Rileggere l'Autobiografia di Carmine Crocco, capo leggendario del brigantaggio lucano post-unitario, a più di trent'anni dalla celebrazione per l'Unità d'Italia, consumatasi in un clima euforico e retorico, non significa solo ricollocarla in una luce diversa e più attuale, ma anche riproporla come documento contraddittorio e tipico di una condizione meridionale, ancor oggi sospesa tra un rivendicazionismo, sia pur dotto, ed un secessionismo di bassa lega.
Ripubblicata nel 1964 dall'Editore Lacaita, nella collana
“Briganti e Galantuomini”, a cura di T. Pedio,
l'autobiografia di C. Crocco si presentava ai lettori quale
testimonianza di una lotta sociale perduta contro padroni vecchi e
nuovi, pronti a riciclarsi come dirigenti della futura classe
politica nazionale.
L'iniziativa editoriale marcava una decisa intenzione di rivelare
gli aspetti poco noti di un processo unitario, che registrava
l'emarginazione, anch'essa violenta, di una parte cospicua della
popolazione meridionale dai benefici di uno Stato unificato e
nazionale. Il paesaggio naturale che ha fatto da sfondo
all'intera vicenda, e cioè la zona di Melfi, territorio
strategico per i movimenti militari della banda di C. Crocco e
per l'offensiva dell'esercito sabaudo, può, alla luce di
quanto è accaduto prima e dopo, costituire un'espressione
emblematica della metamorfosi subita da alcune realtà
meridionali dal Medioevo ad oggi.
Alla vigilia delle celebrazioni fridericiane, per ricordare la
nascita del grande sovrano di casa sveva, non è di poco conto
immaginare un'ipotesi di confronto tra il passato e il presente
di Melfi e dei suo circondano. Il castello di Federico II
è ancora oggi il simbolo fisico di un luogo storico nel quale,
nel lontano 1231, giuristi provenienti dalle migliori scuole dei
momento, hanno redatto il testo di quelle Costituzioni melfitane
che hanno anticipato una visione ed una pratica dello Stato laico
nei confronti di feudalesimi politici ed ecclesiastici.
Tra le novità vanno sottolineate non solo l'avvio di una
distinzione tra i due poteri, il che poteva riempire d'entusiasmo
laico il nostro Gabriele Pepe, ma anche quegli articoli della
Costituzione melfitana scritti a difesa, tra l'altro, delle donne
meretrici e dell'ambiente, prevedendo punizioni esemplari per i
responsabili di scarichi abusivi, nei fiumi, di cascami delle
pelli lavorate artigianalmente.
Certo con l'appressarsi del centenario l'analisi storica sembra
riaprire i termini della riflessione, politica oltre che
storiografica, per ridiscutere il ruolo di Federico II nello sviluppo
successivo del Mezzogiorno.
A buttare la pietra nello stagno è stato l'americano R. Putnam,
gran conoscitore del sistema politico locale del nostro paese,
autore di comparazioni istituzionali tra diverse esperienze
regionali. Per lo studioso di Harvard non vi sono dubbi: la
politica di Federico II non è stata del tutto positiva per il
futuro del Sud, perchè pregiudizialmente vincolata ad un
obiettivo di autarchia e di separazione nei confronti dei Comuni
del nord, che, già da par loro, avevano avviato una rete
di collegamenti commerciali, finanziari e culturali, con i paesi
europei più sviluppati.
Proibire, ad esempio, ai giovani meridionali di frequentare lo Studio
giuridico della Università di Bologna, anche se
disponibile in loco l'Università di Napoli, voluta dal
sovrano per formare la nuova classe amministrativa, va considerato come
uno degli errori di quel governo fridericiano che avrebbe finito
per porre le basi di una cittadinanza sotto controllo, basata su
un rapporto quasi esclusivo con il proprio re. Può essere
ciò un lontano antecedente di quel regime clientelare, fondato
sull'asse sovrano-padrone e cittadino-suddito, tipico di sistemi
politici pre-moderni, privi di autentica democrazia emancipatoria?
La pratica della violenza padronale, caratteristica delle zone
più isolate del Sud, può aver avuto in tale prassi di
governo un suo lontano antecedente?
Non è stato F. De Sanctis a scrivere, negli anni '60 del
secolo scorso, che “chi non ha santi non va avanti?”.
In realtà il brigantaggio lucano, particolarmente attivo
nel melfese, appare, a prima vista, la reazione violenta ad un
sistema sociale che ha irrigidito i rapporti di potere tra cafone e
padrone, pur in presenza di un fenomeno storico importante come
l'unificazione del paese.
Si leggano attentamente le pagine di Carmine Crocco,
nell'Autobiografia che qui si ripropone, dedicate al suo ingresso
trionfale a Melfi nel 1861. Già famoso per i suoi trascorsi
di combattente al seguito di Garibaldi, poi spinto a passare al
campo avverso come “comandante francescano”,
perchè agli ordini del re borbonico Francesco II, Crocco,
dopo le prime vittoriose gesta di capo brigante, entra trionfalmente a
Melfi.
Ad attenderlo sono le Autorità del paese, i ricchi
signori, i padroni della terra, il Capitolo religioso al gran
completo, che lo salutano alle porte del paese per rendergli gli
onori, riverirlo, mentre in paese si diffonde un'aria di festa,
con i balconi pieni di fiori e coperti di arazzi, mentre il cielo
era allietato dal crepitio dei mortaretti.
Eppure Crocco era lì per far razzie di bestiame e di denari, per
sostenere e confortare i propri uomini desiderosi, com'egli dice,
di tutti i piaceri. A seguire Crocco sono in maggior numero
braccianti agricoli, sellai, pastori, contadini a giornata,
pronti ad essere assunti nella banda per la durata dei bel tempo
e poi rientrare nella fatica quotidiana con il sopraggiungere
della cattiva stagione. Nel circondario di Melfi la natura sembra
essere rimasta intatta, allo stato selvaggio, da secoli.
Assai poche le vie di comunicazione con il resto della regione,
incidentate e pericolose, da sempre facile nascondiglio,
soprattutto al limitare dei boschi, per masnadieri e malfattori
pronti a saltare addosso al malcapitato viaggiatore. L'agricoltura
estranea ai principi ed alle tecniche di una conduzione moderna,
sul tipo di quella sviluppatasi nelle regioni dell'Italia
centrale.
Ancora in uso pratiche medievali di uso degli attrezzi agricoli,
mentre la vita quotidiana del contadino si consumava in angusti tuguri,
umidi ed affumicati, in compagnia delle bestie. Il
brigantaggio, e non solo quello lucano, nasce come reazione istintiva
e primitiva ad una situazione medievale di sfruttamento, è
contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei diseredati e
degli ultimi, ma non propone nessun progetto di rinnovamento
nè economico né politico, salvo a propagandare
l'immediato ritorno sul trono del sovrano borbonico Francesco II,
di cui, con il passar del tempo, ci si fidava sempre di meno,
anche da parte degli stessi briganti.
Da Francesco II a Federico II, in realtà, le distanze non
sembravano ai briganti eccessive, se per loro iniziativa il
Castello di Lagopesole diverrà luogo di raccolta del
brigantaggio agli ordini di Crocco, dopo essere stato, ai tempi
del sovrano svevo, residenza di caccia e luogo ameno di
piaceri. Ma Melfi avrà pure una diversa storia da
raccontare, se nel suo collegio sarà eletto un politico
della statura di Giustino Fortunato e vi nascerà uno statista
come Francesco Saverio Nitti, meridionalista e capo del governo
fino alla vigilia dell'avvento al potere del fascismo.
È nel presente, però, che Melfi ritorna all'attenzione
del paese per l'insediamento di una fabbrica Fiat a sistema
integrato, che ha incorporato il modello giapponese Toyota.
Eppure un'esperienza di avanguardia tecnologica come lo
stabilimento automobilistico, pur nell'indubbio significato di
progresso economico e sociale che ha in sè, non esime dal
rievocare un passato post-unitario nel quale il relativo
cambiamento economico presentava le caratteristiche di una
colonizzazione di uomini e mezzi, piemontesi per giunta come ai
tempi di Crocco, ricchi di esperienze e di tecnologie, ma privi
di efficacia pervasiva per l'hinterland, aggredito da un processo
di modernizzazione stradale con un impatto violento sul territorio.
Prima di scegliere Melfi la direzione della Fiat aveva sollevato
lo spettro di altri insediamenti territoriali (Spagna, Grecia,
Turchia), convincendo governo, regione e sindacati sulla bontà
della scelta di Melfi per impiantarvi l'ennesima fabbrica Fiat a
sistema integrato, cioè con un sistema produttivo a guida
computerizzata gestito, sul piano della direzione dei lavori, da
una maestranza torinese, e su quello esecutivo, da una mano d'opera
locale sottoposta ad alcuni requisiti; e ben consapevole del
carattere totalizzante della nuova fabbrica, che prevede anche il
lavoro notturno (a cielo continuato), con il beneplacito della
normativa Cee che non esclude il lavoro femminile nei turni di notte.
Su questi temi ha lavorato, con indagini e riflessioni, la
rivista calabrese “Meridiana”, ed in particolare
Chersosimo che, in un suo recente saggio, intitolato, appunto
“Viaggio a Melfi”, ha ricostruito le linee portanti
della strategia Fiat di penetrazione nel territorio meridionale,
sperimentando il sistema tecnologico giapponese Toyota, come è
già accaduto per altre fabbriche Fiat insediate al Sud.
Melfi appare, in tal modo, il segno contradittorio di una realtà
che, pur proiettata in avanti, contiene in sè elementi non
secondari di una irrisolta questione complessiva circa il ruolo
che il Mezzogiorno dovrà rivestire in una strategia di
rinnovamento economico e politico del paese, al di fuori degli equivoci
di vecchi e nuovi colonialismi, magari con il contributo dello
Stato. L'Autobiografia di Crocco ci riporta alle origini moderne
della complessa condizione meridionale.
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Fotomontaggio
- Carmine Crocco dinanzi alla casa paterna
(Ringraziamo l'amico e
collaboratore FDV per averci fornito la foto) |
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