Con la caduta della piazza dove per tre mesi 10000 napoletani con alla testa i loro giovani sovrani si erano eroicamente battuti di fronte all'intero esercito piemontese, iniziava una tragica parabola che in breve avrebbe trasformato una Nazione in una Colonia.
Alle tre del mattino del 2 novembre 1860 l'esercito napoletano, o almeno quel che ne rimaneva di quell'armata che dai primi di settembre combatteva una guerra estenuante, dovette abbandonare le posizioni lungo il fiume Garigliano.
La flotta francese, che aveva impedito a quella piemontese di
cannoneggiare la costa, dovette all'improvviso ritirarsi: Cavour aveva
un'altra volta convinto Napoleone III a desistere dal proteggere i
napoletani.
L'ammiraglio francese Le Barbier de Tinan, che nutriva un profondo
disprezzo per i piemontesi e per la loro barbara aggressione, dovette
suo malgrado obbedire, ed ottenere soltanto di presidiare l'area
antistante Gaeta.
Non mancò però di togliersi la soddisfazione di
tirare qualche bordata contro le navi piemontesi che sconfinavano.
La flotta piemontese fu rafforzata da unità napoletane i cui
ufficiali erano passati al nemico, equipaggiate da personale piemontese
raccogliticcio, a causa della fedeltà assoluta dimostrata
dai
marinai napoletani che si recarono in massa a Gaeta.
Una batteria di artiglieria fu messa in campo in tutta fretta sulla
vecchia torre di Formia al comando di un ufficiale svizzero, il
capitano Enrico Fevot e del suo sottoposto tenente Casimiro Brunner:
morirono tutti, ufficiali e soldati, ma prima di soccombere riuscirono
a danneggiare gravemente alcune navi piemontesi.
A Mola si svolse una prima battaglia, nella quale i napoletani difesero
palmo a palmo il passaggio, consentendo a buona parte dell'esercito di
prendere la strada per Itri e Fondi.
In quella furiosa battaglia fu ferito gravemente l'anziano capitano del
10° cacciatori, Ferdinando De Filippis, che morirà
in
ospedale il 21 novembre dopo una straziante agonia.
Ristretti ormai al campo di Montesecco, antistante Gaeta, i napoletani
per tre giorni e tre notti tennero le posizioni contro un esercito che
li sovrastava in uomini e materiali, perdendo ben 2400 uomini tra
morti, feriti e prigionieri.
Re Francesco allora comandò che l'esercito entrasse nella
piazza, e a questo punto iniziò il vero e proprio assedio di
Gaeta, una pagina che lascerà al popolo napoletano la
memoria di
una fine gloriosa e dignitosa, che rimarrà di esempio per i
posteri.
Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila uomini decimati
dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai
piegarsi, ad un assedio condotto da vili quali furono gli uomini di
Enrico Cialdini.
Con l'impiego dei modernissimi cannoni rigati, l'ex avventuriero
romagnolo, divenuto generale piemontese, poté dalla sua
comoda
poltrona sul terrazzo della modesta villa privata comprata da
Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito la piazza ed
i suoi abitanti.
La presenza del Re e della Regina fu determinante per tenere sempre
alto il morale della guarnigione. La fedelissima isola di Ponza
rifornì incessantemente la piazza di vettovaglie e generi
vari,
per mezzo dei suoi pescatori che mai dimenticarono che la loro stessa
esistenza era dovuta alla lungimiranza dei Borbone, che colonizzarono
l'isola a spese dello Stato.
Il maggiore Pietro Quandel fu incaricato di tenere il giornale degli
avvenimenti dell'assedio e, grazie al suo lavoro poi pubblicato a Roma,
abbiamo i particolari giornalieri di quell'avvenimento.
Il 29 novembre all'alba con una colonna di 440 soldati uscì
dalla cittadina per compiere una importante ricognizione, onde scoprire
lo stato di avanzamento dei lavori del nemico. Comandava la colonna il
Tenente Colonnello dello stato maggiore Aloysio Migy, svizzero ormai
naturalizzato napoletano.
Compiuta l'operazione nel più assoluto silenzio, il
distaccamento si apprestava a rientrare nella piazza quando il nemico
si accorse della loro presenza, ed attaccò la colonna con
forze
nettamente superiori. Migy si batté da leone,
finché non
fu colpito mortalmente da una scarica di fucileria insieme a tre suoi
soldati.
Il Re volle che gli fossero tributati i massimi onori, e lo fece
tumulare nel Duomo.
Il 2 dicembre partì da Gaeta, non senza protestare,
l'ottantenne
Tenente Generale Pietro Vial, indomito soldato, al quale il Re volle
evitare, a causa dell'età avanzata, le immani fatiche
dell'assedio. Vial morirà in Roma, in esilio, alcuni anni
dopo,
ed è sepolto nella Chiesa della Nazione Napoletana, in via
Giulia.
Il governo della piazza fu assunto dal Brigadiere Gennaro Ma rulli,
ufficiale giovane ed esperto.
Il 4 dicembre il Re emanò un proclama ai soldati, nel quale
li
incoraggiava a dimostrare il loro valore ed a difendere la causa del
diritto e l'onore della Bandiera napoletana: "Voi avete ad emulare una
guarnigione più antica quale è quella che nel
1806
resistette con impareggiabile valore agli attacchi dei primi soldati
del mondo".
L'inverno del 1860 fu fra i più freddi del secolo. Neve
pioggia
e vento battente flagellarono le coste tirreniche, ma il vero nemico
della guarnigione fu il micidiale tifo, che si manifestò ai
primi di dicembre e che mieterà un numero impressionante di
vittime civili e militari, tra cui i generali i generali de Sangro,
Ferrari e Caracciolo di San Vito.
Il generale Antonio Ulloa fu inviato a Marsiglia per trattare la
vendita di tre navi militari ferme in quel porto per riparazioni. Con i
denari ricavati si poté dare un po' di sollievo alla
guarnigione
ed ai suoi ospedali ricolmi di feriti.
Il governo piemontese tentò di impedire la vendita
sostenendo
che i piroscafi erano ormai di sua proprietà, ma i tribunali
francesi giudicarono diversamente, proclamando che l'unico Re delle Due
Sicilie si trovava ancora sul suo territorio, ed era solo vittima di
una vergognosa aggressione.
Il 14 dicembre venne ridotto drasticamente l'organico della guarnigione
che era in assoluta sovrabbondanza, molti corpi furono sciolti e gli
uomini inviati nello Stato Pontificio.
Rimasero così nella piazza fino al termine 994 ufficiali ed
impiegati e 12219 soldati.
Il 20 dicembre gli ufficiali inviarono al Re un messaggio, nel quale
ribadirono la loro ferma intenzione di resistere ad oltranza, per tener
fede al giuramento dato: "Signore, in mezzo ai disgraziati avvenimenti,
dei quali la tristizia dei tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed
indignati, noi sottoscritti Ufficiali della Guarnigione di Gaeta, uniti
in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l'omaggio della
nostra
fede innanzi al trono di V. M. renduto più venerabile e
più splendido dalla sventura.
Nel cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da Vostra
Maestà sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto
il
nostro sangue: noi intendiamo restare fedeli al nostro giuramento.
Quali che sieno per essere le privazioni, le sofferenze, i pericoli, ai
quali la voce dei nostri Capi ci chiami, noi sacrificheremmo con gioia
le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene pel successo o pei
bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell'onor militare che,
solo, distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M.
ed all'Europa intera che, se molti dei nostri col tradimento o con la
viltà macchiarono il nome dell'Esercito Napoletano, grande
fu
anche il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e
senza macchia alla posterità.
Sia che il nostro destino si trovi presso a decidersi, sia che una
lunga serie di lotte e di sofferenze ci attenda ancora, noi
affronteremo la nostra sorte con rassegnazione e senza paura; noi
andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei bravi con la
calma fiera e dignitosa che si conviene a soldati, ripetendo il nostro
vecchio grido VIVA IL RE".
Il 7 gennaio il Re, la Regina ed i Principi Reali Conti di Trani e
Caserta dovettero abbandonare i palazzi nei quali erano stati ospitati,
perché i colpi nemici li avevano ripetutamente danneggiati,
e si
trasferirono tutti in una modesta casamatta della batteria Ferdinando.
Per iniziativa dell'imperatore francese Napoleone III fu stabilita una
tregua dall'8 al 19 gennaio, in considerazione della partenza della
flotta francese, che da quel giorno non avrebbe più
garantito la
città dal mare.
Scopo dell'armistizio era quello di convincere Francesco II ad
abbandonare Gaeta, avendo ormai salvato l'onore.
Pochi giorni prima del suo scadere i rappresentanti diplomatici di
Austria, Prussica, Sassonia, Baviera, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo,
Brasile, Toscana, Russia e Stato Pontificio raggiunsero Gaeta per
presentare i loro omaggi al Re. Nonostante gli ordini dei loro governi
rimasero nella piazza a sopportare i disagi ed i pericoli dell'assedio
solo i ministri di Spagna, Austria, Baviera, Sassonia ed il Nunzio
Apostolico.
Il 15 gennaio Francesco II, all'approssimarsi della scadenza della
tregua e della partenza della flotta francese, scrisse una nobile
lettera all'Imperatore, che lo esortava a cedere: "Come cedere, quando
in tutte le province del mio Regno con sentimento spontaneo si insorge
contro la dominazione piemontese? Il mio diritto è ora il
solo
mio patrimonio, ed è mestiere che per difenderlo io mi
faccia
seppellire, se necessario, sotto le fumanti rovine di Gaeta. Ho fatto
ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me. Ella
vuole dividere con me la mia fortuna, consacrandosi alle cure degli
ammalati e dei feriti. Da questa sera Gaeta conta nelle sue mura una
suora di carità in più".
Il 22 gennaio, unilateralmente, i napoletani decisero di riaprire il
fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il
segnale: fu una giornata memorabile.
La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della
piazza le avevano inferto: oltre 10000 colpi furono sparati dai
napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi.
Il nemico ne sparò oltre 18000, ma il morale napoletano
rimase
alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande
militari intonavano l'inno di Paisiello. Ad ogni colpo mancato dal
nemico una selva di uomini aveva ancora il morale ed il coraggio di
fare gesti irripetibili dall'alto dei parapetti delle batterie.
L'11 febbraio il Re prese la decisione di interrompere la carneficina.
Il colonnello Delli Franci fu inviato a parlamentare, ed a presentare
una proposta di armistizio cui far seguire una vera e propria
capitolazione.
Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano
mai l'iniziativa di assaltare la piazza: "li prenderemo per fame"
scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che
l'italiano non era molto contemplato da questi signori.
Quando iniziarono le trattative il vile assassino Cialdini non volle
interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore
accanimento perché "sotto il tiro dei cannoni cederanno a
condizioni più vantaggiose per noi", scriveva ancora il
generale
a Cavour.
Fu così che a capitolazione già firmata venne
centrata la
polveriera della batteria Transilvania, dove morì l'ultimo
difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito
dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non ha degna
sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di caduti di Gaeta
perché, è bene saperlo, solo nel 1881 i parenti
dei
generali de Sangro e Caracciolo ebbero l'autorizzazione di apporre i
nomi dei loro congiunti su di una lapide commemorativa.
I poveretti, gli umili, stanno ancora sotto la terra di Gaeta, magari
nelle fondamenta di qualche nuovo ed orrendo palazzo costruito dai
barbari che l'hanno calpestata dopo la resa.
La memoria dell'assedio e della sua meravigliosa difesa non
passerà... Gaeta è stata punita più
volte per la
sua fedeltà a prova di bomba: è stata un famoso
carcere
militare, è stata retrocessa da vicecapoluogo provinciale a
città qualsiasi, ed infine forzatamente collocata nel Lazio,
in
provincia di Latina.
La partenza del Re quella notte del 14 febbraio fu la prima di una
serie di milioni di partenze di meridionali alla ricerca della
dignità e di un futuro non di fame nera.
E' bene non dimenticarlo.
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