Domani cade l'anniversario della caduta della fortezza di Gaeta, da molti considerata una data emblematica nella storia di questo paese.
Il 13 febbraio 1861, nelle sale di Villa Rubino a Formia, Piemontesi e Napoletani firmarono l'armistizio che pose fine all'assedio della vicina Gaeta dove Francesco II di Borbone si era asserragliato dopo la battaglia di Volturno con gli ultimi seguaci. Pochi giorni dopo questi, congedati i soldati, lasciava la rocca e partiva per l'esilio. Il Regno delle due Sicilie aveva cessato di esistere.
Ringraziamo Giuseppe Marchese - autore de "La presa di Gaeta" - per averci gentilmente autorizzato a pubblicare il suo articolo. Nel suo sito https://www.giuseppemarchese.it/ è possibile scaricare degli interessanti documenti sulla storia postale del Regno delle Due Sicilie.
Lo spunto per questa succinta esposizione dell'assedio e della presa di Gaeta, avvenuta il 13 Febbraio 1861, parte da una lettera indirizzata al Gen. Cialdini che all' epoca dirigeva le operazioni militari contro la piazzaforte.
Questa lettera parte da Procida il 5 Gennaio con destinazione Napoli e da qui "corretta" a Mola di Gaeta.
In arrivo a Mola viene apposto l'annullo "R. Posta Mil. e Sarda ( )".
Purtroppo il numero della posta militare non è visibile, ma si
ritiene sia il n. 1 poiché il Possolini Gobbi nel suo "lettere
dei combattenti del risorgimento" assegna questo numero al comando
delle operazioni.
Per poter meglio descrivere l'interessante documento postale tracciamo
una breve panoramica dell'ultima battaglia di Francesco II dentro la
fortezza di Gaeta desunta, oltre che dal citato volume del Pozzolini
Gobbi, anche dal volume di Piero Pieri "storia militare del
risorgimento", nonché dal volume di S. Romito "Le Marine
Militari italiane nel risorgimento".
La fortezza di Gaeta era ritenuta imprendibile dato che nel 1806
resistette per 5 mesi al Massena, sotto il comando del principe d'Assia
Philippstadt e nel 1815 il gen. Begani tenne testa agli austriaci coi
resti dell'esercito di Murat.
I borbonici difendevano la fortezza con 12.500 uomini, con 690 tra
cannoni, obici e mortai e avevano di contro il IV corpo d'armata,
composto da 3 divisioni, e parte del V corpo, al comando del generale
Cialdini.
Proteggevano la fortezza dal lato mare le navi della squadra navale
francese che con la loro presenza ostacolavano le operazioni della
squadra sarda; tanto è vero che, pare, artiglieri francesi si
erano uniti con gli artiglieri della piazza di Gaeta per concorrere a
mettere in posizione le batterie a mare e a far fuoco sulla squadra
sarda.
L'assedio vero e proprio della piazza inizia il 5 novembre, mentre sono
in corso trattative diplomatiche tra l'Italia e la Francia con
l'evidente scopo di Napoleone III di intralciare l'azione militare
italiana.
Il 29 novembre gli assediati tentano una sortita, ripetuta il 4
dicembre, di tentare di infrangere il cerchio che serra la fortezza, ma
senza nessun esito fruttuoso.
Intanto i bombardamenti continuano sempre più intensi da parte dei sardi.
Il re e Cavour vogliono un successo immediato poiché il 25
ottobre, nello storico incontro di Teano, il re aveva defenestrato
Garibaldi e tutto l'esercito meridionale e quindi premeva loro di
dimostrare all'opinione pubblica che l'esercito regolare si era battuto
con successo contro i borbonici contribuendo tangibilmente alla
liberazione del mezzogiorno.
Ma i borbonici e Francesco II non sono dell'opinione di abbandonare la
lotta. Il re vuole riscattare il suo atteggiamento tentennante e
indeciso nei confronti dell'esercito garibaldino con una strenua
difesa, e della stessa opinione sono i soldati che vogliono conservare
l'onore delle armi e chiedono insistentemente la difesa a oltranza
della piazza.
L'8 gennaio Napoleone ottiene una tregua d'armi di 10 giorni, ma
è costretto a concedere in contropartita l'allontanamento da
Gaeta della squadra navale francese.
"Apparvero subito" - narra il Romito - "provenienti da Napoli, la
Costituzione e le cannoniere Ardita e Veloce seguite poi dalla Maria
Adelaide, la Carlo Alberto e la Vittorio Emanuele, nonché la
Monzambano e la Garibaldi".
Il 22 gennaio la squadra italiana, che ormai tale era diventata,
aprì il fuoco contro le batterie del fronte a mare della piazza.
Qui i pareri tra gli storici si fanno discordi sull'aiuto della squadra
nelle operazioni. Il Pieri sostiene che l'azione della flotta risulta
inefficace, mentre il Romito afferma che sebbene il tiro delle navi
risulti impreciso, il contributo della flotta è sostanziale.
Il 25 gennaio scoppia il tifo nella guarnigione. I piemontesi scoprono
ogni giorno nuove batterie, mentre il tifo aumenta d'intensità i
danni alla piazza sono ormai rilevanti.
A questo momento drammatico si riallaccia la nostra lettera, che
presumibilmente il gen. Cialdini ha già ricevuto e che dice
testualmente: "Angelo Giordano fu Carmine, Antonio Spirito fu
Ferdinando, forzati nel bagno di Procida, rispettosamente rassegnano
all'E.V. qualmente avendo nella qualità di maestri muratori
travagliato nella fortezza di Gaeta, e vedendo la tragedia che ne si
sta facendo spinti quali figli della patria nel dovere di
umanità ed attaccamento che devesi al re galantuomo, si
rivolgono all'innata bontà e giustizia dell'E.V. acciò si
compiacerà chiamarli della di lei autorità per indi
fargli conoscere il mezzo e il modo di adoperarsi per il felice trionfo
che eseguiranno mediante l'aiuto del potente braccio dell'E.V.
Tanto sperano dall'E.V. mentre non ponno affidare alla carta né
ad altra autorità per quanto ha per scopo il punto umiliato
foglio.
Bagno di Procida 4 gennaio 1861".
E' una lettera sibillina che non dice niente di primo acchito, anzi sembrerebbe una supplica.
Infatti non è facile capire quello a cui i due ergastolani
alludono "avendo travagliato nella fortezza di Gaeta, e vedendo la
tragedia che ne si sta facendo", che asseriscono di agire "quali figli
della patria..." e che vogliono "fargli conoscere il mezzo e il modo di
adoperarsi per il felice trionfo che eseguiranno mediante l'aiuto del
potente braccio dell'E.V.".
Solo alla fine della lettera, per il timore di essere stati troppo
evasivi i due maestri muratori si fanno più espliciti e dicono
che "non ponno affidare alla carta né ad altra autorità
per quanto ha per scopo il punto umiliato foglio".
Un importante segreto, quindi, legato al fatto che hanno lavorato nella
fortezza di Gaeta, che possono dire soltanto di persona al generale e
che permetterà di porre fine alla "tragedia che se ne sta
facendo".
A questo punto ogni dubbio sulla missiva è sciolto. Ciò
che vogliono dire Angelo Giordano fu Carmine e Antonio Spirito fu
Ferdinando è che conoscono un modo, certamente segreto, di
penetrare nella fortezza di Gaeta, così da sorprendere e rendere
inoffensivi gli assediati.
Giocano d'azzardo i due maestri muratori oppure conoscono veramente quel segreto?
La storia ci conferma comunque che la piazza di Gaeta non fu presa con
l'astuzia ma con la forza, e dopo altre abbondanti perdite umane.
Infatti fino al 13 febbraio continua l'incessante martellamento da
parte delle batterie italiane, con danni notevoli alle case che fanno
molte perdite tra i civili.
La sera del 13 febbraio si giunge alla fase conclusiva delle trattative
per la resa senza che per un solo minuto si sia ordinato il "cessate il
fuoco"!
Constatata la difficoltà della situazione, tra tifo,
cannoneggiamenti e difficoltà di approvvigionamento, la sera del
13 viene firmata la resa della piazzaforte e il 14 febbraio Francesco
II s'imbarca su una nave francese.
Da parte napoletana si lamentano 560 morti per azioni di guerra e 307
per tifo, 800 feriti, 743 dispersi. I piemontesi denunciano 50 morti e
350 feriti.
La caduta di Gaeta viene consegnata alla storia come prova del valore
italiano. Chissà quale giudizio avrebbero dato allora l'opinione
pubblica e ora gli storici se la presa di Gaeta fosse avvenuta nel modo
indicato dai due forzati.
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