Diciamolo francamente: ancora dieci-quindici anni fa l'anomalia italiana in Europa, nel contesto comunitario, era costituita dalla presenza di una sinistra forte, assai più forte come peso specifico se non come peso assoluto che in altri paesi; oggi l'anomalia italiana consiste nel fatto che abbiamo la destra più forte e al tempo stesso più eversiva, con una componente nel suo fondo ancora sostanzialmente fascista, che aspira a governare uno dei paesi-chiave della comunità. Partire da questa premessa ci serve per cercare di capire quale rilievo sta assumendo nella cultura politica del nostro paese e nei confronti del resto d'Europa l'onda di piena del dilagante revisionismo e al tempo stesso per tentare di uscire dal dilemma paralizzante di una reazione fondata unicamente su un esasperato difensivismo o su un approccio meramente polemico. Interrogarsi sulle ragioni di quanto sta avvenendo e sui meccanismi attraverso i quali si sta compiendo una radicale trasformazione non solo di paradigmi storiografici ma di parametri di conoscenza storica può essere un modo non banale di rispondere ai molti quesiti che dobbiamo porci sia come storici sia come cittadini civilmente impegnati.
Bisogna resistere anche alla tentazione di liquidare il revisionismo
come mero fatto politico piuttosto che storiografico: sono infatti fin
troppo evidenti le connessioni con il momento e con gli sviluppi
politici di un decennio. Ma occorre tenere conto che da tali sviluppi
politici è nata una cultura tesa a smantellare i capisaldi di un
patrimonio ideale, che per troppo tempo si era sorretto su una
identificazione con l'esistenza stessa di forze e movimenti politici
della sinistra, si era estenuato nel ritualismo antifascista e aveva
impedito che si percepisse il radicale svuotamento della propria
matrice nella società, prima ancora che nelle sue proiezioni
istituzionali.
Ancora più rilevante nel radicamento di un revisionismo diffuso,
come generalizzazione di ipotesi o proposte interpretative tradotte
immediatamente in senso comune di facile percettibilità,
è stato e continua ad essere il ruolo dei mezzi di comunicazione
di massa, della stampa soprattutto quotidiana, ma principalmente della
televisione: uno spazio pubblico del quale i media si sono impossessati
consapevoli di potersi muovere in veste di monopolisti, e quindi di
potere esercitare una egemonia che ben poco diritto di replica lascia
ad altri interlocutori possibili o potenziali, a cominciare da chi fa
il mestiere dello storico.
Non è casuale il fatto che non abbia destato scandalo alcuno la
circostanza che al dibattito in sede di televisione pubblica sull'ukase
di Storace sui libri di testo non sia stato invitato alcuno storico o
uomo di scuola, ma solo politici e giornalisti, nei quali ultimi ormai
si identifica anche la figura dello storico. La complessità e
problematicità della ricostruzione storica sembra bandita a
priori da chi usa il mezzo televisivo, evidentemente non soltanto per
questioni di linguaggio (la ricorrente incapacità degli
specialisti di divulgare il sapere storico e le acquisizioni della
ricerca) ma perché turberebbe l'emissione di messaggi che non
siano semplificati e comunque rassicuranti.
Ciò detto, sono convinto che bisogna stare molto attenti a non
attribuire la caduta verticale dei valori che hanno costituito il
patrimonio politico-culturale dell'antifascismo a un qualsivoglia
complotto dell'avversario politico o di classe. Al di là di una
consapevole strategia del revisionismo, la sua diffusione e
generalizzazione a livello di senso comune deriva dalla perdita nella
coscienza pubblica di ogni attenzione per i canoni fondamentali della
valutazione storica.
Mentre il giornalista comune (anche qui con le dovute eccezioni: si
pensi a quanti si muovono dilettantescamente nel terreno dell'onirico e
dell'esoterico) sembra avere ancora rispetto nei confronti dei grandi
problemi scientifici, ai quali spesso si accosta con la prudenza e la
timidezza che si conviene ai grandi `misteri', ognuno si sente
autorizzato a interloquire in materia di storia, confondendo un dato di
esperienza, il proprio vissuto, ossia un frammento di verità,
con la realtà in assoluto, con la grande storia. A questo punto
la tensione tra storia e memoria, che non è l'ultimo degli
aspetti che rende problematica la ricostruzione degli eventi storici,
specie di quelli recenti, si dissolve nella banalizzazione del discorso
storico, nella rilevanza del singolo episodio, del dettaglio, spesso
neanche del proprio vissuto ma di quella porzione di esso che è
rimasta particolarmente impressa nella memoria e nell'esperienza di un
singolo soggetto. Intendo alludere alla perdita in una valutazione di
carattere storico di una prospettiva di lungo periodo e al tempo stesso
del significato delle fonti come base della conoscenza storica oltre
che del senso di appartenenza ad una collettività.
È difficile determinare quale sia l'origine di un fenomeno del
genere, che non si può considerare tipico di particolari
individui ma tale da connotare la stagione culturale di una intera fase
della nostra storia. Tutto questo ha sicuramente a che fare con la
caduta di grandi ideali e con la rinuncia a pensare in grande, in
termini di prospettiva storica e di orizzonte anche per il futuro;
è anche il rovescio di quella microstoria, che nella sua
applicazione più feconda ha agito da lente di ingrandimento dei
fenomeni storici, producendo fra l'altro alcuni capolavori della
storiografia, ma che nelle mani di altri manipolatori porta a una
lettura della storia interamente schiacciata non soltanto sul presente
(la perdita appunto dello spessore storico, come si dice un po'
gergalmente) ma sul proprio presente e spesso non su quanto è
realmente accaduto ma sulle sensazioni con le quali il singolo ha
vissuto o soltanto recepito l'accadimento di un determinato fatto.
La frantumazione del discorso storico è una condizione certo non
sufficiente ma tuttavia necessaria perché si possa superare la
soglia del semplice cambiamento di paradigma storiografico per
approdare allo stravolgimento e al capovolgimento totale non
dell'interpretazione ma di quella che noi consideriamo la realtà
di un processo.
Naturalmente, questa è soltanto una delle possibili vie per
cercare di capire quali sono le fondamenta anche epistemologiche del
complesso fenomeno politico-culturale nel quale ci troviamo a operare.
Tuttavia, se questa linea di rifiuto dei grandi canoni della
ricostruzione storica è riuscita a imporsi come linea
tendenzialmente dominante, non si può non cercare di
approfondire le ragioni per le quali essa finisce oggi non solo per
conquistare consensi ma per riempire anche spazi lasciati vuoti da
posizioni alternative che non esistono più. Guardando anche
soltanto al panorama della storiografia italiana dell'ultimo ventennio
non è possibile non constatare quali spazi si sono ristretti,
quali sfere di intervento si sono depotenziate, quali campi di ricerca
si sono inariditi o praticamente estinti.
L'avversario non dilaga soltanto perché c'è una
favorevole congiuntura politica, ma anche perché il rapporto tra
cultura e politica, tra storiografia e politica è radicalmente
cambiato. Se fosse cambiato soltanto un costume di subalternità
della cultura e della storiografia al potere politico il cambiamento
non potrebbe che essere positivo; ma in realtà ciò che
è cambiato è un processo di interazione tra cultura, tra
storiografia e politica, come se ai politici non interessasse
più non dico strumentalizzare la cultura e la storiografia, ma
soprattutto trarre dall'esperienza storica alimento per la stessa
politica e non soltanto ricercarne la base della loro legittimazione.
Nell'attuale fase di trasformazione e di estenuante transizione che sta
vivendo la società italiana, gli stessi politici della sinistra
sembrano non avere più bisogno di un retroterra storico. La
voluttà di azzeramento della storia non appartiene solo alla
destra, che nel recidere i legami con l'esperienza del passato trova il
terreno favorevole per radicare nuovi paradigmi, per presentarsi come
portatrice di un nuovo modo di pensare e di fare politica; ma anche per
la sinistra, incapace di rinnovarsi senza buttare a mare un patrimonio
inestimabile di elaborazioni teoriche e di esperienze politiche e
culturali, la storia sembra rappresentare un fardello troppo pesante da
sostenere.
Il movimento operaio italiano e internazionale ha commesso molti
errori, ma è proprio vero che le sue lotte hanno prodotto
soltanto crimini e cimiteri, come vorrebbe la vulgata di Berlusconi? Se
non ci si riappropria della propria storia, operando autonomamente i
ripensamenti e le revisioni critiche che appaiono necessari, come
è possibile fronteggiare quella che è ormai l'aggressione
che viene praticata giorno per giorno contro i princìpi
dell'antifascismo, contro la Resistenza, contro le tradizioni
democratiche di questo paese?
La reazione a proposte politiche che implicavano prospettive
interpretative radicalmente eversive – fosse l'abolizione della
festa del 25 aprile o la considerazione del 18 aprile 1948 come vera
data della liberazione, con l'ennesima genuflessione di uomini
cosiddetti di sinistra, pronti a riconoscere che anche per loro era
stato meglio che la Democrazia cristiana conquistasse il monopolio del
potere – è stata del tutto episodica e superficiale, non
si sa bene se per insipienza politica oltre che culturale o per il vano
miraggio di inseguire anche per questa via il mito della unificazione
delle memorie.
Non si è colto che questi difficili passaggi della nostra storia
nazionale potevano essere occasione non di accomodamenti di basso
profilo, o solo di compromessi tattici e aggiustamenti politici con
l'oscuramento di pezzi importanti del nostro patrimonio civile, ma di
una grande battaglia culturale. La tenuta di un tessuto civile e
culturale è legata anche alla capacità di riflettere
sulla propria storia e di elaborarne le esperienze, dalle quali
storicamente la sinistra trae la sua matrice e le sue ragioni d'essere.
Paradossalmente, con i suoi silenzi e la sua volontà di
conciliazione ad ogni costo anche la sinistra ha dato il suo contributo
alla diffusione di un senso comune nella lettura della nostra storia
che è la negazione di tutto ciò che si dovrebbe fare.
L'idea che anche quando si parla di storia debba esistere la par
condicio è semplicemente una forma dell'abbrutimento culturale
cui stiamo assistendo. Il riconoscere i propri errori o anche i crimini
commessi dalla propria parte non implica né l'attenuazione dei
crimini né tanto meno la legittimazione o la rilegittimazione
dell'altra parte. Si è perduto il senso della complessità
della storia ma anche della conflittualità delle posizioni che
si sono confrontate nei diversi momenti della storia d'Italia e del
mondo, come se ogni scelta fosse fungibile rispetto ad un'altra e non
comportasse invece la responsabilità che deriva dalla sua
specificità.
Riconoscere le ragioni degli altri, degli avversari, non deve in alcun
modo significare accettare la logica della equiparazione delle
posizioni, che sarebbe già una patente di subalternità.
Ecco perché limitarsi a ribattere colpo per colpo le sortite
revisionistiche, se può essere tatticamente e polemicamente
necessario, è di per sé un metodo e uno strumento
assolutamente insufficiente, se non altro perché vuol dire che
si accetta il terreno del dibattito o dello scontro imposto dall'altra
parte.
Personalmente sono convinto che si può uscire dal vicolo cieco
nel quale la pubblicistica revisionista sta conducendo il dibattito
storico-culturale – con lo scopo non di fornire nuove
interpretazioni di grandi eventi storici ma di annullare una
accumulazione di sapere e di memoria ingombrante per chi vuol fare
accettare un presente quanto più possibile svincolato da
riferimenti ideali, da precedenti di carattere storico – soltanto
cercando di riproporre la riflessione sui grandi temi della storia
nazionale e internazionale, al di fuori di ogni compiacimento tattico.
Ma il discorso sul rilancio culturale della sinistra, che è il
cuore della prospettiva che ho cercato di illustrare, ha senso soltanto
se si individuano i soggetti politici e culturali destinati a farsi
protagonisti attivi di una simile iniziativa, se il ceto politico della
sinistra avverte il bisogno di tornare ad attingere alle risorse della
propria storia non per banale strumentalizzazione o legittimazione, che
è comunque la stessa cosa, ma perché è convinto
che da lì scaturiscono componenti essenziali del proprio
patrimonio ideale e politico (la tradizione democratica e laica, lo
spirito di partecipazione e di internazionalismo, l'aspirazione alla
giustizia sociale, una visione pluralistica della società che
non espelle ma anzi include il conflitto di classe nel gioco
democratico, e così via) dal quale possa trarre nuova spinta e
nuova linfa per operare sul terreno politico oggi.
Soltanto in un contesto del genere la polemica contro il revisionismo
riacquista piena dignità culturale, rivendicando
l'attualità del nesso storiografia-politica, nella reciproca
autonomia ma con piena consapevolezza dei momenti di interazione tra le
due categorie.
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