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L’altra analisi sulla malavita

In un libro di Roberto Marvasi una diversa chiave di lettura sul fenomeno

Nel lontano 1928, Roberto Marvasi (1863 – 1955), figlio di Diomede, pubblica a Marsiglia, dove si è rifugiato per sfuggire alle persecuzioni fasciste, per i tipi della E.S.I.L., “Malavita contro malavita”.


Si tratta di un opuscoletto che raccoglie una serie di conferenze che Marvasi ha tenuto presso la Sezione del Partito Repubblicano Italiano di Marsiglia sul tema della diffusione della criminalità nel Meridione d’Italia negli anni immediatamente successivi alla repressione del Brigantaggio e sull’uso politico che i governi post-unitari fecero di camorristi, mafiosi e delinquenti vari.


Tema che Gaetano Salvemini aveva affrontato per quel che riguardava, specificatamente, la realtà pugliese e che Marvasi, analogamente, ha affrontato per quel che riguardava Napoli. Dalle inchieste di “Scintilla…! – il suo giornale - e, soprattutto, dalle indagini del capitano dei carabinieri Fabroni e poi dagli atti del processo di Viterbo del 1911 [ “il processo Cuocolo”, primo maxi-processo della storia giudiziaria italiana] contro alcuni esponenti di primo piano della camorra, Roberto Marvasi si era convinto che la borghesia, pur di mantenere il potere, pur di frenare le aspirazioni dei ceti popolari e controllare le organizzazioni operaie e socialiste, è disponibile a qualunque alleanza e a qualunque tipo di compromesso.


La rapida carriera del prefetto Tommaso Tittoni e la folgorante ascesa di Vittorio Emanuele Orlando, dal consiglio comunale di Palermo fino alla presidenza del consiglio dei ministri, diventano i paradigmi della strutturazione e dell’organizzazione del potere nello Stato unitario, che vede la monarchia sabauda e, più in generale, l’intera Casa Savoia – in più di una conferenza vi sono espliciti riferimenti al duca d’Aosta - come il vertice di un’ impalcatura di potere che si ammanta di retorica e vive di gloria riflessa, ma è marcia e profondamente corrotta.


La corruzione dilagante, gli scandali bancari, i brogli elettorali, il trasformismo parlamentare sono stati sistematicamente coperti mediante una facciata di perbenismo che, di volta in volta, utilizzava ed agitava o l’imminente pericolo anarchico e socialista o il diffondersi, in tutto il Sud, di una criminalità sempre più spavalda.


Criminalità, dice Roberto Marvasi, che si chiami camorra o mafia, nelle regioni meridionali, prospera e prolifera grazie agli appoggi di cui gode negli ambienti della polizia, della magistratura e dell’amministrazione prefettizia.


Lo scambio di favori tra malavitosi e funzionari statali è così sfacciato e così endemico che si è tentato perfino di impedire a ligi e fedeli ufficiali dei carabinieri, come il sunnominato Fabroni, di condurre le indagini.


Il Socialismo italiano ha sempre sottovalutato queste problematiche ed ha volutamente chiuso gli occhi, con indifferente aria di sufficienza, di fronte a questo intreccio, considerandolo alla stregua di un fenomeno localistico, circoscritto e di sapore paesano e folkloristico.


L’avvento della grande rivoluzione avrebbe spazzato via anche queste scorie borghesi perciò non era certo il caso di preoccuparsi se qualche malavitoso appoggiava questo o quel candidato liberale o giolittiano.


ùNon si avvedevano, sembra dire Marvasi, che la camorra e la mafia sono un cancro che riesce ad installarsi facilmente nel cuore della pubblica amministrazione, convive perfettamente con gli apparati pubblici, se ne serve e corrode dal di dentro le strutture dello Stato.


L’antistatalismo dogmatico dei socialisti di tutte le tendenze ha sempre visto nel fenomeno criminale una sorta di potenziale “alleato marginale” e nel sistema penalistico un riflesso delle divisioni classiste della società. Che si potesse saldare un’alleanza tra i reietti e le classi alte e che il crimine potesse diventare strumento di arricchimento e di ascesa sociale appariva assolutamente impensabile ai contemporanei di Marvasi.


ùMa non a lui, a lui che aveva ben assorbito la lezione di suo padre e di Silvio Spaventa, il quale sosteneva che lo Stato moderno, non può limitarsi a reprimere e punire, ma - “…dirige un popolo verso la civiltà…non si restringe solo a distribuire giustizia e a difendere la società, ma vuole dirigerla per quelle vie, che conducono ai fini più alti dell’umanità. La parte mutabile di uno Stato è la direzione che esso da a un popolo; in questa direzione ci può entrare di tutto. Oggi lo Stato prende il servizio delle poste; domani quello del telegrafo… poi prende le ferrovie, domani le lascia e prenderà altro”.


Una concezione molto più complessa della macchina statale e del governo della stessa che superava di molto l’idea dello Stato come semplice “comitato d’affari della borghesia” di marxiana memoria e che prospettava già una sua articolazione ed una sua penetrazione all’interno della società civile in modo da permettere un progressivo inglobamento di nuovi soggetti sociali.


Al contrario la lotta contro la criminalità organizzata o “malavita”, come ancora la chiama Marvasi, venne sempre condotta in modo ambiguo, appoggiandosi ora all’una ora all’altra delle organizzazioni criminali presenti sul territorio e mirando a fare in modo che, di volta in volta, venissero favoriti gli elementi che si dimostravano più vicini agli uomini di governo.


Lo stesso ministro Giovanni Nicotera, nella famosa Relazione alla Camera del 1877, riporta le parole del prefetto di Palermo, il quale ritiene che le classi abbienti siano fortemente compromesse con la mafia, - “…quantomeno nella forma [… appaiono] protettrici interessate di manutengoli, banditi, briganti e malandrini e non solo semplici vittime della violenza banditesca”.


Questo modo di procedere, ondivago ed altalenante, avviato già con Garibaldi e perfezionato con il ministro Nicotera, se, da un lato, anche per la prudenza sempre raccomandata dal Depretis, produsse indubbi successi in termini di immagine, dall’altro consolidò un indirizzo che avrebbe permesso ai gruppi meglio organizzati di godere di appoggi e di impunità ricorrendo alla delazione ed alla connivenza con le autorità amministrative e prefettizie.


Il meccanismo venne poi elevato a sistema, a metodo amministrativo e di governo da Giolitti, che organizzò, in ogni regione, in ogni provincia, in ogni collegio elettorale, una vera e propria “rete” di fidati prefetti, questori, sindaci, amministratori, banchieri e deputati in grado, attraverso una fittissima trama di legami e di interessi, di mantenere sotto controllo l’intero territorio.


Ora il fascismo che è andato al potere con metodi malavitosi e cioè con la violenza, il ricatto, i brogli e l’assassinio, deve affrontare l’altra “malavita”, quella autentica, quella che, fin’ora, sostiene Marvasi, si è sempre schierata con il potere e dal potere è stata sempre ampiamente ripagata.

“Malavita contro malavita” è appunto la contrapposizione, solo apparente, avverte Marvasi, che si sta verificando in Sicilia tra il fascismo e la mafia.


L’invio del prefetto Cesare Mori nell’isola è solo l’ennesima farsa, l’ennesima parata, l’ennesima mistificazione che il potere sta tentando per legittimarsi agli occhi di quegli italiani, ingenui e creduloni, che hanno visto nel fascismo una nuova speranza ed un’ancora di salvezza.


La ventata di cambiamento che Mussolini ha promesso solennemente, come suo costume, ai fascisti meridionali fin dal novembre del 1922, quella frase, scandita nel classico modo stentoreo: - “ho il potere anche per risolvere …il problema del Mezzogiorno d’Italia”, è, purtroppo, un tragico bluff.

Presto si vedranno i risultati.


L’azione del prefetto Mori fu indubbiamente spettacolare: blitz improvvisi, arresti di massa, interi paesi posti in stato d’assedio, interrogatori ai limiti del codice penale, anni di confino e di soggiorno obbligato e processi con decine di imputati.


Esiste, perfino, una fotografia che ritrae centinaia di “campieri” a cavallo che, nella piazza di Mussumeli, prestano, davanti al prefetto, solenne giuramento di fedeltà al fascismo!

Nel 1929, Mussolini può annunciare che la mafia, in Sicilia, non esiste più; è stata definitivamente sradicata dalla tenace, energica, decisa ed intransigente repressione del fascismo.


Anzi la parola mafia venne effettivamente cancellata dal linguaggio ufficiale, quando se ne parlava, come nell’Enciclopedia Italiana - edizione 1934 - veniva usato il passato remoto.


In Sicilia, però, la situazione non era cambiata.


Un osservatore esterno, il giornalista inglese J.E. Reece, in una serie di servizi inviati al Daily Herald di Londra, tra il 1938 ed il 1939, alla vigilia della guerra, osserva che la situazione in Sicilia è insostenibile.


Nelle campagne molti contadini non hanno niente da mangiare, manca il lavoro, numerosissime sono, a Palermo, le famiglie che non hanno che cucinare; la spazzatura, nelle città, veniva accatastata per le strade e le condizioni igieniche sono molto precarie; gli ospedali versavano in condizioni di assoluta indigenza tanto da non potersi permettere neppure l’acquisto di siringhe.


Il principe di Piemonte, in visita nell’isola, venne sommerso da petizioni di gente disperata, che, pur di consegnare quelle richieste ruppe i cordoni della polizia e si scontrò con gli agenti del servizio d’ordine, rischiando la vita.


E la mafia?


Il funzionario Filippo Agnello, già segretario del prefetto Mori, in suo rapporto riservato di quegli anni scrive: - “ …i banditi di strada sono nuovamente pericolosi…rapine e grassazioni sono all’ordine del giorno…Dio ce la mandi buona, ma attraversiamo un brutto quarto d’ora. I giornali hanno l’ordine di tacere, e cioè un gran male…giungono in continuazione lettere anonime che parlano di una corruzione diffusa, soprattutto tra i funzionari del Partito, tra gli amministratori…che si sono ignominiosamente arricchiti speculando su tutto.”


Dopo lo sbarco degli Alleati, il marchese di Cesarò rilasciò un’intervista al Sunday Times e alla domanda che fine abbia fatto la mafia, risponde, serafico, con un sorrisetto sornione, : - “Non vi hanno informato che in Sicilia non sono rimasti più mafiosi? Nel 1934 Mori li ha portati tutti con se.”


Dove fossero finiti i mafiosi lo si saprà, purtroppo, molto presto e sarà una scoperta amarissima, pagata a carissimo prezzo con l’uccisione di centinaia di sindacalisti e militanti socialisti e comunisti e con una strage – quella di Portella delle Ginestre – tutt’ora oscura e che continua, nonostante siano passati più di cinquant’anni, a pesare come un macigno sulla vita politica italiana.


Appunto, come aveva intuito Roberto Marvasi, più di trent’anni prima, pagherà ancora una volta, la Sicilia democratica, pagherà ancora una volta la povera gente; continueranno a pagare tutti quei meridionali onesti e corretti che si sono fidati, per l’ennesima volta, dello Stato.


Mi corre l’obbligo, infine, di segnalare due cose:

- 1) L’on. Isaia Sales, [che il prof. Zitara conosce bene] napoletano, deputato dei DS, ha scritto una storia della camorra, ebbene in oltre duecento pagine non ha trovato né il tempo né il modo di citare, neppure una volta, anche solo per sbaglio, Roberto Marvasi! vizietto tipico degli stalinisti che ignorano sistematicamente tutti quelli che “non sono dei nostri”.

- 2) Il lettore abbia la bontà, al fine di “aggiornare” il discorso, di sostituire nomi, fatti, circostanze e citazioni e scoprirà che il discorso fatto da Marvasi è di un’attualità impressionante.


(03.12.2005)
Antonio Orlando






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