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Per una storia dell'idea federale


3. Il federalismo e la questione italiana

I grandi federalisti dell'Ottocento, d'altra parte, sono tutti fieri nemici del nazionalismo. Un cattolico liberale e federalista quale Lord Acton è quanto mai diffidente, ad esempio, verso ogni sorta di irredentismo, mentre ammira di tutto cuore il federalismo statunitense. La sua opinione è che il liberalismo ha il proprio cuore nella teoria dei limiti del potere: è liberale insomma quell'azione politica che si sforza di impedire la crescita del controllo politico sulla società. Il liberalismo, allora, è necessariamente anche federalismo, in quanto soltanto in virtù di istituzioni federali è possibile opporre al potere centrale tutta una serie di contropoteri. A giudizio di Acton, la teoria federale oppone i governi locali allo strapotere della capitale e abitua i cittadini all'autonomia e all'indipendenza. La sua tesi è che "il vero naturale freno per una democrazia assoluta è il sistema federale, che limita il governo centrale attraverso poteri decentrati, e i poteri statali attraverso i poteri che essi hanno ceduto".

Anche Acton, come Tocqueville, ha visitato l'America e ne è rimasto colpito, convinto che un popolo che si dà istituzioni democratiche di tipo federale è un popolo che rifiuta la peggiore passione politica, il nazionalismo, e non vuole assolutamente inseguire la cancellazione delle diversità. Secondo Acton, a questo proposito, "l'ineguaglianza delle condizioni, mentre è una necessaria conseguenza della libertà, è, nello stesso tempo, indispensabile per il progresso". Il federalismo è una concezione che accetta positivamente le diversità ed è insomma un antidoto ai moderni miti ugualitari, allo statalismo, al nazionalismo.

In questo senso lo storico inglese ammira lo Stato multietnico austriaco e, per la stessa ragione, esprime parole di elogio per la federazione svizzera: "La nazionalità formata dallo Stato è (...) l'unica verso la quale abbiamo dei doveri politici. Dal punto di vista etnico, gli Svizzeri sono Francesi, Italiani o Tedeschi, ma nessuna nazionalità accampa la minima pretesa su di essi, all'infuori della nazionalità esclusivamente politica della Svizzera". La mera nazionalità politica, infatti, è il risultato di un patto civile tra individui e gruppi liberi, e niente di più; mentre la nazionalità etnica che punta a divenire istituzione - in ragione della logica nazionalistica - presuppone una sorta di metafisica collettivistica ed ipotizza un ente che sovrasta le persone e le annulla.

A questo proposito è molto interessante quanto afferma un altro federalista cristiano dell'Ottocento, Costantin Franz, che fu nemico di Bismarck e si batté per realizzare una Confederazione tedesca all'interno dell'area mitteleuropea. Il suo liberalismo nutrito di fede privilegiava la società rispetto allo Stato, contrastava ogni idea di istruzione statizzata (nella persuasione che le scuole dovessero essere gestite dalle Chiese e dagli enti locali) e negava ogni identificazione pagana tra Stato e nazione: "Sul terreno di una stessa nazione possono sorgere diversi Stati, come d'altra parte un solo Stato può abbracciare diverse nazionalità o parti di nazionalità". Da sincero credente, egli comprende perfettamente che le istituzioni politiche stanno ambiscono ormai a sostituirsi alla religione e che le nuove ideologie secolari investono sempre di più la nazione di significati metafisici. Egli evidenzia che "se le nazionalità sono soltanto formazioni storiche, che nascono e muoiono nel corso della storia, esse non dovrebbero pretendere di essere qualcosa di santo o di divino".

Questa decisa critica del nazionalismo, accompagnata ad una netta apertura per le soluzioni federali, è riconoscibile anche all'interno della culturale federalista italiana. Autori come Gioberti e Rosmini, per limitarsi ai maggiori, hanno proposto soluzioni che tenessero in considerazione non soltanto la complessità della realtà italiana (caratterizzata dalla presenza del Papa), ma anche la diversificazione delle tradizioni e delle mentalità.

Nel pensiero di Rosmini, in particolare, la netta opposizione al perfettismo si sposa con una proposta istituzionale nutrita di realismo e di saggezza liberale. La sua idea era di garantire ad ogni Stato componente la federazione una propria Camera legislativa, con il compito di garantire la giustizia e tutelare le libertà private, mentre la pace e la concordia tra le diverse istituzioni italiane sarebbero state assicurate da una Dieta presieduta dal Papa e a cui Rosmini pensava di affidare pochi ed essenziali compiti. Proprio a questo riguardo Pietro Piovani ha giustamente rilevato che "c'è un federalismo di Rosmini che è, prima di ogni altra cosa, opposizione ad una concezione fittiziamente unitaria della società e dello Stato".

Nel pensiero federalista dell'età risorgimentale, allora, vi erano tutte le premesse per una soluzione liberale e federalista: rispettosa dei diritti dei singoli e delle comunità. Se lo Stato che nacque dall'unificazione dell'Italia fu illiberale e accentrato, allora, le cause sono in primo luogo da rinvenirsi nel successo di un Risorgimento che fu nazionalista invece che federale, e quindi incapace di elaborare istituzioni flessibili e tolleranti.

Carlo Cattaneo, il più intelligente (e isolato) dei grandi protagonisti del dibattito ideologico ottocentesco, riconobbe immediatamente tutto ciò: la sconfitta del suo progetto segnalò proprio l'involuzione delle speranze di libertà che l'Italia aveva visto emergere durante la prima età del secolo. Per tutti i federalisti dell'Ottocento (italiani e stranieri, cattolici e laici) soltanto una struttura federale avrebbe potuto permettere all'Italia - la cui storia fu sempre segnata da divisioni, e che ancora presentava notevoli diversità nell'economia e nella cultura - di garantire ad ogni comunità una vera libertà ed un'autentica democrazia.

Questa esigenza era particolarmente avvertita da Cattaneo, appunto, per il quale sia Cavour che Mazzini erano esponenti di un centralismo da cui lui era lontanissimo. Illuminista ed allievo di Romagnosi, fervente ammiratore della civiltà anglosassone, egli era del tutto persuaso che la costruzione di un'Italia monarchia (o anche repubblicana) accentrata avrebbe ostacolato ogni sviluppo civile e avrebbe umiliato le legittime aspirazioni liberali delle diverse popolazioni.

Nel ricostruire la storia della sua Lombardia, d'altra parte, Cattaneo aveva evidenziato come molte delle popolazioni che in vario modo avevano caratterizzato la storia e l'evoluzione di questa terra vivevano all'interno di istituzioni autonome, rispettandosi e collaborando. Contrappone, ad esempio, gli Etruschi ai Romani, mostrando una netta preferenza per i primi: "Il principio etrusco era diverso dal romano, perché federativo e molteplice poteva ammansire la barbarie senza estinguere l'indipendenza; e non tendeva ad ingigantire un'unica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale di un dominio senza nazionalità".

Egli parla di borghi, campagne e vallate, perfettamente consapevole che anche la stessa Lombardia contiene universi culturali ed economici che esigono cure appropriate ed una diretta conoscenza dei problemi. Un'Italia che dalla capitale pretendesse di affrontare i problemi della Sicilia orientale e della Liguria, della Sardegna e della Valtellina, gli pareva non solo irrazionale, ma destinata a trasformarsi in una tirannia.

Benché eletto deputato, egli si rifiutò quindi di partecipare alla vita politica italiana e di riconoscere la legittimità della conquista regia (da repubblicano convinto, non accetta che la Casa Savoia domini la penisola). Dalla Svizzera in cui si è ritirato egli avversa la centralizzazione decisa dalla Destra storica e la conseguente cancellazione di ogni autonomia. Già nel 1848, d'altra parte, era stato molto esplicito nel definire quali fossero le sue speranze: "ognuno abbia d'ora in poi la sua lingua, e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia". Queste parole egli le riferiva alle nazionalità che componevano l'Impero, ma per lui avevano un valore universale e dovevano valere allo stesso modo anche all'interno della monarchia sabauda.

Lo Stato federale, in questo senso, sarebbe dovuto essere l'esatto contrario dello Stato centralista, erede dell'assolutismo e del giacobinismo rivoluzionario, teso a utilizzare i propri poteri per uniformare il territorio e la popolazione, ma anche predisposto ad allargare sempre di più il proprio controllo sull'economia, sulla cultura e sull'istruzione: con l'inevitabile conseguenza di soffocare ogni spirito di iniziativa e opprimere ogni identità e tradizione. Solo una federazione, insomma, avrebbe garantito ad ogni popolo italiano il diritto di autogovernarsi e di essere padrone a casa propria.

Di fronte ad un'Italia che fu unita senza che fosse prestata la minima attenzione alla sua complessità e all'opinione dei cittadini, esprime analoghe opinioni Pierre-Joseph Proudhon. Questi giudica folle l'idea di unificare alla francese una realtà sociale quale è quella italiana e chiede proprio che siano valorizzate le diversità, rinunciando a quel mito dell'indivisibilità della sovranità che già tanti danni aveva causato in Francia e in altri paesi: "Qui l'unità è cosa fittizia, arbitraria, pura invenzione della politica, combinazione monarchica o dittatoriale che non ha niente in comune con la libertà. Prima di questi ultimi anni, la critica dei liberali, ostili alla Casa di Napoli, faceva notare che i Siciliani non hanno mai potuto soffrire i Napoletani: perché ora si vuole che sopportino i Piemontesi?".

Proudhon sottolinea quanto siano differenti (per economia, storia e mentalità) le popolazioni che compongono l'Italia: "che cosa ha in comune questo bacino con quello del Tevere che taglia obliquamente la penisola nel mezzo; con tutta la parte sudorientale, dalle Paludi Pontine fino a Reggio e a Taranto? Tutta questa penisola, a partire dal grande bacino del Po, che si chiamava un tempo Gallia Cisalpina, e che non era neppure considerata come facente parte dell’Italia, forma una specie di budello, diviso del senso della lunghezza dalla catena degli Appennini, dalle cime dei quali partono, a sinistra e a destra, come gradini, una serie di valli indipendenti che finiscono tutte al mare".

Fin dalla sua nascita, però, l'Italia si costituì quale Stato fortemente accentrato, che esprimeva una totale sfiducia verso le diverse comunità di cui esso si componeva e che ha costantemente temuto e avversato le aspirazioni all'autogoverno che di volta in volta sono emerse: un tempo nel Mezzogiorno e oggi nel Nord.

Unificata dall'esercito di Casa Savoia e ideologicamente compattata da un nazionalismo nutrito di patriottismo conservatore e di generiche aspirazioni mazziniane, l'Italia del 1861 contiene già in sé molte premesse della propria successiva evoluzione e l'origine di molti problemi con cui dovrà fare i conta. In tutta Europa, d'altra parte, il XIX secolo ha visto la nascita e lo sviluppo non solo del collettivismo socialista e dell'ideologia marxista, ma anche il successo di uno spirito giacobino volto ad annientare ogni spirito di autonomia e ogni diritto individuale.

Se la Francia conobbe l'autoritarismo del Secondo Impero e la Germania dovette subire il dispotismo guglielmino e l'intolleranza retriva del cancelliere Bismarck, l'Italia passò dalla Destra storica al Trasformismo, dal colonialismo crispino al generale Bava Beccaris, dalla corruzione giolittiana alla dittatura mussoliniana. Ma un'Italia costruita a partire da modelli costituzionali e amministrativi di scuola francese non poteva essere un'Italia liberale. E questo perché la cultura nazionale e sociale di Giuseppe Mazzini, con il suo mito dell'unità organica del popolo italiano, ha avuto la meglio sul pragmatismo, sulla tolleranza liberale e sull'ispirazione federalista di Carlo Cattaneo. Il liberalismo nazionale uscito dal Risorgimento non comprese insomma e anzi apertamente rigettò la lezione e gli ammonimenti dei federalisti, illudendosi di poter garantire la libertà dell'individuo anche in presenza di istituzioni accentrate.

Nell'Italia unificata, allora, ogni opposizione politica e sociale fu trasformata in un problema di ordine pubblico (basta pensare alla lotta al banditismo del Sud, ma anche alla successiva persecuzione dei militanti socialisti e anarchici). L'Italia è stata per lungo tempo alla spasmodica ricerca di un ordine legale: ed è proprio in questo senso che il controllo sociale esercitato dai prefetti, veri e propri "luogotenenti" del potere centrale, ha guidato un processo di nazionalizzazione del Paese che sarà poi esaltato dal regime fascista. Ma il fascismo non fu altro, per usare le parole di Piero Gobetti, che l'autobiografia della nazione: punto di arrivo di una storia che ebbe i propri padri fondatori nei protagonisti dell'Unità.

L'Italia federale che era nei sogni di Cattaneo e Ferrari, di Gioberti e Rosmini (ma che avrebbero voluto veder nascere anche Proudhon e Lord Acton), non scompare del tutto con la morte di questi autori. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, infatti, si ha una rinascita dell'idea federalista: per merito, in particolare, del socialista Gaetano Salvemini, del cattolico Luigi Sturzo e del liberale Luigi Einaudi.

Meridionale e convinto assertore che il Sud possa risorgere solo grazie a proprie istituzioni (capaci di responsabilizzarlo e accrescerne la maturità democratica), Salvemini riprende in forma originale la lezione di Cattaneo. A suo giudizio il federalismo permette una migliore e più efficiente democrazia: "il governo federale (...) affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche d'interesse nazionale, e così riduce al minimo la burocrazia della capitale, e permette su di essa un reale controllo del parlamento centrale; conserva alle amministrazioni locali, più vicine agli interessati, tutta la direzione della vita locale, e permette così che tutti gli affari locali siano definiti direttamente dagli organi locali elettivi". La sua convinzione è che soltanto la sconfitta di una concezione centralista del potere può permettere di sconfiggere le nuove burocrazie parassitarie, dispotiche e inefficienti.

Non distante è la posizione di Sturzo, che fin dall'inizio del secolo rivendica una maggiore libertà d'azione per le assemblee e gli amministratoti del Mezzogiorno, sottolineando il nesso che collega l'accentramento del potere a Roma e il degrado della vita civile meridionale: "la corruzione, la sopraffazione dei politicastri interessati, delle sanguisughe dei municipi, dei manutengoli della mafia e della camorra".

Come in Salvemini, anche vi è in Sturzo la convinzione che non si debba più ridurre più la società meridionale "a essere serva, terra di conquista, regione da sfruttare e da piemontizzare, come dicevasi un tempo". E questo non soltanto perché esistono differenze storico-culturali che vanno rispettate, ma soprattutto in ragione del fatto che a suo giudizio solo una vero federalismo può porre le basi per il riscatto civile ed economico del Sud.

Ecco cosa afferma: "Io sono unitario, ma federalista impenitente.

Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare l'iniziativa dei rimedi ai nostri mali;... non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord; e uniti nell'affetto di fratelli e nell'unità di regime, non nell'uniformità dell'amministrazione, seguiremo ognuno la nostra via economica, amministrativa e morale nell'esplicazione della nostra vita".

Molti decenni dopo taluni di questi temi riemergeranno in alcuni articoli di Einaudi, che dalla Svizzera del suo esilio volontario invitava a cancellare l'istituto napoleonico dei prefetti e riconosceva l'importanza di guardare all'autonomismo cantonale per ritrovarvi ispirazione ed insegnamenti. A contatto con la vita pubblica elvetica, caratterizzata da una decisa localizzazione del potere (oltre che da un frequente ricorso alla democrazia diretta) l'economista torinese colse chiaramente il carattere liberale ed anti-centralistico delle istituzioni federali. La sua indicazione, però, è stata del tutto ignorata per molti decenni.

Nell'infuriare della seconda guerra mondiale sarà però Luigi Einaudi a riattualizzare le polemiche salveminiane e sturziane contro il centralismo prefettizio. Già preoccupato di veder nascere, a guerra conclusa, un'Italia diversamente articolata e più rispettosa delle libertà dei singoli e delle comunità, Einaudi sferra un attacco ferocissimo al centralismo italiano e al potere dei prefetti, veri proconsoli alle dipendenze del ministro degli Interni. Egli scrive che una classe politica locale non si può formare "se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?". E conclude: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma".

All'Assemblea costituente, purtroppo, i fautori di una soluzione autenticamente federale furono pochissimi e i nuovi nazionalisti (ancora una volta timorosi di dover confrontarsi con spinte autonomiste o indipendentiste) riprodussero, con qualche marginale modifica, quell'impianto istituzionale centralizzato che già tanti problemi aveva causato alla società italiana. Ed una volta conclusosi il lavoro dei costituenti, di federalismo - in Italia - per molti decenni non se ne parlò più.







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