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Giuseppe Cesare Abba

Da Quarto al Volturno

Noterelle di uno dei Mille
[ALLA VIGILIA DELLA «GRANDE IMPRESA»]

Parma, 3 maggio 1860. Notte.
Le ciance saranno finite. Se ne intesero tante che parevano persino accuse. - Tutta Sicilia è
in armi; il Piemonte non si può muovere; ma Garibaldi? - Trentamila insorti accerchiano Palermo:
non aspettano che un capo, Lui! Ed egli se ne sta chiuso in Caprera? - No, è in Genova. - E allora
perché non parte? - Ma Nizza ceduta? dicevano alcuni. E altri più generosi: - Che Nizza? Partirà col
cuore afflitto, ma Garibaldi non lascierà la Sicilia senza aiuto.
I più generosi hanno indovinato. Garibaldi partirà, ed io sarò nel numero dei fortunati che lo
seguiranno.
Poco fa, parlavo di quest'impresa coll'avvocato Petitbon. Egli che l'anno scorso, nella
caserma dei cavalleggieri d'Aosta, pregava con noi che nascesse la rivoluzione nel Pontificio o nel
Napoletano, dacché Villafranca aveva troncata la guerra in Lombardia, non potrà venire con noi, e
si affligge. Ha la madre ammalata. Ci lasciammo colla promessa di rivederci domani, e se ne andò
lento e scorato, per via dei Genovesi. Mentre io stavo a guardarlo, mi venivano di lontano, per la
notte, rumori d'ascie e di martelli. E li odo ancora. Ma i cittadini non si lagneranno della molestia,
perché la fretta è molta. Si lavora anche di notte a piantare abetelle, a formar palchi, a curvar archi
trionfali, per la venuta di re Vittorio. Verrà dunque il Re desiderato fra questo popolo, che, ora sei
anni, vide cadere Carlo terzo duca, pugnalato in mezzo alla via. Io era allora scolaro di quattordici
anni, e ricordo il racconto che dell'orribile caso ci fece il padre maestro Scolopio. Frate raro,
biasimava l'uccisore ma non lodava l'ucciso.
Che Carlo terzo fosse quel duca, che, prima del quarantotto, fu in Piemonte ufficiale di
cavalleria? Se fu, vi lasciò tristo nome. Intesi narrare che una notte, in Torino, due ufficiali burloni,
di gran casato, amici suoi, lo affrontarono per celia. Pare che ne restasse così atterrito, che i due
dovettero palesarsi, tanto che non morisse dalla paura. E allora egli minacciò che guai a loro, se un
dì fossero capitati a passare per i suoi Stati. - Se mai, rispose uno dei due, pianteremo gli sproni ne'
fianchi ai cavalli, e salteremo di là da' tuoi Stati senza toccarli. - Povero Duca! Ora ne' suoi Stati
viene Vittorio. Gran fortunato questo Principe! Chi vuol fare qualcosa per la patria, sia pure non
amico di re, deve contentarsi di dar gloria a lui. Parma gli farà grandi accoglienze, e noi non saremo
più qui.
Parma, 7 maggio. Alla stazione.
Gli ho contati. Partiamo in diciassette, studenti i più, qualcuno operaio, tre medici. Di questi
uno, il Soncini, è vecchio, della repubblica Romana. Dicono che nel treno di Romagna troveremo
altri amici, fiore di gente. Ne verranno da tutte le parti.
Si fanno grandi misteri su questa partenza. A sentire qualcuno, neanco l'aria deve saperla. Ci
hanno fatto delle serie raccomandazioni; ma intanto tutti sanno che Garibaldi è a Genova, e che
andrà in Sicilia. Attraversando la città, abbiamo dato e pigliato delle grandi strette di mano, e avuto
dei caldi auguri.
4 maggio. In viaggio.
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Non so per che guasti, il treno s'è fermato. Siamo vicini a Montebello. Che gaie colline, e
che esultanza di ville sui dossi verdi! Ho cercato coll'occhio per tutta la campagna. È appena
passato un anno, e non un segno di quel che avvenne qui. Il sole tramonta laggiù. In fondo ai solchi
lunghi, un contadino parla ai suoi bovi. Essi aggiogati all'aratro tirano avanti con lui. Forse egli vide
e sa dove fu il forte della battaglia? Ho negli occhi la visione di cavalli, di cavalieri, di lance, di
sciabole cavate fuori da trecento guaine, a uno squillo di tromba; tutto come narrava quel povero
caporale dei cavalleggieri di Novara tornato dal campo due giorni dopo il fatto. Affollato da tutta la
caserma, colla sciabola sul braccio, col mantello arrotolato a tracolla, coi panni che gli erano
sciupati addosso, lo veggo ancora piantato là in mezzo a noi, fiero, ma niente spavaldo.
- Dunque, e Novara?
- Novara la bella non c'è più! Siamo rimasti mezzi per quei campi...
E narrò di Morelli di Popolo, colonnello dei cavalleggieri di Monferrato morto, di Scassi
morto, di Govone morto, e di tanti altri, lungo e mesto racconto.
- E i francesi?
- Coraggiosi! - rispondeva egli: - ma bisognava sentirli come i loro ufficiali parlavano di
noi!
Io lo avrei baciato, tanto diceva con garbo.
Povero provinciale di quei di Crimea, richiamato per la guerra, aveva a casa moglie, figliuoli
e miseria. Non amava i volontari: gli pareva che se fossero rimasti alle loro case in Lombardia, egli
non si sarebbe trovato lì, con trent'anni sul dorso e padre, a dolersi della pelle messa in giuoco
un'altra volta. Del resto non si vantava di capire molto le cose: ciò che piaceva ai superiori, piaceva
a lui: tutto per Vittorio e pazienza. Avessimo due o tre centinaia d'uomini come lui, buoni a cavallo
e a menar le mani, quando saremo laggiù!
Nella stazione di Novi.
Si conoscono all'aspetto. Non sono viaggiatori d'ogni giorno; hanno nella faccia un'aria
d'allegrezza, ma si vede che l'animo è raccolto. Si sa. Tutti hanno lasciato qualche persona cara;
molti si dorranno di essere partiti di nascosto.
La compagnia cresce e migliora.
Vi sono dei soldati di fanteria che aspettano non so che treno. Un sottotenente mi si avvicinò
e mi disse:
- Vorrebbe telegrafarmi da Genova l'ora che partiranno?
Io, né sì né no, rimasi lì muto. Che dire? Non ci hanno raccomandato di tacere? L'ufficiale
mi guardò negli occhi, capì e sorridendo soggiunse:
- Serbi pure il segreto, ma creda, non l'ho pregata con cattivo fine.
E si allontanò. Volevo chiamarlo, ma ero tanto mortificato dall'aria dolce di rimprovero con
cui mi lasciò! È un bel giovane, uscito, mi pare da poco, da qualche collegio militare; alla parlata,
piemontese. Non so il suo nome e non ne chiederò. Innominato, mi resterà più caro e desiderato
nella memoria.
Genova, 5 maggio. Mattino.
Ho riveduto Genova, dopo cinque anni dalla prima volta che vi fui lasciato solo. Ricorderò
sempre lo sgomento che allora mi colse, all'avvicinarsi della notte. Quando vidi accendere i
lampioni per le vie, mi si schiantò il cuore. Fermai un cittadino che passava frettoloso, per
chiedergli se con un buon cavallo, galoppando tutta la notte, uno avrebbe potuto giungere prima
dell'alba a C..., al mio villaggio. Colui mi rispose stizzito, che manco per sogno. Quella notte fu
lunga e dolorosa; e ora come posso dormire tranquillo, benché lontano dai miei e a questi passi?
Ieri sera arrivammo ad ora tarda, e non ci riusciva di trovar posto negli alberghi, zeppi di
gioventù venuta di fuori. Sorte che, lungo i portici bui di Sottoripa, ci si fece vicino un giovane, che
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indovinando. senza tanti discorsi, ci condusse in questo albergo, La gran sala era tutta occupata. Si
mangiava, si beveva, si chiacchierava in tutti i vernacoli d'Italia. Però si sentiva che quei giovani, i
più, erano Lombardi. Fogge di vestire eleganti, geniali, strane; facce baldanzose; persone nate fatte
per faticare in guerra, e corpi esili di giovanetti, che si romperanno forse alle prime marcie. Ecco ciò
che vidi in una guardata. Entravamo in famiglia. E seppi sùbito che quel giovane che ci mise dentro
si chiama Cariolato, che nacque a Vicenza, che da dieci anni è esule, che ha combattuto a Roma nel
quarantanove, e in Lombardia l'anno passato. Gli altri mi parvero, la maggior parte, gente provata.
Più sul tardi.
Stamane il primo passo lo feci da C... al quale farò conoscere i dottori di Parma, che a lui,
studente di medicina, sarebbero cari, se potesse venire con noi.
- Tu vai in Sicilia! esclamò appena mi vide.
- Grazie! Tu non mi hai detto mai parole più degne.
- È una grande fortuna! - soggiunse pensoso: e dopo lunghi discorsi prese la lettera che gli
diedi per casa mia. Egli la porterà soltanto quando si sappia che noi saremo sbarcati in Sicilia. Se si
dovesse fallire, voglio che la mia famiglia ignori la mia fine. Mi aspetteranno ogni giorno,
invecchiando colla speranza di rivedermi.
Mi abbattei nel signor Senatore, che mi conobbe giovinetto.
Egli mi ha detto che in Genova si è radunata una mano di faziosi, i quali oggi o domani
vogliono partire, per andare a far guerra contro Sua Maestà il Re di Napoli. Non sa più in che
mondo viva: e se il governo di qui non mette la mano sopra quegli sfaccendati perturbatori... Basta,
spera ancora! Scaricava cosi la collera che gli bolliva; ma a un tratto si piantò, domandandomi se
per avventura fossi anch'io della partita. Io non risposi. Allora certo d'aver colto nel segno,
cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni. Come? Poteva essere che il mondo si fosse girato
tanto, da trovarsi a simili fatti un giovane, uscito dal fondo d'una valle ignota, allevato da buoni
frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre...? Poi passò alle minaccie. Avrebbe scritto, si
sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui; mi avrebbe affrontato all'imbarco, per
trattenermi... Ed io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte proruppe: Ma che cosa
vi ha fatto il re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti!
Eppure un suo figlio verra con noi.
* * *
Desinammo in quattro, né allegri né mesti, e restammo a tavola pensando ognuno lontano,
secondo il proprio cuore. Tacevamo. A un tratto il dottor Bandini, che m'era di faccia, si levò ritto,
cogli occhi nella parete sopra di me. V'era un ritratto. Pisacane! Io lessi alto una strofa stampata a
piè dell'immagine di quel precursore, una delle strofe della Spigolatrice di Sapri. Al ritornello, il
dottor Bandini mi fu sopra colla sua voce potente e lesse lui:
Eran trecento, eran giovani e forti
E sono morti!
Tornò il silenzio di prima. Ed, io pensai alla notte che si fece sulle due Sicilie, dopo l'eccidio
di Sapri. Oh! allora, come deve essere parsa fuori di ogni speranza una ripresa d'armi, a quella
povera gente laggiù. Ai profughi si affacciò il sepolcro in terra straniera, e il regno fu tutto un
carcere.
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[DA QUARTO A MARSALA]
Quarto, presso la Villa Spinola. 5 maggio, a un'ora di notte.
Ho bevuto l'ultimo sorso.
Strana coincidenza di date! Partiremo stasera. Chi fra quanti siamo qui non ripensa che oggi
è l'anniversario della morte di Napoleone?
In mare. Dal piroscafo il Lombardo. 6 maggio mattino.
Navigheremo di conserva, ma intanto quelli che montarono sul Piemonte furono più
fortunati. Hanno Garibaldi. I due legni si chiamano Piemonte e Lombardo; e con questi nomi di due
provincie libere, navighiamo a portare la libertà alle provincie schiave.
Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte, arriveremo al
migliaio. Chi potesse vedere nel cuore di tutti, ciò che sa ognuno della nostra impresa e della
Sicilia! A nominarla, sento un mondo nell'antichità. Quei Siracusani che, solo a sentirli cantare i
cori greci, mandarono liberi i prigionieri di Nicia, mi parvero sempre una delle più grandi gentilezze
che siano state sulla terra. Quel che oggi sia l'isola non lo so. La vedo laggiù in una profondità
misteriosa e sola. E Trapani?
Mi vibrano bene nella mente, in questi momenti, le parole di quel volontario che fu in
Crimea. «Appoggiammo a Trapani, raccolta laggiù su d'una punta squallida, città colma di mestizia
fin sopra i tetti. Venivano, sulle barche, dei poveri straccioni a venderci frutta, girando stupefatti
attorno alla nostra nave. - Che cosa siete? ci chiedevano.
«Piemontesi.
«E dove andate?
«In Crimea, alla guerra.
«In Crimea, alla guerra!» ripetevano chinando il capo, e se ne andavano pieni di
compassione.
Vedremo Palermo? Vedremo la piazza dove fu fatto l'Auto da fè di fra Romualdo e di suor
Gertrude? Il Padre Canata ce lo lesse nel Colletta in iscuola; e leggendo pareva che schiaffeggiasse
la plebe e i grandi, che banchettarono cogli occhi sul rogo.
Ricordo più dolce, mio padre narrava che l'anno della fame, 1811, essendo egli fanciullo, la
gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano... di lontano... dalla
Sicilia. - E che cosa è la Sicilia? - domandavamo noi fanciulli. E lui: - Una terra che brucia in
mezzo al mare.
Nell'anno 1857, l'anno d'Orsini, d'Agesilao, di Pisacane, su per le colonne di via Po in
Torino, lessi scritto col carbone: «Sicilia è insorta, all'armi, fratelli». Chi sa da qual mano furono
scritte quelle parole? E se le scrisse un esule come sarà felice se per avventura è con noi.
* * *
Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e
consenso. Alla Porta Pila, v'erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a
Quarto, di tanto in tanto, un po' di folla muta. A pie della collina d'Albaro alzai gli occhi, per vedere
ancora una volta la Villa, dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la Grecia: e il
grido di Aroldo a Roma mi risonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul Piemonte, a fianco di
Garibaldi inspiratore.
- Questo villaggio è Quarto? - Sì. - Dov'è la villa Spinola? - Più avanti.
Tirai avanti. Ecco la villa.
Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità,
pei viali, si movevano uornini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v'era gran
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gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo! No, non ancora!
Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o spariva per la via che
mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui!
Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguito da
pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati. Ed io che non aveva lì
nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere, mi abbattei in Dapino, mio
condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo; ma gli vidi
a fianco suo padre e un suo fratello, e mi cadde l'animo. Temei d'assistere ad una scena dolorosa,
perché mi pareva che quel padre, che io so tanto amoroso, fosse venuto per trattenere il figliuolo; e
due passi più sotto v'erano le barche, e una turba silenziosa come di ombre sfilava giù in quel fondo.
Invece ecco il padre e il fratello abbracciare l'amico mio, e... mi si fa un nodo alla gola.
Qui accanto dicono d'un altro che non conosco. Sono Veneti, giovani belli e di maniere
signorili.
- Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?
- Da Udine?
- O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto,
chiedendo, pregando e tanto fece che lo trovò.
- E lui?
- E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col
rimorso d'averla disobbedita.
- E la mamma?
- Se n'andò sola.
* * *
Non si vede più terra.
La barca sulla quale ieri sera mi toccò montare, dondolava stracarica. I barcaiuoli per farci
stare che non si capovolgesse, ci pregavano di guardare, verso Genova, certe luci verdi e rosse che
splendevano nella notte. Come fossimo bambini! Verso le undici da una barca già in alto, udimmo
una voce limpida e bella chiamare: «La Masa!». E un'altra voce rispose: «Generalel». Poi non s'udi
più nulla.
Intanto le ore passavano; eravamo cullati dall'onda e mi addormentai. All'alba fui destato, e
vidi due navi maestose, lì ferme dinanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle. Mi volsi
addietro. Genova e la riviera apparivano laggiù incerte, in un velo vaporoso: ma là oltre, i miei
monti esultavano alti e puri, dominando la scena!
Una brezzolina increspava le acque; sulle navi si faceva un gran vociare; era una tempesta di
chiamate, di apostrofi e anche di sagrati, che lasciavano il segno nell'aria come saette. Fu una
mezz'ora di gran furia a chi facesse più presto a imbarcarsi; e anch'io potei finalmente agguantare
una gòmena e salire. Ho sempre negli occhi un giovane, che in quel momento vidi convulso
dibattersi in fondo ad una delle barche, tenuto a stento da tre compagni. Che fosse pentito o il mal di
mare l'avesse ridotto in quello stato?
* * *
Si odono tutti i dialetti dell'alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più.
All'aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta. Vi sono alcuni che
indossano divise da soldato: in generale veggo faccie fresche, capelli biondi o neri, gioventù e
vigore. Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto canute; ho notato sin da
stamane qualche mutilato. Certo sono vecchi patriotti, stati a tutti i moti da trent'anni in qua.
- Anche tu sei qui? esclamava uno abbracciando un amico: non eri a Parigi?
- Arrivai ieri sera.
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- A tempo per venir con noi?
- E avreste voluto fare senza di me?
Mi parve una vantazione che stesse male: ma l'aria del giovanotto elegante era tanto
semplice e sicura! Non domando mai d'uno chi sia, poi me ne pento. Fino ad ora non conosco che
Airenta, dei nuovi. Egli, mentre scrivo, dorme lungo disteso, colla testa appoggiata alla sua sacca,
vicino ai miei piedi. È un giovane d'oro. Ci conoscemmo ieri, ci trovammo qui, ci siamo promessi
di star sempre insieme. I suoi maestri del seminario arcivescovile di Genova, quando sapranno il
passo che ha fatto!
Che? Un uomo in mare?
* * *
Fu un quarto d'ora d'angoscia. Indietro alla macchina! urlava il capitano, e il legno si fermò
sbuffando. Ma l'uomo caduto in mare era già lontano; appariva, spariva e lottava. Fu presto calata
una lancia: la spingemmo cogli occhi, coi gesti, coll'anima, tutti. Il caduto fu raggiunto, agguantato,
salvato. Dicono che sia un genovese.
* * *
Mi si era fitto in mente che questo capitano del Lombardo fosse un Francese. L'aria, gli atti,
il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sè ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato,
iracondo, sta sul castello come schiacciasse un nemico. L'occhio fulmina per tutto. Si vede che sa
far di tutto da sè. Forse in mezzo all'oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, basterebbe a
cavarsela. Il suo profilo taglia come una sciabolata; se aggrotta le ciglia, ognuno cerca di farsi
piccino; visto di fronte non si regge al suo sguardo. Eppure, a tratti, gli si esprime in faccia una
grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino? - Bixio! Ecco il nome che gli sta! Almeno
rende qualcosa come un guizzo di folgore.
Si fa notte: il Piemonte tira innanzi più veloce di noi. A quest'ora in casa mia si accende il
lume, torna mio padre da fuori, la cena fuma sulla mensa; ma la famiglia tarda a sedersi... qualcuno
manca.
In mare, 7 maggio,
Fu fatto fare silenzio. Da poppa a prora tacemmo tutti, e la voce potente d'uno che leggeva
un foglio suonò alta come una tromba. L'ordine del giorno ci ribattezza Cacciatori delle Alpi, con
certe espressioni che vanno dritte al cuore. Non ambizioni, non cupidigie; la grande patria sovra
ogni cosa, spirito di sagrificio e buona volontà.
Conosco un altro ordine del giorno, che fu letto non so bene se nella ritirata da Roma nel
1849, o l'anno scorso ai volontari, prima che passassero il Ticino. Si sente sempre lo stesso spirito.
Anche in quello, il Generale diceva di offrire non gradi né onori, ma fatiche, pericoli, battaglie e
poi... per tenda il cielo, per letto la terra, per testimonio Iddio.
Talamone, 7 maggio.
Vedevamo lontano un villaggio, una torre svelta, sottile, lanciata al cielo; una bandiera su
quella agitata dal vento. Bandiera italiana, villaggio toscano. Era questo di Talamone, sulle coste
maremmane. Quando fummo vicini a terra, una barca venne a gran forza di remi verso di noi,
portando il Comandante di questo castelluccio. Il valentuomo era mezzo sepolto sotto due spalline
enormi, e aveva in capo una lanterna tutta galloni.
Che paese di povera gente! Carbonai e pescatori. La nostra discesa gli ha rallegrati.
- Come si chiama quel monte là in faccia?
- Monte Argentaro.
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- E quelle case bianche, mezzo tuffate in mare?
- Porto San Stefano.
- Con una veduta come questa sempre dinanzi agli ocche, dovete fare una bella vita!
- Sì se si mangiasse cogli occhi. Ma... Basta... finché si campa!
Cosi mi diceva un giovane carbonaio, mentre seguitava a discorrere, per farmi dire a sua
volta chi siamo, e dove andiamo; io pendeva, proprio pendeva, dalle sue labbra, bevendo il dolce
della sua lingua e pensando al mio dialetto aspro.
* * *
Lo rividi disceso a terra. Lento e sorridente se ne veniva su per la salita, vestito da generale
dell'esercito piemontese. I lunghi capelli e la barba intera combinavano male con quei panni. Il
capitano Montanari, che pare suo grande amico, gli veniva a fianco celiando, e gli diceva: «Così
vestito mi sembrate un leone in gabbia». Il Generale sorrideva.
* * *
Son voluto entrare in chiesa. Una piccola chiesa disadorna e tranquilla, fatta proprio per
pregarvi e null'altro. Mi sono seduto tra le panche, per respirare un po' di quell'aria fresca che era là
dentro, e invece mi si riempì l'animo di malinconia. Uscito, ho subito scritto a casa mia,
confessando d'esser qui, e dicendo con chi e dove vado.
* * *
Mi sono tuffato in mare con una voluttà indicibile. Le acque erano tiepide, per tutta la riva
una festa di nuotatori, sui poggi, a brigate, si vedevano i nostri godere il fresco dell'erba. Lungo la
strada che mena ad Orbetello un gran viavai.
Ma che cosa facciamo qui? Che cosa si aspetta? Stanotte dormiremo a terra, e i nostri legni
staranno all'àncora. Dicono che furono menati via dal porto di Genova per sorpresa. Che colpo, se
venisse una nave da guerra a ripigliarceli! Il meglio sarebbe tirar via. Ma forse il Generale attende
notizie, o altra gente, o armi. Appunto, sino ad ora non abbiamo armi. Soltanto alcuni se ne vanno
attorno, con certe carabine che si tengono care come spose. Le hanno sempre in ispalla. Sono
genovesi, tutti tiratori da lunga mano, preparati a questi tempi con fede ed amore. Quell'uomo dai
capelli grigi, non vecchio ancora ma neanche più giovane, è un professore di lettere, amico di
Mazzini, uscito di carcere l'anno scorso. V'era stato chiuso pei fatti di Genova del 1857. Si chiama
Savi. Ho inteso dire che nel 1856, quando fu formata la Società Nazionale, e Garibaldi vi si iscrisse
uno dei primi, il Savi l'abbia rimproverato d'aver accettato l'iniziativa monarchica, lui capo militare
del partito repubblicano uscito da Roma. Ma ora per l'Italia è venuto anche lui. Se ne sta in disparte
modesto e taciturno; ma si vede che è amato e cercato. Chi non sa chi sia, gli passa vicino rispettoso
e lo saluta.
* * *
Ci siamo provati in quattro a mettere insieme un po' di erudizione. Uno disse che i Galli
Gesati, armati di spiedi, e incamminati alla volta di Roma, devono essere stati più qua e più là a
campo, nella pianura verso Orbetello, quando furono colti e distrutti dai Romani, sbarcati qui
tornando dalla Sardegna. E qui Mario approdò furtivo, reduce dall'esilio d'Africa, coll'anima
traboccante degli odi, nati nella palude di Minturno e inaspriti dagli ossequi concessi a Silla. Qui,
sul finire del secolo scorso, le schiere napoletane del conte di Damas videro per la prima volta le
insegne dei repubblicani di Francia. E i posteri aggiungeranno che qui discese Garibaldi coi suoi,
navigando verso Sicilia.
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Talamone, 8 maggio.
Le compagnie sono formate, otto in tutto. lo co' miei amici siamo scritti alla sesta. La
comanda Giacinto Carini, siciliano, che mi pare di trentacinque anni. Dicono che nel quarantotto fu
colonnello di cavalleria; che stesse coll'armi alla mano sino all'ultima caduta della rivoluzione; e
che da quei tempi visse in Francia, sperando e scrivendo. Siamo lieti d'aver per capo un siciliano,
che ha fama di prode: eppoi è un così bel tipo di soldato! Affabile, gentile, parla e innamora. E
siciliani sono anche gli altri ufficiali della compagnia, salvo un modenese, che deve saper bene il
mestiere, ed essere anch'egli uomo ardito e di franco coraggio.
Bixio, La Masa, Anfossi, Cairoli, ed altri bei nomi della nostra storia, comandano ognuno
una compagnia: tutti gli ufficiali hanno qualche bella pagina di valore: parecchi sono ancora di quei
di America, ne ho visti tre che hanno un braccio solo. Primo aiutante del Generale è il colonnello
Türr ungherese, e Sirtori è il capo dello Stato Maggiore. Abbiamo con noi il figlio di Daniele
Manin, e ho inteso parlare d'un poeta gentile che canterà le nostre battaglie. Si chiama Ippolito
Nievo.
Tutti i Genovesi che hanno carabina, forse quaranta, formano un corpo di Carabinieri. Il loro
capitano Antonio Mosto chi lo volesse dipingere, è una bella testa di filosofo antico. Di modi e di
fisionomia austero, pare uno che abbia fatto penitenza sino ad oggi, per affrettare la resurrezione
d'Italia. È conosciuto per coraggiosissimo; e infatti come potrebbe non esserlo, se quei giovani lo
tengono per primo?
* * *
Ho riveduto quei due signori che hanno viaggiato con me da Parma a Genova. Sono qui
anche loro; soldati nella prima compagnia. Il più giovane, piemontese, si chiama Giovanni
Pittaluga. È un fuoco. A Piacenza, per aver veduto alcuni soldati francesi andare a zonzo vicino alla
stazione, si tirò dentro gridando se quelli stranieri non se ne andranno mai più. E il più vecchio, che
si chiama Spangaro ed è veneziano, e deve essere un uomo di conto, a vedere com'è rispettato qui,
disse con molto senno, che avremo grazia se ci riuscirà di vederli andarsene colle buone. L'altro
fremeva. Ora avranno agio di continuare la loro disputa sull'efficacia dei modi spicci che il giovane
vorrebbe adoperati, a farla finita coi nemici d'Italia. Nella sua fisonomia vi è del Saint-Just. Guai a
quel povero prete o frate che gli venisse a cascare fra le mani.
* * *
Il povero Sartori era seduto sul ciglio di quello scoglio, col mare là sotto a picco. Si
querelava tra sé, ma udì il mio passo e si tacque. Gli chiesi che cosa avesse. Mi rispose che era stato
lì lì per buttarsi da quell'altezza, offeso nel vivo da un capitano che gli impose di levarsi di capo il
berretto da ufficiale, portato nell'esercito dell'Emilia. Deve essere stato un battibecco fiero. Sartori
obbedì, ma ha giurato di far parlare di sé.
* * *
Allegro che scoppiava nei panni, montato a bisdosso su d'un asinello, uno dei nostri
cavalcava su per l'erta, tra le risa de' suoi amici. La povera bestia cadde, e il giovane andò giù
ruzzoloni, rimanendo malconcio. Fu messo a letto nell'osteria, e vi rimarrà chi sa quanto. Poveretto,
quando noi ripartiremo!
* * *
9
Una mano dei nostri si staccheranno tra poco da noi. Passeranno il confine romano condotti
da Zambianchi. Mi duole pei tre medici di Parma destinati a seguirlo. Diverse venture, comunque la
meta sia una. Noi non ci siamo detti addio.
E mi hanno detto che sono partiti, o stanno per partire, non so quanti, che non vogliono più
seguire il Generale, perché al grido di guerra ha mescolato il nome di Vittorio Emamiele. Se ne
parla, se ne giudica, ma non se ne sente dir male.
9 maggio. Dal Lombardo in faccia a San Stefano.
Ieri sera c'imbarcammo che il mare pareva volersi mettere in burrasca. Gli abitanti di
Talamone ci salutarono dalla riva, accompagnandoci con auguri pietosi.
Sono venuti a bordo del Lombardo tre bersaglieri fuggiti da Orbetello. Uno ve n'era già sin
da Genova, Pilade Tagliapietre, trevisano. Se al Lamarmora, che creò questa sorte di soldati, e li
condusse da Goito in Crimea, invincibili sempre, avessero predetto che un giorno quattro giovani
vestiti de' suoi panni, guarderebbero dalla tolda di un bastimento alla Sicilia in rivolta, chi sa che
rigonfiamento di cuore n'avrebbe avuto, e che sorta di esclamazioni avrebbe tartagliato. Oh la
vecchia Sicilia di Vittorio Amedeo!
Ci deve essere gran fretta di partire, perché Bixio grida ai barcaiuoli che vanno e vengono
portando acqua: «Venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!». I barcaiuoli fanno
forza di braccia e le barche volano.
Intanto che si aspetta l'acqua, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch'io, uno
schioppo rugginoso che, Dio mio! E m'hanno dato un cinturino che pare d'un birro, una giberna, una
baionetta e venti cartucce. Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine
nuovissime? C'è di peggio. Il colonnello Türr fu ieri ad Orbetello, e tornò con tre cannoni e una
colubrina lunga come la fame; roba che deve essere dei tempi quando quel lembo di terra là si
chiamava lo Stato dei Presidii. Come faremo, tanto male armati laggiù?
L'acqua è arrivata, si salpa l'àncora. Santo Stefano, addio. Girato quel promontorio, saremo
di nuovo nel grande mare, e che Dio ci aiuti.
9 maggio. Sera.
Non una vela sull'orizzonte. Oltrepassata l'isoletta del Giglio, cominciò una delizia di
venticello che ristorava le vene. Il cielo è purissimo. Neppur più uno di quei tanti smerghi che ci
seguivano, librandosi alti, precipitando fulminei a tuffarsi, quasi per farci festa. Vedemmo molti
delfini balzare allegri sull'acqua e tenerci dietro un pezzo.
Fra poco sarà notte. Una voce armoniosa e robusta canta da poppa una canzone, che
udiranno i nostri compagni del Piemonte. È il volo dell'anima alla donna del cuore. Adesso la
canzone si muta in un coro di voci poderose... «Si vola d'un salto nel mondo di là!». Oh se fossimo
presi in mare!
10 maggio.
Dall'alba fino ad ora fu un vero splendore. Si navigò che pareva di andare al trionfo
tranquilli, colla pace del mare e col cielo che pareva nostro. Ma venne il momento dell'angoscia.
Uno dei nostri si è gettato in mare. Si dice che sia lo stesso dell'altra volta. Dunque allora non è
caduto per disgrazia? Quando il legno si fermò, vedevamo lontana la testa del naufrago, e
misuravamo spasimando la corsa della barca che volava a salvarlo. E vi riuscirono. Riportato a
bordo, Bixio lo rimproverò aspramente, poi si commosse e lo fece mettere in una cabina, dove è
custodito. Gli hanno levato di dosso i panni fracidi, l'hanno vestito d'una tunica da ufficiale, e ora
giace là dentro, fulminando cogli occhi attorno come un pazzo furioso.
* * *
10
Il Piemonte ci precede di molte miglia. Quella nave corre superba, come avesse coscienza
della fortuna e dell'uomo che porta. Si vede come un punto nero laggiù; anzi non è più che il suo
fumo, lasciato addietro come la coda d'una cometa. Se si abbattesse nella crociera napoletana!
Ormai siamo nelle acque del nemico. Gli ordini sono più severi. Alcuni hanno indossato camicie
rosse. Bixio grida, li chiama mussulmani, vuole che stiano rannicchiati. Nessuna vela sull'orizzonte.
Sempre noi soli, fin dove la vista può giungere.
* * *
Il caporale Plona si lasciò sfuggire non so che brutte, parole, e Bixio giù! gli scaraventò un
piatto in faccia. Ne venne un po' di subbuglio. Come un razzo Bixio fu sul castello gridando: «Tutti
a poppa, tutti a poppa!». E tutti ad affollarsi a. poppa rivolti a lui, ritto lassù che pareva lì per
annientarci. E parlò:
«Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago e
prigioniero, ma sono qui, e qui comando io! Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono
Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla, e, guai chi pensasse di
ammutinarsi! Uscirei con il mio uniforme, colla mia sciabola, con le mie decorazioni e vi ucciderei
tutti! Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi
impiccherete al primo albero che troveremo; ma - e misurò collo sguardo lento la calca, - ma in
Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo!».
Viva Nino Bixio! viva, viva, viva! E mille braccia si alzarono a lui, che stette lassù fiero un
poco; ma poi impallidì, gli balenarono gli occhi e ci volse le spalle. Dall'alto dell'alberatura i
marinai applaudivano. Allora di mezzo a noi si udì la voce quasi fioca d'uno, che ritto su d'una
botte, coi capelli e la barba di un biondo scialbo, con una faccia fine e soave, non più giovane né
gagliardo, arringava, annaspando nell'aria colle braccia, parlando di Garibaldi e di Bixio con grandi
lodi. Stiamo a vedere, pensai, che Bixio gli scarica addosso una pistolettata. Mi volsi, proprio
temendo, ma Bixio non era più sul castello. L'oratore tirò innanzi un altro poco, poi dové discendere
senza concluder nulla. Niuno badava a lui, perché le parole di Bixio avevano fatto sugli animi come
il vento sulle acque. Tutti erano agitatissimi, ognuno avrebbe data per Bixio la vita. Ho chiesto il
nome di quell'oratore che ha viso dolce di Galileo, e mi hanno detto che è La Masa.
Di sul Lombardo, 11 maggio. Mattino.
Ieri, dopo il tramonto, i marinai delle antenne vedevano ancora come un'ombra del
Piemonte. A prora, un giovane che pare nato alle grandi avventure, accendeva fiocchi di stoppa
incatramata, e sempre per un verso li buttava in mare. Che fossero segnali? Il bagliore di quelle
fiamme rossicce, dava a tratti uno strano risalto alla faccia d'adolescente di quel giovane, e la sua
fronte pareva fuggisse sotto i ricci biondi. Io guardava le sue mani ben fatte, il suo petto ampio, il
suo collo robusto e bello, cinto di un fazzoletto di seta ricadente giù per le spalle; e pensava ai mari
d'oriente e al Corsaro di Byron.
Mi rannicchiai in un angolo, con un visibilio nel capo, e mi addormentai come un morto.
- Su! su! - mi disse Airenta, scuotendomi forte, non so a che ora.
Balzai. Tutti quelli che erano sul ponte stavano ginocchioni, curvi, sporgendo le faccie a
sinistra. Non si udiva che, un sussurro; le baionette luccicavano inastate.
- Ma che c'è?
E Airenta a me: - Una nave viene a furia verso di noi.
- Borbonica?
- Ha già suonato la campana, e Bixio ha comandato di non rispondere.
11
La nave veniva dritta sul nostro fianco, e il rumore delle sue ruote era concitato e rabbioso.
Mi pare che il suo camino gettasse fiamme. Bixio piantato sul castello la investiva cogli occhi.
Certo si preparava a qualche tragedia; magari a far saltare in aria sé, noi e la nave che ci era ormai
quasi addosso. Non ho potuto capir bene quel che seguì, per un po' di confusione che mi nacque
vicino: solo intesi Bixio gridare: «Generale!». E poi fu una grande allegria.
Quella nave era il Piemonte. Il Generale che ci aveva preceduti, scoperta la crociera
borbonica, tornò indietro in cerca di noi; ci trovò, si parlarono con Bixio, e ci riponemmo in via,
mutando rotta.
Credo che ora siamo più vicini all'Africa che alla Sicilia,
* * *
Si torna a navigare verso Sicilia.
A poppa, i Lombardi cantavano le canzoni dei loro laghi. Non sono meste come quelle dei
miei monti, non rendono le pene delle generazioni nate a patire all'ombra dei castelli, che ora,
rovine senza gloria, coronano i poggi sopra i villaggi delle mie vallate; ma qualcosa di patetico vi è
anche in esse, e toccano il cuore profondamente.
Ho qui vicino un Ungherese, che veggo da ieri girare in mezzo a noi. Non sa dire una parola.
Mi guarda con quei suoi occhi piccini, aggrottati, verdi. Ha i capelli a lucignoli sulla fronte stretta, e
il naso da Unno. Cuoce meditabondo e cupo, sdraiato a questo sole; e forse sta pensando alla sua
patria, mentre viene a morir per la mia.
* * *
Gran bella veduta d'isolette! Sembrano emerse ora dal mare. C'è del verde di tutti i toni; c'è
della roccia splendente, c'è un'aria azzurra che avvolge tutto; e le isole hanno una.zona d'argento al
piedì.
Sento che in quelle isole vi sono prigioni orribili. Il Re di Napoli vi tiene chiusi i prigionieri
di Stato, e le famiglie che ve ne hanno qualcuno, dicono: «Meglio i morti!».
* * *
La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell'azzurro tra mare e cielo, ma
era l'isola santa! Abbiamo a sinistra le Egadi, lontano in faccia il monte Erice che ha il culmine
nelle nubi. Un siciliano che era meco sulla tolda, mi narrava le avventure di Erice figlio di Venere,
ucciso da Ercole su quelle vette. Erano ameni gli antichi, ma quant'è pure ameno l'amico mio, che
trova ora tempo di parlare di mitologia! Ei mi disse che su quel monte c'è un villaggio che si chiama
San Giuliano, dove nascono le più belle donne della Sicilia.
* * *
Come si conoscono gli esuli siciliani! Eccoli là a prora tutti affollati. In questo momento non
vivono che cogli occhi. Saranno una ventina, di tutte le età. Miracolo se il colonnello Carini
sbarcherà vivo, se non gli si romperà il cuore dalla allegrezza.
* * *
Il dottor Marchetti che ride sempre quando mi vede scrivere, non sa che ora scrivo del suo
figliuolo. Compagno d'esilio, l'ha voluto seco sin qui. Il giovinetto può avere dodici anni; eppure è
di piglio sì ardito! Fortunato lui, che ha un mattino così splendido nella sua vita! Se la morte non lo
coglierà, sarà un uomo levatosi per tempo nella sua giornata. Che c'è? Tutti guardano da poppa...
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* * *
Due navi corrono a vista dietro di noi!
Si è messo un po' di vento in poppa. Tutte le vele sono spiegate, i marinai lavorano che
sembrano uccelli. Bixio comanda, ubbidito a puntino. Ha gridato che chi gli sbaglia una manovra,
lo farà impiccare all'albero di maestra! Voliamo.
* * *
Un piccolo legno veniva da terra. Bandiera inglese. Bixio prese un foglio vi scrisse sopra
qualcosa, fece fendere un pane e nel fesso mise il foglio. Poi quando il legno passò quasi rasente a
noi, gettò il pane che cadde in mare. «Allora - gridò facendo tromba colle mani, - dite a Genova che
il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala, oggi a un'ora pomeridiana!».
Sul piccolo legno fu un levar di mani, un battere di applausi, uno sventolare di fazzoletti,
evviva, viva, viva!
* * *
Eccola lì Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde de' suoi giardini, il bel declivio
che ha innanzi. Nel porto poco naviglio; una nave da guerra sta alla bocca e si è tutta pavesata.
- Pronti, figliuoli - grida Bixio, tutto per noi; e se avesse la forza ci lancerebbe in un colpo
alla riva. Ma siamo certi di sbarcare, sebbene le due navi ci inseguano sempre. Hanno guadagnato
un bel tratto. Vengono sbuffando.
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[DA MARSALA A CALATAFIMI]
Marsala, 11 maggio.
Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta
squallida, solitaria, paurosa. Capitano Ciaccio da Palermo, piange come un bambino dall'allegrezza:
io faccio le viste di non vederlo. La compagnia chi qua, chi là, mezzi a cercar da mangiare. Ma al
primo squillo, non ne mancherà uno. Dal porto, tirano cannonate a furia contro la città. Su molte
case sventolano bandiere d'altre nazioni. Le più sono inglesi. Che vuol dir questo?
* * *
Il Lombardo è quasi sommerso. Il Piemonte galleggia maestoso sull'acqua. Le fregate che ci
inseguivano arrivarono a tiro che noi eravamo quasi tutti sul molo. La terra ci mareggiava sotto i
piedi; stentavamo a tenerci ritti. La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì,
venuta giù a turba. Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le
enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano: «Siete reduci, emigrati, svizzeri?».
Alle porte della città, comparvero degli ufficiali di marina, in calzoni bianchi; e venivano
giù al porto, verso la nave inglese, discutendo agitati. Noi intanto ci stavamo ordinando. A un tratto
s'ode un colpo di cannone. Che è? Un saluto! dice sorridendo il colonnello Carini, vestito d'una
tunica rossa, con un gran cappello a falda, piumato, in capo. Un secondo colpo, una grossa palla
passa, rombando balzelloni, tra noi e la settima compagnia, e caccia in aria l'arena. I monelli si
gettano a tetra; i frati fuggono come possono con quei gran corpi, camminando dentro i fossati. Una
terza palla sfascia il tetto d'una casetta di guardie, lì presso; una granata cade in mezzo alla mia
compagnia, e fuma per iscoppiare. Beffagna da Padova vi corre addosso e ne cava la miccia. Bravo!
Ma egli non sente o non bada.
E poi giù i colpi che non si contarono più. Quale furore! Ora la città è nostra. Dal porto alle
mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati d'ogni
colore si squarciavano la gola gridando: donne e fanciulle dai balconi ammiravano. «Beddi!
Beddi!» si sentiva dire da tutte le parti. Io ho bevuto all'anfora d'una giovinetta popolana che
tornava dalla fonte. Rebecca!
E quell'arco della porta per la quale entrammo in città, come l'ho innanzi agli occhi! Mi
parve l'ingresso d'una città araba; e un po' mi parve anche di essere alle porte del mio villaggio, che
hanno un arco come questo. Mi fermai a dare un'occhiata verso il porto. Venivano su correndo gli
ultimi manipoli dei nostri: le due navi borboniche balenavano avvolte nel fumo; e quel nostro
Lombardo, adagiato su d'un fianco, mi fece pietà. Dicono che Bixio l'abbia voluto sommergere.
Costui dove passa lascia il segno.
Di guardia sull'antico porto di Marsala. Sera.
Noi qui non vediamo che cosa avvenga dall'altra parte, dove siamo sbarcati; ma senza
dubbio quel fuoco da cacciatori è fatto dai carabinieri genovesi. Forse le navi hanno gente da sbarco
a bordo e tentano di metterla a terra. Purché non vi riescano nella notte, e non colgano i nostri
rimasti in città, alla sprovveduta o peggio! Vi è un certo vino traditore, e si è stati tanti giorni a
digiuno! Ma i capi vi hanno pensato, e quasi tutte le compagnie son fuori. La mia è qui tutta intera.
Vediamo una gran curva di lidi, e laggiù all'orizzonte un promontorio nero. Forse è Trapani. Quelle
barchette che si staccano colà e pigliano il largo, sono cariche di gente che fugge. Intanto il fuoco
dalle navi continua.
14
Marsala, 12 maggio, 3 ore ant.
Ieri sera alle dieci, il caporale Plona mi piantò laggiù a piè di uno scoglio, sentinella ultima
della nostra fila, e mi ci lasciò cinque ore. Feci dei versi alle stelle. Fu la mia veglia d'arme.
Mercoledì. Durante il «grand'alt».
Alla punta del giorno venne uno a cavallo, parlò col capitano, pigliammo gli schioppi, e
rientrammo in città. Per una via sonnacchiosa, passammo innanzi a certe casuccie, dove la miseria
si ridestava nelle stanze terrene semiaperte e schifose, riuscimmo alla campagna dal lato opposto.
Là erano tutti i nostri già ordinati e pronti; là un'allegrezza intera e sana che alzava il cuore. In alto
mare, le due navi napoletane di ieri filavano di lunga, menandosi a rimorchio il Piemonte. Bella
consolazione! Il Lombardo era sempre al suo posto; e quando spuntò il sole, la parte della sua
carena che era fuori dell'acqua, parve incendiarsi dallo splendore, per salutarci e augurarci fortuna.
Nell'aria era un profumo delizioso: ma quel campo lì fuori le mura di Marsala, coi suoi
grandi massi nerastri sparsi qua e là, con quei fiori gialli che lo coprivano a tratti, cominciava a
darmi non so che senso di cose morte. Passò Bixio a cavallo. Fiero come già sul cassero del
Lombardo, diede una occhiata burbera laggiù a quel povero legno, accennò brusco come a dire:
«Siamo intesi!» e tirò innanzi trottando. Dopo di lui vennero alcune Guide, gente che ha navigato
sul Piemonte, bei cavalli, bei cavalieri, coll'uniforme leggiadra che avevano l'anno passato in
Lombardia. Nullo caracollava bizzarro e sciolto; torso da Perseo, faccia aquilina, il piú bell'uomo
della spedizione. Pare uno dei tredici che han combattuto a Barletta. Missori da Milano, vestito
d'una tunichetta rossa che gli cresce l'aspetto di gran signore, ha in capo un grazioso berretto rosso,
gallonato d'oro, e comanda le Guide. Dolce ma tutt'animo; lui e Nullo, Eurialo e Niso. Quell'altro,
semplice Guida, colla faccia imbroncita e piena di bonta, è il più vecchio del drappello. Avrà
quarant'anni? È Nuvolari da Mantova, un ricco campagnuolo che ha cospirato e combattuto umile e
costante; tipo di puritano dei tempi di Cromwell. Gli altri tutti fior di giovani; carissimo un Manci
da Trento, che mi fa pensare alla Fiorina del Grossi, tanto ha l'aria di fanciulla innocente.
Sempre sorridente e colla buona novella in fronte, arrivò ultimo Garibaldi collo Stato
Maggiore. Cavalcava un baio da Gran Visir, su di una sella bellissima, colle staffe a trafori.
Indossava camicia rossa e calzoni grigi, aveva in capo un cappello di foggia ungherese e al
collo un fazzoletto di seta, che, quando il sole fu alto, si tirò su a far ombra al viso. Scoppiò un gran
saluto affettuoso; ed Egli, guardandoci con aria paterna, si spinse fin in capo alla colonna. Poi le
trombe suonarono e ci ponemmo in marcia.
Fatto un bel tratto della via consolare, si pigliò la campagna, per una straduccia incerta e
difficile tra i vigneti. I nostri cannoni venivano dietro a stento, su certi carri dipinti d'immagini
sacre, tirati da stalloni focosi, che spandevano nell'aria la grande allegria delle loro sonagliere. Ci
siamo fermati a questa fattoria; una casa bianca e un pozzo, in mezzo a un oliveto. Che gioia un
poco d'ombra, e che sapore il po' di pane che ci han dato! E il Generale seduto a piè di un olivo,
mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli
che ha intorno. Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica.
Dal Feudo di Rampagallo. Sera.
Ripresa la via, dopo una buona ora di sosta, ci rimettemmo per l'immensa campagna. Non
più vigneti ne olivi, ma di tratto in tratto ancora qualche campicello di fave, poi più nessuna coltura.
Il sole ci pioveva addosso liquefatto, per la intermìnabile landa ondulata, dove l'erba nasce e muore
come nei cimiteri, E mai una vena d'acqua, mai un rigagnolo, mai all'orizzonte un profilo di
villaggio: «Ma che siamo nelle Pampas?» esclamava Pagani, il quale da giovane fu in America.
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Quelle solitudini dove l'occhio non trovava confine, a larghe distanze, erano appena animate
da qualche capanna di pastori, o da branchi di cavalli sciolti, nella loro selvaggia libertà. A vederci,
galoppavano lontano, cacciati dallo spavento, e talvolta si arrestavano corvettando dall'allegrezza.
Dopo mezzodì, sul margine del nostro sentiero, trovammo un vecchio pastore. Vestiva pelli di
capra, e la sua testa, fiera e quasi da selvaggio, era coperta da un enorme berretto di lana. Teneva le
mani appoggiate sulle spalle di un giovinetto, che poteva avere quindici anni, ed osservava muto il
nostro passaggio. Quando arrivò a lui la mia compagnia, egli si rivolse al capitano gridando con
voce sicura: «Principe Carini, reboldate la cabedale!» E spinse il giovinetto in mezzo a noi. Poi si
asciugò gli occhi, e volte le spalle, si allontanò per quel deserto. Lontano, lontano all'orizzonte,
vedevamo una capanna, forse la sua.
- Che è principe il nostro capitano? chiesi al tenente palermitano anche lui.
- No... Un principe Carini esiste, ma borbonico che ci avvelenerebbe l'aria.
Questo gran casone bieco e un antico feudo. Arrivammo che il sole andava sotto, e ci
ponemmo qui sul pendio, sdraioni sull'erba soffice e lussureggiante. Fui mandato ad attinger acqua.
Su d'un rialzo vicino al casone, stavano in crocchio alcuni dei nostri capi. Mentre passavamo uno di
essi diceva: - Avete badato a quel deserto, tutt'oggi? Si direbbe che siamo venuti per aiutare i
Siciliani a liberare la loro terra dall'ozio!
Del nemico non si sente dir nulla.
13 maggio. Salemi.
Da un balcone di convento, in faccia alla gloria del sole.
Stamane suonava la diana, e Bixio già in sella veniva da chi sa dove. Se invece di quella
uniforme di fanteria, vestisse un costume del cinquecento, ecco Giovanni dalle Bande Nere. Nella
notte sono arrivati a squadre molti insorti, armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre.
Parecchi vestono pelli di pecora sopra gli altri abiti, tutti paiono gente risoluta, e si sono messi con
noi.
Quando movemmo dal campo di Rampagallo, eravamo aggranchiti per aver dormito là
senza tende, senza coperte, come capitammo, colla gran guazza che viene giù queste notti. Ma ci
liberammo dal freddo assai presto e dopo mezz'ora di marcia si desiderava già l'acqua. Passammo
vicino a parecchie fonti, bevevamo cogli occhi; ma Bixio era sempre là inesorabile a far guardia, e
non ci lasciava nemmen bagnar le labbra. Ha fatto bene. Uno dei nostri che riuscì a bere, cadde a
mezzo della gran salita che mena quassù. Lo vidi dibattersi per dolori atroci, fra gli amici
addolorati; un medico gli teneva il polso e tentennava il capo. Speriamo che non sia morto.
Quella salita scomunicata ci ha fatto rompere il petto, ma pazienza. Arrivando, fummo
accolti da una folla d'uomini, di donne, di fanciulli strilloni; quasi non si sentiva la banda che ci
suonava il trionfo.
Una donna, con un panno nero giù sulla faccia, mi stese la mano, borbottando.
- Che cosa? dissi io.
- Staio morendo de fame, Eccellenza!
- Che ci si canzona qui? - esclamai: e allora un signore diede alla donna un urtone, e mi
offerse da bere, in un gran boccale di terra. Fui lì per darglielo in faccia; ma accostai le labbra per
creanza, poi piantai lui per raggiungere quella donna Non mi riuscì di trovarla. Ma subito una
giovane dagli occhi grandi, soavi, e smunta, malata, mi porse un cedro colla destra, e colla sinistra
tesa mi disse: - Signorino! - Un cencio di gonnella le dava a mezzo stinco, e aveva i piedi ignudi. Le
posi in mano due prubbiche, monetuccie di qui che paion farfalle; essa le prese e corse via. La
veggo ancora, colle gambe scarne, battute dai brandelli della veste lurida e corta, fuggire non so se
lieta o vergognosa.
Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si
vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s'inginocchiava, chi benediceva: la
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piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del belloo prima che gli facessero un po' di largo. Ed
egli, paziente lieto, salutava ed aspettava sorridendo.
* * *
C'e qui un ufficiale vestito dell'uniforme Piemontese, che mi pare tutto quello del caso di
Novi. Farò di parlargli, e, se è lui, mi scuserò di non avergli voluto dire quel che mi chiese. Dicono
che sia disertore, che si chiami De Amicis, che sia di Novara.
* * *
Ho fatto un giro per la città. L'hanno piantata quassù che una casa si regge sull'altra, e tutte
paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i
Saraceni, Salemi era al sicuro! Vasta, popolosa, sudicia, le sue vie somigliano colatoi. Si pena a
tenersi ritti; si cerca un'osteria e si trova una tana. Ma i frati, oh! i frati gli avevano belli i conventi,
e questo dov'è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati.
Gli abitanti, non scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non
sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo.
Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V'era una brigata di
amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che... Eppure ne mangiai
anch'io. E bevemmo e chiacchierammo, e c'eravamo dimenticati d'essere qui a questi passi, quando
venne Bruzzesi delle Guide, il quale ci disse che un grosso corpo di Napoletani è a poche miglia da
noi. «Meglio! - sclamò Gatti, - bisognerà vedere che cera ci faranno».
Salemi, 14 maggio.
Il Generale ha percorsa la città a cavallo. Il popolo vede lui e piglia fuoco: magia dell'aspetto
o del nome, non si conosce che lui.
Il Generale ha assunta la Dittatura in nome d'Italia e Vittorio Emanuele. Se ne parla, e non
tutti sono contenti. Ma questo sarà il nostro grido. Alle cantonate si legge un proclama del Dittatore.
Egli si rivolge ai buoni preti di Sicilia. Un rètore ha notato che, preti buoni, sarebbe stato meglio
detto.
Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. E hanno
bande che suonano d'un gusto! Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce
sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai
quali ubbidisce devota.
Piove dirotto. Del nemico notizie diverse o contraddittorie. Sono quattromila; no, diecimila,
con cavalli e cannoni. Si fortificano sui tali monti: no, sui tali altri: si avanzano, si ritirano
rapidamente. Questa notte staremo ancora qui: e intanto finiranno d'allestire i carri per la nostra
artiglieria.
* * *
Grazioso! Ieri l'altro, appena sbarcati, alcuni dei nostri occuparono il telegrafo. L'ufficiale,
fuggendo, aveva lasciato lì un foglio, sul quale era scritto: «Due vapori sardi sbarcano gente». Era
un dispaccio mandato al Comandante militare di Trapani. E da Trapani appunto: «Quanti sono? Che
cosa vogliono?». Allora i nostri: «Perdonate, mi sono ingannato, i legni sbarcano zolfo». Da
Trapani secco secco: «Imbecille!».
Poi un taglio dei nostri al filo telegrafico e silenzio.
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Salemi, 15 maggio. 5 ore ant.
Ho spalancato le finestre di questa cella di monaco, e ho dato un'occhiata alla campagna,
sonnacchiosa sotto i fumacchi che si levano dalle valli. Chi sa che via piglieremo, e in quale dei
punti cui arriva la mia vista, saremo affrontati dai Napoletani? Chi sa per che via marciano a noi, o
in qual gola stanno ad attenderci?
Margarita e Bozzani lunghi e distesi lì su d'un tappeto verde, avuto non so da chi, dormono
ancora. Raccuglia, il buon vecchietto Palermitano che non parla mai, si allaccia la calzatura, al lume
della mia candela. Torna dall'esilio in nostra compagnia, come un popolano fuoruscito del
medioevo.
- Sergente Raccuglia, che tempo avremo oggi?
- Bisognerà vedere il Generale in faccia; ma sarà bello, perché vedete là? Gatti si ravvia i
capelli. Sempre lindo e attillato. lui!
Lì, fuori della porta, due milanesi stavano ragionando dei fatti nostri, uno più dottore
dell'altro, a dimostrare che sono seri, assai, da tutte le parti. «Nemico numeroso, provveduto di
tutto: noi armi pessime, munizioni poche, un quindici cartucce per ciascuno, gli insorti peggio
armati di noi».
- Ehi? tuonò un vocione dal corridoio, che ci siete venuti per fare codesti conti?
I due si tacquero.
Suona la sveglia. E Simonetta viene a dirci che si parte. Gran giovane Simonetta! Non si
cura di nulla per sé, non vive che per gli altri. V'è una guardia da fare? Simonetta si offre. Un
servizio faticoso? Eccolo pronto lui, gracile e gentile. Si distribuisce il pane? Egli si presenta
l'ultimo a pigliare il suo.
Ha lasciato a Milano il padre vedovo e solo.
* * *
Fra minuti si parte.
Il nemico è davvero a nove miglia. Abbiamo riposato due giorni e due notti su quest'altura,
tra questa gente povera e rozza. Chi sa dove dormiremo stasera? I carri per l'artiglieria sono fatti; la
colubrina allunga la sua gola; il corpo dei cannonieri è formato. Sono quasi tutti ingegneri.
15 maggio. 11 ore ant. Sui colli del Pianto Romano.
Un pensiero a casa, poiché tutto e pronto. I nostri cannoni sono laggiù, piantati sulla strada
consolare a sinistra. Eccolo là il nemico. La montagna rimpetto a noi ne è gremita; saranno circa
5000 uomini. Noi siamo scaglionati per compagnie. Il Generale da quella punta osserva le mosse
dei nemici. Fra le nostre posizioni e le loro, e una pianura non vasta ed incolta. La bandiera sventola
sul poggio più alto, in mezzo a noi. Il sottotenente che la porta, mandò me dal Generale, e il
Generale mi mandò a lui comandando: «Ditegli che si porti sul poggio più alto, colla bandiera, e
che la faccia sventolare!». Dio, con qual voce me lo disse!
Al colonnello Carini si è impennato il cavallo. Egli è caduto. Non fa nulla. Rieccolo in sella.
Dianzi vidi cadere anche il La Masa, che si deve essere fatto male. Mi sentii, come se avessi battuto
del capo io stesso, contro quelle pietre.
I cacciatori napoletani discendono dalle alture. Che calma!... Che sicurezza nel loro
movimenti! Fra poco... Ma le loro trombe, che suoni lugubri!
16 maggio. Dal convento di San Vito sopra Calatafimi.
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Sarà bello, se camperò, rileggere fra molti anni questi sgorbi. Avessi avuto tempo, da ieri
mattina ne avrei fatto cento pagine!
Tutta Salemi era fuori a salutarci. «Benedetti! Benedetti!»: E quando da piè della discesa mi
volsi a guardare in su, tesi le braccia alla città e a quella gente, che avrei voluto stringere al petto
tutta. Venivano giù le nostre compagnie di passo allegro e cantando. Garibaldi ad una svolta della
via, veduto dal basso, grandeggiava sul suo cavallo nel cielo; in un cielo di gloria, da cui pioveva
una luce calda, che insieme al profumo della vallata ci inebriava. E con noi, giù dal monte venivano
le squadre dei siciliani; una processione che non vidi finire, perché la mia compagnia si inoltrò per
la campagna, bella, sempre più bella, sino al villaggio di Vita, dove c'incontrammo colle nostre
Guide che venivano indietro di mezzo trotto. Avevano scoperto il nemico. Non v'era che da salire il
colle là presso, e l'avremmo avuto in faccia.
Intanto la gente di Vita fuggiva. Fuggivano portando le masserizie, trascinando i vecchi e i
fanciulli, un pianto. Attraversammo il villaggio attristati, e quella povera gente ci guardava, ci
faceva cenni di compassione, ci diceva: Meschini!
Dopo breve tratto sostammo. E allora vidi la nostra bella bandiera portata al centro della
settima, quel centinaio e mezzo di giovani quasi tutti dell'Università di Pavia, fior di Lombardi e di
Veneti, la compagnia più numerosa e più bella.
A GIUSEPPE GARIBALDI
GLI ITALIANI RESIDENTI IN VALPARAISO
1855
Lessi queste parole, trapunte a caratteri grandi d'oro su d'un lato della bandiera. Sull'altro
trionfava l'Italia, figurata in una donna augusta, che, rotte le catene, sorge ritta su d'un trofeo,
cannoni, schioppi, tutt'oro e argento.
Io contemplava la bandiera, pensando che in quelle terre lontane dove fu fatta, tra quei
patriotti donatori, vive un fratello del padre mio; e intanto vedeva un gran correre di ufficiali e di
Guide. Poi comparve il Generale, le trombe squillarono, lasciammo la strada consolare, ci
mettemmo pei campi e su per la collina brulla, una compagnia incalzando l'altra. Di lassù
scoprimmo il nemico. Il colle in faccia sfolgorava tutto armi, pareva coperto di diecimila soldati.
- Come? Calzoni rossi? I Napoletani hanno già i Francesi con loro? - sclamarono alcuni
sdegnati, vedendo il rosso nelle file nemiche: ma i Siciliani che udirono li quetarono, rispondendo
che anche gli ufficiali napoletani portano calzoni rossi.
Ci ponemmo a giacere, ed erano quasi le undici. Mi parve che fossimo stati a guardarci coi
regi pochi minuti, eppure la prima schioppettata non fu tratta che all'una e mezza dopo mezzodì. I
cacciatori napoletani scesi lunghi lunghi, giù per quelle filiere di fichi d'India, tirarono primi.
Garibaldi gli aveva osservati a lungo da una balza, con Türr, Tuköry, Sirtori ed altri molti che gli
stavano intorno. Io lo vidi malinconico e pensoso. Credo che a quel primo incontro sperasse...
sperasse in una ispirazione che ai Napoletani non venne. Eppure nostra bandiera sventolava lassù
nella luce!...
- Non rispondete, non rispondete al fuoco! - gridavano i Capitani; ma le palle dei cacciatori
passavano sopra di noi con un gnaulìo così provocante, che non si poteva star fermi. Si udì un
colpo, un altro, un altro; poi fu suonata la diana, poi il passo di corsa: era il trombetta del Generale.
Ci levammo, ci serrammo, e precipitammo in un lampo al piano. Là ci copersero di piombo.
Piovevano le palle come gragnuola, e due cannoni dal monte già tutto fumo, cominciarono a trarci
addosso furiosamente. La pianura fu presto attraversata, la prima linea di nemici rotta; ma alle falde
del colle chi guardava in su!...
Là vidi Garibaldi a piedi, colla spada inguainata sulla spalla,destra, andare innanzi lento e
tenendo d'occhio tutta l'azione. Cadevano intorno a lui i nostri, e più quelli che indossavano tamicia
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rossa. Bixio corse di galoppo a fargli riparo col suo cavallo, e tirandoselo dietro alla groppa, gli
gridava:
- Generale, così volete morire?
- Come potrei morire meglio che pel mio paese? - rispose il Generale, e scioltosi dalla mano
di Bixio, tirò innanzi severo. Bixio lo segui rispettoso.
Goro da Montebenichi e Ferruccio a Gavinana: pensai tra me, rallegrandomi del ricordo; ma
subito mi tremò il core; credei di indovinare che al Generale paresse impossibile il vincere, e
cercasse di morire.
In quel momento, uno dei nostri cannoni tuonò dalla strada. Un grido di gioia da tutti salutò
quel colpo, perche ci parve di ricevere l'aiuto di mille braccia. «Avanti, avanti, avanti!» non si udiva
più che un urlo; e quella tromba che non aveva più cessato di suonare il passo di corsa, squillava
con angoscia come la voce della patria pericolante.
Il primo, il secondo, il terzo terrazzo, su pel colle, furono investiti alla baionetta e superati:
ma i morti e i feriti, che raccapriccio! Man mano che cedevano, i battaglioni regi si tiravano più in
alto, si raccoglievano, crescevano di forza. All'ultimo parve impossibile affrontarli più. Erano tutti
sulla vetta, e noi intorno al ciglio, stanchi, affranti, scemati. Vi fu un istante di sosta; non ci
vedevamo quasi tra le due parti: essi raccolti là sopra, noi tutti a terra. S'udiva qua e là qualche
schioppettata: i regi rotolavano massi, scagliavano sassate, e si disse che per sino il Generale ne
abbia toccata una.
A quell'ora mancavano già dei nostri molti, che intesi piangere dai loro amici: e vidi là
presso, tra i fichi d'India, un giovane bello, ferito a morte, sorretto da due compagni. Mi pareva che
si volesse lanciare innanzi ancora; ma udii che pregava i due fossero generosi coi regi, perché
anch'essi Italiani. Mi sentii negli, occhi le lagrime.
Già tutta l'erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento. Vicino a me il Missori
comandante delle Guide, coll'occhio sinistro tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse l'orecchio
ai rumori che venivano dalla vetta, donde si udivano i battaglioni moversi pesanti, e mille voci,
come fiotti di mare in tempesta, urlare a tratti «Viva lo Re!».
Frattanto i nostri arrivavano a ingrossarci, rinascevano le forze. I Capitani si aggiravano tra
noi, confortandoci. Sirtori e Bixio erano venuti a cavallo fin lassù.
Sirtori vestito di nero, con un po' di camicia rossa che usciva dal bavero, aveva nei panni
parecchi strappi fatti dalle palle, ma nessuna ferita. Impassibile, colla frusta in mano, pareva non si
sentisse presente a quello sbaraglio; eppure sulla faccia pallida e smunta io lessi qualcosa, come la
voluttà di morire per tutti noi.
Bixio compariva da ogni parte, come si fosse fatto in cento, braccio di ferro del Generale.
Lassù lo rividi vicino a lui un altro istante.
- «Riposate, figliuoli, riposate un altro poco; - diceva il Generale - ancora uno sforzo e sarà
finita!». - E Bixio lo seguiva per le file.
In quella il sottotenente Bandi veniva a salutarlo, lì per cadere sfinito. Non ne poteva più.
Aveva toccate parecchie ferite, ma un'ultima palla gli si era ficcata sopra la mammella sinistra, e il
sangue gli colava giù a rivi. - Prima che passi mezz'ora sarà morto, pensai: ma quando le compagnie
si lanciarono all'ultimo assalto, contro quella siepe di baionette che abbagliavano, stridevano, sì che
pareva di averle già tutte nel petto, tornai a vedere quell'ufficiale fra i primi. «Quante anime hai?»
gli gridò uno, che deve essergli amico. Egli sorrise beato.
Il grande, supremo cozzo, avvenne mentre la bandiera di Valparaiso, passata da mano a
mano a Schiaffino, fu vista agitata alcuni istanti, di qua di là, in una mischia stretta e terribile e poi
sparire. Ma Giovan Maria Damiani delle Guide potè afferrarne uno dei nastri e strapparlo; gruppo
michelangiolesco lui e il suo cavallo impennato, su quel viluppo di nemici e di nostri. Mi rimarrà
dinanzi agli occhi fin che avrò vita.
In quel momento i regi tiravano l'ultima cannonata, fracellando quasi a bruciapelo un Sacchi
pavese; e fu da quella parte un urlo di gioia, perché il cannone era preso. Poi corse voce che il
Generale era morto; e Menotti ferito nella destra correva gridando e chiedendo di lui. Elia giaceva
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ferito a morte; Schiaffino, il Dante da Castiglione di questa guerra, era morto, e copriva la terra
sanguinosa colla sua grande persona.
Quasi sulla vetta, vicino alla casina, mentre io passava, riconobbi ai panni più che al viso il
povero Sartori. Certo era morto fulminato, perché cinque minuti prima lo avevo visto salire, e mi
aveva salutato a nome. Giaceva sul lato sinistro, tutto attrappito e coi pugni chiusi. Era stato ferito
nel petto. Caddi sopra di lui, lo baciai e gli dissi addio. Povero morto! Negli occhi spalancati, nella
fisonomia spenta, gli era rimasto come un desiderio di respirare una ultima fiatata di quell'aria di
guerra. Mantenne da prode la sua parola di Talamone, e quanti conoscemmo Eugenio Sartori da
Sacile, parleremo a lungo di lui.
I Napoletani morti, che pietà a vederli! Morti di baionetta molti; quelli che giacevano sul
ciglio del colle quasi tutti erano stati colti nel capo. Là un mostricciattolo, che ai panni mi parve un
villano di queste parti, inferociva su d'uno di quei morti. «Uccidete l'infame!» urlò Bixio, e spronò
su di lui colla sciabola in alto. Ma il feroce scivolò fra le roccie e disparve, più bestia che uomo.
Macchiette nel quadro grande, veggo quei francescani che combattevano per noi. Uno d'essi
caricava un trombone con manate di palle e di pietre, poi si arrampicava e scaricava a rovina. Corto,
magro, sudicio, veduto di sotto in su a lacerarsì gli stinchi ignudi contro gli sterpi che esalavano un
odore nauseabondo di cimitero, strappava le risa e gli applausi. Valorosi quei monaci, tutti fino
all'ultimo che vidi, ferito in una coscia, cavarsi la palla dalle carni e tornare a far fuoco.
Durante la battaglia, sulle alte rupi che sorgevano ìntorno a noi, si vedevano turbe di paesani
intenti al fiero spettacolo. Di tanto in tanto, mandavano urli, che mettevano spavento ai comuni
nemici.
Quando questi cominciarono a ritirarsi protetti dai loro cacciatori, rividi il Generale che li
guardava e gioiva. Gli inseguimmo un tratto; disparvero in una fondura! riapparvero fuori di tiro,
nella montagna, in faccia, seguiti da un centinaio di loro cavalli, che stati in agguato sino a quel
momento, li raggiunsero a briglia sciolta. Dal campo, stemmo a vedere la lunga colonna salire a
Calatafimi, grigia lassù a mezza costa del morite grigio, e perdersi nella città. Ci pareva miracolo
aver vinto. Si mise un vento freddo gelato. Ci coricammo. Era un silenzio mestissimo. Si fece notte
in un momento, ed io con Airenta e Bozzani ci addormentammo in un campicello dì grano,
accarezzati dalle spighe curve sui nostri corpi.
Stamane, quando suonarono la sveglia, rompeva appena l'alba, ma qualche allodola cantava
già alta nell'aria. Credeva che si dovesse marciare all'assalto della città, perché ieri sera intesi il
Generale parlarne con Bixio. Ma nella notte era venuta gente da Calatafimi, ad annunziare che i regi
partivano alla volta di Palermo. Allora volli fare un giro pel campo.
Ritrovai Sartori là ancora dov'era caduto. Nessuno lo aveva toccato, ma pareva morto da tre
giorni. Le sue guancie erano divenute smunte, i suoi capelli tesi, la pelle d'un giallo che non si
poteva guardare. Mi si strinse il cuore, e non ebbi forza di dargli l'ultimo bacio. Egli lo avrebbe
fatto, egli mi avrebbe seppellito colle sue mani!
Ora, di qui, io veggo il colle quieto e deserto. Ieri fin le pietre parevano là vive ad aiutarci! I
nostri morti che giacciono su quei dossi, sono più di trenta. Gli ho quasi tutti dinanzi agli occhi,
come erano due giorni or sono, baldi, confidenti, allegri. Ma un d'essi mi mette non so che
sgomento nell'anima, quell'ufficiale che vidi a Novi, che rividi a Salemi, e non rivedrò mai più.
Anche De Amicis è morto, e rimasto la nella gloria con nome non suo!
Meno da rimpiangere i morti, perché i poveri feriti, raccolti in quel misero villaggio di Vita,
soffrono Dio sa come, soli, senza cure, senz'altra difesa che la loro impotenza. E se vi capitasse una
colonna di questi soldati feroci, che hanno l'ordine di non dar quartiere.
Tramonta il sole. Giù nella città le bande empiono l'aria di suoni. Mi narrano che vi fu
cerimonia per la benedizione del Dittatore, fatta da un frate che ci segue fin da Salemi. Io non
discenderò più di qui: non mi staccherò da questa bella veduta, finché non sia notte. In quel fitto di
boschetti laggiù veggo Alcamo, di qua a là una Tempe. Il Golfo di Castellamare chiude la scena e
par che sfumi nel cielo, nel cielo libero al desiderio che vi si sprofonda. Quell'acque lontane hanno
un sorriso di promessa, in cui l'anima si confonde, come negli occhi di una cara fanciulla. Un po' di
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spiaggia, un po' di spiaggia! Mi sembra che là sapremo qualcosa di noi e del mondo, che a quest'ora
ci ha giudicati.
Stasera leggerò alla compagnia l'Ordine del giorno. L'ho trascritto nella cancelleria
municipale di Calatafimi, dove il capitano Cenni tempestava rabbioso, non so perché. Leggerò:
«Soldati della libertà Italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa». Che
grido quando la compagnia udirà quest'altro passo: «Le vostre madri usciranno sulla via, superbe di
voi, colla fronte alta e radiante!».
Veggo su per l'erta il colonnello Carini, che se ne viene a cavallo di passo allegro. Che si
parta?
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[DA CALATAFIMI A PALERMO]
Alcamo, 17 maggio
Sulla soglìa d'una chiesetta, quasi in riva al mare.
Da Calatafimi a qui fu una camminata allegra, per campagne fiorenti. Ma dappertutto vi era
traccia della sconfitta che facemmo toccare ai regi: zaini, berretti, bende insanguinate buttate lungo
la via. All'alba partendo si cantava; poi, tra per quella vista e per il sole che si alzò a schiacciarci, si
tacque e si tirò innanzi come ombre. Verso le dieci, ci abbattemmo in certe belle carrozze, mandate
ad incontrarci come gran signori. Alcamo era vicina. Nelle carrozze v'erano gentiluomini lindi e
lucenti, che fecero le accoglienze al Generale; mentre, allo sbocco dei sentieri, si affollavano dai
campi molte donne campagnuole, confidenti e senza paura di noi. Alcune si segnavano
devotamente; una ne vidi con due bambini sulle braccia inginocchiarsi quando il Generale passò; e
uno dei nostri ricordò le Trasteverine d'undici anni or sono, che lo chiamavano il Nazzareno.
Entrammo in Alcamo alle undici. È bella questa città, sebbene mesta; e all'ombra delle sue
vie par di sentirsi investiti da un'aria moresca. Le palme inspiratrici si spandono dalle mura dei suoi
giardini; ogni casa pare un monastero; un paio d'occhi balenano dagli alti balconi; ti fermi, guardi,
la visione e sparita.
Prima che noi giungessimo, si diceva che i regi erano sbarcati numerosi e furibondi a
Castellamare, ma che subito erano tornati a imbarcarsi. Non si parla più di questa mossa, ma si
vedono laggiù in alto due navi. Potrebbero essere da guerra.
* * *
Fummo in cinque da un signore che ci volle a forza in casa sua, e vi desinammo. Che
gentilezza d'uomo in quest'isola solitaria: ma che ingenua ignoranza delle cose d'Italia! Egli non ci
tenne nascoste le sue figliuole, che ci guardavano ansiose e ci parlavano come a conoscenti antichi.
- Di dove siete? chiedeva il loro babbo a Delucchi.
- Genovese.
- E voi? volgendosi a Castellani.
- Da Milano.
- Ed io da Como, - rispondeva senza aspettare d'essere interrogato Rienti, che ha la testa
come uno di quegli angeloni ricciuti e paffuti, che si veggono scolpiti, coll'ali aperte, ai corni degli
altari.
- Che bei paesi devono essere i vostri! Ma perché siete vestiti così da paesani? Via, dite la
verità, siete soldati piemontesi. No? E allora come avete fatto a vincere tanti Napoletani? Passarono
di qui che era una pietà a vederli. Non arriveranno a Palermo la metà.
Poi il discorso cadde sulla guerra dell'anno scorso. Quel signore pareva nato ieri. Credeva
appena che Vittorio Emanuele fosse davvero al mondo. Intanto s'era bevuto, e qualcuno menzionò
Ciullo d'Alcamo, e la dolce canzone, e si parlò, anche di Bari, di Puglia, e della sfida di Barletta.
L'ospite trasecolava a sentirci parlare di tante cose: non ci voleva più lasciar uscire; e quando
potemmo andarcene senza disgustarlo, le sue figliuole ci porsero la mano. Baciammo rispettosi e
timidi, e ce ne venimmo via con un po' di scompiglio nel cuore.
* * *
Il tuono brontolava cupo di là dai monti; tutti si affollavano giù al mare, credendo che fosse
il rombo del cannone. «Palermo è insorta, corriamo a Palermo!». Ma poi sovra i monti si levarono
certi nuvoloni scuri, un temporale che svanì.
* * *
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Si diceva misteriosamente, dall'uno all'altro, che il Generale ha perduto la speranza di
riuscire contro i trentamila soldati che il Borbone ha nell'isola; che la nostra colonna sarà disciolta;
che ognuno sarà lasciato libero di cavarsi come potrà da questo passo. L'annunzio fu un lutto. Ma
era una falsa voce, o forse un gioco che ci viene dal nemico.
* * *
Quel frate che ci segue sin da Salemi, vuole spandere un'aura di religiosità sopra di noi. Lo
vidi poco fa partirsi per tornare a Calatafimi. - «Colonnello Catini, disse passando al mio
Comandante, domani dirò messa sovra un avello tricolorato! Dopo tornerò con voi».
* * *
Alcuni che rimasero addietro, per ferite leggere toccate a Calatafimi, ci raggiunsero qui.
Narrano le sofferenze dei nostri compagni ricoverati a Vita. Non si sa come, le piaghe
ingangreniscono; i medici si struggono intorno ai sofferenti, ma la morte li toglie loro di mano.
Francesco Montanari da Mirandola, quell'amico del Generale che celiava con lui a Talamone, è
morto dei primi.
E se è vero, capisco le parole che disse il frate partendo per Calatafimi, fa un'ora. Mi fu detto
che i nostri morti giacciono ancora insepolti sui colli del Pianto Romano!
18 maggio. Tra Partinico e Burgeto.
Era meglio rompersi il petto, ma varcare la montagna, scansare Partinico.
Si saliva l'erta su cui sorge il villaggio, e il po' di vento che rinfrescava l'aria ci portava già a
ondate un fetore insopportabile. Appena in cima, ci affacciammo alla vista della città, arsa gran
parte e fumante ancora dalle rovine. La colonna da noi battuta a Calatafimi s'azzuffò cogli insorti di
Partinico, gente eroica davvero. Incendiato il villaggio, i borbonici fecero strage di donne e di
inermi di ogni età. Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani morti e squarciati fra quelli.
19 maggio. Passo di Renna.
Ieri Burgeto mi parve un agguato. Dalle case bieche, mezzo nascoste tra gli olivi giganti, i
paesani ci guardavano muti, come una processione di spettri. Ho notato una cosa. Se un popolo ci
accoglie con gioia, l'altro che troviamo subito dopo ci sta contegnoso e freddo.
Passammo.
Per una via scavata nella montagna arida, traversammo una gola, dove ci fu sopra il vento
freddo del crepuscolo, a minacciarci una brutta nottata. Sul tardi riposammo su questa montagna.
Un vero anfiteatro. Quando si giunse eravamo stanchi, stanchi assai. Da Alcamo a questo, che si
chiama Passo di Renna, corrono molte miglia. Ma noi le abbiamo percorse senza contarle, anzi si
cantò sino a Partinico. Là cessarono i canti e l'allegrezza.
Non ho più dormito come stanotte, da quando lasciai le panche della scuola. La testa sulla
sacca, la sacca sovra una pietra, il corpo supino lungo il margine della via. Ma stamane che gioia!
Alla punta del giorno, la banda di non so che villaggio vicino venne a svegliarci, suonando un'aria
dei Vespri siciliani. Io balzai, corsi sulla rupe più alta, questa dove scrivo, e il mio sguardo si perdé
nella Conca d'oro. Palermo! Era laggiù incerta tra la nebbia e il mare. Si vedevano le navi lungo la
rada, tante come se vi si fossero date convegno tutte le marinerie d'Europa, per vederci il giorno in
cui piomberemo improvvisi sulla città. O cacciatori dell'Alpi benedetti!
Tutti corrono ad una grande cisterna là in fondo, e si lavano i panni e le persone. Come una
scena della Bibbia, nelle valli della Giudea.
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* * *
Dimenticavo che ieri sera verso le dieci, mentre ci eravamo appena accampati e
accendevamo i fuochi, alcuni signori palermitani, venuti traverso a chi sa quanti pericoli, capitarono
quassù. Io li vidi, quando si incontrarono col colonnello Carini. Egli che torna in patria, coll'armi in
pugno, dopo dieci anni d'esiglio, e quei signori amici suoi d'antico, si abbracciarono d'affetto,
dicendosi cogli occhi e coi singhiozzi un mondo di cose. Poi intesi da loro che in Palermo tutto è
pronto che appena saremo alle porte, la cittadinanza irromperà dalle case, a sopraffare i ventimila
soldati che tengono la città. E narrarono ancora che la polizia vuol dar a credere al popolo che noi
siamo saccheggiatori, l'ira di Dio, come si dice qui. Parlavano dei birri. Ah! i birri di Palermo
debbono essere una gran laidezza. A sentire quei signori, i birri si vantano che uno di questi giorni
dovranno far un eccidio di patriotti; e le trecce delle dame palermitane, dicono di volerle a far
cuscini per le loro mogli.
Dei soldati si sa che portarono da Calatafimi un'impressione profonda. Ne sono ancora
sbalorditi, ma si tengono compatti e fedeli al Re. Di noi, del continente, di quel che fuori dell'isola
si sa sulle operazioni nostre, sulla nostra vittoria, nulla.
Prima di partirsi da noi, quei signori ci vollero baciare, e ci diedero convegno a Palermo,
nelle loro case. Benedini dottore tirò fuori il taccuino, e alla luce del fuoco ne volle scrivere gli
indirizzi.
- «Che fate? - esclamò uno di loro afferrandogli la mano, - quelle cose lì si tengono a
memoria!».
Previdenti i Siciliani, ed esperti nelle cospirazioni.
Nessuno di noi avrebbe pensato al pericolo in cui uno può essere posto, per un indirizzo
trovato indosso ad un altro. Terremo a memoria quello di quei signori e li cercheremo; purché nel
ritorno non siano caduti in mano dei regi.
* * *
Il tenente colonnello Tuköry cavalca su e giù per la strada, esercitando un morello, che non
tocca la terra da tanto che è vispo. Giovanissimo per il suo grado, quest'ufficiale mi parve
l'immagine viva dell'Ungheria, sorella nostra nella servitù. La sua faccia, d'un pallido scuro, è fina
di lineamenti e illuminata da un par d'occhi fulminei e mesti. Egli era a quelle battaglie di dieci anni
or sono, i cui nomi strani ponevano a me fanciullo uno sgomento indicibile in cuore. Vide i
reggimenti italiani al servizio dell'Austria dare il colpo di grazia alla patria sua. Ma l'amore di quella
generosa nazione per noi sopravvisse. Soltanto non sappiamo quanto la nostra guerra fortunata
dell'anno scorso, le sia stata funesta. Essa ha qui due rappresentanti degni, Tuköry e Türr, oltre a
due gregari; quel selvaggio che vidi a bordo e il sergente Goldberg della mia compagnia, soldato
vecchio, taciturno, ombroso, ma cuore ardito e saldo. Lo vedemmo a Calatafimi!
* * *
Ho saputo di Tuköry che fu aiutante del generale Bem, che è un vero ingegno militare e che
ha menato vita d'esule a Costantinopoli, dal quarantanove in qua, onoranda come quella di tutti i
nostri fuorusciti del ventuno, primavera sacra d'Italia.
* * *
Tra poco saremo alla pioggia. «Fortunato chi potrà avere un cantuccio laggiù, nel Ministero
della guerra!», disse Giusti, un astigiano sempre gaio d'umore, come gli corresse pel sangue il vino
de' suoi colli. Il Ministero della guerra poi, è una carrozza mezzo sconquassata, che ci viene dietro
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menando I'Intendenza, le carte e il tesoro militare, a quel che intesi un trentamila franchi. Ma in
quella carrozza ve n'hanno due dei tesori; il cuore di Acerbi e l'intelletto di Ippolito Nievo. Nievo è
un poeta veneto, che a ventott'anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della
nostra impresa. Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli
sfolgora l'ingegno in fronte: di persona dev'essere prestante. Un bel soldato.
* * *
E là cinque grandi botti di vino, e sigari a ceste, e un monte di ferraioli, mandati da non so
che Municipio, per coprirci e scaldarci. Carità!
20 maggio. Passo di Renna.
Cadde acqua tutta la notte. Raccolti attorno a un gran fuoco, ci riparavamo alla meglio,
ascoltando i racconti dei Siciliani, su questo luogo di mala fama. Un ammazzatoio. Chi arriva ad
uno degli imbocchi del passo di Renna, prima di avventurarvisi si segni e pensi mesto a casa sua. La
testa d'un masnadiero potrebbe apparire tra qualcuna di queste rocce irte, e tra le foglie dei fichi
d'India balenare spianata una carabina. Sovente i malfattori fanno brigata, si piantano qui; e allora
chi capita si raccomandi a Dio. Quelli sono giorni di grasso, l'oro non basta, vogliono il sangue.
Il colonnello Carini che parla con tanto garbo, narrava anch'egli le storie dei masnadieri
cavallereschi, che tennero passo in questa Conca. Io mi sforzava per tenere gli occhi aperti, sebbene
non potessi reggere dal gran sonno, ma i più si addormentarono. Quando se ne avvide, Carini si tirò
il mantello sul capo e sorridendo disse: «Come Mazzeppa, nell'ultimo verso del poema di Byron».
* * *
Odo dire che su d'un certo monte, di cui non mi riesce. scrivere il nome, si adunano a
migliaia i Siciliani sotto il La Masa. Fosse vero! Perché sino ad ora siam pochi, e ancora mancano i
buoni che abbiam perduti a Calatafimi.
21 maggio. Sopra il villaggio di Pioppo,
Grande allegrezza ieri sera verso il tramonto!
Ci fecero levare il campo all'improvviso, e si susurrò che si andava a Palermo. Discendendo
per la via che serpeggia, con isvolte strette, sin laggiù dove comincia la Conca d'oro, femmo la più
gaia camminata che sia mai stata. Doveva venire una notte così piena d'avventure! A un tratto ci
fermammo. - Che c'è? - Nulla. Si ha a dormire qui. - Come si chiamano queste quattro casupole? -
Pioppo. - E seguitando per questa via, dove si va? - Prima a Monreale, poi a Palermo. - Tanto
valeva restare al Passo di Renna - mugolò Gaffini, che trova sempre a ridire su tutto. Ma entrò
anche lui colla compagnia sotto quel gran portico, dove fummo chiusi come una greggia. Ci
coricammo e zitti.
Prima dell'alba, eravamo già su, colle armi in ispalla.
Un'alba così bella, che uno, avrebbe voluto disfarsi per andar confuso in quei colori di cielo
e in quelle fragranze.
Alla nostra sinistra, avanti, verso Monreale, sui colli di San Martino, si udiva una
moschetteria fitta, crescere, avvicinarsi; poi vedemmo il fumo, e i nostri combattere indietreggiando
pei greppi. I borbonici usciti da Monreale gli avevano assaliti, e tentavano di girare la nostra
sinistra, spingerci per i monti al Passo di Renna.
Riuscendo ci avrebbero schiacciati.
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- Che oggi si debba avere la peggio? - dicevamo noi.
Passarono alcune Guide di galoppo, tornando di verso Monreale. - Che c'è di brutto? - Nulla.
-
Passò il Generale collo Stato Maggiore di mezzo trotto; e la moschetteria lassù continuava.
Quelli che si ritiravano pel monte, lenti, ostinati, erano i Carabinieri genovesi. Ma più in là, anche
oltre il colle, dove essi facevano quella bella resistenza, si combatteva. Chi era là? Qualche nostra
compagnia staccata? O qualche squadra d'insorti? Non si sapeva nulla.
Intanto il sole era già alto e cocente, e noi un po' avanti, un po' indietro, sostando, movendo,
collo spettacolo negli occhi di una fila di muli tardi che portavano le barelle per i feriti, durammo
un'ora in quel passo, finché tornammo qui allo sbocco del Passo di Renna, senza aver avuto
molestia. Schioppettate non se ne sentono più. Due dei nostri cannoni, piantati là sul ciglio,
guardano Pioppo e il campo che i regi hanno messo laggiù negli orti, numerosi e ordinati.
Di qui veggo Palermo e la mole immensa, verde, su Monte Pellegrino. Quelle linee bianche,
sfumate su per quei dossi, devono essere muriccioli di riparo a qualche via che mena sul culmine.
Vi è una pace in tutto quel che appare laggiù, un silenzio così profondo in tutta quella vita, che si
indovina a guardare. Eppure siamo aspettati.
* * *
Eccolo tornato il frate che partiva da Alcamo, per andare a dir messa sul campo di
Calatafimi. Cavalca una vecchia giumenta, sicuro in sella, come uno che sotto la tonaca, vestisse da
soldato: è lieto, è giovane, si chiama fra Pantaleo da Castelvetrano. Anche un frate non è di troppo
tra noi; dà risalto al nostro piccolo campo. Salvator Rosa avrebbe pagati un occhio que' sette, che
combatterono a Calatafimi. Forse, buttata la tonaca, sono ancor qui.
* * *
Dianzi, mentre me ne andava giù, cantando un'arietta da cacciatori, a portare un ordine del
mio capitano, incontrai un picciotto armato, che mi fermò gridando: - Qui si canta e lassù si muore!
- E mi narrò, che nel combattimento di poche ore prima, era morto Rosolino Pilo lassù; e mi
additava i colli sopra Monreale. Morto d'una palla nel capo, mentre scriveva due righe per
Garibaldi. Quel povero picciotto piangeva, narrandomi il fatto; e come capi alla parlata che io non
sono siciliano, mi chiese mille perdoni per avermi fermato. Mi pregò di alcune cartucce, ma io,
delle undici che mi rimangono non ne volli donare, e lo lasciai la incerto e mortificato.
21 maggio. Parco.
Mentre i miei panni stanno asciugando al fuoco, scrivo colla testa intronata dalla gran fatica
di questa notte. La padrona di casa, buona vecchierella, che ci accolse compassionandoci con atti e
voci da madre, cuoce un po' di maccheroni per noi, sfiniti dalla fame.
Ieri, sino a sera, un tempo di Dio, bello e tranquillo: ma quando ripigliammo le armi, il cielo
parve corrucciarsi. Il sole era tramontato. Si partì. - Almeno questa volta si andrà davvero a
Palermo! - No, si va a San Giuseppe. - E dov'è San Giuseppe? - Qui a destra, oltre i monti parecchie
miglia.
Fatti pochi passi per la strada militare, si arrivò ad una casetta solitaria, scura, mezzo ruinata,
casa da ladri. Là ci si faceva uscir dalla strada, a misura che si arrivava, e infilavamo un sentiero
angusto e sassoso. Dinanzi alla casetta, due uomini si sbracciavano a cavar pani da grossi cestoni, e
ne davano tre a ciascuno di noi che passava. Era come a ricevere tre punte nel cuore. Dunque
dovremo camminare i monti deserti per tre giorni? E questi pani come portarli? Inastammo le
baionette, e gli infilzammo l'uno sull'altro. Lo schioppo, così equilibrato, rompeva le spalle.
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In quel momento, mi toccò il dolore di vedere Delucchi da Genova seduto su d'una pietra,
abbracciandosi le ginocchia, tormentato da un malore che gli toglieva le forze. «Torna indietro ai
nostri carri, gli dissi, in qualche luogo ti meneranno. Che vuoi fare qui? Noi non ti si può portare:
fra mezz'ora saranno passati tutti, verrà la notte e rimarrai solo». Lo aiutai a levarsi, e lento s'avviò
verso la coda della colonna, guardando noi che pareva gli portassimo via il cuore. A pensare che
potrebbe essere caduto in mano ai regi!.. Ma spero che avrà raggiunto i carri e che sarà in salvo.
Colla prima oscurità, cominciò la pioggia a darci nel viso i suoi goccioloni grossi e
impetuosi: parevano chicchi di grandine che ci si spezzasse sulle guancie. Il vento era freddo;
dinanzi a noi, la terra e l'aria furono presto come a entrare in gola a un lupo. Tuttavia il tenente
Rovighi camminava a cavallo da disperato. Ma un tratto una schioppettata, scaricatasi per disgrazia
a uno della mia compagnia, lo fece rotolare a terra. La toccò appena come un gatto, e si rizzò,
balzando su senza dire una parola. Era illeso. Ma la sua povera bestia aveva una gamba spezzata.
Passammo, lasciando Rovighi a dolersi sull'animale che strepitava nell'oscurità.
Ci avanzammo alla meglio, tastando la terra cogli schioppi, come una processione di ciechi.
Il buio non poteva più crescere; il sentiero veniva mancando; camminavamo da due ore, non si era
fatto un miglio: e non uno che potesse dire di non aver ruzzolato in quel macereto.
- Animo! Issa! Da bravi!
Così sentimmo susurrare, arrivando a un punto, dove un viluppo d'uomini si affaccendava
con corde e stanghe. Volevano tirar su da un pantano quella colubrinaccia sciagurata che portammo
da Orbetello. «O lasciatela a giacere lì per sempre, che tanto, se capita di scaricarla, scoppia e ci
ammazza mezzi!». Così stava per gridare in un impeto di buon umore, ma la parola mi rientrò. In
quel gruppo v'era il Generale, vi era Orsini, vi era Castiglia, occupati a far portare a dorso d'uomini
tutta la nostra artiglieria. Udii il Generale incaricare Castiglia di provvedere al trasporto di quella
roba, a qualunque maniera; poi il gruppo si diradò, e tornammo a camminare per quelle tenebre.
Volgendoci a guardare addietro, vedevamo i fuochi del campo di Renna, vivi come se
ancora vi fossimo stati noi a goderli: sulla nostra sinistra, giù nella profondità, splendevano altri
fuochi allineati, il campo nemico presso Pioppo: dinanzi a noi, lontano, lontano, un gran disco di
luce immobile, come un occhio sovrannaturale che ci guardasse, splendeva, forse acceso a posta,
per dare la direzione alla nostra marcia.
E la pioggia non cessava. Eravamo fracidi fino alla pelle: e il vento colle sue buffe portava
dalla testa della colonna un nitrito, che pareva uno scherno. Verso mezzanotte si udì un colpo
d'arma da fuoco, che scosse tutti sino all'ultimo della fila. «Ah! almeno sarà finita!» sclamò
qualcuno, immaginando che la vanguardia si fosse imbattuta nei nemici. Sarebbe stata una sventura,
in quel buio, così malconci. Ma va, va, tira innanzi, non si udì più nulla, si cadeva, si tornava ritti, e
nessuno si lagnava. Che cosa era stato quel colpo? Trovammo un cavallo disteso morto sul margine
del sentiero, e si disse che era di Bixio: il quale irato, perché coi nitriti poteva scoprirci al nemico,
gli aveva scaricata nel cranio la sua pistola. Byron, sempre Byron! Lara l'avrebbe fatto anche lui.
Verso l'alba passammo vicino a quel disco di luce, che era la bocca di una fornace. Dinanzi a
quella bocca, una figura alta e nera stava a guardarci. Forse era un inconscio attizzatore; ma mi
piace di immaginarmi che fosse uno messo a posta, a tenerci viva quella fiamma, come la colonna
di fuoco agli Ebrei del deserto.
Alla prima luce la pioggia cessò. E vedevamo Palermo lì innanzi, e Monreale appena
lontano quanto è larga la Conca d'oro. Guardandoci tra noi avevamo facce di spettri: i panni laceri e
fangosi: molti erano quasi a piedi nudi. Stanchi, sfiniti, se ci fosse capitata addosso una compagnia
ci avrebbe disfatti.
Discendemmo a questo piccolo villaggio che si chiama Parco.
I Carabinieri genovesi instancabili, si sacrificano e vegliano fuori negli orti, perché noi si
riposi tranquilli. Per la piazza ampia, pare un incendio o un inferno. Tutti asciugano i loro panni
stando mezzo nudi. Non una finestra aperta.
Non si sa dove sia il Generale, ma Egli veglia per tutti.
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22 maggio. Ancora a Parco.
Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre
Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo
borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini;
l'ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di padre Carmelo strideva.
Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo
trattiene dal farlo.
- Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
- Non posso.
- Forse perché siete frate? Ce n'abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in
nostra compagnia, senza paura del sangue.
- Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei
vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l'Italia.
- Certo; per farne un grande e solo popolo.
- Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che
vogliate farlo felice.
- Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
- E nient'altro! - interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno.
Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
- Dunque che ci vorrebbe per voi?
- Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli,
che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
- Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e
campagne!
- Anche contro di noi; anzi prima che contro d'ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla
croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi
ancora con voi soli.
- Ma le squadre?
- E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi
strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la
messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli
si mosse, salì il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.
* * *
È sera, e ancora non pare che il nemico sappia che sia stato di noi. Deve esservi gran
confusione nel campo borbonico. Ci hanno perduti di vista, e nessuno dice loro dove siamo. Gloria
a questo popolo; non ha dato ai nemici una spia!
23 maggio. Sopra Parco. Dopo mezzodì.
Alla fine l'han saputo dove eravamo, e nella notte i borbonici si sono avvicinati. All'alba, in
fretta in furia, fummo messi in movimento e salimmo quassù. Un buon braccio potrebbe scagliare
una pietra di qui sui tetti di Parco. Abbiamo sotto di noi il Calvario e il cimitero a mezza costa;
veggo le pietre sulle quali sedemmo ieri, con frate Carmelo. Quel monaco mi ha lasciato un non so
che turbamento; vorrei rivederlo.
29
Staremo a campo qui, tutto il giorno, e forse anche domani. Che cosa si attende? Che
significa questo aggirarsi intorno a Palermo, come farfalle al lume?
Maestose le rupi che abbiamo a ridosso e a destra. Indescrivibile la vista di faccia. Chi nasce
qui non si lagni d'essere povero al mondo, che anche con una manata d'erba è un bel vivere, se si
hanno occhi per vedere e cuore per sentire.
* * *
È giunto un giovane gentiluomo Palermitano, che all'aspetto crederei fratello del colonnello
Carini. Alto, biondo, robusto come lui. Si chiama Narciso Cozzo. Venne ben armato e ci seguirà,
mettendosi nella mia compagnia. Anch'egli parla della città impaziente, è pronta ad insorgere. Se la
gioventù di Palermo è del suo sentire, non v'ha dubbio che non ci attenda il trionfo.
* * *
Coi cannocchiali si scoprono grossi drappelli di soldati, accampati sotto le mura di Palermo.
A vederli muoversi in quel silenzio laggiù, uno dice: «Ma non verranno essi un dì o l'altro ad
assalirci?».
* * *
Una colonna di regi si avanza cauta, per la pianura, sino alle falde del monte che abbiamo a
destra, diviso da noi solo dal letto asciutto d'un torrentello gramo. Dalla altissima vetta della
montagna si udì uno straziante grido d'allarmi, e un gran fumo montò nero dal culmine nell'aria pura
e calda del tramonto. Noi pigliammo le armi. Ed ecco laggiù, laggiù, dove la pianura finisce,
cominciarono le schioppettate.
Una squadra d'insorti, appiattati tra le rocce, faceva testa ai regi, che tentavano guadagnare
la falda del monte. Garibaldi stette un po' a guardare, poi fece discendere Bixio colla sua compagnia
fino al cimitero lì sotto a noi; e comandò a Carini di occupare la vetta di questo colle, che, disse,
sarebbe luogo di grande combattimento. Noi eravamo pronti; la scaramuccia laggiù si faceva via via
più viva; sulla rupe lassù quel fumo si alzava ancora, ma sottile e bianco.
Le schioppettate a un tratto si diradarono, e la colonna che voleva forzare quella squadra di
insorti indietreggiò per i campi; poi disparve nel fitto di aranci e di olivi che si stende fino a
Palermo.
* * *
Si fa notte. Sovra ogni vetta di questo immenso semicerchio, si accendono fuochi fino a
Monte Pellegrino; tanti, che pare la notte di San Giovanni. E Palermo li vede, e forse spera che
questa sia l'ultima notte della sua servitù.
24 maggio. Piana dei Greci.
Sulla porta d'un convento, come un mendico! La città sembra desolata dalla pestilenza.
Qualche cencioso gironza per le vie e chiede l'elemosina a noi. Il nostro campo è là fuori, ma oggi
non allegro come gli altri giorni.
Stamane mi destai che tutti si alzavano, e in quella luce crepuscolare, pareva la risurrezione
dei morti.
In fondo all'orizzonte quietava il mare plumbeo. Palermo accennava appena d'essere, contro
la massa scura di Monte Pellegrino; e in faccia a noi una nebbiolina bianca da Palermo al Pioppo.
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Quando spuntò il sole alle nostre spalle, rovesciando lunghe per il pendio del monte l'ombre dei
nostri corpi, tutto parve provasse un fremito, e ci abbracciavamo tra noi.
La nebbia sfumò. Allora si vide uscire da Monreale una colonna di soldati; avanzare densa e
sicura per la via che mena a Pioppo; occuparla tutta quanta è lunga. E non finiva mai, sebbene la
testa fosse già entrata nei boschi, per venire a Parco.
A questa volta verranno davvero! si diceva; e intanto i nostri del genio cominciarono a
lavorare frettolosi, per costruire una batteria. Le compagnie furono schierate sulla strada.
Si aspettava in silenzio, e pareva di sentire il passo di quella schiera infinita, lontana.
La moschetteria cominciò laggiù sotto Parco. Sostennero il primo urto i Carabinieri
genovesi: ma mentre tutto pareva preparato per tener fermo là dove eravamo, passò il Generale
collo Stato Maggiore, colle Guide, di galoppo, un turbine, e noi subito dietro di loro a passo di
corsa.
Si camminava così a rotta un tratto, poi si rallentava un poco, poi si ripigliava. Vidi molti
per l'affanno buttarsi a terra disperati, altri piangevano dal dolore: qualcuno narrava che i borbonici,
incendiato Parco, e rotti i Carabinieri genovesi, ci venivano alle spalle furiosi colla cavalleria, e che
presto ci sarebbero stati addosso. S'aggiungeva che il nerbo di quella colonna sono Bavaresi,
mercenari briachi, che vogliono farla finita. La ritirata era un lutto, e quasi pareva una fuga.
La strada che da Parco conduce qui alla Piana dei Greci, serpeggia lungo tratto in mezzo a
montagne scoscese. Divorammo quel tratto sin dove, cessando di salire, la strada porta piana a
scoprire questa città in seno alla valle. Trafelati, sfiniti dal digiuno, arsi dal sole, riposammo cogli
occhi in questo fondo; ma a un punto stavano tre Guide a cavallo, piantate in mezzo alla via, e
arrivando là ci fecero pigliare a destra il monte grigio, squallido, a petto. Altre Guide appostate su
per i greppi, gridavano, per animarci, che il Generale era in pericolo: e noi a salire, a salire verso la
vetta, donde s'udiva una tromba suonare la diana con angoscia.
Arrivammo a cinque, a dieci, come si poteva: il Generale era lassù da un pezzo. In faccia, su
d'un altro monte, quello che sovrasta il nostro campo di ieri, i cacciatori napoletani schierati
sparavano contro di noi, e i loro proiettili ci fischiavano sopra come serpenti. Alcuni Carabinieri
genovesi rispondevano a quel fuoco; noi, coi nostri schioppi inutili, stavamo a guardare.
Durò quel gioco di schioppettate forse un'ora; poi i cacciatori napoletani cominciarono a
ritirarsi, e sparirono di là dalla cresta della montagna.
Allora ci ritirammo noi pure, per la stessa via fatta a salire, augurando a monte Campanaro
che possa sprofondare tanto giù nell'abisso, quanto sorge alto e sfacciato nell'aria.
Si dice che il generale nemico avesse ideato di varcare i due monti, sperando di far a tempo,
occupare Piana dei Greci prima che noi vi arrivassimo, e di qui ributtarci, perseguitandoci fino a
Palermo. Ma Garibaldi lo prevenne con miracolosa prontezza. Ora si pensa che smessa l'idea, ci
verrà dietro, per la strada militare, percorsa da noi quasi fuggendo.
Ho inteso che alcuni dei nostri rimasero prigionieri al Parco, e che uno d'essi è Carlo Mosto,
fratello del Comandante dei Carabinieri. Pare che sia anche ferito, e si teme che tutti saranno
fucilati!
Marinco, 25 maggio.
I frati della Piana dei Greci furono cortesi. Ci diedero pane, cacio, vino e sigari, ne avessimo
voluto. E ci fecero visitare il convento, e le sale dove i loro morti se ne stanno addossati alle pareti,
come gente che dorma, o preghi sprofondata nel pensieri dell'altra vita. Da quei luoghi lugubri
udimmo suonare a raccolta, e volando fummo al campo. Le compagnie erano già in fila, e
l'artiglieria si era mossa la prima. «Arrivano i regi, saranno diecimila!». Così si diceva dall'uno
all'altro, e si capiva che la nostra ritirata era decisa di nuovo. Dove si finirà?
- Ma... forse a Corleone dove ci porterà la strada percorsa dall'artiglieria. - Con questi
discorsi ci ponemmo in marcia che il sole andava sotto.
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Era già quasi notte, quando, abbandonata la strada militare, ci posero per sentieri angusti, in
mezzo, a un bosco, zitti, umiliati, pieni di malinconia. Verso le dieci fummo fermati, e ci si
comandò di coricarsi ognuno dove si trovava; vietato il fumare, il parlare, il muoversi. Mi coricai
accanto ad Airenta, guardando un gran fuoco che brillava lontano nei monti; e quella vista mi
ridestò la memoria dei fuochi, che s'accendono nelle mie valli, la vigilia delle sagre. Provai una
passione dolcissima, e in essa mi addormentai.
Quando mi destai era l'alba. Le compagnie si ordinavano silenziose. Seppi che nella notte i
regi che c'inseguono, passarono poco discosti, per la strada militare, e che le nostre sentinelle gli
hanno veduti. Vanno innanzi sicuri e fidenti di raggiungerci, e ci hanno alle spalle. Ora si comincia
a capire la nostra ritirata di ieri e l'allegrezza rinasce.
* * *
Mezzo nudo e mezzo coperto di pelli come un selvaggio, smunto, colla fame nelle guance e
colla passione negli occhi, il povero giovinetto ci moriva addosso di voglia stando a guardarci
schierati fuori del sobborgo.
- Come ti chiami?
- Ciccio.
- Che cosa fai qui?
- Sono venuto con voi dalla Piana dei Greci.
- E dove vai?
- Con voi.
- Così scalzo e malandato?
Si mise a sedere e non rispose. Gli trovammo da coprirsi e da calzarsi, e così rifatto lo
pigliammo con noi. Allora, allegro che parve un altro, avrebbe voluto uno schioppo; dopo mezz'ora
conosceva già tutta la compagnia e ci chiamava a nome.
- T'insegneremo a leggere e a scrivere.
- Oh!... signorino, non ne sono degno.
25 maggio. Sui monti di Gibilrossa.
Questo nome di Gibilrossa mi si accozza alla mente con quello di Gelboe mi fa parere
tragico tutto quanto veggo d'intorno. Vorrei avere una Bibbia, per leggere quel canto dove è
pregato, che mai più rugiada bagni i colli di Gelboe maledetti.
Malinconie fuori di luogo, perché le nostre venture volgono a bene, e queste alture
dovremmo benedirle. Tuttavia sarà prudenza non istarvi a lungo. Ci finiremmo tutti o disseccati dal
sole, o pazzi. Pare d'avere in capo una cuffia di fuoco.
Dov'è andato il venticello fresco di ieri sera? Partimmo da Marineo all'improvviso che erano
le sei. Sulla montagna suonavano le voci dei pastori, che raccoglievano le capre.
Eravamo fuori del borgo ad aspettare di essere messi in marcia. Passò il Generale a cavallo,
e il capitano Ciaccio comandò di presentare le armi. Il Generale fece un atto di stizza, come a far
capire che non era tempo di cerimonie.
Pigliammo la via che scende da Marineo nella valle profonda. Si camminava lenti e
quetamente; alcuni gruppi cantavano a mezza voce. Solo un Friulano, confuso nella settima
compagnia, cantava alto con una voce d'argento, quattro versi d'un'aria affettuosa e dolente, che
andavano al cuore.
La rosade da la sere
Bagna el flor del sentiment,
La rosade da mattine
Bagna el fior del pentiment.
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Uscii dalle file e mi avanzai fino a quel cantore, immaginandomi che dovesse essere un
Osterman da Gemona, amico mio dell'anno scorso. Invece era uno studente di matematica, che si
chiama Bertossi da Pordenone.
- Bertossi! Era a San Martino in un reggimento piemontese?
- Sì, - mi rispose il compagno che interrogai.
- Allora deve essere quello, che pel suo valore fu fatto ufficiale, sul campo di battaglia?
- È quello, ma non lo dire; perché se lo sapesse se ne avrebbe a male.
- Perché?
- Perché è fatto cosi!
Guardai quel giovane che ha vent'anni, e, alla barba nera e piena, pare di trenta. Stentava a
credere che con quella fisionomia severa fosse stato lui a cantare, ma i versi del canto non erano
indegni di lui.
Che tesori di giovani in quella settima compagnia!
A un tratto, mentre era già buio da un pezzo, la colonna si fermò. Eravamo nel punto più
basso della valle; si bisbigliò che la vanguardia aveva incontrato il nemico; ma per fortuna non era
vero, che se mai eravamo schiacciati. Ripresa la via, uscimmo presto dalle sinuosità paurose di quel
terreno, e innanzi a noi, in alto, vedemmo una miriade di luci. Era Missilmeri illuminato, a
quell'ora, per farci festa. A mezzanotte vi entrammo. Non vi era casa che non avesse un lume ad
ogni finestra, ma gente per le vie poca. Si seppe di La Masa e delle squadre da lui raccolte quassù
numerose, e ci parve di poter riposare tranquilli.
All'alba ci raccogliemmo, e ci fu detto che entro un'ora si sarebbe pigliata la montagna, per
venire qui a campo.
Entrai in un bugigattolo per bere una tazza di caffè e vi trovai Bixio d'un umore sì nero, a
vederlo, che me ne tornai indietro. E andai sulla piazza, dov'era un acquaiolo che andava
dondolando la sua botticella come una campana, e vendeva bevande ai nostri che gli affollavano il
banco. Egli guardava quei che bevevano con certi occhi, con certo riso, che mi pareva volesse
avvelenare i bicchieri. M'allontanai anche di là, e incontrai il giovanetto, che conducemmo con noi
da Marineo, trionfante con una scodella di latte per me. Mi porse quel latte, colle mani che gli
tremavano dal piacere di avermelo trovato.
Uno squillo di tromba fece saltar fuori da ogni banda i nostri, dispersi per le case; ci
mettemmo in marcia e si venne qui. Si vede a destra un formicolio di gente: sono le squadre di La
Masa. A dar un'occhiata intorno, scopriamo tutti i luoghi visitati dacché partimmo dal Passo di
Renna, un giro che par nulla e che ci è costato tanta fatica. Marineo è la, e la sua rupe, a vederla di
qui, pare più minacciosa che da vicino. Se si staccasse dal monte rotolerebbe giù sul borgo,
sventrandolo come un mostro.
* * *
Alfine sappiamo che il mondo esiste ancora! Eravamo nel Limbo da quindici giorni e un po'
di notizie ci parvero luce.
Dunque il Governo di Napoli ci ha battezzati Filibustieri; le sue Gazzette hanno scritto che
fummo battuti a Calatafimi; che uno dei nostri capi è stato ucciso; che siamo dispersi e inseguiti,
affinché non ci possiamo buttare alle strade ad assassinare.
Queste notizie ce le hanno portate alcuni ufficiali delle navi americane e inglesi ancorate nel
porto di Palermo. Un atto di amicizia che ci ha fatto gran bene. Hanno parlato col Generale, poi si
sono messi a girare pel campo. Che strette di mano franche e fraterne!
Uno di loro, giovanissimo, con un par d'occhi d'azzurro marino e due mani rosee di
fanciulla, schizzò alla lesta tre o quattro figure dei nostri e quella del colonnello Carini. Aveva già
nell'album un capo-squadra di Partinico, che io conobbi e che mi parve un modello da farne uno
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Spartaco. Gli altri si mescolarono a noi raccogliendo e dando notizie. E si mostravano lieti d'averci
trovati gente civile e colta.
Gli abbiamo caricati di lettere, di foglietti strappati qua e là e scritti a matita; saluti, gridi
d'affetto, che essi faranno capitare alle nostre famiglie, col primo legno che salperà da Palermo. Si
trattennero un'ora. Dissero che la città è una caserma, ma ci hanno fatto sperare nella buona riuscita.
Si sa che hanno portato al Generale la pianta di Palermo, co' segni dove sono barricate o posti di
regi. Ora che se ne sono andati, il Generale sta a consiglio coi Comandanti delle compagnie.
* * *
Non più a Castrogiovanni, per attendere rinforzi dal continente: pochi o assai, fra mezz'ora si
partirà per Palermo. Bixio lo ha detto: «O a Palermo o all'inferno!».
Il colonnello Carini ha parlato alla compagnia. Ha detto che domani l'alba sarà gloriosa, ma
ci raccomandò di non romperci se saremo caricati dalla cavalleria. Intanto tutte le altre compagnie
erano raccolte a circolo, intorno ai loro capitani. Si sciolsero rallegrandosi con alte grida.
Di qui al campo delle squadre, che è più innanzi, un andirivieni di cavalieri continuo. Si dice
che i siciliani hanno chiesto d'essere fatti marciare i primi.
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[LA BATTAGLIA DI PALERMO]
31 maggio. Palermo. Nel Convento di San Nicola.
Tre giorni durò la bufera infernale, che scatenammo sopra Palermo; più di tre giorni! Chi
non fu nella lotta deve essersi sentito al punto di venir pazzo. E noi eravamo partiti da Gibilrossa
allegri, come ci fossimo incamminati a portar qui una festa!
Ho riveduto, da Porta Sant'Antonino, la montagna da cui scendemmo la sera del 26: e a un
dipresso seppi dire il punto dove sostammo, per aspettare la notte. Fu un'attesa solenne. L'allegrezza
si era mutata in raccoglimento; pareva che sopra di noi soffiasse uno spirito dall'infinito. Io mi era
coricato tra due rocce calde ancora della grande arsura del giorno; e mi sentiva nelle membra un
tepore così dolce, che, stando in quella specie di bara, colla faccia rivolta là dove il sole se n'era
andato, mi colse un malinconico desiderio d'essere bell'e morto. Poi mi invase una gioia
fanciullesca e soave, a pensare che l'indomani doveva essere il giorno della Pentecoste; e mi tornò a
mente, confuso ricordo di cose lette da giovinetto, che i Normanni assalirono Palermo appunto la
vigilia di quella festa. Gli immaginai giganti coperti di ferro, scintillanti nella tenebrosa antichità,
pronti a marciare come eravamo noi, pochi, fidenti, condotti bene; deliziosa mezz'ora di
fantasticherie.
Potevano essere le sette pomeridiane, quando ci riponemmo in via, e a notte chiusa, uno
dietro l'altro, ci trovammo a scendere giù per un sentiero, appena tracciato di balza in balza. Poco
prima, avevamo gridato: «O a Palermo o all'inferno!» e quella ne pareva senz'altro la via. Il cielo
era sereno e quieto; vietato il parlare; si aveva fame e sonno. Qualcuno, scivolando, precipitava sul
compagno che aveva di sotto, questi sopra un altro, e via, tanto che, otto o dieci, ci trovammo
talvolta in un fondo; e fortuna se non ci offendevamo colle nostre armi. Dopo la mezza notte
eravamo nella pianura, lontano poche miglia da Palermo. I cani latravano dai casali sparsi per la
campagna, e sulla nostra destra sentivamo il rumore del mare. Alcuni lumi apparivano oltre il fitto
d'olivi antichi, che spandevano i rami contorti come provassero tormenti; forse erano lumi di
pescatori. A sinistra, sulle alture di Monreale, splendevano fuochi innumerevoli; dinanzi a noi,
nell'oscurità, udivo il passo pesante della colonna che ci precedeva. «Chi sarà all'avanguardia?» ci
domandavamo a vicenda; e pregavamo che fossero i migliori tra noi, i più rotti alla guerra, affinché
potessero giungere improvvisi sui primi posti del nemico e sopraffarli.
A un tratto la colonna li, dov'ero io, si commove. Si grida: «La cavalleria!». Infatti il suolo
ghiaioso ripercuote un galoppo di cavalli. Ci risovvenimmo delle raccomandazioni fatteci nel
partire dal campo; ma sì...! uno, due, tre si sgomentano: balenammo, rompemmo le file, e ognuno si
gettò come poté nei campi, a ridosso dei muriccioli che facevano riparo alla via, o rimase cavalcioni
su quelli. E nella confusione furono sparate alcune schioppettate contro un cavallo bianco, che
veniva verso di noi come un fantasma. Povera bestia! portava il capitano Bovi, il quale si fece
riconoscere alle grida! Cessammo quello scompiglio; ci rimproverammo tra noi, tremando che quei
colpi fossero per mandare guasta ogni cosa; e tirammo innanzi vergognosi del silenzio severo del
colonnello Carini.
Per quei colpi i latrati dei cani crebbero vicini, lontani, infiniti.
Passammo presso un casone immenso, addormentato o deserto; e, di là a pochi passi,
entrammo nella strada grande che mena a Palermo. L'aria cominciava a rinfrescarsi per l'alba
imminente.
Dai gruppi di case man mano più frequenti, si affacciava la gente paurosa, guatando il nostro
passaggio. Ci fu comandato di camminare a quattro a quattro; di tenerci a destra rasente i muri degli
orti; poi accelerammo il passo... dalla testa della colonna s'udì una schioppettata, e un all'armi!
gridato con disperazione: e allora fu un urlo terribile, un fuoco improvviso; un corri corri: «Avanti!
Avanti!» entravamo nel combattimento.
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Urtammo in una calca di picciotti: li rovesciammo parte negli orti, e parte li trascinammo
con noi. Uno di questi, signore, forse capo squadra, accusava quelli furente, e veniva via agitando la
spada. Ma in quell'ira urlò: «Dio!» girò sopra se stesso, fece tre o quattro passi di fianco come un
ubbriaco, e cadde là nel fossato, a piè di due pioppi altissimi, vicino a un cacciatore napoletano
morto; forse la prima sentinella sorpresa dai nostri. Li vedo ancora. E odo quel genovese, che in
quel punto dove il piombo grandinava, gridò nel suo dialetto: «Come si passa qui?». Gli rispose una
palla, cogliendolo in fronte e stendendolo là col cranio spezzato.
Si guadagnò un bel tratto rapidamente, ma al ponte dell'Ammiraglio trovammo una
resistenza quasi feroce.
Sulla via, sugli archi, sotto il ponte e negli orti circostanti, strage alla baionetta. L'alba
spuntava, tutti si aveva non so che di selvaggio nel volto. Padroni del ponte vi fummo trattenuti da
un fuoco terribile, fulminato da un muro, sul quale, nel fumo, biancheggiavano i budrieri incrociati
d'una lunga fila di fanteria. Lì un cacciatore ferito dava del capo contro al muricciuolo del ponte per
fracellarselo: ma Airenta pietoso lo tirò discosto, poi, colla sua calma che non cambia mai, continuò
a sparare contro a quella fila. La quale, assalita forse di fianco, spariva; mentre un po' di cavalleria
caricava i nostri a sinistra, e n'era respinta e ricacciata per la campagna. Faustino Tanara,
quell'ufficiale dei bersaglieri, pallido, ardito e bello, veniva tempestando con un manipolo da quella
parte; con lui, incalzati, incalzando, ci addensammo al crocicchio di Porta Termini, spazzato dalle
cannonate d'una nave che tirava a rotta, e dal fuoco d'una barricata di fronte a noi.
Come turbine lo avevano già attraversato i più audaci dei nostri, sotto gli occhi di Garibaldi,
che vidi là a cavallo, mirabile di sicurezza e di pace in faccia. Gli stava accanto Türr. Tuköry era
caduto poco prima ferito; ed io lo avevo udito dir con dolcezza a due che volevano trasportarlo in
salvo: «Andate, andate avanti, fate che il nemico non venga a pigliarmi qui». Nullo era già dentro
con una mano di bergamaschi, balzato di là dalla barricata col suo cavallo poderoso tra i regi
fuggenti; a Porta Sant'Antonino l'assalto riusciva pure: ma noi più fortunati fummo d'un lancio alla
Fieravecchia. Allora una campana cominciò a suonare a stormo, e fu salutata con alte grida di gioia,
come una promessa tenuta.
- Ma che cosa fanno i Palermitani, che non se ne vede? - chiesi ad un popolano che sbucò da
una porta armato di daga.
- Eh, signorino, già tre o quattro volte, all'alba, la polizia fece rumore e schioppettate,
gridando viva l'Italia, viva Garibaldi. Chi era pronto veniva giù, e i birri lo pigliavano senza
misericordia.
- Oh!... E i Palermitani ora han paura d'un nuovo tranello?...
Con quel popolano demmo entro pei vicoli sino a via Maqueda. Là, solitudine e cannonate
dall'un dei capi, tirate forse contro un giovinotto che si sfogava a calpestare un'insegna reale
strappata giù dal portone d'un gran palazzo. Passammo in un altro vicolo... Dio, che visione!
Aggrappate colle mani che parevano gigli, a una inferriata poco alta ma ampia, sopra un
archivolto cupo, tre fanciulle vestite di bianco e bellissime ci guardavano mute.
Ci arrestammo ammirando.
- Chi siete?
- Italiani. E voi?
- Monacelle.
- Oh poverette!
- Viva Santa Rosalia!
- Viva l'Italia!
Ed esse a gridare: «Viva l'Italia!» con quelle voci soavi da salmo, e ad augurarci vittoria. Le
vedrò sempre cosi come gli angeli dipinti dal Beato di Fiesole.
Entrammo in piazza Bologni, già occupata da un centinaio dei nostri. Il Generale, sulla
gradinata d'un palazzo, stava interrogando due prigionieri, che piangevano come fanciulli.
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- Volete tornare coi vostri? Tornate pure!... - diceva loro il Generale: ed uno fece atto
d'andarsene, l'altro restò. Quello tentennò un poco, poi volle rimanere anche lui. Erano Calabresi,
giovani; parevano stupiti di non essere stati fatti a brani.
Appena Garibaldi sedé nell'atrio del palazzo, rimbombò là dentro una pistolettata. «L'hanno
assassinato!» urlammo noi dalla piazza, e ci affollammo alla porta. Non era nulla. Gli si era
scaricato un colpo della pistola che portava a cintura, e la palla gli avea sforacchiato i calzoni, sopra
il collo del piede. Ci rassicurammo. In quel momento arrivò Bixio.
Lo avevo visto poco prima lanciarsi tempestando addosso ad uno che, vedendolo ferito,
aveva osato pregarlo di ritirarsi: e buon per colui che trovò una porta da ripararvisi. Era fuoco in
faccia, impugnava un mozzicone di sciabola, si piantò dinanzi a noi e: «Su! venti uomini di buona
volontà... tanto tra mezz'ora saremo tutti morti; andiamo al Palazzo Reale!». E contò i venti che già
partivano con lui. Senonché fu chiamato dal Generale, obbedì, ed entrò nell'atrio a consiglio.
V'erano già alcuni signori palermitani e un prete; la città cominciava a scuotersi, a ruggire
sordamente; da Castellamare si udì uno scoppio; la prima bomba rombò nell'aria e cadde, e fu una
imprecazione che parve riempire il cielo.
Da quel momento campane a stormo per tutto, e una bomba lanciata ogni cinque minuti,
pausa funebre e crudele. Verso le tre pomeridiane, i cittadini cominciavano a rovesciarsi per le vie!
Noi, un po' scorati nelle prime ore, pigliavamo animo. Sorgevano le barricate: uomini e donne
lavoravano arditamente; cadeva una bomba, tutti a terra; scoppiava: «Viva Santa Rosalia!» e tutti su
a lavorare da capo. Così venne notte. Il castello cessò di tirare: i regi occupavano la parte alta della
città; noi il resto; a Palazzo Pretorio s'era piantato il Quartiere Generale; i donzelli del Municipio,
colle giubbe rosse, si affaccendavano, giovani e vecchi, per il Dittatore. Intanto nuove squadre
entravano da Porta Termini, ne vennero tutta la notte; e noi la invocavamo lunga, per riposarci e
prepararci all'evento.
Segue, 31 maggio.
Ma l'alba arrivò che l'ore parvero minuti, e la sveglia del secondo giorno fu data dai regi di
Castellamare, che ricominciarono colle bombe. Le lanciavano misurate sul Palazzo Pretorio,
sperando forse di schiacciarvi il Quartiere Generale. Ma le bombe piombavano sul convento di
Santa Caterina, a un angolo della piazza. E il Generale se ne stava a piè d'una delle statue della gran
fontana, dinanzi al palazzo. Lì riceveva le notizie dai punti combattuti della città; di lì partivano i
suoi ordini: lì lo vedevamo noi di tanto in tanto, passando sbalestrati ora da una parte ora dall'altra,
dove ci chiamava il bisogno.
In uno di quei momenti che non ne potevamo più dalla sete, Bozzani ed io traversavamo una
piazza. «Vediamo se in questa casa ci danno un sorso d'acqua?» dissi io: e battei a un gran portone
sul quale era scritto «Domicilio inglese». Fu scostato un battente, e vedemmo nel cortile una folla
costernata. Entrammo. Ci venne incontro un signore che non sapeva quale accoglienza farci; ma
pareva lì lì per pregarci di tornare indietro. Però sentendoci parlare, subito si mostrò cortese, ci tirò
in mezzo a quella folla, fece portar acqua e vino. Bevemmo, ringraziammo e volevamo partire. Ma
tutta quella gente, signore e signorine, ci furono attorno, ci prendevano le mani, ci pregavano di star
lì a proteggerle; alcune piangevano dalla compassione per noi. Vollero i nostri nomi, e noi li
scrivemmo su d'un foglietto; gran meraviglia per loro, che due soldati sapessero far tanto. Ci
tempestavano di domande; e per la città che c'è? e chi vince? e quanto durerà? Santa Rosalia che
spavento! «Perdonate se non vi ho fatto subito buon viso, ci diceva il signore venutoci incontro,
avevano detto che eravate mostri feroci, che bevevate il sangue dei bambini, che scannavate i
vecchi... Invece siete gentili».
E noi a ridere. E le donne: «E Garibaldi dov'è? È giovane, è bello, come è vestito?».
Rispondevamo in quella confusione amorevole; e intanto i giovinotti ci pigliavano di mano gli
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schioppi, discorrevano tra loro, si accendevano in faccia, ci invidiavano; ma il vecchio con
un'occhiata li teneva a segno.
Uscimmo di la colla promessa di tornare, e appena fuori vedemmo una turba alla porta d'un
fornaio. «Il forno dei Promessi Sposi! - dissi a Bozzani - bisogna correre che non lo saccheggino».
E corremmo. Ma quella gente non faceva tumulto; pigliava i pani, pagava e se ne andava, facendo
posto ad altra gente che sopravveniva. Un signore ci disse che dal giorno innanzi la sua famiglia
non aveva mangiato, colta dalla rivoluzione senza provviste in casa. E soggiungeva: «Siete arrivati
così di sorpresa!».
- Però siete contenti? - gli chiesi.
- Santo Diavolo; siete i nostri liberatori!
Ce n'andammo, avviandoci ai Benedettini, dove era la nostra compagnia e ci abbattemmo
nel cavallo del capitano Bovi, steso sotto un androne; quel povero cavallo che già aveva rischiato
d'essere ucciso, la notte della discesa da Gibilrossa.
- Questo è il cavallo, che quello sia il padrone? - disse Bozzani, inoltrandosi verso un morto
che giaceva più in là. - Oh... vedi... vedi... è quel povero ragazzo che nella prima marcia da Marsala,
fu messo in mezzo a noi da quel vecchio...!
Doveva essere proprio quel giovinetto. Io non lo avevo più riveduto da quella prima volta, e
a trovarlo là mi si mescolò il sangue con disgusto indicibile. Avessi potuto volare sulla capanna di
quel vecchio, che in quel momento vidi nella pace lontana dell'orizzonte, a sentire se il cuore non
gli diceva nulla!
* * *
Per le vie pareva giorno pieno. Le notizie che venivano di bocca in bocca, da tutte le parti
della città, ci consolavano; i regi erano respinti sempre su tutti i punti. Le barricate, moltiplicate in
ogni via, rendevano loro impossibile di rompere e tornare dentro. Sulle gronde, sui balconi, erano
ammonticchiati tegoli, sassi, suppellettili d'ogni sorta; al punto in cui si era non rimaneva al nemico
che incenerir la città, o lasciarla libera a noi.
* * *
Si diceva, il mattino del ventinove, che il Corpo consolare avesse protestato, e che le navi da
guerra raccolte nella rada minacciassero di mandare in aria Castellamare, se il barbaro lanciar di
bombe non fosse cessato. Chiacchiere. Il castello tirava più rabbioso che mai, e già centinaia di case
erano ruinate, seppellendo gente chi sa quanta. Sarà lungo il pianto che terrà dietro alla febbre di
questi giorni. Ripiegammo a Porta Montalto, dove stava a guardia il colonnello Carini. Quel
bastione l'avea preso d'assalto Sirtori, con pochi della sesta e della settima compagnia: e i regi
giacenti là attorno morti erano tanti, che ancora non so capire chi gli abbia potuti uccidere.
Il Carini mi mandò al Palazzo Pretorio per munizioni. Vi trovai il Sirtori. Munizioni non ve
ne dovevano essere, perché egli mi disse di rispondere al Carini, che il bastione si doveva
conservarlo difendendolo all'arma bianca.
A Palazzo Pretorio mi parve regnasse un po' di sconforto. Chi sa che notizie v'erano? Eppure
la città oramai era tutta sollevata e risoluta a ogni estremo, piuttosto che a rivedere nel proprio seno
il nemico. Me ne tornai al Carini colle mani vuote: egli capì e tacque. Più tardi mi rimandò. In
Piazza Pretoria v'era tal folla che, come dice il Manzoni, un granello di miglio non sarebbe caduto a
terra. Il Dittatore dal balcone a sinistra, quasi sull'angolo di via Maqueda, finiva un discorso di cui
colsi le ultime parole: «... Il nemico mi ha fatto delle proposte che io credei ingiuriose per te, o
popolo di Palermo; ed io sapendoti pronto a farti seppellire sotto le ruine della tua città, le ho
rifiutate!».
Non vi può essere paragone che basti a dare un'idea di quel che divenne la folla, a quelle
parole. I capelli mi si rizzarono in capo, la pelle mi si raggrinzò tutta all'urlo spaventevole e grande
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che proruppe dalla piazza. Si abbracciavano, si baciavano, si soffocavano tra loro furiosi; le donne
più degli uomini mostravano il disperato proposito di sottoporsi a ogni strazio. «Grazie! Grazie!»
gridavano levando le mani al Generale; e dal fondo della piazza gli mandai anch'io un bacio. Credo
che non sia mai stato visto sfolgorante come in quel momento da quel balcone: l'anima di quel
popolo pareva tutta trasfusa in lui.
Ma alla sera, verso le dieci, lo rividi cupo, agitato, lì a piè di quella statua dove passava le
notti. Mi aveva chiamato il tenente Rovighi, per mandarmi a portare un ordine. Il Generale mi pose
colle proprie mani un foglietto, tra la canna e la bacchetta dello schioppo, mi comandò di farlo
leggere a tutti i Capi-posto che avrei trovati sino a Porta Montalto, e che giunto là lo lasciassi al
colonnello Carini. Mi avviai col cuore stretto. Il primo Capo-posto che trovai fu Vigo Pelizzari. Gli
porsi il biglietto. Egli lo lesse, si turbò un poco, me lo ridiede; ma senza dir nulla a' suoi che gli si
affollarono intorno. Tirai innanzi, bruciando dal desiderio di conoscere il contenuto di quel foglio,
potevo leggerlo, non osai. Dal colonnello Carini cui lo rimisi per ultimo, seppi poi che v'era scritto:
«Dicesi che siano sbarcati ottocento Tedeschi, ultima speranza del tiranno. In caso d'attacco da
forze soverchianti, ritiratevi al Palazzo Pretorio». Carini non si mostrò guari commosso per la
notizia; mi rimandò colla ricevuta del foglio; ed io me ne rivenni pensando con dolore, come una
mano di stranieri potessero mettere in forse le sorti della città e nostre. Ma, arrivando al Palazzo
Pretorio, trovai il Generale già mutato d'umore. Discorreva con Rovighi dicendo che sperava di
farla finita l'indomani; che al Palazzo Reale i regi non avevano più munizioni da bocca, che non
potevano più comunicare né col castello né colla marina.
Mi rallegrai fino in fondo all'anima, e stanco morto mi rannicchiai là vicino, col picchetto di
guardia.
Ieri, finalmente, verso mezzodì, ricevemmo a Porta Montalto l'ordine di cessare il fuoco.
Subito corsi al Palazzo Pretorio, dove trovai che l'armistizio era concluso per ventiquattr'ore, tanto
che si potessero seppellire i morti. Era bell'e sottoscritto il foglio, quando capitò un prete, che mi
parve quello venuto sin dal mattino del giorno 27 in piazza Bologni. Gridava al tradimento,
annunziando che i Bavaresi entravano da Porta Termini. «Che Bavaresi?» gridavamo noi. «Quelli di
Bosco, che tornano da Corleone!».
Ci rovesciammo a quella volta quanti eravamo là attorno, e arrivammo a Porta Termini che
già i Bavaresi avevano oltrepassata una barricata. Si arrestarono vedendo un parlamentario avviarsi
a loro; cessarono il fuoco; ma uno dei loro ultimi colpi sciagurati colse nel braccio sinistro, presso la
spalla, il colonnello Carini. Egli cadde e fu trasportato al Palazzo Pretorio come in trionfo.
Laggiù, in fondo alla via, in mezzo a quelle facce torve di stranieri, si vedeva il colonnello
Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s'egli avesse potuto giungere
mezz'ora prima! Entrava difilato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta
quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre. Chi
sa che fortuna sfuggiva di mano a questo Siciliano, giovane, ardito e ricco d'ingegno?
Nel tornare a Porta Montalto, passai con Erba dalla piazzetta della Nutrice, per vedere se vi
fosse ancora quella povera morta di ieri l'altro. Non v'era più. Mentre ne parlavo ad Erba, un
colombo venne a posarsi pettoruto su d'una gronda lì sopra.
- Gli tiro?
- Tira pure...
Meraviglioso! Il colombo venne giù senza testa, come un cencio. «Bravo!» sentimmo
gridare, e vedemmo cinque ufficiali napoletani che venivano verso di noi. «Bravo tiratore!»
dicevano stringendo la mano ad Erba e a me, mortificato del tiro felice. Ma Erba: «Oh! non è nulla,
noi codesti tiri li facciamo a volo...».
- Anche a volo! - esclamarono gli ufficiali, - ma allora siete davvero bersaglieri piemontesi?
- Che bersaglieri! - rispondemmo noi, e sempre tempestati di domande, ci lasciammo tirare
da quei cinque a visitare la piazza del Palazzo Reale.
Vedemmo non so quante migliaia di soldati accampati sulla piazza. Mangiavano lattuga a
manate come pecore, e ci guardavano da ammazzarci cogli occhi. Credo che se non fossimo stati
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così bene accompagnati, il pezzo più grosso che poteva avanzare di noi era l'orecchio. Ci
inoltrammo in mezzo ad un nugolo d'ufficiali. Un vecchio colonnello, con certa barba sulle guance
che pareva cotone appiccicato, rubizzo, adusto, bell'uomo, ci accolse cortese. Anch'egli voleva a
forza, farci confessare per soldati di Vittorio Emanuele.
- Eh! diceva, farebbe meglio il vostro Re, se pensasse, a' casi suoi. Non avrà sempre, come
l'anno scorso, i Francesi.
- Oh! meglio certamente, mille volte meglio se vi eravate voi; - disse pronto Erba - gli
Austriaci li avremmo fatti andar via anche dalla Venezia.
- Che Venezia! che Austriaci! - sclamava il colonnello guardandosi attorno, accendendosi e
non volendo parere.
- E se un altr'anno e voi e noi uniti riprenderemo la partita contro l'Austria, vedrete...
Il colonnello parve uno che sia lì per isdrucciolare e cerchi d'agguantarsi...
- Vedrete... vedrete voi, che domani sarete tutti morti! - troncò bruscamente. - Meritereste
miglior fortuna, ma vi siete cacciati in questa Palermo che vi lascierà schiacciare...
- Però sino ad oggi dobbiamo lodarcene di Palermo...
- Bene, bene, lodatevene pure! - E come vide che i soldati si affollavano, temendo forse per
noi, si mosse e ci fece accompagnar via.
31 maggio.
Eravamo pronti. Solenne ora questo mezzodì! Ma l'armistizio fu prolungato. Fino all'alba del
tre giugno potremo riposare, lavorare, prepararci, e se sarà per soccombere, la città lascierà una
pagina che commoverà tutto il mondo per il bene d'Italia.
* * *
Il Generale ha fatto un giro per la città, dove ha potuto passare a cavallo. La gente si
inginocchiava, gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi verso di lui come a
un Santo. Egli è contento. Ha veduto delle barricate alte fino ai primi piani delle case; otto o dieci
ogni cento metri di via. Ora sì che possiam dire d'aver tutto il popolo dalla nostra! Siamo perduti in
mezzo a questa moltitudine infinita che ci onora, ci dà retta, ci scalda d'amore.
* * *
Non v'è più dubbio. Simonetta è morto. Abbiamo incontrato un picciotto con una camicia a
riquadri rossi e bianchi... Margarita lo fermò.
- Dove hai preso codesta camicia?
- L'ho levata ad un morto.
- Dove?
- Ai Benedettini.
- Vieni con noi!
Un buco nella camicia mostrava che il povero amico nostro fu colpito al cuore. Morì quel
candido e forte giovane, senza uno di noi vicino, da dirgli: «Ne parlerai a mio padre!»
Corremmo ai Benedettini, cercammo: nulla. Non si sa nemmeno dove l'abbiano sepolto!
Mancano tanti altri di tutte le compagnie, che non sappiamo se siano morti, o feriti in
qualche casa. Giuseppe Naccari, quel giovane alto con quella faccia da dipingere, che in marcia era
la delizia della mia squadra, ha combattuto sino all'ultimo, senza andar a vedere i suoi, che
l'aspettavano dall'esilio, qui in Palermo, chi sa da quanto. E ieri l'altro una palla lo colpì di sotto in
su, mentre faceva fuoco da un campanile; gli entrò in un fianco, gli traversò dentro il petto, gli uscì
da una spalla. Dicono che ne morrà. È venuto a cadere sulla soglia di casa sua.
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2 giugno.
Di quei Bavaresi ricondotti da Bosco, ne sono passati già molti dalla nostra parte. Narrano
che in quella marcia del ventiquattro, erano certi di raggiungerci e di finirci. Ma quando si accorsero
di averci lasciati addietro, e seppero che eravamo entrati in Palermo, Bosco fu per impazzire. Li
cacciò a marcie forzate sin qui, promettendo sacco e fuoco, non badando a chi cadeva sfinito per
via. «Oh! dicono, se non si arrivava troppo tardi!». E fanno certe faccie che sembrano gatti, quando
si leccano le labbra dinanzi a una ghiottoneria. Gente torva questi mercenari! Li chiamano Bavaresi;
ma sono Svizzeri, Tedeschi e perfino Italiani. Promettono di battersi contro i loro commilitoni, con
millanteria disgustosa.
3 giugno, mattina.
Immensa gioia! Non si pensa più alle case cadute, alle centinaia di cittadini sepolti sotto. I
regi se ne andranno, la capitolazione è come fatta. Incrociamo le braccia sul petto e diamoci uno
sguardo attorno. Ma si è potuto far tanto? Mi par di sentire qualche cosa nell'aria, come il canto
trionfale del passaggio del Mar Rosso.
6 giugno.
Questi marinai della squadra inglese, ci fanno cera più che i nostri del Govèrnolo e della
Maria Adelaide. Verso sera quando andiamo barcheggiando, i Francesi, gli Austriaci, gli Spagnuoli,
i Russi, persino i Turchi ci sono! tutti ci guardano curiosi, ma zitti. Invece gli Inglesi ci chiamano, ci
tirano su a occhiate sulle loro navi, e noi si sale, accolti come ammiragli. Non hanno bottiglia che
non vuotino con noi; non han gingillo che non ci offrano; non c'è angolo della loro nave che non ci
facciano vedere. Stiamo con essi dell'ore; belli o brutti ci vogliono ritrarre a matita; e non ci
lasciano venir via senza essersi fatto dare il nome da ognun di noi, scritto di nostra mano. M'è nato
un sospetto. La Sicilia è bella, è ricca, e un mondo. Oramai tra tutti l'abbiamo, o quasi, staccata dal
Regno... Se non si riuscisse a fare l'unità, gioco che la mano per pigliarsi l'isola sarebbero visi di
stenderla gli Inglesi... - Non ci han qui nel porto la nave ammiraglia che si chiama Hannibal?...
7 giugno.
Nella gran sala della Trinacria si desinava una allegra brigata, a festeggiare un drappello
d'animosi venuti da Malta, su d'una barca peschereccia. Scesero a Scoglietti, e camminando a furia
di sproni e di oro vennero difilati a Palermo.
Lo sciampagna fiottava dai bicchieri e dal cuore la gioia; gioia della vostra, o anime
lombarde! Siete leggiadri e prodi.
9 giugno.
Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina, per imbarcarsi, una colonna
che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare sogno, ma a loro!... Passavano umiliati, o
baldanzosi. Superbi i cacciatori dell'ottavo battaglione che combatterono a Calatafimi e qui,
lasciando qualche morto in ogni punto della città! Certo li comandava un valoroso.
Se ne vadano, e che ci si possa rivedere amici! Ma di qui a Napoli come è lunga la via!
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10 giugno.
Tuköry è morto. Non in faccia al sole, non sotto gli occhi nostri nella battaglia, l'anima sua
non è volata via sulle grida dei vincitori. Egli si è spento a poco a poco, in letto, vedendo la morte
venire lenta, egli che soleva andarle incontro, galoppando baldo colla spada nel pugno. Gli avevano
tagliata la gamba, rottagli da una palla al ponte dell'Ammiraglio; si diceva che l'avremmo visto
ancora a cavallo dinanzi a noi; ma venne la cancrena e lo uccise. Goldberg, il mio vecchio sergente
ungherese, che giace per due ferite toccate la mattina del 27, quando seppe morto il suo Loyos si
tirò le lenzuola sulla faccia e non disse parola. Così coperto pareva anch'egli morto; ma forse
pensava al dì che i proscritti magiari torneranno in Ungheria senza quel bello e sapiente Cavaliere,
venuto pel mondo così prodigo dell'anima sua. O forse lo vedeva col pensiero galoppare in
Armenia, fra gli arabi del Sultano contro i Drusi ribelli; dove chi sa quante occhiate bicche avrà date
alla spada non fatta per servire i tiranni. Ma di quel dolore Tuköry si pagò poi nel sangue dei Russi,
quando dai bastioni di Kars potè fulminare l'odio suo, contro quella gente che aveva aiutato
l'Austria a rovinargli la patria.
11 giugno.
Per la via che facemmo da Marsala al Pioppo, e poi essi dal Pioppo in una volata, sono
giunti qua sessanta giovani condotti da Carmelo Agnetta. Navigarono da Genova a Marsala, su d'un
guscio che si chiama l'Utile, dove avran dovuto stare pigiati peggio che i negri menati schiavi. Che
senso quando sbarcarono a Marsala, dopo essere stati col cuore a un filo per tanti giorni; e poi
quando passarono vicino ai nostri colli di Calatafimi! Avranno pensato ai morti che vi lasciammo,
con la malinconia di non averli conosciuti vivi. Ma quando arrivarono a questa Palermo mezza
rovinata, debbono aver sentito l'animo crescere irato, e avranno tesa la mano ognuno guardando
innanzi e dicendo a qualcuno laggiù: «Ci vedremo!».
Hanno portato due migliaia tra schioppi e schioppacci, e munizioni da guerra e i loro cuori.
C'è Odoardo Fenoglio veneto da Oderzo amico mio, sfolgorante ufficiale della brigata Pavia, che ho
visto e abbracciato ai quattro Cantoni; c'è Cavalieri, c'è Frigerio, tutti valenti e gentili e colti,
arrivati in tempo, per onorare la salma di Tuköry che oggi porteranno a seppellire.
* * *
C'eravamo tutti, fino i feriti che hanno potuto venir fuori dalle case, dagli spedali, tutti! Türr,
figura tagliata nel ferro, non fatta a mostrar dolore, camminava alla testa del corteo, dimesso,
accorato, parea condotto a morire. Dalle finestre piovevano fiori sul feretro, su noi; e dai fiori e
dalle foglie di lauro veniva un odore che mi faceva il senso di un soave morire. Si aggiungevano il
silenzio della folla, e gli atti delle donne bianche, inginocchiate sui balconi e piangenti. Era uno
sgomento che pareva avesse pigliato fin le pietre. Vidi certi dei nostri, duri e invecchiati a ogni sorta
di prove, andar innanzi con faccia sbigottita, spenta. Rodi e Bovi, due mutilati antichi, parevano
sonnambuli. Maestri, che ebbe un braccio troncato a Novara, e che pur da Novara corse a Roma
dov'ebbe il moncherino spezzato un'altra volta da una scheggia francese, il povero mio Maestri da
Spotorno, semplice e prode come i popolani delle nostre marine liguri, piangeva. E piangevo
anch'io. Un momento che mi si strinse più il core, mi pregai con certa voluttà acre, non mai provata,
mi pregai d'essere chiuso in quel feretro abbracciato col morto. Oh! star nella bara con tanto ancora
di vita da sentirsi portato lentamente, indovinando le vie, le finestre sotto cui si passa, le faccie di
quei che guardano e accompagnano fin dove possono con gli occhi e poi col pensiero! La folla fa
ala... parlano a voce bassa... che diranno? cade qualcosa... saranno fiori.
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Ma la marcia funebre prorompe alta nell'aria, e vien sin fra i quattro assi, con certi acuti
stridori di trombe, con certi gemiti di flauti che si mutano in lacrime.
Anche Adolfo Azzi morì son sette giorni! Come stava là sul Lombardo nelle ultime ore del
mare, colle braccia potenti al timone, con gli occhi in Bixio che di sul cassero fulminava l'anima tra
Marsala vicina e le navi che ci inseguivano nere come leonesse nel deserto! Lo veggo ancora e lo
vedrò finchè io viva, con quella faccia sfidatrice e quieta, con quelle spalle ampie, scamiciato ed
erto i pettorali fatti per ricevervi la morte da eroe. Invece fu colto in una coscia. Gli entrò la palla e
ruppe, e in cinque giorni il povero Azzi morì!
Notte.
Non nelle notti travagliate dei combattimenti, ma ora che abbiamo una certa quiete,
pensando alle barricate ho sentito venir su dal core un'onda della malinconia rimastami da quella
sera del quarantotto; una sera di marzo che noi fanciulli, tutti raccolti a sentir la novella da nostra
madre, stavamo al focherello allegro che pareva anch'esso uno della famiglia. Suonò un'ora di notte
e il Deprofundis dal campanile. Nostra madre ci fece pregare pei morti. Ma i soliti rintocchi si
mutarono in un di quei doppi, che lassù da noi annunziano pel domani la commemorazione di
qualche morto degli anni andati. Nostra madre alzò i suoi grandi occhi in su, forse a cercare di qual
morto de' suoi ricordi cadesse l'anniversario; e noi muti ad aspettare che ripigliasse il racconto. A un
tratto entrò da fuori nostro padre, e venne malinconico a sedersi al fuoco.
- Che c'è? gli chiese nostra madre.
- Nulla!
- Giusto! Han suonato a funerale; chi sa per chi?
- Pei defunti delle barricate di Milano.
Guardai nostro padre tremando. Defunti, barricate, Milano, tre schianti al mio core di nove
anni, mi parevano tre parole sonanti da un altro mondo. Quella notte non dormii: da quella notte mi
rimase nell'anima una tristezza cara, che di quando in quando assaporai, venendo su cogli anni,
senza poterle dare un nome fin che non ebbi trovato nel Sant'Ambrogio del Giusti quello sgomento
di lontano esiglio...
Tornando da Monreale, 14.
Deve essere stato un gran vivere nei tempi che su questo ceppo della Sicilia venivano a
innestarsi i Saraceni, i Normanni e poi quegli altri d'alta ventura, che portavano l'aquila sveva sul
pugno!
Pìgliati colla fantasia in quell'età una parte, guerriero, rimatore o fraticello, ed entra; ecco la
Cattedrale famosa. Tant'è, s'ha bel disporsi, ma noi sentiamo che non si riesce a star nelle chiese
come quella là, con animo che risponda. Disse un di noi: «Bisognerebbe non osar d'entrarvi
calzati...». Fu tutta l'espressione della sua maraviglia! Un altro, quando ebbe guardato un poco
attorno le colonne e laggiù il gran mosaico, si lasciò andar ginocchioni con gli occhi in su, facendo
colle braccia e a mani giunte un arco sopra la testa, verso quelle volte; e l'atto gli parve preghiera.
E s'esce di là che uno si sentirebbe potente a far qualche cosa degna; ma no, quello che per
capirci chiamiamo coda del diavolo, gli si ficca tra piedi. Noi, per esempio, appena fuori avemmo
una mezza rissa.
Benedini da Mantova, nostro medico, tutta la via aveva brontolato che a Monreale ci andava
di malavoglia, perché sapeva esservi stato detto di noi, che siamo venuti a mangiarci l'isola, e che
bisognerebbe sonarci le campane addosso.
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E noi a dirgli: «Chetati, son cose da celia...» non ci sognando che cosa gli frullasse. Ma lui?
In chiesa s'era stizzito di più; e uscendo, al primo che gli capitò di vedere con aria non di suo genio:
«Sei tu che ci vuoi fare i vespri?».
Colui che pur non era uno zotico, tra il capire e il no, sembrò viso di voler dir di sì. E
Benedini gli menò. Oh che guaio! Se non capitava pronto un prete, addio!
Venendo via, ne dicemmo a Benedini...! Ma egli tranquillo, gli pareva d'aver fatto l'obbligo
suo.
Convento della Trinità, 15.
Ho visitato il colonnello Carini in una cameretta lassù e dell'albergo alla Trinacria. Dove se
n'è andata tutta quella floridezza di carni? Tenendomi per la mano mi chiese del Dittatore, della
compagnia, degli amici; poi d'improvviso: - C'eravate ai funerali di Tuköry? - Colonnello, sì. - Egli
guardò intorno e mi strinse più forte la mano.
Due giovinetti gli stanno in camera senza lasciarlo mai, tutti lui negli occhi brillanti di
lagrime, rattenute appena mentre egli m'aveva chiesto se ero stato ai funerali. Quando egli partì
esule nel quarantanove, quei suoi figliuoli dovean essere bambini affatto. Vennero da Messina
coll'agonia di abbracciarlo, di trionfare con lui vincitore, e lo trovarono inchiodato da quella
maledetta palla bavarese.
Per le stanze va lenta, mesta, una signora che deve aver molto sofferto. E quando s'incontra
con gli occhi negli occhi del colonnello, pare che la pigli il singhiozzo, stenta a non farsi scorgere.
In verità egli è molto giù della vita. Oh che storie, che lutti, che vedovanze del core!
Venni via afflitto. E per contrasto trovai che correva su quel frullino del figliuolo di Ragusa,
sempre nelle nostre gambe vispo, felice. Suo padre, che conduce l'albergo da gran signore, ne'
giorni del bombardamento tenne corte bandita per noi, chi avesse voluto passar da lui a ristorarsi.
Ma c'era ben altro da fare, e pochi vi possono essere capitati: tuttavia ce ne furono, ed io so d'uno
che ci deve aver fatto la figura di Margutte.
* * *
Curvetto, piccino, tarchiato, passo da marinaio, capelli bianchi e lunghi, barba fatta,
indovinata per parere quella del Generale; Gusmaroli, il vecchio parroco mantovano, può dare
un'idea di quel che sarà Garibaldi fra una ventina d'anni.
L'ho ben guardato, è proprio così. Ed egli che sa di somigliargli un poco, ne gode e si
riscalduccia in tale compiacenza; egli nei tre giorni si atteggiava. I picciotti che lo vedevano
comparire sulle barricate qua e là, gli gridavano: Evviva Garibaldi! E sotto gli occhi di lui
combattevano e morivano volentieri, credendolo il Dittatore.
16 giugno.
Ippolito Nievo va solitario sempre guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a
occhiate l'orizzonte. Chi lo conosce, viene in mente di cercare collo sguardo dov'ei si fissa, se si
cogliesse nell'aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia. Di solito s'accompagna a
qualcuno delle Guide: Missori, Nullo, Zasio, Tranquillini; ed oggi era con Manci, a cui veggo negli
occhi i laghi del Tirolo verde, ov'ei nacque. Quando incontro costoro, vestiti ora d'un uniforme di
garbo un po' ungherese, bello, già illustrato nel quarantanove dalla cavalleria di Masina in Roma, io
mi sento nascere di dire: «Uno di voi mi vorrete in groppa quando galopperete per i campi nella
battaglia?». Vorrei provare a un di quei cuori il mio. E sceglierei Manci, che mi pare un cavaliero
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non ancora vissuto in nessun poema. Non è l'Eurialo di Virgilio, non quell'altro dell'Ariosto; è un
non so che di moderno, nemmeno: è una gentilezza dell'avvenire.
Con Manci veggo sovente quel Damiani, che, se fossi scultore, getterei in bronzo, lui e il suo
cavallo, alti, piombati sopra un viluppo di teste e di braccia, quale mi rimase impresso a Calatafimi
nel momento della bandiera. In Palermo, nel secondo giorno del bombardamento, lo vidi appoggiato
a uno stipite d'un gran portone del palazzo Serra di Falco in Piazza Pretoria, forse là pronto pel
Generale, perché nel portico scalpitava il suo cavallo sellato. - Quella era la faccia di Calatafimi.
Mentre che io passai, egli parlava tra sé. E mi parve che guardasse ora il palazzo dov'era il
Dittatore, ora il convento di Santa Caterina lì allato, che ardeva dal tetto e vi cadevano le bombe.
Forse pensava come avrebbe potuto salvare Garibaldi, se uno di quei mostri fosse piombato pochi
passi più oltre...
Palermo, 17 giugno.
Non gli ho visti, ma so che da giorni sono venuti dalla Favignana sei o sette di quei di
Pisacane, scampati all'eccidio di Sapri. Dunque erano in quelle Egadi, che pareano scoppiate su dal
mare improvvise a festeggiarci? Erano nelle prigioni sottomarine. Che fremito, se, per uno di quei
sensi misteriosi, che talora si rivelano in noi come guizzi d'una vita di natura diversa dall'umana,
avranno indovinato che là fuori, sull'onda che rumoreggiava spruzzando le loro inferriate, passava
Garibaldi e la libertà.
O precursori nostri, quante lacrime, quanto fantasticare dopo il vostro infortunio, dopo
Sapri, più bello, più glorioso della nostra Marsala! Tre anni! pareva un secolo; e di lassù dalle Alpi
era un volo dell'anima sitibonda verso queste terre delle Due Sicilie, che sin col nome invogliavano
e coi mari e coi cieli e coll'istoria loro e con quel canto della Spigolatrice messa dal poeta sull'orme
vostre, a veder gli occhi azzurri e le chiome d'oro di Pisacane! Dopo i Bandiera, Corradino,
Manfredi, biondi tutti e belli e di gentile aspetto, lui.
* * *
Mi dice Antonio Semenza, che tra le carte del Palazzo Reale fu trovato l'ordine dato da
Napoli alla flotta, se ci avesse incontrati. - Colarli a fondo salvando le apparenze. - Sarà vero?
Infatti saremmo stati troppi alle forche e agli ergastoli; ma che nella marineria napoletana ci sarebbe
stato un cuore da obbedire e annientarci?
18 giugno.
E colui dalla faccia tagliente, d'occhi e d'atti che pare il falco reale; grigio, castagno,
grinzoso, fresco, che ha tutte le età; chi è, quanti anni porta in quelle sue ossa d'atleta, in quelle sue
carni segaligne? L'ho sempre veduto da Marsala in qua e osservato con certa reverenza. E ho
immaginato che debba essere qualcosa come zio o fratello maggiore di Nullo. Ma oggi ne chiesi. E
noto perché mi sia d'insegnamento, che Alessandro Fasola da Novara ha sessant'anni fatti; che dal
1821 ne ha spesi quaranta a lavorare, a sperare, a combattere; che sempre da Santorre Santarosa a
Garibaldi fu visto comparire alla chiamata, giovane, ardente e sicuro.
* * *
Anche i carabinieri Genovesi come sono usciti belli nelle loro divise! Un farsetto e un
berretto d'un azzurro delicato che rialza la espressione di quelle facce signorili, non so se sciupate o
abbellite dal bronzeo che dan questi soli penetranti nel sangue.
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Tutti vorrebbero farsi carabinieri, ma non tutti si è Genovesi. Si capisce. V'è una certa
aristocrazia del valore, e quelli là che se la sentono nel cuore, e degnamente, vorrebbero star soli. E
non ho inteso un della mia compagnia, e non dei migliori, dire che il Dittatore dovrebbe tenerci tutti
senza che altri potesse mescolarsi con noi di Marsala; e mandarci sempre avanti, avanti, avanti,
finché uno ne fosse vivo?
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[DA PALERMO A MILAZZO]
18 giugno.
Partire non condotti dal Dittatore! Eppure egli ha sulle braccia la rivoluzione, la guerra,
tutto, anche gli arruffapopoli, e deve star qui. Con lui lavora Francesco Crispi, un ometto che
quando lo veggo mi fa pensare a Pier delle Vigne potente. Ma lontani da Garibaldi saremo ancora
con lui. «Andate di buon animo, ci disse, andate figliuoli, che vi ho dato Türr. Se avrò bisogno di
voi, egli vi condurrà volando da me». Eppoi, messosi a parlare genovese con alcuni di noi liguri,
parve pigliasse un piacere fanciullesco in quel dialetto che parlano Bixio e i Carabinieri.
21 giugno.
Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito.
Entrò da Porta Nuova sotto una pioggia di fiori. Quaranta ufficiali, coll'uniforme
dell'esercito piemontese, formavano la vanguardia.
La mia brigata è partita per l'interno dell'isola, condotta da Türr. Noi della spedizione
dispersi nell'onda dei sopravvenienti, porteremo con noi le memorie dei venticinque giorni vissuti
come nella solitudine, faticando, combattendo e credendo. E tireremo innanzi visitando l'isola,
facendo gente e pellegrinando, finché ci arresti il nemico e si torni al sangue, o si finisca fondendoci
tutti nelle sorti e nell'onore d'Italia.
Da Palermo a Missilmeri, 22 giugno.
Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via,
tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
Ho riveduto Porta Sant'Antonino, il Convento e quella muraglia che all'alba del 27 maggio,
quando venimmo, balenava e tuonava come una nuvola tempestosa. I due grandi pioppi, a pié dei
quali quel mattino vidi il primo napoletano morto, tremolavano sino all'ultima foglia con un
sussurro allegro quasi consapevole. Passandovi sotto, pensai raccapricciando a quel morto, a quella
povera montanara della Calabria o dell'Abruzzo che si farà sulla soglia della capanna, con una paura
confusa della guerra che c'è pel mondo, dove forse crede ancora di avere il suo figliuolo soldato. E
pensai anche ai prìncipi di Casa Borbone, che sino ad ora non se n'è visto uno a cavar la spada.
Mi volgo indietro. Palermo è laggiù, laggiù come la vedevamo da Gibilrossa, dal Parco, dal
Passo di Renna, ma ora libera nella sua gloria fra le sue rovine, di giorno e di notte tutta un festino.
Partendo, ho inteso che già sono arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fino dai
primi giorni della capitolazione. Quella sera che ci raccolsero in fretta e in furia e ci tennero sotto
l'armi delle ore, in via Maqueda, che cosa era stato? Mi disse Rovighi che si parlava d'una alzata di
La Masa, per togliere a Garibaldi la Dittatura e assumerla lui gridato dal popolo. Era una calunnia:
ma il fine?
Missilmeri, 22 giugno.
Questo popolo che ci ha fatta la luminara la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi e
con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non
si può indovinarlo. Parlano, sorridono, sono gai; discorrono con noi, ma a gesti impercettibili se la
intendono tra loro. Che abbiano dentro parecchie anime?
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* * *
Ora si va pigliando davvero un bel fare da soldati. Il gruppo d'ufficiali che ho visto in piazza
sarebbero l'onore del primo esercito del mondo. Tutti nel bello dai venti ai trent'anni, persone salde,
faccie che vi si legge il coraggio semplice e franco; medici, ingegneri, avvocati, artisti. Ma se
fossero tutti come Daniele Piccinini! Che addio deve essere stato quando si partì dal padre suo!
Immagino il vecchio austero sulla porta della sua Pradalunga, intento a guardare il figlio che gli ha
dato le spalle, e se ne viene giù verso Bergamo, con passo da Clefta. Non l'hanno guasto nè l'ozio nè
i vizii costui: la storia della sua giovinezza l'ha in fronte; forse più che caccie e corse su in alpe non
ebbe altri spassi. A Calatafimi fu visto coprire il Generale mettendoglisi dinanzi, perché, come
indossava camicia rossa, era fatto segno alle schioppettate. E in uno dei momenti che la battaglia
parea volgere a male, egli tenne alto l'animo dei suoi vicini, gridando parole potenti come
d'arcangelo.
Missilmeri, 22 giugno.
Il generale Türr gli si è riaperta la ferita, e ha dato sangue dalla bocca. Da quando entrammo
in Palermo, quest'uomo ha fatto tanto che si e ridotto un'ombra. La brigata è afflitta, perché si teme
che egli debba lasciarci. Lo vidi un istante, smunto, pesto negli occhi, le labbra pallide, il petto che
pare schiacciato. Ma che sia davvero quel sottotenente degli Ungheresi passati nel mio villaggio
l'anno quarantanove, dopo la battaglia di Novara? Li ricordo come li vedessi ora. Erano forse cento
bei giovani, che portavano una gran bandiera tricolore; le loro persone alte s'avanzavano mezzo
nascoste nel polverìo della strada al sole di marzo, e quando imboccarono il ponte gridarono: Elien
Elien! alla gente corsa ad incontrarli. Quel sottotenente in mezzo a quei soldati mi pareva tanto
allegro, e tuttavia mi si stringeva il cuore sentendo dir da mio padre: Sono Ungheresi, gente che
l'Austria fa patire!
Villafrati, 24 giugno.
Passavano baldi su certi stalloni neri, carboni accesi gli occhi, le criniere che davano sui
petti. Tenevano alte le teste guardandoci appena, avevano gli schioppi a tracolla, pistole e pugnali a
cintola, nastri essi ai cappelli e all'arnese delle cavalcature. Il capo che camminava innanzi non mi
tornava nuovo. I Villafratesi che discorrevano con noi li guardavano incerti tra il salutarli e non
badarli; ma mi accorsi che qualcuno ammiccò, qualche altro scambiò con essi quei certi cenni,
raggrinzamenti della fronte, d'una guancia, del mento, diavolerie, che a costoro bastano per un
discorso.
- Chi sono quei sette? chiesi ad un signore.
- Patriotti, signorino, non avete visto? Hanno i tre colori.
Un altro lo guardò bieco: un lampo.
Intanto quei sette giunti in capo al borgo misero i cavalli a trotto serrato.
Ma dal quartiere del Generale uscì fuori un tenente spronando dietro di loro, e presto lo
vedemmo tornare con quei sette disinvolti, beffardi, accigliati. Il tenente gli aveva presi colla pistola
alle tempie del capoccia, pronto se non avessero obbedito...
Ci affollammo in quella casa dov'era già un gran brusio, e potemmo udire la voce del
generale Türr corrucciato pronunciare il nome di Santo Mele.
- Santo Mele? dissi io, ma costui è quel birbante che avevamo prigioniero al Passo di Renna,
e che gli riuscì a fuggire. Berrebbe il sangue, ladro, assassino!
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A quest'antifona il signore che aveva detto bene di quei sette sparì senza neanche dirmi:
Bacio la mano.
Udimmo bisbigliare: Consiglio di guerra subitaneo; e comparve il maggiore Spangaro, un
uomo d'età seria, già brizzolato capelli e barba, ufficiale nella difesa di Venezia. Presiederà il
Consiglio.
Villafrati, 26 giugno.
Ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini. A Prizzi, che deve essere un villaggio
poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se non vi fosse più nessuno a
comandare. Il padre Carmelo sapeva quel che diceva quando ci parlammo al Parco. Quaggiù vi
sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. Pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un
linguaggio come questo della poveraglia di qui.
Bassini si è messo in marcia, ma non dell'umore suo di quando odora il pericolo, Questo
brontolone gaio, senza gingilli, di corteccia grossa, ha un cuore che parla dalla faccia burbera e
bonaria. Agita la testa rasa, grigia, nocchiosa come una mazza d'armi da picchiare sul nemico. Avrà
forse un mezzo secolo ormai, eppure è più giovane di noi, e a Calatafimi tenne la sua compagnia
come a una festa. I suoi ufficiali, tutti signori di Lombardia, gli stanno sotto come un padre. Se in
Prizzi gli occorrerà di dover parlare di legge, ha nel battaglione i dottori a dozzine; se vorrà fare
un'arringa, i letterati gli stanno attorno; ma egli breve e tagliente parlerà colla spada. Chi laggiù ha
le mani lorde badi ai fatti suoi.
Villafrati, 26 giugno.
E non ci è stato verso di trovar uno che abbia voluto dire la verità! Il testimonio che abbia
detto più male di Santo Mele, dinanzi al Consiglio di guerra, fu Santo Mele.
«Io brigante? Eccellenza! Ho combattuto contro i borbonici, ho dato fuoco alle case dei
realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi d'aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte!».
E ne buttò là un fascio, bollate dai Municipi dov'è passato, tutte che ne dicono gloria come
fosse Garibaldi. Ma il Consiglio non lo mandò libero. Costui puzza troppo di sangue, e a Palermo,
dove sarà condotto, qualcuno gli farà empire il cranio di piombo.
Villafrati, 27 giugno.
È arrivato il colonnello Eber, d'aria tra soldato e poeta. Si sa che è Ungherese, e che il 26
maggio venuto da Palermo a Gibilrossa per veder Garibaldi, volle essere dei nostri a tornar a
Palermo, quel bello e terribile mattino del 27. - Viaggiatore di gran lena, egli ha corso l'Asia per
ogni verso, scrivendo pel Times. Ora eccolo nostro comandante, perché Türr se ne va malato
rifinito.
Rocca Palomba, 28 giugno.
Che veglia deliziosa a pié del Maniero di Morgana! Stanchi della camminata d'otto ore, i
soldati dormivano, pei campi, in un silenzio che mi parea d'esser solo.
Queste campagne come hanno fatto a diventar deserte?
Si va delle ore senza vedere una casa. Contadini? Non ve ne sono. I coltivatori stanno nei
villaggi, grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, con l'asino e le altre
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bestie men degne. Che tanfo e che colpe! All'alba movono pei campi lontani, vi arrivano, si mettono
all'opera che quasi è l'ora di tornare; povera gente, che vita!
Rocca Palomba è come tutti gli altri borghi, ma a vederla da lungi adagiata su questo fianco
del monte, mezzo nascosta nei boschi di mandorli, con quella strada che si curva dolce per farvi
arrivare la gente senza fatica, promette di più. Trovammo gli abitanti in festa. Avevano mandato ad
incontrarci un nugolo di cavalieri, che vennero innanzi drappellando bandiere, levando grida, salute
fratelli! Parevano gente del medioevo rimasta viva proprio per aspettarci. Quei signori ci fecero gli
onori del paese, con modi non da persone accostumate a vivere così solitarie. Ma certe gentilezze
s'hanno nel sangue. Però sempre quella storia! Se un borgo ci accoglie bene, quello che viene dopo
ci tiene il broncio, poi l'altro appresso torna a farci festa. Qui c'erano i preti e il Municipio alle
porte; la banda suonava l'inno; sulle alture ardevano fuochi di gioia, i signori si contendevano gli
ufficiali; i soldati ebbero pane, cacio, vino, carezze, il paese in capo, se l'avessero voluto.
Io poi càpito sempre in casa di preti. Questo ch'è qui mi ha voluto far toccare il vangelo. Ma
io, aperto il volume, lessi due versetti e glieli voltai tradotti lì lì. Allora il prete mi si buttò al collo, e
fece correre tutta la famiglia a conoscere il gran cristiano che aveva in casa. Desinai con loro. Vi
erano delle donne, delle fanciulle, dei bambini, dei vecchi e dei giovani, una tribù. Pareva il dì del
Natale. Mi lasciarono venir in camera a malincuore; in questa camera allegra dove è un letto che
pare di gigli. E tu coi tuoi peccati, oseresti andare fra quelle lenzuola?
Bassini ci ha raggiunti, mortificato lui, gli ufficiali e i soldati. Furono accolti a Prizzi come
prìncipi. Luminare, cene, balli e le belle donne che gridavano ancora da lungi «benedetti! beddi!».
Alia, 29 giugno.
Da Rocca Palomba ad Alia una marcia breve, attraverso una ricchezza che va dal piano sino
in cima ai colli, dorati ancora da messi che si curvavano, quasi a riverire la nostra rosseggiante
colonna.
30 giugno, 4 ore antim.
Si parte. Ah! questa volta la marcia sarà lunga, e pare che il cielo si vorrà fare di fuoco. I
soldati vanno e vengono per le vie sudicie, cittadini se ne veggono pochi, scamiciati, indifferenti,
alle finestre. Passano due preti salutando; se ne andranno in chiesa. Ecco la tromba. Chi l'avrà
trovata questa bella diana dei bersaglieri piemontesi? Certo un musico d'animo allegro e ardito: c'è
un pensiero così sano! Forse è del colonnello Lamarmora. Scuote di dosso il sonno e la pigrizia, fa
correre pei nervi un gran bisogno di fare. La intesero gli Austriaci tante volte, la intesero i Russi in
Crimea, noi l'abbiamo portata qui nell'isola vecchia di Vittorio Amedeo, dove già i monelli la
cantano come cosa loro.
Valle lunga, 30 giugno pom.
Ci hanno raggiunti parecchi amici da Palermo, e dicono che vi arriva gente da' porti di
Liguria e di Toscana ogni giorno. Vi furono quasi dei guai per certa fretta messa ai Palermitani di
darsi al Piemonte; ma il Dittatore tiene a segno tutti.
Scrivo in una cameretta dove mi par d'essere un grillo in gabbia. Ma se mi affaccio, veggo
tutta la via grande, e una allegria di soldati rossi, e gli ufficiali che fumano e bevono seduti innanzi
al casino di compagnia. Come si fa presto a pigliar l'aria di questi signori, che forse stanno lì tutto
l'anno a tirar giù dal cielo il tempo e la noia, a ridere e a giuocare! E mentre che la terra frutta, essi
fanno idillii e tragedie per donne. Ho inteso di bellissime storie verseggiate dal popolo che qui è
tutto poeti; storie d'amore e di sangue versato per gelosie tremende.
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Santa Caterina, l° luglio.
Eber sa condurre una colonna senza affaticarla. Divide la marcia in due: nelle ore di sera si
va, si accampa dopo un bel tratto, si riprende la via prima dell'alba e si arriva dove si deve nel bello
della mattinata, quando il sole non s'è ancora avventato. Così la notte scorsa ci riposammo nei
campi della Cascina Postale, con un tempo dolce, con un sereno che mi parea di vedere mille volte
più lungi nelle profondità del cielo.
Stamane mentre il sole spuntava camminavamo già da un par d'ore. Le compagnie
cantavano canzoni popolari lombarde e toscane; i siciliani gareggiavano con un loro canto d'aria che
cercava il core.
La palombella bianca
Si mangia la racina.
Ma a tratti quella melodia scoppiava in versi di odio al Borbone, di spregio alla regina Sofia.
Alla testa della colonna i Genovesi cantavano l'inno alato di Mameli. A un tratto ruppero il
canto, e lo cessavano tutti man mano che arrivavano a un certo punto della via. Quando, v'arrivai
anch'io capii. Da quell'apparita si vedeva laggiù, laggiù, nero sterminato, crescente all'occhio e alla
fantasia, l'Etna, che coll'ombra sua si protendeva su mezza l'isola e sul mare.
* * *
Il povero maggiore Bassini l'hanno pigliato pel giustiziere. Egli dovrà partire di nuovo per
un villaggio chiamato Resotano, dove alcuni tristi fanno tremare la gente.
Caltanisetta, 2 luglio.
Si calunniano tra loro borghi e città come godessero gli uni del mal degli altri. A sentire, qui
dovevano essere schioppettate. Invece trovammo tutto un parato di bandiere e di verde. Ci toccò
passare sotto un arco trionfale noi, le autorità, la Guardia Nazionale venuta ad incontrarci. I
giovinetti volevano ad ogni costo lo schioppo dai nostri soldati, tanto per alleggerirli l'ultimo tratto:
ma i soldati rifiutarono la cortesia. Forse qualcuno si ricordò di quando eravamo pei campi nei
primi giorni dopo lo sbarco, che si dormiva collo schioppo tra le braccia e le gambe incrociate, e
alcuni se lo legavano al corpo, dalla paura di svegliarsi disarmati. Sicuro! Allora v'erano dei
contadini che per avere un'arma si arrischiavano nei bivacchi a rubarla.
3 luglio.
Che quella festosa accoglienza di ieri fosse una lustra? Oggi la città è silenziosa; pare che
noi non ci siamo più; la gente attende alle cose sue come dicesse: Ho fatto il dover mio e basta.
* * *
Quei di Bassini sono tornati, rotti dalla marcia di quattro giorni, per vie da lasciarvi le polpe.
Narrano che capitati a Resotano intorno alla mezzanotte, vi trovarono il popolo in armi risoluti a
non lasciarli entrare. Bassini, uomo da dar dentro a baionetta calata, procedé cogli accorgimenti, e
poté mettere le mani addosso a undici scellerati, rei di mille prepotenze e di sangue. Uno riuscì a
fuggire, ma un siciliano come un demonio, lo cacciò, lo arrivò e l'uccise.
51
5 luglio.
Fatti i conti, dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono
già andati, alcuni portando via anche le armi. Sono contadini che si accendono come paglia e presto
si stancano. Il Consiglio di guerra li condanna a morte; si appiccano le sentenze come lenzuola alle
cantonate, ma si lascia che i condannati se ne vadano alla loro ventura, purché lontano. I buoni sono
quelli delle città e i Palermitani, giovani colti, amorosi, pieni di rispetto. Malveduti sono alcuni
ufficiali che paiono chierici. Quando le compagnie vanno agli esercizii, le accompagnano portando
le spade come torcetti poi si tirano in disparte e par loro d'essere sciupati nel dover assistere a quelle
bassezze dell'imparare come si maneggia un'arma, come si muova ordinati. Se fossero stati l'anno
scorso in Piemonte! Giovani dei migliori di tutta Italia si lasciavano strapazzare da quei caporaloni
grigi che parlavano di Goito, di Novara, della Crimea, e insegnando lanciavano insolenze peggio
delle guanciate. Pur d'imparare, sopportavano tutto quei giovani. Ricordo d'un Conte veneto che
caricava su d'una carretta lo strame, della scuderia. Passò il caporal Ragni con la gamella in mano.
- Bestie tutte come voi nel vostro paese? Chi v'ha insegnato a maneggiare il bidente?
Il Conte rispose sorridendo non so che, in italiano.
- Ah! siete un volontario? Allora che cosa è questa?,
- Una gamella.
- La patria! urlò beffardo il caporale, battendo le nocche su quell'arnese di latta. Il Conte
sorrise ancora. E il caporale:
- Stasera farete il sacco, e passerete a ridere in prigione..
- Sissignore.
Caltanisetta, 7 luglio.
Feste da fate. I viali del giardino parevano di fuoco; il verde degli alberi e delle spalliere
luccicava di splendori metallici; le donne di Caltanisetta coi mariti, coi fratelli, con noi, parevano
una famiglia innumerevole che si rallegrasse là dentro di qualche lieta avventura. Rinfreschi, vini e
dolciumi, tanto da satollare per una settimana tutti i poveri della città.
Castrogiovanni, 10 luglio.
Ma perché ci hanno fatti camminare traverso i monti, per sentieri che è miracolo se nessuno
vi lasciò la vita? Vero è che abbiam veduta la pingue campagna, una coppa d'oro. Quei bovi che
pascolavano per le praterie, fiutavano nell'aria il nostro passaggio, e la fila interminabile di rosso
dava loro negli occhi spaventati. Un toro inseguì due dei nostri sbrancati e vaganti forse in cerca
d'acqua. Li vedemmo correre su per un'erta, colla formidabile testa del furioso animale due passi
dalle reni. Un d'essi poté arrampicarsi a un albero, l'altro tirava sempre a correre su d'una ripa dove
il toro lo avrebbe arrivato. Senonché un boaro, galoppando curvo che la sua testa era tutta nella
criniera del cavallo, giunse coll'asta calata e vibrò nel fianco alla bestia come un lanciere. Il toro
fuggì muggendo, lanciando zolle, flagellando l'aria colla coda rabbiosamente.
* * *
Io pensava che quando eravamo a Gibilrossa, ora un mese e mezzo, furori messi i partiti
d'assaltare Palermo o di ritirarsi qui su quest'amba, per ordinarvi la rivoluzione, farsi forti e
ripigliare la guerra. Quasi tutti i capitani propendevano per questo, ma Garibaldi no. Volle Palermo.
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Forse indovinava che ritirati quassù avremmo avuto tempo a languire un po' ogni giorno, finché la
rivoluzione si sarebbe spenta, e noi con essa.
* * *
Scrivo a pié d'un castello che un tempo dominava la città. Ora è carcere dove fu chiuso un
sergente della compagnia di Agesilao Milano, che n'uscì cavato dalla rivoluzione, ma canuto, curvo,
spentosi senza la forza nemmeno di potersi rallegrare del suo paese. Così mi hanno narrato ed io
noto. E noto che veggo il lago Pergusa a un cinque miglia da qui. Pare un pezzo di cielo caduto in
mezzo a praterie fiorite. Circa lacus lucique sunt plurimi et laetissimi flores omni tempore anni:
dice Cicerone parlando d'Enna, l'antica città ch'oggi è Castrogiovanni. Lo lessi, saran sei anni, nelle
Verrine. Chi m'avrebbe detto allora: Vedrai quei luoghi?
* * *
In faccia a Castrogiovanni, Calascibetta sicura, cupa, sul monte che par tutto basalti, rotto
d'anfratti, fulminato.
Nella valle il fondaco della Misericordia, lugubre nome che fa luccicare lame di pugnali
agitate nella notte da masnadieri.
Veggo laggiù la nostra artiglieria, i carri, le sentinelle e un brusìo di soldati rossi. Non vi
deve essere un alito. Quassù invece una brezzolina che sfiora la guancia soave.
* * *
Notizie di Bixio. Conduce la sua brigata per l'isola sulla nostra destra. Ha riveduto il Parco,
la Piana de' Greci, Corleone; prosegue alla volta di Girgenti. Là i compagni nostri vedranno le ruine
dei templi che piacquero a Byron, nella squallida landa sotto cui dorme un gran popolo. Il
mandriano guarda indifferente quelle file di colonne silenziose, e il navigante si inchina ad esse da
lontano.
Leonforte, 11 luglio.
Il capitano Faustino Tanara solo, ritto su d'un poggiolo, guardava co' suoi piccoli occhi
l'orizzonte largo; pareva un aquilotto che stesse cercando una direzione per provarsi a volare. Sulla
sua faccia ride l'anima franca e ardita, ma non v'è mai allegrezza piena. Eppure la certezza d'essere
amato da tutti dovrebbe fargli gettare sprazzi di luce dal core. Che dolce natura! Il più meschino
soldato gli è carissimo, persin Mangiaracina, un siciliano di non so che borgo dell'Etna, testone che
pare un maglio in una parrucca fatta di pelle d'orso, e ha gli occhi sotto certe grotte, da dove
guardano come due malandrini appostati. Un dì vidi Tanara in collera, stanco di Mangiaracina che
butta le gambe come un ippopotamo e fa rompere il passo alla compagnia. Gli prese l'orecchio e
pizzicando gli disse: «Ma tu perché ci sei venuto con noi; e l'Italia che se ne deve fare della
carnaccia tua?». Mangiaracina gli si empirono gli occhi di lacrime, e guardando il suo Capitano
come fosse stata la Madonna, umile e dolce rispose: «Cabedano, ci aggio 'no core anch'io». Tanara
gli strinse la mano.
Egli ha trent'anni. In battaglia si trasforma. La sua persona nervosa guizza, scatta, squarcia
come saetta nelle nubi. Allora tutti lo ammirano; si teme di vederlo l'ultima volta: dopo si
rincantuccia malinconico; non gli si può cavare una parola.
San Filippo d'Argiro, 12 luglio.
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Partimmo da Leonforte col fresco delle due dopo la mezzanotte e camminammo lenti sino
alla levata del sole. Allora ognuno diede una scossa come fanno gli uccelli, e volò coll'anima per gli
orizzonti dell'isola. Le solite vedute. Boschi di mandorli come da noi i castagneti; terreni che
dovrebbero gettar oro; qua e là gruppi di contadini che ci guardavano accidiosi e pensando chi sa
che cosa di noi.
San Filippo è una cittadetta gaia, e ci si dice che di qua al mare sia la più bella parte
dell'isola. Arrivammo che una processione rientrava in chiesa da non so che giro fatto per chieder
pioggia.
Corre voce che una colonna di regi usciti da Siracusa ci attendono verso Catania, Dev'essere
vero perché si partirà fra poche ore. Una battaglia là dove pugnarono gli Ateniesi di Nida; o a' piedi
dell'Etna dove si svolsero tanti drammi delle guerre servili? E Garibaldi non è con noi! Ma se nel
forte del combattere arrivasse da Girgenti Bixio, come un uragano?
Adernò, 14 luglio. Pomeriggio.
Ho fatto tutta la marcia con Telesforo Catoni che sin da Marsala desideravo d'aver amico.
Egli era della compagnia Cairoli e studiava leggi a Pavia. Ha nella persona qualche cosa che
attrista; non si sa perché, ma si sente certa compassione di lui. Una capigliatura nera lussureggiante;
un par d'occhi che saettano, grandi, eloquenti; una testa che potrebbe essere piantata su d'un atleta; e
invece una esilità di membra, un torso tenue che a un soffio dovrebbe piegare. Eppure non è stato
addietro un passo, mai. Sta quasi sempre solo; adora Foscolo e il carme dei Sepolcri che sa a
memoria, e se ne pasce come d'un cibo leonino. Camminando meco recitava i versi di Maratona,
che detti da lui, nella notte, in mezzo alla colonna che marciava, mi parvero i più belli, i più forti da
Dante in qua. Cantoni ha molto del foscoliano, e chi ponesse il suo ritratto per frontespizio
nell'Ortis, ognuno direbbe che certo il povero Jacopo fu così. Ha diciannove anni, è Mantovano
come Nuvolari, come Gatti, come Boldrini, tutta gente bizzarra e valente, che hanno un po' del
Sordello.
Paternò, 14 luglio.
Da Adernò a Paternò, una camminata in faccia all'Etna, che da Santa Caterina non si è più
perso di vista. Per la falda che par si rigonfi infinita, trionfano boschi di verde cupo, dai quali si
libera e si lancia il gran monte, brullo fino alla cima, bianco di neve, alto che il fumo del cratere vi
galla sopra accidioso, come se non potesse salir di più. Dorme il gigante che conta gli anni dalle sue
furie e dai popoli che ha disfatti. Sono tanti e che storie! Eppure spesseggiano nelle macchie i
villaggi, lasciando indovinare da lungi la gente felice che deve abitarli.
Catania, 15 luglio.
Credeva d'entrare in una città di Ciclopi, ma appena oltre la porta minacciosa per i massi di
cui e formata, ecco la via lunga fino al mare, ampia, lavata, fresca come vi dovesse passare la
processione del Corpus Domini. Eravamo un drappello che precedemmo la brigata e i primi fiori gli
avemmo noi. In piazza dell'Elefante una sentinella chiamò la guardia, dieci o dodici giovinotti
balzarono a schierarsi, presentarono l'armi facendo le faccie fiere. Sono gente del paese intorno,
raccolta da Nicola Fabrizi.
* * *
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Entrò la brigata. Eber cavalcava alla testa, le compagnie camminavano franche, con gli
schioppi che uno non passava l'altro, con una cadenza di passo da vecchi soldati; davano piacere a
vederle.
Staremo qua riposando alcuni giorni. I borbonici di Siracusa e d'Agosta non si sono mossi;
ma bisognerà vegliare perché siamo in mezzo ad essi e a quei di Messina.
17 luglio.
Ho bell'e visto; questi per noi sono gli ozi di Capua, Catania ha dei profumi che
addormentano. Siede come Venere nella conchiglia, spossata dal godimento d'un cielo, d'una
campagna, d'un mare, che sembrano fondersi insieme in una sola vita per farle delizia. Si sente una
soavità d'aura anacreontica, su, vino e rose! Lampeggiano gli occhi delle donne uscenti dai templi
come Dee, colle vesti bianche, i manti neri di seta fluttuanti dalle trecce per le spalle. E noi
guardiamo, noi beviamo l'incanto ammirando.
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[DA MILAZZO A MESSINA]
Dov'è, che cosa è Milazzo? Sono corso a vedere la carta; eccolo tra Cefalù e il Faro, una
lingua sottile, che si inoltra e par che guizzi nel mare.
D'oggi in là quel po' di terra scura, col castello di cui sento parlare, non mi verrà mai vista
con la fantasia tra l'acque azzurre, senza che la visione si mescoli di file rosse correnti come rivi di
sangue in mezzo al verde dei fichi d'India, pei canneti, nel letto secco dei torrenti, sulla riva del
mare torrida e bianca. Medici, Cosenz, Fabrizi, profili austeri balenarono qua e là: non li conosco,
ma ormai gli eroi so immaginarli, so come Garibaldi li fa. E vedrò passare, quasi fuga di forsennati
in mezzo ai nostri, un gruppo di cavalli napoletani. Che vogliono, dove vanno? Intorno al Dittatore
appiedato si fa un cerchio di quei cavalli, un arco di spade, di lancie turbina su di lui, suona fino ai
più lontani del campo un urlo di gioia, di ferocia borbonica; ah quello può essere il momento che
salvi la corona a Sofia! Ma Missori e Statella sentono che nel gran poema questo sarà il loro canto:
e dalla pistola girante del Lombardo gentile, dalla spada del Siracusano cavalleresco, esce la morte
meravigliosa. Fuggite, o lancieri! Il vostro capitano vi condusse da Messina promettendo la testa del
Leone, ma non lo vedrete più. Cadde dal suo cavallo colla gola tagliata dal Dittatore. Egli è nella
polvere. E Garibaldi dal Veloce che venne fulminando per l'alto mare ad offrirsi, torna a mettersi
nella battaglia colle sue grandi ispirazioni di marinaio.
Il canto del poema finirà narrando del vecchio castello, dei fuggenti a ricoverarvisi, di
Bosco, inutile prode, che avrà per grazia del Dittatore spada e cavallo, mentre che ne uscirà
patteggiato. E al Veloce, sopraggiunto, come fosse stata l'anima del morto Magiaro, si darà il nome
di Tuköry, l'eroe di Porta Termini.
Catania, 24 luglio.
Parte la Compagnia straniera di Volf. La conduce verso Taormina il capitano Giulio
Adamoli, un giovinotto lombardo tutto delicatezza e bravura. Vanno a vedere se da Messina si è
mossa gente borbonica per affrontarci, e domani partirà la brigata.
27 luglio.
Arrivarono polverosi, ma abbaglianti; la banda in testa suonava una marcia guerriera. Bixio,
su d'uno stallone pece che gli brillava sotto leggero come una rondine, la faccia bruna incorniciata
dal capperuccio candido, pareva un Emiro che tornasse da una spedizione misteriosa nel deserto.
Volteggiò spigliato cogli ufficiali che aveva dietro, si piantò in un punto della piazza in faccia
all'elefante di pietra che sta là sonnolento: a un suo comando la fila si spezzò, i battaglioni
piegarono, voltarono rapidi, giusti, attelati, e si fermarono in un bell'ordine di colonna che parea
fatto di soldati messi là uno alla volta. Questo è un reggimento da presentargli le armi i più vecchi
del mestiere. Ne parlai con gli amici, e mi hanno detto che attraverso l'isola Bixio non gli ha lasciati
riposare un istante. I soldati per le marce forzate, furono più d'una volta sul punto d'ammutinarsi:
ma sì! chi oserebbe essere il primo con quest'uomo che non mangia, non dorme, non resta mai?
Non saprei perché, ma egli entrando in Catania non pareva guari contento. Anzi gli cresceva
quella minaccia che ha sempre tra ciglio e ciglio.
Chi sa come vada d'accordo con quel capitano che gli vidi a lato e che dev'essere suo Capo
di Stato Maggiore? Colui sta a cavallo colle gambe spenzolate come fossero di cenci ma nella vita
pare corazzato. Ha i capelli a lucignoli scialbi come la pelle, guarda che pare lì per addormentarsi.
Ma sotto i mustacchi, uno più lungo dell'altro e cadente, la bocca ride sempre d'un riso sprezzatore,
mentre l'orecchio pare teso ad ascoltare rumori misteriosi, lontani. Mi dicono che sia un alto
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ingegno venuto su dall'esercito piemontese. V'era sottotenente dei bersaglieri sin dal quarantotto;
ma per non so che sdegno patriottico ne uscì, quando avvennero i fatti di Milano nel cinquantatre.
Tutti mi hanno l'aria di star in guardia da lui; buon compagno d'armi ma derisore che dove tocca
scotta o leva il brano. Prenderebbe in canzonatura magari il Dittatore; ed io lo chiamo Mefistofele
in camicia rossa. È Giovanni Turbiglio.
Giardini, 28 luglio.
Aci Reale, Giarre, Giardini, tre cittadette che il mare le vuole e l'Etna le tira a' suoi piedi
come schiave. Si va, si va e sempre questo monte che non finisce mai di mutare aspetti, sempre
quelle sue falde fresche d'ombre che uno le gode con gli occhi, tirando innanzi a camminare
divorato dal sole, nella strada gialla, polverosa di lava, sulla quale danza un calore che a stender la
mano par di palparlo, rete dì metallo infocato.
A destra, fin dove può l'occhio, un azzurro di mare che non somiglia punto a quel di Liguria,
né a quello là di Marsala. È il nostro bel mare, per tutto, ma qui ha trasparenze profonde, lontane,
direi successive come i cieli di Dante. Forse ha senso di godimento sotto questo sole che gli penetra
sin nel fondo; perché in quest'ora di mezzodì ha quasi un'aria di infinita bontà. Mi fiderei di dire che
vi si può camminare sopra a piedi asciutti, e a guardarlo m'entra nell'anima la soavità squisita di
cose intese da fanciullo, i cieli, i laghi, le buone genti di Galilea.
Ma là, oltre quell'ultima linea che altrove par finire in un balzo pauroso alla fantasia,
s'indovinano terre come queste e più deliziose. La Grecia non poté, non potrebbe essere che laggiù.
Par di sentire un profumo d'antico e un suono da quella parte venuto in qua nell'aria, nell'acque;
dolce oggi come allora quando Virgilio cantava gli amori dell'Alfeo con l'Aretusa.
* * *
E Sant'Alessio è un fortino lì sulla via, fatto anticamente per dar da ridere ai barbareschi.
Non v'è una guardia, ma quel vecchio cannone da quella balestriera come parca che ammiccasse!
Raveggi, passando meco a pié del forte, mi disse: «Ecco il mio sogno! Aver quarant'anni e più ed
esser messo qui con quattro veterani slombati. Me ne starei sdraiato ora su d'uno spalto ora d'un
altro, guardando il mare attento attento, invecchiando adagio adagio, bevendo a sorsi la vita, il vino
e le fantasticherie della mia testa».
In riva al mare.
Comincio a vedere chiara l'ultima punta di Spartivento. Quando da giovanetti dicevamo in
versi: Dall'Alpe a Spartivento! io questi azzurri gli aveva indovinati, veduti, respirati. Ma ora non
mi proverei neanche a descriverlo il digradarsi di tinte turchine, tante sfumature quanti sonvi piccolì
promontori sin laggiù dove troveremo Messina. E quelle linee là oltre lo stretto che paiono guizzi
nell'aria, tutti monti della favolosa Calabria, dove chi pose piede coll'armi in pugno sempre morì?
Silenziose, gravi, fumose come avessero Pensieri tristi, le navi napolitane vanno e vengono
per lo Stretto. Passare all'altra riva, ecco il problema. Ma il Dittatore vive.
Messina. 27 luglio.
Sul piano di Terranova, tra la città e la cittadella, stanno due file di sentinelle, borboniche e
nostre. Tra le due file una ventina di passi, terreno neutrale. Le sentinelle si guardano, appiccano
discorso, tirano innanzi un pezzo, poi o si fanno il broncio, o qualcuna dalla parte borbonica piglia
la corsa e si rifugia di qua, gridando viva l'Italia, gettando berretto, budrieri, ogni cosa; mentre una
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turba di fruttaiole e di pescivendoli si fanno addosso al disertore per divorarselo a baci. Ma alle
volte i nostri tentano gli altri invano, e scappa detta qualche impertinenza. Allora uno, due, tre
borbonici lasciano andare la schioppettata, i nostri rispondono; ed ecco un allarme generale, un suon
di tamburi e di trombe da noi e nella cittadella. Sui bastioni spuntano le teste dei cannonieri, le
miccie fumano. Ma corre un ufficiale di Stato Maggiore, nostro, uno borbonico esce dalla cittadella;
si incontrano, si parlano, si stringono la mano, poi danno di volta e tutto è finito. Commediole che
fanno ridere, ma che a qualcuno costano care. Stamane la cittadella tirò persino una cannonata. La
palla enorme sforò netto un casotto da doganieri, e andò rotolando lontano lungo il molo. I nostri
corsero furiosi da tutte le parti, e vidi un mutilato giovane saltellare colla sua gamba di legno per
tener piede ai più pronti. Agitava uno schioppo colla baionetta inastata, e gridava che era tempo di
dar l'assalto.
Messina. Tornando da Torre del Faro. 28 luglio.
Sino a Torre del Faro è una deliziosa passeggiata. Per un tratto villaggi puliti anche assai;
dopo, una landa sabbiosa via via fin dove balza la Torre bianca su da un mucchio di casupole
grame. Poco verde là intorno; ma splende nel fondo il mare, poi la lontananza dove non si vede più
che colla fantasia, chi n'ha.
In faccia a Torre del Faro, di là dallo Stretto, tira l'occhio una riga di verde cupo, a' pié delle
montagne, che paiono incalzarsi e venir giù rovinando per colmare i fondi del mare tra le due terre.
Qua e là quel verde è interrotto da villaggi biancheggianti; sulla spiaggia move gente; file di armati
luccicano di continuo di su di giù per una strada che deve menare a Reggio. In mare, le navi della
crociera, che guardano qua dove si lavora di zappa e di badile, a piantare certi cannoni! Riconobbi
tra quei ferravecchi la colubrina che portammo da Orbetello. La civettona sta là in batteria, allunga
il collo verde fuori della gabbionata, un bel dì farà la rota come una tacchina. Ha una storia essa!
Ma se i cannonieri che le fanno la guardia e la lisciano, sapessero le eresie che ci ha fatto dire da
Marsala a Piana de' Greci, la butterebbero in mare.
* * *
Il Dittatore se ne sta chiuso in una cameruccia a tetto là nella Torre, e intorno a quella
accampano i Carabinieri genovesi. Non sono più i quarantasette di Calatafimi, drappello
insuperabile per coscienza, ardimenti, virtù militare. Ma quelli hanno formato il quadro d'un
battaglione che a Milazzo corse il campo come un uragano, e lo tenne dovunque apparve. Né sono
tutti liguri. Le loro file si sono aperte a giovani d'ogni parte d'Italia; e quei cinque o sei sopravvissuti
all'eccidio di Sapri, che appena liberati dalle fosse della Favignana vollero vestirne l'uniforme,
portarono nel battaglione un alito della grande anima di Pisacane.
Fiumara della Guardia, 9 agosto.
Ieri sera quando fu ben buio, venti barche si staccarono dalla riva di Torre del Faro, la prora
diritta alla Calabria. Portavano ognuna dieci o dodici uomini armati, sull'ultima, ritto, gli
accompagnava il Dittatore. Si innoltrarono nel silenzio dello stretto e presto furono perdute di vista.
Le navi da guerra borboniche erano state sino a sera incrociando là in faccia; alcune si erano poi
andate a porre dietro il promontorio di Sicilia, in quell'ombra vaporosa che, di giorno, veduta di qui,
mi pare un sogno sereno avuto da fanciullo. Ma due erano rimaste nel bel mezzo del canale. I nostri
in folla alla riva, stettero coll'agonia di sentire fra momenti l'urlo dei compagni sommersi: o forse
qua e là per lo stretto sarebbero scoppiati gli incendi delle navi nemiche. Ma verso le undici il forte
di Scilla balenò, una cannonata destò tutti i campi delle due sponde; poi si intesero delle
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schioppettate là nell'oscurità lontana; dopo, un silenzio come quando è calato il coperchio d'una
sepoltura.
* * *
Ora si sa quel che avvenne. A mezzo lo stretto, il Dittatore, accertato che le barche non
avevano più nulla a temere delle navi borboniche, lasciò che andassero innanzi, designandone per
guida una dalla vela latina. E tornò di qua. Su quelle barche navigavano Alberto Mario, Missori,
Nullo, Curzio, Salomone, il fiore dei nostri con un dugento volontari scelti, comandati dal capitano
Racchetti della brigata Sacchi; capo dell'impresa Musolino da Pizzo.
Due barcaiuoli che v'erano mi narrarono, e narrando tremavano ancora che quando si
avvidero del passo cui i nostri si andavano a mettere, essi non volevano più remare. Ma costretti,
piangendo, pregando Maria e i Santi, tirarono innanzi con quei demonii. Nel buio alcune barche si
staccarono dal gruppo e si smarrirono verso Scilla. I napoletani dal Forte avendole scoperte tirarono
quella maledetta cannonata, appunto mentre il resto della spedizione toccava il punto designato,
vicino all'altro Forte di Torre Cavallo e sbarcava scale, corde, arnesi d'ogni fatta per darvi la scalata.
Nacque un po' di confusione; le barche pigliarono il largo veloci, lasciando i nostri sull'altra sponda,
nelle tenebre, senza guide, e alle prese colle pattuglie napoletane uscite dal Forte.
* * *
La nostra brigata era venuta qui per essere trasportata in Calabria se l'operazione di ieri notte
riusciva. Occupiamo il greto d'un torrente, allo sbocco d'una vallicella allegra e ben coltivata.
Nessuno ha mosso una pietra; non si vedono quei lavoretti che fanno i soldati per accomodarsi il
campo dove sanno d'aver a stare: tutti si tengono come uccelli sul ramo pronti a volar via.
Fiumara della Guardia, 10 agosto.
Fra noi e i trecento nostri, il mare, le navi, e i borbonici dell'altra sponda!
Sono là in faccia, su quella costa di monte in quel verde pallido, sopra Villa San Giovanni,
ma lontani, in alto. Vediamo del fumo che cresce, si allarga, si fa fitto; si sentono le schioppettate
sorde. S'indovina col cuore che i nostri assaliti si difendono, superbi di combattere, trecento al
cospetto di tutti i reggimenti accampati di qua, da Messina al Faro!
* * *
Ebbi un lampo nell'anima. Il desiderio di questa Sicilia che mi tirava a sé da tanto tempo,
empiendomi la fantasia di delizie e il core di pene misteriose; quella certezza che aveva di trovare
nell'isola, non sapeva chi, ma qualcuno conosciuto, caro, un amico; tutto mi veniva dall'aver letto,
anni sono, il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini. Me ne sono avveduto dianzi udendo rammentare
questo libro, che mi tenne sull'ali tanti giorni dopo che l'ebbi letto. E fui lì per inginocchiarmi
sull'arena, a ringraziare a mani giunte lo scrittore che dall'Inghilterra rivelò all'Italia questa parte
delle sue terre, questo popolo qual è, o qual sarà, non importa.
11 agosto.
Una sfilata d'ufficiali. Quel colonnello quadrato, che camminando tentenna la testa grigia
come minacciasse qualcuno dinanzi a sé, è un inglese che colla carabina coglie dove vuole. Si
chiama Peard. Non ha un comando, ma tiene sempre dietro al corpo più vicino al nemico. Porta i
suoi cinquant'anni come noi i nostri venti, fa la guerra da invaghito, tira in campo come a una caccia
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di tigri, ed ama l'Italia. L'altro che gli somiglia un po' è il maggiore Specchi. Artista e soldato, ha
sparso del proprio sangue dovunque si è combattuto per la libertà, in Italia e fuori, Non è mai stato
al fuoco che non abbia toccata una ferita. L'ultima l'ebbe a Milazzo. Il Dittatore gli vuol bene come
a un fratello; perché hanno vissuto insieme pel mondo, dopo la caduta della Repubblica romana,
adorando e sperando. Quello con gran barba, un po' curvo, vestito di scuro, era De Flotte.
Camminava a lato di Specchi, e come vecchi amici parlavano tra loro. De Flotte è una di quelle
persone la vita delle quali si indovina alla mestizia serena, che hanno in tutto l'essere: e la fantasia
vede la croce sotto il cui peso camminano stentando. Egli, rappresentante del popolo quando il
colpo di Stato si gettò sopra Parigi, stette fino all'ultimo della resistenza, poi esulò. Credo che fosse
ufficiale di marina. Qui non è che un uomo di buona volontà che rispose alla chiamata d'Italia come
i Polacchi, gli Ungheresi, tutti i generosi d'altre patrie, che ci hanno portato le loro spade gloriose.
Vidi Nicola Fabrizi, una figura da Condottiero biblico. Se quest'uomo fosse comparso in un
congresso di Re, a domandare giustizia per l'Italia, i Re si sarebbero alzati a riverire in lui il popolo
che può dare un cittadino della sua sorte. Semplice, non mai accigliato, pare che spanda intorno
un'aura di benevolenza; passa, e si vorrebbe mettersi a camminargli dietro, sicuri d'andar con lui a
buona meta. Se un fanciullo gli si abbracciasse alle ginocchia in un momento che per Fabrizi fosse
di vita o di morte, egli si chinerebbe a carezzarlo. Dai tempi di Ciro Menotti, va innanzi costui! Ha
creduto, gli è cresciuta la fede ogni dì; non si è mai volto addietro; gli anni non gli han fatto cadere
le penne, ed ebbe sempre certezza di vedere il gran giorno d'Italia. Ora che si comincia a sapere
come il Dittatore poté lanciarsi a questa impresa, si sa che Fabrizi da Malta, Crispi e Bixio in
Genova, gli hanno messo nella coscienza che l'Italia si deve farla in quest'anno o forse mai più.
* * *
Ho riveduto il maggiore Vincenzo Statella con un taglio di traverso nel naso, che rialza la
fierezza impressa sulla sua faccia. Un ufficiale ungherese trottava da Torre del Faro, portando non
so che ordini del Dittatore. A un certo segno si fermò a pié d'una batteria, chiedendo qualcosa a
Statella che era lassù. Statella, o non badasse o non capisse, l'Ungherese gridò, Statella rispose
stizzito. Quattro e quattr'otto, fu combinato lì per lì, di scambiare due colpi di sciabola; Statella ne
toccò, l'Ungherese tirò avanti al suo destino.
Questo figlio di prìncipi, che ha il padre generale borbonico dei più vecchi e dei più devoti,
capitò anelando a Palermo ad abbracciare il Dittatore, il suo vecchio capitano del 1849, venuto a
liberargli l'isola. Chi l'avrebbe sognato? È di Siracusa. La sua nobiltà l'ha scritta in fronte; ma il suo
coraggio!... Ne parleranno i lancieri borbonici potuti scampare a Milazzo da Missori e da lui.
15 agosto.
Il Veloce che nel 1848 era un legno da guerra della Rivoluzione siciliana, preso poi dai
Borboni, fu ricondotto alla Rivoluzione da un Anguissola, e ribattezzato col nome di Tuköry. A
Milazzo lavorò da buono; e l'altra notte il Piola, ufficiale della marina sarda, lo condusse a
un'impresa che se riusciva!... Si voleva spingersi a Castellamare, impadronirsi del Monarca,
vascello borbonico da ottanta cannoni, e a rimorchio menarlo qui, per piantarlo al Faro come una
fortezza. Il Tuköry arrivò a Castellamare senza incontri. Era mezzanotte: il Monarca giganteggiava
nero sull'acque. Pareva cosa fatta. Alcuni dei nostri bersaglieri del battaglione Bonnet, si calarono
nelle lance per tagliare le gomene del Monarca; altri davano già la scalata; ma ecco l'allarme, le
trombe, i tamburi, tutta la guarnigione di Castellamare corsa a far fuoco; e cannonate, e
schioppettate a grandine. Fu forza rinunciare alla presa. Il comandante del Tuköry stimò inutile
stare a farsi cogliere e si ritirò; ma lento come Ajace, a suo agio, lasciando i Napoletani a
mitragliare le tenebre.
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* * *
Spira un'aria di mistero che pare venga fuori da non so che antro. Non si è più visto il
Dittatore da parecchi giorni, e chi dice che è via, chi vuole che se ne stia chiuso nella Torre del
Faro. Come il Corrado di Byron, se ci fosse Gulnara!
* * *
Ho voluto dare una corsa fino a Giardini. Quella costa, quelle cittadette mi erano rimaste
tanto nel cuore! Trovai per via molti amici della brigata Bixio, che tutti hanno ormai qualcosa di lui
nel fare, nel dire, sin nella guardatura. Questo generale pare fatto per tempi come questi e per noi.
Piglia la gente, la rimpasta, la rifà: con lui o fare, o rimanere spezzati in mezzo alla via. Uno
sguardo, una parola; non basta? gli scatta via magari una sciabolata: e questa è la sola deformità del
suo essere. Se ne lagnano tutti; ogni poco i suoi volontari vorrebbero abbandonarlo. È violento, è
insopportabile! «Ebbene? Sotto chi preferireste servire? Sentiamo». «Ma!... eh!... sotto Bixio!».
Infatti non ci sono in Italia trenta come lui. Se una palla lo toglie di mezzo, sarebbe come ad avere
le nostre forze scemate a un tratto un bel poco: e se il Borbone avesse un ufficiale come Bixio,
forse... ma no, non voglio scrivere questo pensiero. Dicono che Bosco vale lui? Eresia!
Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell'Etna
scoppiati a tumulti scellerati. Fu visto qua e là, apparizione terribile. A Bronte, divisione di beni,
incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Bixio piglia con sé un
battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via. Camminando era
un incontro continuo di gente scampata alle stragi. Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli
ufficiali, qualcuno gridando: Oh non andate, ammazzeranno anche voi! Ma Bixio avanti per due
giorni, coprendo la via de' suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose
da cavarsi gli occhi per l'orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei
seminari i giovanetti trucidati a pié del vecchio Rettore. «Caricateli alla baionetta!». Quei feroci
sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio. Poi un
proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: «Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato
in istato d'assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto:
imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l'ordine sia ristabilito». E i rei sono giudicati da un
Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l'avvocato Lombardi, un vecchio di
sessant'anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v'erano dei giovani dolci e
gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.
Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro,
sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più
muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che
quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell'Etna. Se no,
ecco quello che ha scritto: «Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della
giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell'umanità».
Vive chi ricorda d'una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant'anni. Un
generale Costa v'andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dové dare di volta senza aver fatto
nulla.
E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo
gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!
Messina, 18 agosto.
Il Dittatore non è più a Torre del Faro, né a Messina, né in Sicilia: si sente da tutti come
qualcosa che sia venuto meno nell'aria, nella natura, in noi: ma nessuno osa dire né chiedere che sia
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stato di lui. Pare che ognuno temerebbe di sentirselo galoppare addosso gridando: «Tu che vuoi
sapere?»,
Intanto s'odono dei discorsi cozzanti come sciabole. C'entra l'Imperatore di Francia, c'entra
Vittorio Emanuele, e una lettera che si dice egli abbia scritta al Dittatore, per intimargli di astenersi
d'ora in poi da qualunque passo contro il re di Napoli.
- Lustre per tener a bada l'Europa! dice uno.
- Scrivano e leggano, dice un altro, noi intanto una di queste notti passeremo lo Stretto.
Ma quelli che vorrebbero andare più alla lesta, dicono addirittura che Vittorio farebbe
meglio a mandar Persano col Govèrnolo e colla Maria Adelaide, a piantarsi in mezzo al Canale per
farci far largo.
20 agosto, mattino.
Cannonate laggiù in mare verso il Capo dell'Armi! Che poesia di nomi! Ma che sgomento
pensar che ogni colpo spegne la vita a tanti, tra i quali può essere qualche amico che non vedremo
mai più. Gente che viene da Catania dice che nella notte arrivarono a Giardini due vapori, che tutti
quei di Bixio vi montarono, ma non sanno altro...
Bixio è in Calabria, Bixio! Col Dittatore! Dunque è ricomparso improvviso un'altra volta su
la spiaggia nemica, quest'uomo che un po' pare appena vivo, un po' si trasforma arcangelo che
spiega l'ali e rota la spada come un raggio di sole! Marsala e Melito, due nomi, due sbarchi;
Garibaldi e Bixio due volte nello stesso cielo di gloria; e noi qui che si vorrebbe tutti gettarsi in
mare e nuotando arrivar di là. Non ho mai sentito com'ora l'avidità fusa da Virgilio nell'ombre del
sesto canto:
..... Stavan pregando,
E le mani tendean pel gran desio
Dell'altra sponda....
E poiché tanto romanticismo portato da Garibaldi nell'arte della guerra, non fa dimenticare
la gentilezza classica di Virgilio; io, immaginando la Corte di Napoli quale deve essere all'annunzio
del Dittatore in Calabria, al rumor d'armi crescente, odo ancora la nota malinconica dell'Eneide che
mescola di lutti diversi la reggia. Oh quella Regina, che pianti! Si capisce come il generale Bosco
bello e prode, preso da tanto dolore si sia tutto votato ad essa dopo Milazzo. Ma Garibaldi indovino
l'ha vincolato a non tornare in campo prima di sei mesi. E Francesco secondo perché non monta a
cavallo e non viene a piantarsi ai passi di Monteleone? Eccolo! Perire là; o ricacciandoci, affogarci
tutti in questo mare, che di notte o di giorno vogliam passare.
22 agosto 1860. Al Faro.
E ora mi pare di aver più profondo, più intero, anche il sentimento di quei versi del
Manzoni: Dolente per sempre chi Dovrà dir sospirando: io non v'era! È un patimento, un dolore
squisito, che non somiglia a nessun altro dolore. I nostri sono di là, hanno combattuto, e noi non
c'eravamo!
O frate Calasanziano maestro mio; cosa fai, in questo momento, nella tua cella, donde, in
quello scoppio del quarantotto che noi sentimmo appena da fanciulli, l'anima tua di trovatore si
lanciò fuori ebra di patria? E quasi voleva andarsene dalla terra, quel giorno del quarantanove
orrendo, quando dalla cattedra dicesti ai tuoi scolari: Fummo vinti a Novara!
Ci narravano i più grandi, che il padre maestro, dicendo così, era caduto sfinito: e noi
mirandolo per i corridoi del collegio, rapido, sempre agitato, fronte alta, capelli bianchi all'aria, e
l'occhio in un mondo ch'egli solo vedeva; ci sentivamo mancar le ginocchia e pensavamo a Sordello
di cui, leggendoci Dante, ci voleva infondere la gentilezza, la forza e lo sdegno.
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Fu lui, gran frate, che del cinquantatre ci lesse, nella scuola, l'ode: Soffermati sull'arida
sponda. Non disse il nome dell'autore, ma promise il primo posto a chi lo avesse indovinato.
Indovinammo tutti! Non avevamo già letto il Coro del Carmagnola?
Ora di quell'Ode mi torna l'ultima strofe e l'accento con cui il padre leggeva: Dovrà dir
sospirando: io non v'era! E a lui, in questo momento, ritornano forse le immaginazioni di noi sette
od otto suoi scolari che siam qui; forse ricorda come ci faceva raggiar di collera quando ci leggeva
nel Colletta la morte del Caracciolo, o gli eccidi dei Napoletani del novantanove; forse dice che alle
guerre di Sicilia ci preparò egli stesso.
25 d'agosto. Spiaggia del Faro.
A Bagnara, là in faccia, sulla sponda Calabrese, gran lutto. Ieri, mentre sbarcavano quelli del
Cosenz, fucilati dai Napoletani del general Briganti, cadde morto La Flotte nella sua camicia rossa
di colonnello garibaldino. Narrano che mentre s'imbarcavano qui al Faro, il maggiore Specchi volle
dargli una rivoltella, e ch'egli sorridendo e ringraziando avrebbe voluto non accettarla; perché,
disse, al primo colpo che avesse tirato contro un uomo, un altro avrebbe ucciso lui. Dunque voleva
andar tra i nemici come il vecchio eroe dell'Henriade, che si cacciava nella mischia, sempre esposto
a morire senza ammazzare mai? - La Flotte morì. Ma il Dittatore lo fa vivere per la gloria della
Francia e dell'umanità, gridandolo nell'ordine del giorno con parole che valgono ben più d'ogni vita.
Dormirà La Flotte nella poetica terra di Calabria, che tanto ora è sua più che nostra: lo
nomineremo noi, tutta la guerra, perché dicono che da lui sarà chiamata la compagnia di quei
dugencinquanta francesi, venuti a portarci il fiore del loro coraggio.
26 d'agosto.
A segno di stella.
Il campo era così. Giù nelle bassure, e sulla riva del mare la brigata del general Briganti; su
in alto come spettatori sulle gradinate d'un teatro antico, i nostri. Ma se i Napoletani non si
arrenderanno, tutta quella nostra gente rovinerà loro addosso e li affogherà nel mare. Si aspetta; è
notte, Garibaldi li vuole prima dell'alba; e agli avamposti.
- Tenente, avete orologio?
- Generale, no.
- Non fa nulla! Coricatevi qui, così: guardate quella stella, quella più lucente, là: e guardate
anche quell'albero. Quando la punta di esso vi nasconderà la stella, saranno le due. Allora su, e
all'armi!
Così, con la semplicità d'un Re pastore, con l'eleganza d'un eroe Senofonteo, meglio ancora!
così come egli stesso nelle foreste vergini Riograndesi de' suoi giovani anni, Garibaldi diede l'ora a
segno di stella.
Ma d'assalto non ce ne fu bisogno. Dicono che il general Briganti si vide col Dittatore, e che
patteggiò la sospensione dell'armi. Me l'hanno descritto. Che spettacolo tutta quella brigata ridotta a
nulla, quei soldati mandati sciolti! Non li vidi, ne godo; devono essere cose da rompere il cuore.
27 d'agosto.
Altre nuove! Pare il marzo, quando i ghiacci si rompono, e vanno via a grandi pezzi portati
dalla corrente. Il generale Melendez, con un'altra brigata, circondato dai nostri, la sciolse e se
n'andò. I comandanti borbonici si lavano le mani di tutto l'uno su l'altro, da grado a grado; non c'è
più disciplina, tutto si squaglia. Gli è che la Reggia e piena d'imbelli; e la Rivoluzione avvolse
l'esercito come di un'aria che non si può respirare.
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Ma si dice che, ier l'altro, il general Briganti se ne andava solo soletto a cavallo, verso chi sa
dove, per far chi sa che cosa, e che arrivato a Mileto si imbatté nel quindicesimo reggimento
napoletano, accampato, tra gli urli: Al traditore! Allora egli smontò e, a piedi, si avanzò in mezzo ai
soldati. La sua maestà di vecchio e la calma del volto potevano vincere; ma un tamburo maggiore
gli si avventò con una puntata del suo bastone, e lo passò fuori fuori a morte. Altri dicono che fu
ucciso con una schioppettata a bruciapelo.
Quando traverseremo quella campagna tragica, mi parrà che l'aria tremi ancora del truce
fatto. Tutte tragiche queste rupi della Calabria! Là presso devono essere stati uccisi i Romeo; non
lontano di là dev'essere il passo dell'Angitola dove, nel quarantotto, caddero i Calabresi e la gente
dei Musolino. Passo passo c'è tutta la storia dei francesi di re Giuseppe e di re Gioacchino...; e non
sorge re Gioacchino stesso, tragica ombra su quel Pizzo laggiù?
Ma di quel povero general Briganti non me ne posso dar pace! Ho inteso dire che in
Palermo, quel giorno che Garibaldi c'entrò da Porta Termini, egli comandava nel forte di
Castellamare, e che non sapeva risolversi a dar l'ordine di bombardare la città. Sussurrano pure che
allora, tra gli ufficiali, ci avesse un figlio, ma di tutt'altro cuore. Che misteri sotto le tuniche dei
soldati, quando sul trono v'è Nerone o Augustolo, e di mezzo fra trono e soldati c'è la patria che
geme!
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[MARCIA TRIONFALE VERSO NAPOLI]
30 d'agosto.
Viaggiamo sul Carmel, vapore postale francese che viene dai porti della Siria, e ci pigliò a
Messina, un centinaio, quasi tutti feriti o malati che se ne vanno a casa un po' di giorni. C'è il
Medici di Bergamo, furioso per nostalgia, che vorrebbe uccidere il Comandante, perché gli pare che
il vapore non voli come bramerebbe lui. Sul castello di poppa vi sono delle signore che ci fanno
un'aria di primavera soave. Bellissime due giovinette catanesi che paiono fatte di sogni.
Tutta gente felice, tranne quella bella donna francese, alta grigia, che forse avrà quarant'anni.
Dice un capitano di fanteria francese ch'essa fu nella Siria, donde torna anche lui, e che vi fu a
cercar il sepolcro di un suo figliuolo, sottotenente, che vi morì. Il capitano parla dei cristiani del
Libano e delle armi di Francia laggiù: par sin che gli dolga della nostra guerra, perché non lascia
badare alle cose di quella parte così bella e così poetica della terra. Ma quei di Calabria e di tutto il
Regno non sono cristiani che gemono peggio che sotto i Turchi?
Nel porto di Napoli, 31 d'agosto.
Il cielo, il golfo, l'isola, il Vesuvio che esulta nell'azzurro ardente, e tutta la campagna che si
ammanta di colori fini, sempre più fini, via via sin laggiù dove sfuma nell'aria; nulla, sa nulla di
quel che avviene? Ma! l'immensa città che sgomenta a vederla, bolle di passione che si indovina.
Quella è la Reggia. Dunque da quei balconi, mostrando loro i galeotti nel bagno, Ferdinando
secondo diceva ai figli suoi che quelle catene erano l'alfabeto dei giovani prìncipi?
Lontano, lungo una via a mare, si vede una colonna di soldati che vanno, vanno, vanno. Chi
sa cosa sarà di loro tra pochi giorni? Guardo il mare qui attorno. Forse il Carmel galleggia nel punto
dove, improvviso, venne su dall'acqua il cadavere del Caracciolo, son sessant'anni. Tra questi
vecchi barcaroli che vengono intorno al Carmel, vi potrebbe essere chi lo vide: eppure a noi il fatto
dà un senso di antichità buia buia. Le barche della polizia ci rondeggiano intorno, ma dei signori
napoletani son venuti a bordo lo stesso, e si son lasciati vedere a parlare con noi. Garibaldi,
Garibaldi; è il loro spasimato desiderio, la loro agonia. Quando verrà?
Un signore nostro compagno di viaggio che fece un giro per la città, torna e dice che vi si
parla d'una gran cosa avvenuta in Calabria. A Soveria Mannelli, Garibaldi avrebbe fatto deporre le
armi ai quindicimila soldati del general Ghio! Ma allora che farà il re di Napoli? Si stenta a non
lasciarsi prendere da un certo sentimento di compassione.
Salpando da Civitavecchia, lo settembre 1860.
Il capitano Lavarello, vecchio lupo di mare, livornese, ci chiamò in disparte e ci disse una
bella cosa. «Ecco là. Quella goletta da guerra pontificia è l'Immacolata. Chi ci sta a un bel colpo da
corsari? Tutti? Allora si aspetta un altro poco, si dice a tutti questi garibaldini di badare a noi, si
salta sul Comandante del Carmel e sui suoi, si mettono giù sotto coperta senza toccar loro un
capello, ma chi si muove guai! Un po' di voi si calano dal vapore con una gomena, balzano sulla
goletta del papa, spazzano nella stiva quei pochi mozzi che vi sono sopra, poi si legano a noi, io
prendo il comando del Carmel e a tutto vapore rimorchio via l'Immacolata. Quando ne avranno
accese le macchine, vi monto su io, lasciamo che il Carmel se ne vada al suo destino, e noi
navighiamo verso la Calabria, a far della goletta un presente a Garibaldi».
Pareva cosa fatta. E si pregustava già non so che gioia, come a leggere Byron. Chi sa che
strida le signore, chi sa il capitano francese che abbiam con noi, e il soldato francese che era là in
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sentinella sulla punta del molo! E poi chi sa che fuga giù pel mare, e che pericoli, e che misteri! Ma
a un tratto il Carmel si mise a salpar l'àncora e addio. Mentre ci allontaniamo, guardo laggiù i monti
del Lazio. Da quest'acque, Garibaldi giovinetto pensò la prima volta a Roma.
Napoli, 14 settembre 1860.
Dieci o dodici giorni sono, quando vidi Napoli dal porto, mi sarei lanciato giù dal Carmel
per arrivarvi a nuoto. Ora che ci sono, non mi par più... Forse è stordimento. Grande, immensa,
varia da perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio della miseria. Non vidi mai sudiciume portato in
mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri poveri; c'è qualcosa che dà al cervello come a
traversare un padule. La gente vi brulica, bisogna farsi piccini per passare, e si vien via assordati.
Ma su tutte quelle faccie si vede l'effusione di un'anima che si è destata e aspetta... Chi sa cosa
vogliono, cosa sperano, chi sa? E se una notte si scatenassero, a furia, urlando Viva chi sa che
Santo, che sarebbe di noi, che cosa del Dittatore? Eppure egli se ne sta sicuro nel palazzo d'Angri.
Dubitosi siam noi piccini e di poca fede: egli ne ha da movere le montagne, e si sente dentro l'anima
di tutto il popolo. Forse che non fece tutto quello che volle? E cosa avremmo potuto noi poche
migliaia se alla testa non avessimo avuto lui? E messi tutti in un solo con tutte le loro virtù,
avrebbero potuto quel che egli poté tutti i generali d'Italia? Bisognava il suo cuore, e forse quella
sua testa, quella sua faccia che fa pensare a Mosè, a un Gesù guerriero, a Carlomagno. E chi lo vede
è vinto.
14 settembre. Nei Granili di Napoli.
Ritrovo la mia brigata. Nulla, nulla! Il senso che dà questo sentirsi assorbito nella vita d'un
gran corpo di giovinezza, d'amore e valore, non c'è nulla che lo possa dare! Li ho riveduti tutti!
Catanzaro, Tiriolo, Soveria, Rogliano, Cosenza, la brigata Eber camminò per tutto quel tratto della
Calabria, tenda il cielo, letto la terra, ma senza tirare una schioppettata. Mi descrive tutto Daniele
Piccinini, il più bel capitano della brigata.
A Cosenza si trovarono quasi tutti i Corpi delle nostre Divisioni, a un tempo, come se ci si
fossero data la posta. Fu un pensiero di Bixio? Schierate sul terreno, dove sedici anni
sono caddero fucilati i Bandiera, le Divisioni fecero una commemorazione eroica. Bixio
incendiò l'aria così: «Soldati della rivoluzione italiana, soldati della rivoluzione europea; noi che
non ci scopriamo se non dinanzi a Dio, ci inchiniamo alla tomba dei Bandiera che sono i nostri
Santi!». - E le Divisioni ascoltavano mute il discorso breve, vibrato e tempestoso come il mare su
cui Bixio visse mezza la vita. Dice Piccinini che se ad ognuno fosse stato detto: Vorresti essere uno
di quei morti? ognuno avrebbe risposto che sì, che sì. Perché Bixio li fece passar vivi e trionfanti
dinanzi a tutti, sì che la loro morte parve più bella delle nostre vittorie. Certo il martirio ha molto
più di divino che il trionfo.
E mentre la cerimonia si compiva nel Vallo di Crati, il Dittatore entrava in Napoli quasi
solo, salutato dalle milizie lasciate qui da Francesco secondo; acclamato da un popolo che
dev'essere parso quello di Gerusalemme il dì delle Palme. Cose da dar le vertigini, da far allungar la
mano per pigliar la corona. Ma Garibaldi passò, sorrise, e alla Reggia non diede nemmeno uno
sguardo.
Napoli, 15 settembre.
Per Caserta, a furia! Ieri i regi uscirono di Capua... chi sa? Si sente che da Capua a qui c'è un
passo, e di mezzo quasi nulla, poche camicie rosse. Cosa sarebbe un improvviso ritorno. Ruffo, Fra
Diavolo, l'orgia del novantanove!
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Caserta, 15 settembre.
Quella dei borbonici di ieri non fu che una ricognizione, ma grossa. Gli ungheresi della
legione, dove si piantano, nessuno li può muovere più. Ebbe un bel caricarli, la cavalleria
napoletana; si ruppe contro i loro gruppi come onda contro gli scogli. Allora venne avanti la
fanteria. Ma i bersaglieri del Tanara con quei del Corrao le si avventarono alla baionetta, e via, via,
la fecero voltare, dandole poi dietro quasi fin sotto le mura della cittadella. A tornare fu un guaio.
L'artiglieria dei bastioni li fulminava.
* * *
Bravissimo e mite il generale Türr! Non si crederebbe a mirare quella sua faccia fiera. Egli a
soffocare le reazioni, poco o punto sangue. Non ne versò in Avellino, non in Ariano, dove fu quasi
solo e mise la pace. Ieri l'altro spacciò il maggior Cattabene a Marcianise, grosso borgo poco
lontano di qui, dov'era scoppiata la reazione al vecchio grido borbonico di Viva Maria! - Cattabene
è tornato, dopo aver quetato tutto, con due soli morti di quattordici che n'aveva condannati. «Ma
vogliamo tutti morti, anche gli altri dodici!» grida la gente di Marcianise, e viene una deputazione a
domandar a Türr questa grazia. No, no, dice Türr, perdóno, oblìo, concordia: noi non siamo qui per
le vostre piccole vendette.
* * *
16 settembre.
Non venisse a saperlo nemmeno l'aria! Garibaldi parte per la Sicilia, chi sa che cosa avviene
colà? Ma chi sa cosa potrebbe accadere qui, se i borbonici di Capua venissero a sapere ch'egli non
c'è?
20 settembre.
Ieri grande dimostrazione contro Capua, dicono per dar agio ad altri nostri di prendere
Caiazzo che è una grossa terra di là dal Volturno. Dicono ancora che fu per conoscere una buona
volta tutto il nemico, quanto n'è rimasto fedele al Re fuggitivo. Ma si sprecò del gran sangue!
Troppo ardore negli ufficiali, troppo nei soldati.
Si cominciò dall'estrema sinistra, poi fu l'inferno su tutta la linea. Noi d'Eber, sulla via di
Sant'Angelo, fummo i meno combattuti. Ma abbiamo ben visto cacciatori e fanteria e artiglieria
volerci venir addosso, se una parte dei nostri, con due cannoni, non cominciava. Il loro fuoco fu
così ben diretto e nutrito che quella colonna, non osando avanzarsi, ripiegò. Allora fu inseguita, e i
cannoni furono tratti fino in faccia alla fortezza. Là, sfidando quaranta pezzi, fecero fuoco fin che vi
fu un artigliere in piedi; poi come si vide che i cacciatori volevano venirseli a pigliare, corsero i
bersaglieri della brigata Milano e li trasportarono in salvo.
Appunto in quel momento s'udì gridare dalla nostra destra: Egli è qui, egli viene, il Dittatore,
il Generale! - E apparve dalla parte di Sant'Angelo Garibaldi bello e raggiante. Noi sotto i suoi
occhi, fummo fatti piegar a sinistra, per rintuzzare un nuovo assalto di borbonici usciti freschi da
Capua. Piombammo sul fianco di quella colonna, una cosa che mi parve un lampo, e quella sparì.
Ma ne caddero dei nostri! Il capitano Marani di Adria giaceva là tra gli altri con un braccio
spezzato; bel biondo, chi sa come rimarrà mutilato!
Ora si dicono le glorie dei morti. Non conobbi il colonnello Puppi, che fu sventrato dalla
mitraglia quasi sulla porta di Capua. Mi piglia una gran tristezza, mi par quasi un torto di non averlo
visto mai.
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E il povero capitano Blanc da Belluno? Lasciò il suo grado d'ufficiale dei Granatieri e se ne
venne a perder qui una gamba. Ma Cozzo, Narciso Cozzo, quel barone palermitano, che pareva un
gentiluomo degli Altavilla rimasto vivo per saggio della stirpe. Ebbene, cadde di palla tra i
Carabinieri genovesi, quei gloriosi veliti che si son fatti un obbligo di essere sempre primi.
28 settembre.
Da cinque giorni, ogni mattina, ci si mette sotto l'armi, e ci stiamo dell'ore. Così s'esercita il
cuore. Perché è una gran prova quella di prepararsi a morire, e poi no, sentir dire che non è ancor
tempo, tornarsene e pensare: sarà per domani. Ma qualcosa di tragico si avvicina. C'è nell'aria un
gran gonfiore di tempesta. L'ordine del giorno di alcune sere sono, parlava vagamente di assalti
serii, e diceva dei se mai che facevano tremar le viscere. Non di paura, no, di sgomento patriottico.
Se mai concentrarsi tutti a Maddaloni. E poi? Poi, verrebbe a dire che tutto sarebbe perduto, e che
là si dovrebbe finir tutti.
30 settembre. Sera. Quartiere di Falciano presso Caserta.
Il cannone di Capua si è fatto sentire tutto questo pomeriggio; ora con l'avemaria tace. Non
v'è più dubbio; i napoletani usciranno e saranno molti. I loro scorridori tentano qua e là i nostri
lungo tutta la linea del Volturno, e stamane si provarono a passarlo alla scafa di Triflisco. Ma quei
di Spangaro li hanno respinti.
So che il Generale è stato da Bixio, qua oltre, nella gola di Maddaloni: so che si son detti
delle parole solenni e che Bixio sentì Leonida in sé. «Fin che sarò vivo, nessuno passerà!». Lo
disse, e sarà Vangelo.
1° ottobre, 3 antimeridiane.
Che malinconia dopo il primo sussulto del cuore! Un galoppo, una Guida: Colonnello
Bassini! Colonnello Cossovich! E poi le trombe. Come è rauca quella della guardia, e di
malaugurio! Ma questa che si mette a suonar la sveglia nel nostro cortile, con trilli di allodola
montanina, questa è di Viscovo, e sveglierebbe i morti. Egli sa mettere l'anima sua nel suo
strumento, e quando l'ha imboccato, egli non c'è più, se ne va tutto in note. Pare che dica: Morire,
morir così! Povero trovatello, raccolto da noi sulla gran via della patria, non so in qual punto della
Sicilia, venne con quell'ombra di corpicciuolo a sedici anni; ma cosa, cosa venne cercando? Più che
la morte no. Tale dove essere nel pensiero di Virgilio Miseno l'eolide, di cui niuno fu più potente a
spingere colla tromba i prodi.
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[LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO]
1° ottobre. Caserta. Nella piazza del Palazzo Reale.
Eccoci qui di riserva, quasi tutta la Divisione Türr. La battaglia infuria, su d'una tratta, che a
segnarla ci vuole tutto il gesto del braccio largo quanto si può farlo. Noi qui non si muore ancora,
ma si provano delle angoscie come a essere nel Limbo. Veggo delle faccie d'un pallore mortale, ne
veggo d'allegre, di pensose, di fatue; chi sa come è la mia?
In un canto della piazza v'è un battaglione di Savoia, ora brigata Re. I soldati stanno sotto le
tende, e gli ufficiali si aggirano intorno ad esse, forse temendo che qualcuno ne sgusci via e venga
con noi. Ma ci guardano, e c'invidiano: noi da un momento all'altro possiam essere chiamati, essi
no. No? Ma allora cosa ci son venuti a fare? Vedo un capitano, Savoiardo vero, certamente ancor di
quelli del quarantotto. Volge verso noi i suoi occhi chiari, nei quali par la visione dei suoi
compatriotti passati alla Francia. Forse gli piange il cuore, perché pensa che erano dei migliori; e
che alla guerra quando si griderà: Savoia! Savoia non vi sarà più.
* * *
Ed ecco un altro capitano dell'esercito di Vittorio, ma dell'artiglieria. Giovane quanto me e
già capitano, io lo credeva uno dei nostri, di quei vanesii che per pompa si fanno far la divisa. Ma
dietro lui venivano stretti degli artiglieri, proprio di quei di lassù, qualcuno colla medaglia della
Crimea. Vengono da Napoli, vanno in cerca di Garibaldi, vogliono darsi col loro capitano che si
chiama Savio, nobile piemontese. - «Cosa ci vengono a fare? - ha detto un ufficiale dei nostri: - poi
vorranno aver fatto tutto loro, aver gli onori e tutto...?» - «Ahi, amico, diamo loro dei cannoni e poi
lasciali andare... Vedrai che Garibaldi non dirà come te».
Una carrozza da Santa Maria, una donna dentro, viso di fuoco. capelli di fuoco, gesti di
fuoco, e un angelo, e una Furia, che cos'è? Parla con un colonnello ungherese, si mette le mani alle
tempie, deve dire cose orrende; o che i feriti e i morti sono già a centinaia, o che di Capua vien fuori
la nostra rovina. Ohimè! perché non è italiana? Si chiama Miss White, è moglie del Mario, uno dei
nostri migliori, forse la più bella testa che possa essere spezzata oggi da un misera palla di soldato
ignorante.
* * *
E da Maddaloni una Guida volando... «Dov'è, dov'è il generale Türr». Bixio domanda aiuto!
- Aiuto Bixio? Dunque dev'essere agli estremi. O sole che vedesti tante cose orrende nel mondo, o
Dio, non lasciate perir l'Italia, oggi... qui...
* * *
Primo battaglione, prima e seconda compagnia, pigliate l'armi, fianco destr, via. Tocca a noi.
Portiamo a Bixio questi quattro petti; sgriccioli che andiamo in aiuto dell'avvoltoio.
1° ottobre. Ore 2 pom.
E poi venimmo salendo il monte, volgendoci sgomenti a guardare dietro di noi Caserta, e più
lontano Santa Maria e la campagna, tutto fumo e scompiglio. Dal di là dei monti Tifatini venivano
dei rimbombi che parevano echi ed erano battaglia. E ben presto, sul versante opposto a quello per
cui salivamo, avremmo scoperto il campo di Bixio. Al tuonar dei cannoni pareva ch'egli
indietreggiasse. Ma arrivati alfine in cima, allora che vista! Giù giù per i pendii a sinistra, sul gran
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ponte, sotto ed oltre, un formicolìo di rosso fra nembi di fumo e delle grida che parevano di
centomila. Più basso delle tinte nere che s'allontanavano; borbonici vinti, passi amari di fuga. Nello
stradone, fuor del tiro dei nostri più avanzati, stava serrato un grosso squadrone di cavalli; due
cannoni da lontano lanciavano ancora delle granate qua e là, contro di noi; tiri da Parti.
Bixio tornava indietro e il suo sguardo diceva: Vittoria! - Cosa siete voi? - domandò al
Capitano Novaria. E Novaria: - Gente della brigata Eber. - Correte per di là su Valle, e fate presto:
mettetevi agli ordini del colonnello Dezza.
1° ottobre. 3 pomeridiane.
La mia dolce terra delle Langhe, quasi sconosciuta all'Italia, l'ho sentita, vista, goduta un
momento, qui, così lontano, su questi greppi di Monte Calvo.
Passavo attraverso quelle vepraie lassù, per quel sentieruolo dove non passò forse mai
persona buona ad altro che a patire, sudare e pregare. E mi saltò fuori come di sottoterra un ufficiale
tutto sanguinante in faccia e lacero la camicia, con un mozzicone di sciabola in mano. Mi chiamò:
O tu, dove vai? - Alla mia compagnia sopra Valle. - E da dove vieni? - Dal quartier generale. - E
Bixio? - Trionfa! - Con queste e poche altre parole, mi parve di parlare con uno delle mie parti. - E
tu, chi sei? domandai già pieno di gioia per quell'incontro con un mio compatriota, in camicia rossa:
- Io sono Sclavo di Lesegno. - Ed io il tale. - E allora ci abbracciammo, ci baciammo. Non ho mai
compreso il paese natio come in quel momento. Le nostre Bormide, il nostro Tanaro, le nostre belle
montagne, quei borghi, quelle terricciole, dove c'è della gente così modesta, buona, contenta di
poco, e semplice! Poi mi narrò come si trovasse là, così solo e maltrattato. Poche ore prima, in uno
degli ultimi assalti, rimasto in mano dei Bavaresi, questi se lo trascinavano via caricandolo di
oltraggi; ma gli era riuscito di liberarsi, e se ne tornava a quel modo per imbattersi in me suo
paesano. Eppure forse non gli passò per la mente che io potrò dir le sue lodi, nelle nostre vallate.
Verso sera.
Si principia ad aver delle notizie, ma vaghe. Non si ode più il cannone. A Santa Maria, a
Sant'Angelo, a San Leucio, su tutta la linea, vittoria, dopo dieci ore di battaglia. Qua, a sinistra, tra
quelle gole di Castel Morrone, il maggior Bronzetti, con un mezzo battaglione, tenne la stretta
contro i borbonici, sei volte più numerosi dei suoi. Morì, morirono, ma il nemico non poté passare. -
Ora come si devono sentire uomini quelli che hanno fatto tanto, e si mettono a giacere per un po' di
riposo! Ma chi sa dove sono andate l'anime dei nostri morti? Come si farebbe a credere che esse
non siano più, più, assolutamente più? Vero è che sul campo la morte non par nemmeno morte! -
Qui è proprio un trapasso.
Sopra Valle. 2 ottobre. Mattino.
«Ma finita la battaglia, allora avresti veduto quanta audacia e quanta forza d'animo...». A chi
faremo l'onore delle parole di Sallustio? Ci sono dei Bavaresi saliti a morire fin sulla vetta di Monte
Caro, in mezzo ai nostri; vi sono dei garibaldini che rovinarono, inseguendo a farsi ammazzare, fin
quasi laggiù alle case di Valle. Questi morti bavaresi che giacciono nelle loro divise grigie, sono
ancora pieni di ferocia nelle faccie mute. Omaccioni quadrati, non più giovanissimi, alcuni con
delle grinze. Le loro fiaschette, chi le tocca, sono ancora mezze d'acquavite. Dovevano aver
mangiato e bevuto bene, poche ore prima di venir alla battaglia, contro i nostri quasi digiuni. Lassù,
proprio sul cocuzzolo di Monte Caro, un d'essi trovò un piccolo recinto, fatto d'un muricciuolo a
secco, forse per gioco, da pastorelli. Egli vi si mise dentro e non ci fu più verso a scacciarlo, neppur
quando, fuggiti i suoi, rimase solo. Lo dovettero finire come una belva in rabbia, perché di là dentro
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avventava baionettate tremende. Nel suo libretto si trovò che egli si chiamava Stolz, di non so qual
paesello della Baviera. Chi sa? Egli si sarà creduto di salvare, su quel cocuzzolo eccelso, il trono
della bella Sofia, figlia dei suoi Re, venuta dal suo paese a regnar qui nella dolce terra d'Italia.
Tranquillo com'uno che ha compito tutti i suoi doveri, ora giace sulla parte del cuore e par che
dorma, o guati di sottecchi e ascolti. A vederlo c'è una processione. Ebbene, è ancora una gran
fortuna finir così, piuttosto che di vecchiaia in un letto, forse sulla paglia, dopo aver fatto patir chi
sa quanti! E piace vedere che tutti lo guardano con rispetto, dolendosi soltanto di tanto valore
sprecato.
Ma stanotte, in sentinella a quattro passi dal morto, un siciliano di Bivona, quasi fanciullo
ancora, nobile di non so che grado, chiamava ogni tanto: Caporale! faceva una voce che pareva gli
uscisse dal recesso di tutti i dolori. E il caporale correva. Cos'era? Nulla. Ma un'ultima volta il
caporale comprese, perché il giovinetto tremava e guardava quel morto là a quattro passi. - «Ah!
Hai paura di lui?» - «Caporale, sì!».
Fantasia!
* * *
Ieri visitai ad uno ad uno i piccolissimi altipiani che si digradano giù pel monte, dove un
centinaio e mezzo d'uomini del Boldrini contesero il passo ai due battaglioni di Bavaresi che
assalivano da Valle. E li trattennero tanto che poterono arrivare, ma un pugno, quei di Menotti. Non
bastavano. Boldrini era ferito, feriti e morti molti ufficiali; dunque si doveva perdere una posizione
così forte? Avanti, Menotti, avanti Taddei! Colonnello Dezza, guai se il nemico spunta quest'ala. Si
caccia tra Villa Gualtieri e Caserta, in un'ora è nel piano, e getta per tutta la Terra di Lavoro il grido
della riscossa borbonica, alle spalle dei nostri che combattono sul Volturno, e in faccia a Napoli che
da lungi aspetta... Chi sa? Oggi può rimorir l'Italia!
Che gloria di picciotti, in quel momento! Due mesi fa erano riottosi a imbarcarsi pel
continente: pareva che non avessero idea d'altra Italia, fuori del triangolo della loro isola: ma
marciando per la Calabria trovarono i loro cuori, qui si son fatti ammirare. Caricarono come
veterani!
Giù sugli altipiani, tra i pochi alberi tristi che non possono sbozzacchire in queste sassaie,
quante camicie rosse che non si mossero più! Ne contai una ventina qua e là, qualcuno si
riconosceva ai tratti mezzo moreschi, per volontario del Vallo di Mazzara, dove Bixio passò e
raccolse gente. Ma vi sono delle testine bionde di settentrionali che paiono di fanciulle. Mi fermai
vicino a un morto che avrà avuto sedici anni, e parlando per lui e per me, gli dissi delle cose che se
le sapessi scrivere sarebbero un capolavoro. Dalla bisaccia gli usciva un pezzo di biscotto.
Odo dire che i perduti furono molti, e che gli ufficiali, tra feriti e morti, passarono la ventina,
solo qui, su così poco spazio, e con sì pochi soldati. O allora a Villa Gualtieri, al Ponte, al Molino, e
via poi sulla lunghissima linea, sino all'ultima sinistra nostra, fronte di tante miglia, curva strana
così che Maddaloni è l'estrema destra e insieme stava alle spalle di quei che combattevano sul
Volturno? - Quando se ne saprà il numero vero sarà un pianto.
2 ottobre verso le 11 antim.
Gran caccia da Re, veduta da questo cocuzzolo di Monte Caro! Un nugolo di borbonici,
forse quelli che ieri dovettero passare sul petto di Bronzetti, si vanno aggirando di qua e di là, di su
di giù, per quelle alture di Caserta Vecchia, e pare che non sappiano dove andare a dar del capo. Ma
da tutte le parti spunta il rosso dei nostri e fa cerchio. Quelli si raccolgono, forse vogliono piantarsi
e difendersi tra quelle rovine che danno al paesaggio quel tono lamentoso di grandezza morta e di
desiderio. Cosa valgono quelle schioppettate? Tra momenti ci arriva anche Bixio. Se ne vede di qui
la fila lunga su pel monte, e la testa tocca già l'altipiano. Partendo di qui disse ai suoi: Non
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mangerete finché coloro là non saran presi. - Pare che i borbonici si siano accorti di lui: c'è un poco
di scompiglio... un loro cavallo parte; corre, torna; ora hanno la via rotta anche alle spalle. Si
movono, vanno verso Sant'Angelo: retrocedono... ora discendono verso Caserta nuova; no,
rimontano... Bandiera bianca! Che senso quest'urlo che riempie tutta l'aria colà! Pare un fremito
della terra, tutto si muove... i nostri corrono da tutte le parti... Un gran silenzio...
Si sono arresi!
3 ottobre.
Aspetta e aspetta, i vinti di ieri l'altro non son più tornati. Così avessimo avuto della
cavalleria da lanciar sulle lor code, che si poteva farlo senza crudeltà. Erano tutti stranieri del soldo.
Ma quei di ieri presi a Caserta Vecchia erano italiani, proprio della colonna che s'azzuffò con
Bronzetti a Castelmorrone e non potè passare. Guai se riusciva!
4 ottobre.
Ieri Telesforo che vive divorando tutto con l'anima, forse perché sente d'aver la morte
dentro, venne da Santa Maria a trovarmi qui e mi disse: - Vieni? - Dove? - A veder cosa c'e In co
del ponte presso a Benevento, - Andiamo pure.
Era quasi notte. Discesi da Monte Caro, passammo per quella bicocca di Valle, dieci casacce
che parevano vecchie cenciose. Ma ieri l'altro, mentre i borbonici venivano alla battaglia, le donne
di quelle case urlavano dalle finestre come Furie: Viva lo Re, e morte.... si sa, a noi. Dice che si
udivano sin da mezzo il monte, e che le loro grida facevano più senso che l'avanzarsi dei
battaglioni.
Via per la strada grande andammo, andammo, andammo. Ma insomma dov'è questo ponte?
Sempre un po' fanciulli, si crede che tutto sia lì a due passi; ma Benevento era molto lontano. Non
incontrammo anima viva; solo a tratti, nei campi lungo la via, si vedevano dei morti, forse soldati
feriti ieri l'altro, poi spirati tra via e gettati dai carri.
Il ponte non si trovava. - «Pure andando ancora, più qua, più là si dovrebbe udir l'acqua...
Vorrei vederla passare, al lume delle stelle, sentir il ponte sotto i nostri piedi, lasciar cadere una
pietra dalla spalletta di esso, e immaginarmi d'essere un soldato angioino, e che là sotto giacesse
Manfredi. Per me l'antico, quel che non è più è tutto. Quello che vive è nulla. Io stesso mi sento
nulla; e se Garibaldi non fosse un'antichità non lo avrei seguito». - Così diceva Telesforo e
m'attristava.
In quel momento udimmo un trotto di cavalli che venivano dal Volturno. Ci siamo! Saranno
scopritori borbonici, discendiamo nei campi. Passarono veloci tre cavalieri, e allora venne anche a
me il soffio dell'antichità. Mi corsero per la mente quelli mandati da Carlo d'Angiò, sulle peste di
Manfredi, creduto fuggitivo dalla battaglia: ma i vivi erano delle nostre Guide, gioventù ardita, fin
temeraria. Andarono parlando allegramente lombardo. E noi, tornati sulla strada, tirammo avanti
ancora un bel tratto fantasticando. - «Manfredi? Carlo d'Angiò? - seguitava Telesforo. - Il Re d'ora
sì, è un Re da fuga! Ieri l'altro Francesco era in mezzo al suoi trentamila soldati: poteva mettersi alla
testa di un migliaio di cavalli, tentar un punto della nostra linea, rompere, passare, galoppare a
Napoli, trionfarvi! O così, o rimaner ammazzato, passato fuor fuori da uno dei più valorosi nostri,
per esempio da Nullo. Non seppe fare né l'una né l'altra cosa, e così è finito. Quanto a Carlo
d'Angiò, ora viene Vittorio Emanuele. Seicento anni tra loro: e invece d'un Papa che dica: Va,
pigliati il Regno; v'è Garibaldi che dice: Venite! Vorrei vederli quando s'incontreranno Dittatore e
Re».
Tornammo ragionando come due frati; ma ogni tanto Telesforo tossiva e diceva d'aver
freddo. Con quel suo mantelluccio si stringeva le spalle, e se ne teneva i lembi nelle mani sul petto.
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Quando ci trovammo tra le nostre sentinelle pareva già l'alba. Dei focherelli morivano su pei greppi
di Monte Caro e della Villa Gualtieri; le camicie rosse nel grigio delle sassaie, nel verde ferrigno
degli olivi mettevano un rilievo, una vita, quasi dei sentimenti. Sul ponte del Vanvitelli passavano
delle file rosse, quete quete allora, andando forse a cambiar le guardie; ma lassù a un certo
momento della battaglia s'erano incontrati i bavaresi e i nostri e da quell'altezza n'eran caduti. Dio!
fa raccapriccio dirlo. E pensare che ieri l'altro, a quell'ora, il mio caro Traverso si svegliava baldo, e
baldi come lui si svegliavano l'altro Traverso e lo Stella, tutti e tre di Marsala, e che prima del
mezzodì eran morti e nell'eternità, già antichi come i più antichi defunti!
Caserta, 7 ottobre 1860.
Dissi all'amico Sclavo: tu, quello che vedesti ai Ponti della Valle, me l'hai da scrivere qui,
tra le mie note. Egli prese il taccuino e scrisse.
«Garibaldi, tre o quattro giorni prima del fatto d'armi, era venuto a trovar Bixio e gli aveva
detto: Mi fido a voi; queste sono le nostre Termopili.
«Tale fu la consegna: tutti sapevamo che là si doveva stare o morire. Aspettavamo.
«Il mattino del 13 d'ottobre, eccoti la divisione von Meckel, otto o nove mila uomini,
avanzarsi da Ducenta, mirando al passo dei Ponti della Valle per Maddaloni. La testa della colonna
era formata da uno squadrone di dragoni con elmo e rivolte rosse; seguivano due cannoni e un
battaglione di cacciatori. Giunta a Valle quella testa di colonna spiegò i cacciatori sulla sua destra, e
questi cominciarono a tentar l'altura dov'ero con la mia compagnia. Tiravano da settecento metri,
lentamente, con quelle loro buone carabine, alle quali noi non potevamo rispondere. Intanto il
grosso della colonna continuava a marciare accennando ai Ponti, centro della nostra linea.
«Mandai subito certo Calogero messinese, che avevo meco per guida, avvisando con un
biglietto il maggior Boldrini che eravamo assaliti. Ebbi in risposta che badassi bene a non prendere
lucciole per lanterne. E male ce ne incolse, perché quel battaglione di cacciatori già invadeva il
bosco a sinistra e cominciava ad avvolgerci incalzando con fuoco ben nutrito.
«Allora il maggiore Boldrini volò a noi con due compagnie, e senz'altro dove vide spuntar le
canne dei fucili, tra gli alberi fitti, là si slanciò, gridando: Alla baionetta, Viva l'Italia!
«Non aveva ancor detto che già una palla entrata nel petto gli usciva per la scapola destra.
Cercai di sorreggerlo e di tirarlo via, giacché il nemico irrompeva dal bosco e dovevamo ritirarci,
ma egli non volle, mi respinse. - Lasciatemi, che ormai sono un uomo inutile! - Disse, cosi, e dove
cadde rimase. Noi indietreggiammo sopraffatti, e poi tornammo rinforzati da una cinquantina di
bersaglieri Menotti. Guardai; il povero maggior Boldrini non v'era più. Seppi poi che i Bavaresi lo
avevano trascinato testa e piedi giù per i dirupi, sino a Valle, dove lo abbandonarono, e fu poi
raccolto morente dai nostri, dopo la vittoria.
«Caddero in quel nostro ritorno molti dei nostri, morti e feriti, tra gli altri Evangelisti e
Carbone, genovesi dei vostri di Marsala. Ma non era ancor nulla, eravamo appena al principio. Sai
come il tempo vola. Continuavano gli assalti. Verso le undici, o poco dopo, ecco i Bavaresi sulla
posizione di Menotti. Cominciavano ad avvolgere il poggio della Siepe, contrafforte di Monte Caro.
Quivi li ricevevano a schioppettate e a baionettate, e li rintuzzavano le compagnie di Bedeschini e
di Meneghetti, dirette da Dezza e da Menotti e da altri ufficiali che in quel momento facevano da
capi e da soldati.
«Intanto altri Bavaresi apparivano sulla vetta del monte Calvo e vi si piantavano, e si vedeva
che volevano postarvi due cannoni da montagna, per coprir di granate e di mitraglia noi più bassi e
da quella posizione spingere forse qualche colonna alle spalle di Bixio. Sarebbe bastata ben poca
gente a tagliargli le comunicazioni col quartier generale di Caserta, e a portar l'incendio borbonico
nella Terra di Lavoro. Era un momento angoscioso. Tutti, anche i meno esperti, indovinavano il
gran pericolo.
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«Ma ecco spuntare lassù un battaglione: Son nostri? - son nostri! - Improvviso, dritto,
marcia verso il cocuzzolo di monte Calvo. Maraviglioso! Il Comandante si vedeva dinanzi a tutti,
col berretto in cima alla spada, e pareva di sentirlo gridare; gli altri correvano dietro a lui, per
quell'erta, a gran passi, serrati.
«Era Taddei!
«Quel fare, quell'affronto, impone ai Bavaresi che oscillano un momento, ma si difendono,
resistono, uccidono: poi si rompono, abbandonano la posizione, i morti, i feriti e fuggono in rotta.
«Noi, combattendo giù, vedevamo e ammiravamo quei vincitori lassù, e guardavamo pure
l'attacco che in quel momento faceva la grossa, serrata colonna borbonica del centro, ai Ponti della
Valle, dov'era Bixio coi picciotti. Era una cosa da far tremare. Se rompono, dicevamo noi, se
passano sul corpo di Bixio, quelli stasera entrano in Napoli, e ricomincia l'orgia del 1799. Li
vedevamo a mezza falda tra il piano e i muriccioli a secco della via trasversale che si allinea con
l'acquedotto; e dietro quei muriccioli rosseggiavano i nostri quatti quatti, senza far fuoco, incantati.
Noi pativamo, fremevamo; udii sin bestemmiare: Cosa fanno? Ma quando i borbonici arrivarono
quasi al ciglio di quei muriccioli, allora quelle camicie rosse scoppiarono, 49 e su quelle teste di
colonna si rovesciò un torrente, un uragano... urla feroci, baionettate. Si gelava, si infuocava il
sangue a vedere. - I borbonici non ebbero agio né spazio di spiegarsi, e si volsero in fuga una
sezione sull'altra, via, via, rovinando, e tutta la colonna scompigliata fuggiva alla meglio verso
Valle.
«Di dove eravamo noi si dominava lo spettacolo, e si capiva che l'anima di tutta quella
massa eroica di picciotti era l'anima di Bixio. Dunque Bixio e Taddei, eroi!
«La sera, ne contammo di morti! Ma le più gravi perdite le sofferse il mio battaglione. Morì
Innocenzo Stella, colpito nella testa da una palla, furono feriti Herter, anch'egli, come Stella, vostro
di Marsala, e Rambosio e Rugerone. Povero Rugerone! Colpito nel ventre da una scheggia di
granata che gli uscì per la schiena, lo trovarono la sera in un burrone, lo trasportarono a Villa
Gualtieri, dolorò diciotto ore, e alla fine la morte lo liberò. Antonio Traverso, della mia compagnia,
andò a morire, non si sa come, nel boschetto, presso il battaglione Menotti, dove io lo trovai
l'indomani mattina, trapassato il petto da una palla, con un fazzoletto bianco alla bocca, tutto
insanguinato. Delle tre compagnie Boldrini, soltanto una ventina d'uomini col tenente Baroni di
Lovere, ferito nel capo, si unirono alla sera a Menotti, e servirono a riformare il battaglione
disfatto».
Ecco quel che l'amico scrisse.
Caserta, 8 ottobre.
I nomi non li scriverei neanche se li sapessi. E non ne domando. Li ricorderanno purtroppo
quelli che videro, e per tutta la vita li udiranno nell'anima, come furono detti dalla voce tremenda
del Dittatore.
Nel primo cortile a sinistra di chi entra nel palazzo reale, i battaglioni di Taddei, Piva,
Spinazzi, Menotti, Boldrini col resto della Divisione Bixio, aspettavano Garibaldi, che voleva
salutarli per la loro vittoria di Maddaloni. Quattro schiere, davano le fronti ciascuna a un lato del
cortile.
- Microscopica Divisione, fronte indietro! - gridò Bixio ai battaglioni, e non è mica uomo da
aver detto per celia. Quei battaglioni si chiamavano Divisione prima del combattimento, così, forse
per far la voce grossa, ma non era neppur una brigata: ora si potrebbero dir compagnie.
Entrava allora Garibaldi. Teneva in mano il cappello all'ungherese, e appena fu in mezzo al
quadrato, parlò:
- Eroi della diciottesima Divisione, in nome dell'Italia io vi ringrazio!
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Poche altre cose, orazion piccola, come sa far lui, poi subito i nomi di quelli che si
segnalarono nel combattimento. Pareva che là dentro l'aria lampeggiasse di gloria. Ma poi il volto di
Garibaldi si oscurò, e la sua voce divenne fiotto di tempesta.
- Ora che ho ricompensato i valorosi, punirò i vili!
Fu un fremito. Tre ufficiali, chiamati a nome in mezzo a quel quadrato, uscirono dalle file,
trovarono la forza di far quei pochi passi senza cader fulminati; e là, sotto gli occhi di Lui, furono
spogliati delle loro insegne da un Aiutante maggiore. E non morirono! Finito quello strazio, il
Generale, continuando come uno che dà un addio a gente morta, disse:
- Andate, inginocchiatevi davanti al vostro Comandante, pregando di darvi uno schioppo, e
al primo incontro morite!
Nel convento di Santa Lucia. 9 d'ottobre.
A Napoli? C'è troppa gente che briga. Non andare a farti levar la poesia; sta qui, filibustiere;
per noi son buone queste celle di frati; cosa vuoi di più?
Io do molto retta al capitano Piccinini, sebbene abbia soltanto otto o nove anni più di me:
anzi gli sto sotto come se fosse il gran Nicolò in persona. Ieri l'altro lo trovai sotto
quell'ulivo, allegro e raggiante tanto, che mi parve d'indovinare la visione che aveva dinanzi
agli occhi. Egli leggeva una lettera a mezza voce, e appena mi vide mi venne incontro dicendo: - Le
mie montagne ridono, mio padre le riempie della sua gioia. Sa che suo figliuolo Daniele è capitano!
E allora la voce gli si fece soavissima, e negli occhi lucenti gli si disfecero due lacrime. Poi
mi abbracciò. E contro quel petto mi sentii come un'ombra. Che respiro largo e che colpi di cuore!
Per essere puri e prodi come lui, bisognerebbe avere quel petto. E poi la sua modestia! Che
seccature, per lui, certe cose! Ieri, a Caserta, era da Garibaldi, mentre alcuni ufficiali della marineria
americana entravano a visitare il Washington d'Italia. - Ecco il modello de' miei ufficiali: disse il
Generale mostrando il Piccinini a quei marinai. - Non si darebbe la vita per una mezza parola di
queste, detta da Lui? Eppure il Piccinini quasi quasi usciva mortificato. Ma già; egli non sa d'essere
quello che tra tutti somiglia di più a Garibaldi. Semplice come Lui, bello, buono e fiero come Lui:
saprebbe anch'egli vivere nel deserto, crearsi un mondo, e dimenticare questo degli uomini. Mi pare
già di vederlo. Quando tutto sarà finito, in quattro o cinque passi, egli tornerà alle sue Alpi, nella
solitudine della sua Pradalunga. E se gli diranno: Ebbene? Egli risponderà come se venisse da far
una passeggiata. Ma a suo padre, oh! a suo padre narrerà tutto.
13 d'ottobre.
Nullo, Zasio, Mario, Caldesi, con una diecina di Guide comandate dal nostro Candiani, ieri
partirono alla testa d'un battaglione, per luoghi lontani, che son di là dal Volturno, chi sa quanto,
dov'è il Sannio, il tremendo Sannio. Nullo il braccio, Zasio la bellezza, Mario il pensiero, Caldesi la
bontà. C'è tutto. Ma cosa vanno a fare? Chi dice che a incontrar Vittorio Emanuele, chi che a sedar
una rivolta. A me par gente che va nel buio.
14 d'ottobre.
Ora sono proprio contento. Ho veduto l'uomo che per la semplice vita è forse ancor più
intero di Garibaldi. Faccia quasi giovanile a settant'anni, persona quadrata che né fatiche, né stenti,
né rovine d'ogni sorta non poterono fiaccare: berretto, soprabito, calzoni, tutto nero e assai vecchio,
nulla di soldatesco. Ecco il general Avezzana. Tale fu forse il Vicario di Wakefield. È di quella
tribù d'uomini che vanno avanti, con lo sguardo sempre fisso in certi punti lontani, che il mondo
non vedrà mai. Eppure per essi quell'ideale lassù lassù, è realtà di vita interiore. Quanto all'esteriore
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e presente, sono come il Figlio dell'uomo che non sapeva dove posar il capo per dormire. Da
mangiare n'avranno domani anch'essi, poiché n'hanno gli uccelli dell'aria. Per oggi basta fare il
bene. E così ogni giorno. Sui laghi di Galilea, quando vi fiorivano le parabole di Gesù, gli uomini
dovevano essere tutti come Avezzana. Vederlo con qual noncuranza cinge quella spada d'onore che
gli fu data, chi sa per qual gloria delle tante sue d'America! Dicono che arrivò appunto di là, in
tempo per correre a Caserta, incontrar Garibaldi nel momento più vivo della battaglia sul Volturno,
salutarlo e entrar a combattere. Aver cercato continenti e mari, andando randagi, dalla giovinezza
alla vecchiezza; aver amato, creduto, giurato di far l'Italia prima di morire; essersi raggiunti in un
giorno di battaglia come quella del Volturno, l'uno già ministro della guerra in Roma, l'altro allora
sotto di lui e ora Dittatore qui; cosa mi parlano della vecchia Cavalleria? Questa è storia romana, ma
di quella antica, antica...
15 d'ottobre.
Stamattina s'ebbe un gran fatto. Per la prima volta, i soldati di Vittorio Emanuele
combatterono davvero a canto dei Volontari di Garibaldi. Dico davvero, perché già il due d'ottobre
quel battaglione della brigata Re che avevamo lasciato nella piazza del palazzo reale il giorno
avanti, fu adoperato con pochi bersaglieri a far prigioniera quella tal Colonna borbonica di Caserta
Vecchia. Ma quello fu un fatto senza poesia. Invece, stamattina, i borbonici uscirono da Capua
baldanzosi, marciando verso Sant'Angelo, dove trovarono i bersaglieri e la fanteria regolare che li
soffiarono via come pagliuzze. Gareggiarono con essi i volontari del colonnello Corte, a chi facesse
meglio; così la voglia d'uscir di Capua i borbonici potranno averla; ma l'ardimento forse mai più.
20 d'ottobre.
Pettorano, Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più né pioggia né rugiada,
fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e uccisi pel vostri campi e pei
vostri boschi!
Tornano gli avanzi della colonna di Nullo; non si regge ai loro racconti; non sanno dire che
morti, morti, morti! Par loro d'avere ancora intorno l'orgia di villani, di soldati, di frati che
uccidevano al grido di Viva Francesco secondo e Viva Maria.
Povero Bettoni! La sua Soresina non lo vedrà più. Se ne veniva indietro ferito su d'una
carrozza; cavalcavano a' suoi lati Lavagnolo e Moro, pensando di poterlo porre in salvo a Boiano, e
tornar poi a spron battuto dove Nullo combatteva, e i nostri morivano qua, là, a gruppi, da soli,
sbigottiti dalle grida selvaggie. Poveri cavalieri! Il giorno appresso il tenente Candiani li trovò morti
sulla via. Ah! quel Sannio, quel Sannio! Mi sento passar sul viso un soffio gelato come quel giorno
che la spedizione partì: sin d'allora mi suonò nella memoria il nome delle Forche Caudine.
25 d'ottobre.
Sopra queste contrade deve essere passato non so che spirito. Gli abitanti ingrandiscono o
impiccoliscono le cose per vezzo di dire. Il Volturnus celer è ancora sonante come nei versi di
Lucano, una maestà d'acque verdi, che s'incalzano clamorose. Eppure a un guado di esso fu dato il
nome di Scafa di Formicola. Quando vi passammo si rise del nomicino strano; sebbene si mettesse
il piede sul ponte di barche che il Dittatore fe' gettare dal colonnello Bordone in quel luogo; e
sentirsi oscillar sotto, crescere, scemare quelle tavole mal connesse, desse sgomento. Eravamo noi
di Eber, quei di Bixio quei di Medici, la brigata Milano; e vengono pure gli Inglesi della legione,
gente bella, vestita come noi; camicia rossa, divise verdi ma di panno finissimo, cinture lucide come
se tornassero dall'India.
76
Il giorno è nefasto.
Cadde il cavallo del generale Bixio, e l'eroe, rotta la testa e una gamba, si lasciò trasportare a
Napoli, guardandoci con invidia. Non è che un uomo, ma senza lui, par che manchi qualcosa
nell'aria.
* * *
Ci siamo accampati sull'orlo d'un bosco in cui potrebbe cavalcare Angelica fuggente; eppure
lo chiamano Caianello, come se fosse un cesto di granetto fatto nascere per ornare il Presepio.
Intanto, che ci siamo venuti a fare? Là c'è Capua. i Calabresi che abbiamo trovato qui, ci
dicono che i borbonici fanno delle apparizioni in quei fondi laggiù. A destra, lontano, abbiamo
Gaeta. Quelli devono essere i monti di cui mi parlava il vecchio Colombo, quando raccontava
d'essere stato nell'ottocentocinque, all'assedio fatto da Massena. E mentre io penso a lui che fu pure
soldato della legione di Garibaldi in America, egli parla forse di questi luoghi con mio padre, che
glie ne domanderà chi sa con qual cuore.
Oh! io vorrei esser quel falco, gettarmi da un capo all'altro del cielo, mandando strida per
l'aria che imbruna! Ora a quella campana...! Di dove suona? «Era già l'ora che volge il desio...».
* * *
Chi dice che siam qui per dare l'ultima battaglia, e che mentre combatteremo contro i
cinquantamila borbonici che ancor tengono per Francesco secondo, arriveranno i soldati di Vittorio
Emanuele con lui in persona, discendendo dall'Abruzzo per la via di Venafro. Chi ribatte che da
Venafro potrebbero venire delle buone anfore di vino, di quello antico che piaceva a Orazi, ma che
battaglie di campo, dopo quella del primo d'ottobre, non se ne possono più avere. Allora si marcierà
per incontrare il Re!
77
[L'INCONTRO DI TEANO]
26 d'ottobre.
Non lo dimenticherò mai, vivessi mille anni, ma non saprò mai ridirlo preciso e lucido,
come mi guizzò nella mente, il pensiero che già ebbe Catoni, conversando con me, quella notte là,
vagabondi, per la campagna oltre Maddaloni. Sono quasi seicento anni, Carlo d'Angiò veniva in qua
da Roma segnato e benedetto dal Papa, e si pigliava la corona di Manfredi, tra i morti di Benevento.
Il papa gliela aveva data, purché se la fosse venuta a prendere. Ma oggi un popolano, valoroso
come... cos'importa dirlo? un popolano generoso come non sarà mai nessuno, semplice come Curio
Dentato, delicato come Sertorio, anche fantastico come lui e sprezzatore come Scipione, in nome
del popolo strappa quella corona al re di Napoli e dice a Vittorio Emanuele: È tua! -
* * *
Ho quasi un capogiro. Sono ancora pieno di quel che ho vedute, scrivo...
Una casa bianca a un gran bivio, dei cavalieri rossi e dei neri mescolati insieme, il Dittatore
a piedi; delle pioppe già pallide che lasciavano venir giù le foglie morte, sopra i reggimenti regolari
che marciavano verso Teano, i vivi sotto gli occhi, e nella mente i grandi morti, i romani della
seconda guerra civile, Silla, Sertorio, che si incontrarono appunto qui, figure gigantesche come quei
monti del Sannio là, e che forse non erano nulla più di qualcuna di quelle che vedo vive. Cosa ci
vorrebbe a fare lo scoppio d'una guerra civile?
A un tratto, non da lontano, un rullo di tamburi, poi la fanfara reale del Piemonte, e tutti a
cavallo! In quel momento, un contadino, mezzo vestito di pelli, si volse ai monti di Venafro, e con
la mano alle sopracciglia, fissò l'occhio forse a legger l'ora in qualche ombra di rupi lontane. Ed
ecco un rimescolio nel polverone che si alzava laggiù, poi un galoppo, dei comandi, e poi: Viva!
Viva! Il Re! Il Re!
Mi venne quasi buio per un istante; ma potei vedere Garibaldi e Vittorio darsi la mano, e
udire il saluto immortale: «Salute al re d'Italia!». Eravamo a mezza mattinata. Il Dittatore parlava a
fronte scoperta, il Re stazzonava il collo del suo bellissimo storno. Forse nella mente del Generale
passava un pensiero mesto. E mesto davvero mi pareva quando il Re spronò via, ed Egli si mise alla
sinistra di lui, e dietro di loro la diversa e numerosa cavalcata. Ma Seid, il suo cavallo che lo portò
nella guerra, sentiva forse in groppa meno forte il leone e sbuffava, e si lanciava di lato, come
avesse voluto portarlo nel deserto, nelle Pampas, lontano da quel trionfo di grandi.
Sparanise, 27 ottobre.
Ma allora, se così fosse come si susurra, ogni cosa sarebbe spiegata! Re Vittorio fu freddo
nell'incontro con Garibaldi? Gli è che Francesco secondo è suo cugino, e che egli lo aveva invitato
alla gran guerra contro i nemici d'Italia, ammonendolo. Anche si aggiunge che esista una lettera.
Francesco non volle o non poté dargli ascolto. Fortuna d'Italia! Ostinato e impotente continuò la
storia di suo padre, e ora paga per lui.
Dunque certo contegno di Vittorio Emanuele nell'incontrarsi col Dittatore sarebbe stato un
delicato riserbo? O han ragione quelli che pensano che allora egli meditasse le strane sorti dei Re?
Però noto che questi sono discorsi: passano come venticelli che non lascian nulla. Non si sente che
la grandezza di Garibaldi, sinora! non si conosce che vi sia chi mira il sole nascente.
* * *
78
Ieri il Dittatore non andò a colazione col Re. Disse di averla già fatta. Ma poi mangiò pane e
cacio conversando nel portico d'una chiesetta, circondato dai suoi amici, mesto, raccolto,
rassegnato. A che rassegnato? Ora si ripasserà il Volturno, si ritornerà nei nostri campi o chi sa
dove; certo non saremo più alla testa, ci metteranno alla coda. Dicono che il Generale lo disse a
Mario. E questa deve essere la spina del suo gran cuore che voleva un milione di fucili da dare
all'Italia, e l'Italia non diede che ventimila volontari a lui.
Napoli, 2 novembre.
Tuona lontano il cannone. Bombardano Capua, e noi non vi siamo più. Gli artiglieri di
Vittorio Emanuele non avranno gran da fare, perché la guarnigione non aspetta che un motivo
onesto, per arrendersi. Già il Griziotti, colonnello nostro, lo aveva detto: - Generale, lasciatemi
lanciar due bombe sulla cittadella, e si arrenderà. - No, se un fanciullo, una donna, un vecchio
morisse per una bomba lanciata dal nostro campo, non avrei più pace! disse Garibaldi. - E Griziotti:
- Ma i nostri giovani si consumano di febbri in questo assedio: ogni giorno si assottigliano,
muoiono. - E Garibaldi a lui: - Ci siamo venuti anche a morire. - Arriveranno i Piemontesi,
Generale; essi non avranno riguardi; con poche bombe faranno arrendersi la città, poi diranno che
tutto quello che facemmo sino ad ora, senza di loro non avrebbe contato nulla. - Garibaldi allora: -
Lasciate che dicano; non siamo mica venuti per la gloria!...
Napoli, 3 novembre.
Il giorno dei Santi, poi quello dei Morti, poi quello delle medaglie a noi, terza festa nella
malinconia della stagione.
Là in faccia alla reggia, dove tutto dice che i Borboni non torneranno più, la piazza di San
Francesco di Paola era parata di bandiere. In mezzo, un seggio, delle dame, dei generali, dei grandi
intorno al Dittatore che ancora aveva il cappello di Marsala. Vidi il Carini, ora generale, balioso,
ringiovanito, col braccio al collo, pareva felice. La legione ungherese faceva scorta d'onore, e vi
erano i Granatieri schierati che facevano scorta anch'essi. Noi davamo le spalle alla Reggia,
aspettando. A un certo Punto il Dittatore si alzò, e venne verso noi dicendo con la sua voce limpida
ed alta: - Soldati della indipendenza italiana, Veterani benché giovani dell'esercito liberatore, vi
consegno le medaglie che il Municipio di Palermo, decretò per voi. Comincieremo dai morti, i
nostri morti...
E allora un ufficiale cominciò a chiamare a nome i morti che rispondevano in noi, con
l'improvviso ritorno della loro visione. Ma passato questo giorno non saranno ricordati
solennemente mai più? Furono da cento nomi d'umili ignoti o d'illustri, e a ogni nome un fremito
correva tutta la nostra fila. Meglio morti o vivi? Si diffondeva una malinconia cupa che pur pareva
entusiasmo.
Quando toccò a noi, si andò chiamati ad uno ad uno dinanzi al seggio, dove una giovinetta,
alzandosi sulla punta dei piedi, ci metteva la medaglia sul petto, e intanto guardava di sotto in su
con due grandi occhi gioiosi. Chi fosse non so, né chiesi di lei. Che giova il nome? Udii il Generale
che volgendosi a una dama vicino a lui, diceva: - Vede? Quelle facce le conosco tutte, le vedrò
finché vivrò.
Intanto le bande suonavano, e quella dei Granatieri pareva dicesse: Basta, ora basta, andate!
Caserta, 9 novembre. Sera.
79
Oggi il Palazzo reale guatava il viale che gli si protende dinanzi lontano lontano, e pare che
voglia arrivare sino a Napoli; guatava le file dei battaglioni rossi distese sotto i grandi alberi
immobili e cupi sotto il cielo basso. Doveva venire il Re a passare in rassegna tutto l'esercito
garibaldino, un dodicimila che stavamo con l'armi al piede, in ordine di parata. Si aspettava! Il Re
sarebbe arrivato verso le due, lo avrebbe annunziato il cannone. E intanto nelle file si parlava, e
passavano delle novelle bizzarre, motti, arguzie, cose da poema e da commedia. Udii persino delle
volgarità. Ma non v'era allegrezza. Anche le nuvole, calando sempre più, mettevano non so che
freddo, e l'ora, passando, portava stanchezza. Certi Veneti del mio battaglione dicevano sottovoce
che quando fosse passato il Re, sarebbe stato bello circondarlo, pigliarselo, menarlo nei monti, e di
là fargli dichiarar la guerra per Roma e Venezia. Che fossero visi da farlo? Alcuni sì; i più dicevano
per dire. Ma nel più vivo di quei discorsi s'udirono le trombe dalla destra della lunga linea. Attenti...
il Re!
I battaglioni si composero, si allinearono, i cuori battevano, chi amava, chi no. Poi venne giù
una cavalleria trottando... Ah! quello che cavalcava alla testa non era il Re: era Lui col cappello
ungherese, col mantello americano, e insieme a Lui tutte camicie rosse. Quel cappello calcato giù
sulle sopracciglia segnava tempesta. Vennero, passarono, lasciando un grande sgomento, arrivarono
in fondo al viale, diedero di volta, ripassarono come un turbine, sparirono. E poco appresso i
battaglioni furono messi in colonna di plotoni.... pareva che si dovesse marciare a qualche sbaraglio,
tutti si era pronti... Così si andò verso il Palazzo reale, a sfilare dinanzi al Dittatore piantato là sulla
gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l'ultima ora del suo comando. Veniva la
voglia di andarsi a gettar a' suoi piedi gridando: Generale, perché non ci conducete tutti a morire?
La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa! - Ma la guerra civile? Ma la Francia?... L'anno
scorso fummo così amici con la Francia!
Il Generale, pallido come forse non fu visto mai, ci guardava. S'indovinava che il pianto gli
si rivolgeva indietro e gli allagava il cuore. Non so neppur uno di quelli che stavano vicino a lui.
Che cosa contavano in quel momento? Lui, lui solo: non vidi nulla. Ora odo dire che il Generale
parte, che se ne va a Caprera, a vivere come in un altro pianeta; e mi par che cominci a tirar un
vento di discordie tremende. Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo
come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero,
ma di quelle della Sibilla, portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar
qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta! rimani pur bianca... Finiremo poi. . . . . . . . . . . . . . . .
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