qualcuna osava, correva quasi ad
occhi chiusi, e al primo cui le capitava di stendere le braccia
metteva al collo una reliquia, subito fuggendo beata come se avesse
rapita un'anima al purgatorio. Colui per quella non pericolava più.
Invece delle vecchie suore si mettevano a discorrere in mezzo agli
ospiti armati e laceri e sporchi di polvere; e li interrogavano
curiose, e domandavano se Garibaldi era cristiano, giovane, bello, e
li pregavano di vincere e di tornare poi a dar loro le notizie, a
difender loro, povere monacelle, dalle genti borboniche crudeli. Non
sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e della Badia nuova
erano stati saccheggiati, né che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! C'era bisogno d'aiuto! Ma nel gran trambusto che assordava
tutti, nessuno aveva ancor badato che lì come altrove c'era
l'incendio. Eppure il monastero sorgeva a lato del Palazzo pretorio!
Il fuoco vi aveva cominciato dal tetto, a cagione di una bomba di
quelle destinate al Palazzo, scoppiata in aria. E l'incendio era
disceso di piano in piano. Solo verso la sera del 28, qualcuno pensò
che là dentro c'erano delle povere creature. E allora, sfondata la
porta del monastero, vi entrarono dieci o dodici Cacciatori delle
Alpi con dei 'Picciotti', a tentar di salvarle. Nel piano terreno ci
si poteva ancora, ma cerca di qua, cerca di là non si trovavano
monache in nessuna parte. Che si fossero lasciate perir arse nei
piani superiori, non pareva da credersi. Finalmente uno andò
nell'oratorio, e là ne vide che, come larve bianche nella penombra in
fondo, piangevano, fuggivano a nascondersi fino in certe loro
catacombe. Raggiunte, si inginocchiavano in terra, torcendo le
braccia, porgendo le gole come a dei carnefici; pregate di uscir di
là dentro, perché presto non ci sarebbe stato più tempo, non volevano
lasciarsi condur via a niun patto. Sicché quei soldati dovettero
minacciare di porre loro addosso le mani per salvarle a forza. E
allora esse si lasciarono mettere in fila, lunga fila di religiose di
tutte le età, monache e converse. Ve n'erano di bellezza celestiale,
giovani come aurore; ve n'erano delle vecchie mummificate. I fratelli
Carlo e Pietro Invernizzi da Bergamo, bizzarrissimi spiriti, ne
portavano via sulle spalle una per ciascuno quasi paralitiche, e
mentre che agli atti pareva che reggessero dei reliquiari, parlavano
in bergamasco da diavoli cose che avrebbero fatto ridere i sassi. Fu
questa la sola profanazione, se si può dir così; tutti gli altri
vennero fuori serii con quella strana processione; e a vedere la
raffinatezza dei riguardi che sapevano usare, faceva orgoglio.
Condussero quelle meschine a un altro monastero; e là, nella gioia
della salvezza, qualche stretta di mano, sin qualche bacio fu dato e
preso.
*
La seconda giornata passò dunque come la prima e peggio; ma la terza
furono cose indescrivibili. Tutte le vie erano ormai gremite di
gente. A cagione del bombardamento, lo stare in casa era più
pericoloso che lo star fuori; perché dove una bomba cadeva su di un
tetto, sprofondava giù fino a terreno, scoppiava e faceva crollar
tutto. Invece per quelle che cadevano nelle piazze o nelle vie, la
gente si gettava a terra, le lasciva scoppiare, poi su, si levava
gridando: "Viva Santa Rosalia, Garibaldi, l'Italia!" E si esaltava, e
si lasciava pigliare da un certo cupo entusiasmo della strage, senza
neppur più inorridire perché qualcuno restava a terra morto o ferito.
Di tanto in tanto si udiva uno scoppio di grida furiose qua e là;
erano donne del popolo che avevano fatto la posta a qualche birro, e
riuscite a pigliarlo, urlandogli "Sorcio, Sorcio!" lo malmenavano, lo
straziavano a brani. Così dovevano aver urlato:"Mora! Mora!" le loro
antenate dei Vespri. Sennonché ora bastava che capitasse in tempo un
garibaldino a stender le mani sul birro sciagurato, e quelle donne
glielo cedevano vivo, quasi contente, urlando ancora: "Viva Santa
Rosalia!" Di quei miseri servi della polizia ne furono salvati
parecchi in tal modo, e pel momento venivano messi nei sotterranei
del Palazzo pretorio, dove almeno nessuno poteva più torturarli.
Così le turbe si aggiravano per la città, passando da barricata a
barricata pei vani lasciativi apposta; e incontrandosi ai Quattro
Cantoni si incrociavano, si acclamavano e si confondevano come
quattro correnti. Ivi un gran tendone tirato tra due palazzi celava
la metà di via Toledo verso porta Felice, all'altra metà di lì in su,
verso al Palazzo reale. Perciò i borbonici del Palazzo non potevano
più comunicare a segni con le loro navi da guerra del porto. Quel
tendone era come un immenso arazzo bene istoriato, e però spiaceva
vederlo sforacchiare dalle cannonate borboniche; ma dal Palazzo reale
ci si erano accaniti contro. Diceva un Cattaneo da Bergamo, rimasto
loro prigioniero e mandato a Garibaldi per certa ambasciata, con
promessa sua che sarebbe tornato, come infatti volle tornare; diceva
che i borbonici già quasi ridotti a cibarsi di lattughe, provavano
dispetto e noia di quel tendone più che di tutto. Erano anche
arrabbiati, perché l'Ospedale militare pieno di risorse era stato
preso dai garibaldini.
Dunque tra gli strazi che si vedevano, le buone notizie davano gran
conforto. E si seguivano. Il bastione di Porta Montalto era stato
preso dal colonnello Sirtori, mosso dal convento dei Benedettini alla
testa di alcuni, che si erano lasciati mettere in petto il fuoco
dell'eroismo da quel prete soldato. I regi dell'Annunziata erano
stati costretti a sgombrare; e comparivano a Palazzo pretorio dei
giovani che avevan durato a star là giorno e notte per vincere quel
posto. Venivano carichi di armi, e alcuni portavano superbi mantelli
tolti a quei nemici. Ma correvano intanto gli annunzi delle morti e
delle ferite. Adolfo Azzi, il forte timoniere del Lombardo, era
caduto con una coscia trapassata da una palla; Liberio Chiesa,
chiassoso ma prode, giaceva anch'egli con una gamba spezzata.
A confortar i feriti un po' dappertutto, andava il prete Gusmaroli da
Mantova, e portava loro i saluti dei combattenti, e tra i combattenti
tornava, serbando una calma e una pace di cuore meravigliosa. Mai che
impugnasse un'arma! Essere ucciso poteva; uccidere no. Egli non
voleva macchiare di sangue le sue mani di sacerdote. Andava così
vendicandosi a modo suo dell'offesa che gli aveva fatto l'Austria,
impiccandoli nella sua Mantova Orioli, Grioli e Speri e Poma e gli
altri di Belfiore. E siccome somigliava molto ai ritratti di
Garibaldi, per questo, dove appariva, i 'Picciotti', credendolo il
Generale in persona, sotto i suoi sguardi gareggiavano a chi
mostrasse d'aver più cuore. Egli aveva allora quarantanove anni, ma
se avesse saputo quali dolori gli serbavano gli altri dodici che
stette poi ancora al mondo, si sarebbe augurato di averne cento per
morire se non lo volevano le palle di qualunque altra morte, ma là,
ma allora. Finì nel 1872, in una misera casupola della Maddalena,
dove era suo solo conforto contemplare almeno l'altra isola, quella
di Garibaldi, dal cui cuore fu fatto cadere.
Bello e grande fu l'atto della 8° Compagnia che, mantenutasi più
compatta delle altre per l'ostinata voglia di occupare la Cattedrale,
vi riuscì finalmente alle quattordici di quel terzo giorno. Rovinava
allora lì a lato con indicibile fragore il palazzo del principe
Carini, incendiato da una bomba, come erano già rovinati i palazzi
Cutò, D'Azzale e altri. E allora appunto, in faccia ai borbonici di
Palazzo reale, quei bergamaschi invasero tutto il di fuori del tempio
e dentro e su fino il campanile. E di là si misero a tirare sui
soldati stipati nella gran piazza. Uccidevano a schioppettate gli
artiglieri sui pezzi. Il loro capitano Bassini li governava coi
trilli di certo suo fischietto da cacciatore, fumando alla pipa,
tutto scoperto ai nemici che lo tempestavano di palle senza toccarlo.
Ma egli si credeva invulnerabile.
*
A quell'ora il generale in capo Lanza, volendo tentare una disperata
prova, mandò il generale Sary a ripigliar la Cattedrale; e il
generale Colonna a ripigliare i Benedettini, l'Annunziata, Porta
Montalto. Inutile sforzo, inutile strage. Tutti gli assalti furono
respinti dai garibaldini, dai 'Picciotti' e dai cittadini. I
borbonici lasciarono più di cento morti e forse quattrocento feriti,
intorno alla Cattedrale e per le vie percorse, ma ritirandosi
incendiavano le case, uccidevano gli inermi, violavano le donne.
Erano diventati selvaggi, furiosi. Forse facevano così, per dare
l'ultimo sfogo all'odio secolare mantenuto vivo contro l'isola in
loro, sudditi dell'altra parte del regno; forse li faceva divenir più
crudeli lo spettacolo degli incendi, ardenti in più di sessanta
luoghi della città; tra i quali più grande e spaventoso quello del
quartiere intorno San Domenico, tutto in fiamme.
Ma se le sorti volgevano a male per i borbonici, anche dalla parte di
Garibaldi crescevano le angustie. Quella sera non v'erano quasi più
munizioni. Si lavorava a fabbricare polvere, ma non ne veniva
abbastanza pel bisogno, specialmente perché i 'Picciotti', come
scrisse poi Garibaldi, sparavano troppo. E da tutti i punti della
città dove si combatteva, giungevano uomini a chieder cartucce, come
chi spasima per fame chiede pane. Gli aiutanti del Generale
rispondevano alzando le braccia muti: il Sirtori, sempre tranquillo,
raccomandava di dir dappertutto che le munizioni giungerebbero, che
intanto i combattenti s'ingegnassero con la baionetta. E invocava la
notte. Almeno ci sarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava
già viva la voce che tra i regi fosse cominciato un grande
scoraggiamento; si diceva che altri loro ufficiali erano passati alla
rivoluzione, tra i quali due capitani del genio ed era vero; e ormai
pareva certo che i dodicimila uomini del Palazzo reale stessero
isolati affatto, senza viveri e senza comunicazioni col porto e con
Castellamare. Dunque una risoluzione il loro generale l'avrebbe
dovuta prendere; o avventarli tutti a morire o capitolare. Ma venuta
la notte l'inquietudine non cessò, anzi faceva terrore il pensiero di
quel che sarebbe potuto succedere il mattino seguente; e quasi si
agognava che fosse già l'alba, per tornare nella furia invece di
consumar l'anima in orribili fantasie.
Anche Garibaldi ebbe quella sera un momento in cui quasi disperò. Gli
avevano portato la nuova che erano sbarcati alla Flora due
battaglioni di bavaresi, gente aizzata da Napoli e per tutta la
traversata con feroci promesse, ed esaltata dalla lusinga d'aver essa
l'onore di dar il colpo mortale alla rivoluzione. Ma la notizia non
era esatta. I due battaglioni erano sbarcati sì, ma non alla Flora. E
il generale Lanza aveva commesso l'errore di chiamarseli al Palazzo
reale. Dunque erano men da temersi, stando essi nelle mani di chi non
sapeva adoprar bene neppur le buone truppe che aveva già. E Garibaldi
si rassicurò. Ma quella era la notte del dolore, ed Egli ebbe pur
quello di venir a sapere che alcuni de' suoi, tre o quattro in tutti,
non potendo più star con l'animo alla paura, erano ricorsi ai consoli
stranieri, per farsi munire di passaporti. Il dolore che ne provò non
si può dire; la pena del suo disprezzo che inflisse a quei tali fu
mortale. Uno di essi, poi, che portava un bel nome nizzardo, era
ricorso al consolato di Francia! Il Generale ne pianse. Gli toccava
là, nel pieno della sua grandezza, fosse pure alla vigilia forse
della catastrofe suprema, gli toccava là quella atroce puntura di
veder quel suo uomo aver riconosciuto con quell'atto che Nizza era
Francese! Egli, così proclive a compatire, a scusare, non perdonò; e
il nome di quell'uomo fu spento.
*
Il giorno appresso, mentre il fuoco, riacceso in tutti i punti sin
dall'alba, lasciava indovinare ne' regi una certa stanchezza, ma
teneva pur sempre in forse dell'esito finale, Garibaldi ricevè un
messaggio del generale Lanza. Questi che sin dal 28 aveva chiesto
all'Ammiraglio inglese d'intromettersi per imporre una breve tregua,
onde si potessero raccogliere i feriti e seppellire i morti, ma però
senza trattare egli con Garibaldi; e dall'inglese aveva ricevuto in
risposta che appunto a Garibaldi doveva rivolgersi: ora nel suo
messaggio dava di Eccellenza al 'Filibustiere'! E gli chiedeva un
armistizio di ventiquattr'ore, e lo invitava a un ritrovo con due
suoi generali, per trattar d'altre cose. Designava per luogo la nave
ammiraglia inglese. Garibaldi concesse subito l'armistizio, accettò
l'invito al ritrovo, e da una parte e dall'altra fu subito dato
l'ordine di cessare il fuoco.
Erano le undici antimeridiane. Il ritrovo doveva avvenire alle ore
quattordici. Ma mentre Garibaldi trattava di queste cose nel Palazzo
pretorio, e sottoscriveva l'armistizio col Colonnello messaggero del
Generale nemico, gli giunse un grido di tradimento, propagato sia da
Porta Termini, grido terribile di cui veniva interprete a lui,
smaniando, quel prete Di Stefano che gli era apparso dei primi, il
mattino del 27. Insomma a Porta Termini erano giunti a marcie forzate
i cinque i seimila uomini del Von Mechel e del Bosco, quelli che dal
dì 24, credendo di inseguir Garibaldi in fuga, erano andati fino a
Corleone. Là, avendo alla fine saputo l'inganno in cui erano caduti,
s'erano rivolti volando al ritorno; ed adesso erano lì alla porta
stessa per cui Garibaldi era entrato in Palermo, furiosi,
sguinzagliati dai loro comandanti come belve fuor di catena. Una
mezz'ora prima che fossero sopravvenuti, entravano di lancio fino al
Palazzo pretorio, perché da quella parte della città le barricate non
erano quasi guardate. E chi sa? forse Garibaldi sarebbe finito
davvero nella tragedia. Invano li avevano voluti arrestare
combattendo gli accorsi al grido del loro arrivo; i Bavaresi
avanzavano di barricata in barricata, erano già alla Fiera Vecchia.
Ma l'armistizio era firmato. Il Colonnello borbonico, messaggero che
si trovò di fronte a Garibaldi, a sentirsi dare quasi di traditore,
si offerse di andar egli stesso a fermare quella terribile colonna, e
andò lealmente. Garibaldi seguì. Tra via incontrarono il colonnello
Carini che veniva via di là, portato su d'una barella, ferito
gravemente ad un omero, e gridava di accorrere, di accorrere, che se
no era finita.
Alla vista del Colonnello borbonico che sventolava un fazzoletto
bianco, i Bavaresi si fermarono come d'incanto. Ma i loro colonnelli
Von Mechel e Bosco, quando seppero dell'armistizio, parvero lì per lì
per andare in pezzi dall'ira. Ah quel Bosco! Egli siciliano, caro per
certi liberi sentimenti a' suoi amici palermitani, aveva fiutato
nell'aria che la fortuna stava per passargli vicino e, smesse le
buone idee, si era preparato a pigliarla pei capelli. Quel Garibaldi
cui, secondo che si diceva, si era vantato d'aver mandato a sfidare a
duello, egli ora si era figurato d'averlo già nelle mani. Allora
sarebbe divenuto il primo uomo del regno. Che sarebbe più contato
rimpetto a lui Nunziante, Ischitella, Filangeri stesso e tutti
insieme i vecchi servitori e salvatori della dinastia? Era giovane,
bello, prode, d'ingegno, stava per valore, nell'esercito borbonico
quasi come poi il colonnello Pallavicini stette in quello di Vittorio
Emanuele; Francesco II avrebbe regnato di nome, egli di fatto, e
nella reggia e nel Regno sarebbe stato più che re. Ma il gran
miraggio gli si dileguò in quell'istante, ond'egli rimase là alla
Fiera Vecchia tempestoso. Però nella sua collera, ispirava quasi
ammirazione.
Cessato anche il fuoco alla Fiera Vecchia come già per tutta la
città, non si udì più che qualche colpo di qualche mal disciplinato
sperduto. Ma allora, peggior di quello del combattimento, cominciò lo
strazio dei feriti e dei morti da cercare. Se ne trovaron
dappertutto. Facevano grande pietà le donne, i vecchi, i fanciulli.
Quanti destini infranti, quante lacrime da essi lasciate dietro!
E dal Palazzo pretorio fu subito dato l'ordine di riunire le
Compagnie dei Cacciatori delle Alpi ciascuna a un punto designato,
dove si dovevano raccogliere tutti coloro che non fossero impegnati
alla guardia dei posti. Così oltre il numero dei morti, sarebbe stato
possibile sapere il numero dei feriti ricoverati negli ospedali o
nelle case dei cittadini. Allora avvennero gli incontri dei compagni
che in qualche momento di quei tre giorni si erano perduti di vista
fra loro, e nella confusione avevano partecipato ai fatti d'arme in
punti diversi, dubitando reciprocamente della vita gli uni degli
altri, o avendo ricevuto notizie vaghe di ferite e di morte. " E tu
dove ti sei trovato? E tu cosa hai fatto, e dove eri la notte tale?
dove hai mangiato, dormito, vissuto?" Ve n'erano di così storditi, di
così disfatti dalle veglie, dalle fatiche, dalle emozioni, che non
sapevano nemmen essi che dire. Ma parlava per loro il loro aspetto.
Di alcuni che parevano riposati e pasciuti si mormorava. E così, alla
grossa, si poté fare il conto delle morti. Non erano molte. La
vittoria di Calatafimi era costata assai di più. Ma in Palermo le
Compagnie avevano combattuto, governandosi ogni soldato quasi da sé,
esponendosi appena quant'era necessario per far fuoco, e avanzando
con quell'abilità naturale con cui si sa cogliere il destro a
scansare i danni, a pigliarsi i vantaggi. Invece moltissimi erano i
feriti, i più nel capo o nella parte superiore del torso. Le
barricate avevano salvato il resto della persona. Ed era stata
fortuna, perché i feriti nelle gambe morirono poi quasi tutti.
Molti più erano i morti borbonici. In certi luoghi, come al bastione
di Porta Montalto, erano così fitti, che non si capiva chi ne avesse
potuti uccidere tanti. Ma quasi nessun ufficiale tra loro. Di questi,
in tutti i tre giorni, non ne morirono che quattro, misera
testimonianza del valore di quella ufficialità, se pur non fu una
manifestazione di sentimento già nato negli animi, almen dei giovani,
quello dell'inutilità d'ogni sacrificio contro colui che,
impersonando la milizia di un altro Re, rappresentava un'idea della
quale sarebbero stati volentieri soldati.
In quel pomeriggio, tutti si misero a dar una ripulita alle armi; poi
chi di qua chi di là, i più andarono a visitar i compagni feriti o a
trovar le famiglie dalle quali erano capitati, durante quell'inferno
dei tre giorni, per caso o per chiedere un tozzo o un sorso. E là
erano accoglienze da principi. Ve ne furono che capitarono in casa di
gente altolocata ma malveduta dal popolo, e che senza saperlo
servirono di copertura agli ospiti da cui furono tenuti in casa come
guardie. Altri furon visti accompagnar di qua e di là tra la folla
famiglie sgomente che, così protette, si facevano condurre nei
monasteri o alla marina, dove si imbarcavano per andare al sicuro su
qualche nave, ad aspettare il resto della tragedia. Perché
ventiquattr'ore di armistizio sarebbero presto passate.
Intanto allo Stato Maggiore, il Turr, il Sirtori, gli altri non
perdevano il tempo, e tutto quel pomeriggio fu dato loro a fabbricar
polvere, a ordinare un poco i 'Picciotti', a far mettere in batteria
certi vecchi cannoni cavati fuori da dove erano stati nascosti nel
1849. Altri ne furono messi su, avuti in dono o comprati dai
bastimenti mercantili che stavano in rada. E i 'Picciotti' vi
facevano intorno la ronda, li lustravano e li coprivano di immagini
sacre, improvvisavano fin delle laudi a quei bronzi, come se fossero
eroi o santi. Il giorno appresso si sarebbe sentita la loro voce. Nei
luoghi della città più affollati, sebbene l'andirivieni fosse più che
mai vivo, bande musicali suonavano arie patriottiche dell'Attila, dei
'Due Foscari', dei 'Lombardi', o inni del Quarantotto; qualcuno
suonava già anche "Si scopron le tombe..." E, cosa meravigliosa,
invece di far adagiare gli animi nella speranza che la lotta non
ricominciasse più, l'armistizio li aveva ancora concitati. Perciò si
vedevano le gronde dei tetti, i balconi, le finestre, sempre più
carichi di materiale da buttar giù; e tra la gente che lavorava a far
sempre più alte le barricate, si sentiva dire con sicurezza che
neppure centomila uomini avrebbero più potuto venir da fuori al
Palazzo pretorio.
Queste erano esagerazioni battagliere. Ma cosa grande davvero, che
passa l'immaginazione, fu sul tardi il ritorno di Garibaldi dal suo
abboccamento coi generali borbonici Letizia e Chrétien, avvenuto a
bordo della nave ammiraglia inglese. Egli vi era andato lasciando in
angoscia indicibile chi lo sapeva. Ed essendo giunto a un luogo del
porto detto la Sanità, proprio nel momento in cui vi giungevano i
generali nemici, l'ufficiale della lancia inglese non sapendo che far
di meglio, lo aveva imbarcato insieme con quei due. Come si
sentissero in compagnia di quell'uomo in semplice camicia rossa essi
tutti galloni, non è facile immaginare; ma narrava il capitano Cenni
che parevano aver voglia di far l'altezzoso. E difatti nelle
trattative, una volta a bordo e cominciata la conferenza, il general
Letizia affettava di non rivolgersi a Garibaldi, e parlava con una
certa alterigia. Ciò dispiacque all'ammiraglio Mundy e ai comandanti
navali francese, americano e sardo, che egli aveva chiamati sulla sua
nave, perché assistessero al colloquio. E questo si mutò presto quasi
in un diverbio. Il Mundy, ospite, ebbe anzi un bel da fare onde
Garibaldi, pur con ragione, non trascendesse. Il Letizia aveva tra
l'altre cose osato chiedergli che la rappresentanza cittadina di
Palermo facesse un atto di sottomissione al suo Re. E allora
Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina era in lui
Dittatore, e rotta ogni trattativa si ritirò. Ma nel partirsi da
bordo si rivolse al Comandante americano Palmer, confidandogli
rapidamente e a bassa voce che in Palermo non aveva quasi più
munizioni, e raccomandandosi a lui perché, se potesse, gliene
mandasse. Così tornò a terra.
Ma nel breve tragitto dalla marina al Palazzo pretorio, ebbe uno di
quei momenti nei quali gli eroi pagano, per dir così, il fio della
loro grandezza. Lo pagano con la tempesta che si scatena loro
nell'animo, come avvenne al Mazzini nel 1833, nell'ora terribile in
cui si trovò a lottar tra l'idea sua, che egli chiamava dovere, e il
sacrificio di tanti, che per quell'idea suscitata da lui, si
offrivano alla rivoluzione, alla galera, alle forche. E così come
narrò di sé il Mazzini, di sé e di quel suo momento narrò Garibaldi.
"Confesso che non ero scoraggiato; ma considerando la potenza e il
numero del nemico e la pochezza dei nostri mezzi, mi nacque un po'
d'indecisione sulla risoluzione da prendersi, cioè se convenisse
continuar la difesa della città, oppure rannodare tutte le nostre
forze e ripigliar la campagna. Quest'ultima idea mi passò per la
mente come un incubo, ma la allontanai da me con dispetto: trattavasi
di abbandonar la città di Palermo alle devastazioni di una soldatesca
sfrenata! Mi presentai quindi quasi indispettito con me stesso al
bravo popolo dei Vespri."
Apparve di fatto dal balcone sinistro del Palazzo, nel lampo delle
invetriate che, mentre si aprirono, scintillarono percosse dal sole
già basso verso Monte Pellegrino, e a capo scoperto, come Ferruccio
ai suoi, prima di Gavinana, parlò. Breve, pacato, con voce che suonò
come un canto, disse che il nemico gli aveva fatto delle proposte
ingiuriose per Palermo e che egli, sapendo il popolo pronto a farsi
seppellire sotto le rovine della sua città, le aveva rifiutate.
V'è ancora qualcuno, vivo, al mondo, che, sebbene sia passato quasi
mezzo secolo, si sente sempre nell'anima quella voce. E ancora vede
ciò che vide in quell'ora. Vede quella moltitudine che non balenò
neppur un istante, e che alle ultime parole di Garibaldi ruppe in un
grido solo: "Sì! Sì! Grazie! Grazie!" con una levata di mani, di
fronti, di cuori, tale da fare impallidire lui, pel sovrumano peso
che gli imponeva, accettando l'onore di lasciarsi sacrificare. Egli
guardò un poco, poi si tirò dentro '"ritemprato (lo narrò nelle sue
'memorie') e da quel momento ogni sintomo di timore, di titubanza,
d'indecisione" gli sparve.
Il discorso di Garibaldi comparve poi subito stampato sotto forma di
Proclama alle cantonate. Diceva così: "Il nemico mi ha proposto un
armistizio. Io accettai quelle condizioni che l'umanità dettava di
accettare, cioè ritirar le famiglie e i feriti: ma fra le richieste,
una ve n'era ingiuriosa per la brava popolazione di Palermo, ed io la
rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza d'oggi fu
dunque di ripigliar le ostilità domani. Io e i miei compagni siamo
festanti di poter combattere accanto ai figli dei Vespri una
battaglia, che deve infrangere l'ultimo anello di catene con cui fu
avvinta questa terra del genio e dell'eroismo."
Parrà forse dir troppo ma è verità. La sera di quel giorno, proprio
come se ricorresse la sua festa di Santa Rosalia, Palermo si illuminò
tutta. Lasciamo stare che i palazzi e le case dei ricchi nelle grandi
vie fecero addirittura la luminaria; ma non vi fu casupola per quanto
povera e nascosta ne' vicoli, che non avesse il suo lume a ogni
finestra. E la notte passò in cene e canti e fino in danze. Per
prepararsi alla ripresa della guerra, se guerra doveva ancora
esservi, si avrebbe avuta poi tutta la mattinata appresso.
Ma quando fu mezzodì e i combattenti erano tornati tutti ai loro
posti, pronti a ricominciare, fu fatto dire dappertutto che
l'armistizio era prolungato di tre giorni. Allora entrò nei cuori che
in quanto a Palermo i regi avevano finito. E tanto più crebbe l'idea
quando si arrese la compagnia che custodiva il palazzo delle Finanze
in piazza Marina, dove giaceva un tesoro di cinquanta milioni di
ducati. Avevano messo il blocco al palazzo una ventina di Garibaldini
e un nugolo di popolani, appostati intorno a distanza, vigili giorno
e notte, e così il denaro della Sicilia, rimaneva in Sicilia.
Durante quell'armistizio, stettero le due parti ai loro posti, ognuna
con le proprie sentinelle piantate a farsi guardia contro la nemica.
E in certi punti della città, le sentinelle si trovavano a essere
così vicine fra loro, che in quattro passi potevano gettarsi a zuffa
l'una sull'altra. Perciò in quei luoghi insieme coi 'Picciotti', che
dal grande odio non avrebbero saputo stare senza insultarsi o saltare
addirittura sui napolitani, fu messo un gruppo di Garibaldini. E
talvolta avveniva che dei soldati napolitani qualcuno o la sentinella
stessa, da una parola all'altra, si lasciava tirare a conversare coi
Garibaldini, perdeva la testa, dava indietro un'occhiata, tentennava
un poco, e poi scattava via di lancio a rifugiarsi tra loro,
abbracciato, baciato, portato via in trionfo per la città. Così, alla
Fiera Vecchia, anche i Bavaresi disertarono a dozzine, ultime figure
di mercenarii che avevano fatto quell'ultima apparizione in Italia.
Magnanimo veramente era stato il primo giorno Francesco Crispi che,
appena sottoscritto l'armistizio, si era ricordato subito del Mosto e
del Rivalta, rimasti in mano dei borbonici, nella ritirata dal Parco.
Egli, segretario di Stato del Dittatore, corse a Castellamare per
farne lo scambio con due ufficiali superiori nemici, prigionieri.
Entrò nel forte superbamente, e chiese dei due Garibaldini. Di
Garibaldini prigionieri non v'era che il Rivalta; dell'altro, quei
del Castello non sapevano nulla. Il Rivalta sì, sapeva dove era il
suo povero amico; ma non lo disse, temendo che il Crispi infuriasse,
e tirasse fors'anche su di sé e su di lui la bestialità di alcuno di
quei biechi soldati. Diceva il Comandante del Castello che il Mosto
era forse dal generale Lanza nel Palazzo Reale. Il Crispi uscì per
andarvi, ma tra via il Rivalta, gli narrò che il Mosto esile e
stanco, nella ritirata dal Parco era caduto sfinito su per l'erta del
monte e che sopraggiunti i Cacciatori era stato trafitto a
baionettate. Egli, il Rivalta, aveva visto da pochi passi più in su
morir l'amico a quel modo, e sarebbe toccata anche a lui la stessa
sorte, se un giovane ufficiale non avesse persuasi i Cacciatori a
serbarlo per averne informazioni su Garibaldi. Salvato così, lo
avevano mandato al colonnello Bosco e poi a Palermo, dove era stato
chiuso in una casamatta del Castello, e tra le minacce e gli insulti
ivi tenuto sino a quel momento. Ma dalla mattina del 27, quando si
era sentito sopra il capo tremar le volte al tuonar dei mortai, aveva
sperato, gli si era allargato il cuore.
Sparsa la notizia tra i Carabinieri genovesi, andò al Parco Antonio
Mosto con alcuni amici; e sul monte, ancora nel posto dov'era stato
ucciso, trovò il suo fratello, dolce e gracile giovine, da otto
giorni insepolto. E nello stesso posto lo seppellì.
*
Garibaldi, un di quei giorni, verso sera, fece una passeggiata a
cavallo per la città, passando pei luoghi dove le barricate erano
meno fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo parrebbe ora
poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le turbe quella
figura dolce, e non sapendo ben capire come ad essa convenisse il
gran nome guerriero, chinavano religiosamente la fronte, o gli si
protendevano come ad un essere sovrumano. Non era difficile
immaginare le folle deliranti di certi altri paesi prostrate per
voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli correggeva con lo
sguardo quei fanatismi.
Spirato quel termine di tre giorni, fu prolungato l'armistizio di
altri tre. Si indovinava in ciò gli ondeggiamenti della Reggia di
Napoli, dove il re mite e le donne fiere tenevano la questione
sospesa tra i consigli di chi voleva che Palermo fosse tutta ridotta
in rovine, e il vecchio saggio Filangeri che ammoniva il Re,
supplicandolo di non si mettere da sé, con quell'eccidio, al bando di
tutta l'Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzo
armistizio seguì una convenzione, per la quale i regi si obbligavano
a sgombrar Palermo, però con l'onore delle armi. Garibaldi concesse.
Andassero pure onorati! Erano italiani anch'essi, e nel trattarli
così, egli poteva dire di riportare un'altra vittoria.
E il giorno 8 giugno fu uno strano spettacolo. Al cospetto di molto
popolo in festa, dinanzi a forse quattrocento Cacciatori delle Alpi
raccolti per quella cerimonia, sfilarono i ventimila soldati
dell'esercito regio, soldati di tutte le armi. Dove andavano, dove si
sarebbero ancora incontrati a combattere con quei loro vincitori che,
così pochi, avevano dietro di loro l'Italia Nuova? Non sapevano, ma
pareva sentissero che il mondo abbandonava il loro sovrano. Tuttavia,
se passavano senza fierezza, non avevano aria avvilita. I soldati
avevano combattuto.
Allora Palermo festeggiò sé stessa magnificamente, e quelli che
chiamava i suoi liberatori. Essi, in venticinque giorni dalla
partenza da Genova, avevano vissuto quanto si può vivere in parecchi
anni, e veduto e sentito quanto in un lungo viaggio, per terre di
civiltà antiche e venerande. E avevano anche potuto meditare sugli
effetti delle rivoluzioni compiutesi, durante l'ultimo secolo,
nell'alta Italia, dove se le miserie della vita erano ancora molte,
certa somma di beni s'era pur cumulata nelle città e nelle campagne,
e di questi beni tutti ne avevano risentito. Ma là nell'Isola,
rimasta nel silenzio e nella solitudine, senza essere stata toccata
dalla rivoluzione francese, quasi tutto era ancora come doveva essere
stato parecchi secoli indietro. Grandezze da principi in una classe
ristretta; povertà, ignoranza e superstizione nella grossa
moltitudine; e, salvo le grandi città, assenza quasi assoluta di quel
ceto di mezzo colto, ricco, operoso, che nell'alta Italia teneva già
sin da allora in pugno le sorti sociali. Però l'anima siciliana si
rivelava pronta a liberarsi da quanto di troppo vecchio la impediva,
e capace di rimettere in breve il gran tempo perduto. Ma queste eran
cose da lasciarsi al poi. Per allora bastava che l'Italia spingesse
avanti l'opera iniziata dai Siciliani e dai Mille. Questi si
sarebbero modestamente confusi nell'onda grossa di volontari che essa
avrebbe mandati, come infatti mandò.
Ma nei giorni che corsero tra lo sgombro dei regi e l'arrivo di
quella che fu chiamata la seconda spedizione condotta dal Medici, le
gioie che Palermo fece loro godere furono cose da novelle orientali.
Banchetti e festini, uno che aspettava la fine dell'altro per
cominciare. I Mille, smessi i panni borghesi, vi comparivano nelle
loro fiammanti camicie rosse, mirabili le Guide nelle pittoresche
divise tra ungheresi e francesi; mirabili i Carabinieri genovesi in
un costume severo e quanto mai signorile.
Ogni tanto, però, si faceva qualche gran funerale di morti per
ferite, perché grandiosa e solenne doveva essere in Palermo anche
l'ospitalità della tomba. Così certi umili volontari che, morti nelle
loro case, sarebbero stati accompagnati al cimitero da pochi umili
come loro, ebbero esequie da grandi. Quelle di Adolfo Azzi morto il 4
giugno, quelle del colonnello Tukory morto il dì 8, furono apoteosi.
Intanto alla gioia veniva a mescersi certa mestizia. Era di quella
che le grandi cose lasciano nel cuore, quando sono compiute. Gli
animi alacri e lieti della vigilia cambiano godimento nella tristezza
di poi.
Quanto a quelli che avanzarono dopo Palermo, alcuni andarono a morir
a Milazzo come Vincenzo Padula da Padula, Gaetano Erede da Genova e
Giuseppe Poggi, il bello ed eroico Poggi, cui Garibaldi aveva
ammirato a Calatafimi. Pilade Tagliapietra da Treviso, Giuseppe
Profumo da Genova, Pietro Zenner da Vittorio e l'angelico Ernesto
Belloni da Treviso, caddero a Reggio Calabria; Angelo Cereseto e
Giovanni Battista Roggerone, Quirico e Pietro Traverso, tutt'e
quattro genovesi, e Innocente Stella da Arsiero, morirono in
battaglia sul Volturno, e a Villa Gualtieri, il 1° ottobre. Così in
tutti, dei Mille, da Calatafimi al Volturno, quelli che morirono in
quel grand'anno furono settantotto. Altri come il Nullo ed Elia
Marchetti andarono presto a morir in Polonia cavalieri poeti della
libertà; altri ancora come Raniero Taddei e Antonio Ottavi da Reggio
Emilia e Stefano Messaggi milanese, morirono combattendo, ufficiali
dell'esercito, a Custoza; o come Vincenzo Dalla Santa e Giuseppe
Dilani camicie rosse, nel Trentino. Finirono a Mentana Vigo Pelizzari
e Antonio Caretti; alcuni, come Giuseppe Gnecco da Genova e Luigi
Perla da Bergamo, morirono in Francia, combattendo ne' Vosgi contro i
Prussiani. Di morte naturale, nei primi dieci anni dopo il '60,
morirono quelli che erano già quasi vecchi al tempo della spedizione,
ma anche molti, massime dei più giovani, consumati dalla tisi. Non
pochi finirono di malattie mentali; troppi si spensero da sé, non
rimasti abbastanza forti alla vita.
Si dice che a Quarto sorgerà un giorno un monumento con su tutti i
nomi dei Mille incisi nel marmo. Sarà cosa che onorerà la patria; ma
lo scoglio da cui Garibaldi scese a imbarcarsi, è da sé monumento cui
la poesia fece già più duraturo d'ogni marmo e d'ogni bronzo, essa
che vince il silenzio dei secoli!
- Fine -








 


 

Torna su

 

Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.