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Fonte:
https://www.larivistadelmanifesto.it/

numero  14  febbraio 2001

Genesi del revisionismo

LA BANALIZZAZIONE DELLA STORIA

di Enzo Collotti

Diciamolo francamente: ancora dieci-quindici anni fa l'anomalia italiana in Europa, nel contesto comunitario, era costituita dalla presenza di una sinistra forte, assai più forte come peso specifico se non come peso assoluto che in altri paesi; oggi l'anomalia italiana consiste nel fatto che abbiamo la destra più forte e al tempo stesso più eversiva, con una componente nel suo fondo ancora sostanzialmente fascista, che aspira a governare uno dei paesi-chiave della comunità. Partire da questa premessa ci serve per cercare di capire quale rilievo sta assumendo nella cultura politica del nostro paese e nei confronti del resto d'Europa l'onda di piena del dilagante revisionismo e al tempo stesso per tentare di uscire dal dilemma paralizzante di una reazione fondata unicamente su un esasperato difensivismo o su un approccio meramente polemico. Interrogarsi sulle ragioni di quanto sta avvenendo e sui meccanismi attraverso i quali si sta compiendo una radicale trasformazione non solo di paradigmi storiografici ma di parametri di conoscenza storica può essere un modo non banale di rispondere ai molti quesiti che dobbiamo porci sia come storici sia come cittadini civilmente impegnati.


Bisogna resistere anche alla tentazione di liquidare il revisionismo come mero fatto politico piuttosto che storiografico: sono infatti fin troppo evidenti le connessioni con il momento e con gli sviluppi politici di un decennio. Ma occorre tenere conto che da tali sviluppi politici è nata una cultura tesa a smantellare i capisaldi di un patrimonio ideale, che per troppo tempo si era sorretto su una identificazione con l'esistenza stessa di forze e movimenti politici della sinistra, si era estenuato nel ritualismo antifascista e aveva impedito che si percepisse il radicale svuotamento della propria matrice nella società, prima ancora che nelle sue proiezioni istituzionali.


Ancora più rilevante nel radicamento di un revisionismo diffuso, come generalizzazione di ipotesi o proposte interpretative tradotte immediatamente in senso comune di facile percettibilità, è stato e continua ad essere il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, della stampa soprattutto quotidiana, ma principalmente della televisione: uno spazio pubblico del quale i media si sono impossessati consapevoli di potersi muovere in veste di monopolisti, e quindi di potere esercitare una egemonia che ben poco diritto di replica lascia ad altri interlocutori possibili o potenziali, a cominciare da chi fa il mestiere dello storico.


Non è casuale il fatto che non abbia destato scandalo alcuno la circostanza che al dibattito in sede di televisione pubblica sull'ukase di Storace sui libri di testo non sia stato invitato alcuno storico o uomo di scuola, ma solo politici e giornalisti, nei quali ultimi ormai si identifica anche la figura dello storico. La complessità e problematicità della ricostruzione storica sembra bandita a priori da chi usa il mezzo televisivo, evidentemente non soltanto per questioni di linguaggio (la ricorrente incapacità degli specialisti di divulgare il sapere storico e le acquisizioni della ricerca) ma perché turberebbe l'emissione di messaggi che non siano semplificati e comunque rassicuranti.


Ciò detto, sono convinto che bisogna stare molto attenti a non attribuire la caduta verticale dei valori che hanno costituito il patrimonio politico-culturale dell'antifascismo a un qualsivoglia complotto dell'avversario politico o di classe. Al di là di una consapevole strategia del revisionismo, la sua diffusione e generalizzazione a livello di senso comune deriva dalla perdita nella coscienza pubblica di ogni attenzione per i canoni fondamentali della valutazione storica.

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Mentre il giornalista comune (anche qui con le dovute eccezioni: si pensi a quanti si muovono dilettantescamente nel terreno dell'onirico e dell'esoterico) sembra avere ancora rispetto nei confronti dei grandi problemi scientifici, ai quali spesso si accosta con la prudenza e la timidezza che si conviene ai grandi `misteri', ognuno si sente autorizzato a interloquire in materia di storia, confondendo un dato di esperienza, il proprio vissuto, ossia un frammento di verità, con la realtà in assoluto, con la grande storia. A questo punto la tensione tra storia e memoria, che non è l'ultimo degli aspetti che rende problematica la ricostruzione degli eventi storici, specie di quelli recenti, si dissolve nella banalizzazione del discorso storico, nella rilevanza del singolo episodio, del dettaglio, spesso neanche del proprio vissuto ma di quella porzione di esso che è rimasta particolarmente impressa nella memoria e nell'esperienza di un singolo soggetto. Intendo alludere alla perdita in una valutazione di carattere storico di una prospettiva di lungo periodo e al tempo stesso del significato delle fonti come base della conoscenza storica oltre che del senso di appartenenza ad una collettività.


È difficile determinare quale sia l'origine di un fenomeno del genere, che non si può considerare tipico di particolari individui ma tale da connotare la stagione culturale di una intera fase della nostra storia. Tutto questo ha sicuramente a che fare con la caduta di grandi ideali e con la rinuncia a pensare in grande, in termini di prospettiva storica e di orizzonte anche per il futuro; è anche il rovescio di quella microstoria, che nella sua applicazione più feconda ha agito da lente di ingrandimento dei fenomeni storici, producendo fra l'altro alcuni capolavori della storiografia, ma che nelle mani di altri manipolatori porta a una lettura della storia interamente schiacciata non soltanto sul presente (la perdita appunto dello spessore storico, come si dice un po' gergalmente) ma sul proprio presente e spesso non su quanto è realmente accaduto ma sulle sensazioni con le quali il singolo ha vissuto o soltanto recepito l'accadimento di un determinato fatto.


La frantumazione del discorso storico è una condizione certo non sufficiente ma tuttavia necessaria perché si possa superare la soglia del semplice cambiamento di paradigma storiografico per approdare allo stravolgimento e al capovolgimento totale non dell'interpretazione ma di quella che noi consideriamo la realtà di un processo.


Naturalmente, questa è soltanto una delle possibili vie per cercare di capire quali sono le fondamenta anche epistemologiche del complesso fenomeno politico-culturale nel quale ci troviamo a operare.


Tuttavia, se questa linea di rifiuto dei grandi canoni della ricostruzione storica è riuscita a imporsi come linea tendenzialmente dominante, non si può non cercare di approfondire le ragioni per le quali essa finisce oggi non solo per conquistare consensi ma per riempire anche spazi lasciati vuoti da posizioni alternative che non esistono più. Guardando anche soltanto al panorama della storiografia italiana dell'ultimo ventennio non è possibile non constatare quali spazi si sono ristretti, quali sfere di intervento si sono depotenziate, quali campi di ricerca si sono inariditi o praticamente estinti.


L'avversario non dilaga soltanto perché c'è una favorevole congiuntura politica, ma anche perché il rapporto tra cultura e politica, tra storiografia e politica è radicalmente cambiato. Se fosse cambiato soltanto un costume di subalternità della cultura e della storiografia al potere politico il cambiamento non potrebbe che essere positivo; ma in realtà ciò che è cambiato è un processo di interazione tra cultura, tra storiografia e politica, come se ai politici non interessasse più non dico strumentalizzare la cultura e la storiografia, ma soprattutto trarre dall'esperienza storica alimento per la stessa politica e non soltanto ricercarne la base della loro legittimazione.


Nell'attuale fase di trasformazione e di estenuante transizione che sta vivendo la società italiana, gli stessi politici della sinistra sembrano non avere più bisogno di un retroterra storico. La voluttà di azzeramento della storia non appartiene solo alla destra, che nel recidere i legami con l'esperienza del passato trova il terreno favorevole per radicare nuovi paradigmi, per presentarsi come portatrice di un nuovo modo di pensare e di fare politica; ma anche per la sinistra, incapace di rinnovarsi senza buttare a mare un patrimonio inestimabile di elaborazioni teoriche e di esperienze politiche e culturali, la storia sembra rappresentare un fardello troppo pesante da sostenere.

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Il movimento operaio italiano e internazionale ha commesso molti errori, ma è proprio vero che le sue lotte hanno prodotto soltanto crimini e cimiteri, come vorrebbe la vulgata di Berlusconi? Se non ci si riappropria della propria storia, operando autonomamente i ripensamenti e le revisioni critiche che appaiono necessari, come è possibile fronteggiare quella che è ormai l'aggressione che viene praticata giorno per giorno contro i princìpi dell'antifascismo, contro la Resistenza, contro le tradizioni democratiche di questo paese?


La reazione a proposte politiche che implicavano prospettive interpretative radicalmente eversive – fosse l'abolizione della festa del 25 aprile o la considerazione del 18 aprile 1948 come vera data della liberazione, con l'ennesima genuflessione di uomini cosiddetti di sinistra, pronti a riconoscere che anche per loro era stato meglio che la Democrazia cristiana conquistasse il monopolio del potere – è stata del tutto episodica e superficiale, non si sa bene se per insipienza politica oltre che culturale o per il vano miraggio di inseguire anche per questa via il mito della unificazione delle memorie.


Non si è colto che questi difficili passaggi della nostra storia nazionale potevano essere occasione non di accomodamenti di basso profilo, o solo di compromessi tattici e aggiustamenti politici con l'oscuramento di pezzi importanti del nostro patrimonio civile, ma di una grande battaglia culturale. La tenuta di un tessuto civile e culturale è legata anche alla capacità di riflettere sulla propria storia e di elaborarne le esperienze, dalle quali storicamente la sinistra trae la sua matrice e le sue ragioni d'essere. Paradossalmente, con i suoi silenzi e la sua volontà di conciliazione ad ogni costo anche la sinistra ha dato il suo contributo alla diffusione di un senso comune nella lettura della nostra storia che è la negazione di tutto ciò che si dovrebbe fare.


L'idea che anche quando si parla di storia debba esistere la par condicio è semplicemente una forma dell'abbrutimento culturale cui stiamo assistendo. Il riconoscere i propri errori o anche i crimini commessi dalla propria parte non implica né l'attenuazione dei crimini né tanto meno la legittimazione o la rilegittimazione dell'altra parte. Si è perduto il senso della complessità della storia ma anche della conflittualità delle posizioni che si sono confrontate nei diversi momenti della storia d'Italia e del mondo, come se ogni scelta fosse fungibile rispetto ad un'altra e non comportasse invece la responsabilità che deriva dalla sua specificità.


Riconoscere le ragioni degli altri, degli avversari, non deve in alcun modo significare accettare la logica della equiparazione delle posizioni, che sarebbe già una patente di subalternità. Ecco perché limitarsi a ribattere colpo per colpo le sortite revisionistiche, se può essere tatticamente e polemicamente necessario, è di per sé un metodo e uno strumento assolutamente insufficiente, se non altro perché vuol dire che si accetta il terreno del dibattito o dello scontro imposto dall'altra parte.


Personalmente sono convinto che si può uscire dal vicolo cieco nel quale la pubblicistica revisionista sta conducendo il dibattito storico-culturale – con lo scopo non di fornire nuove interpretazioni di grandi eventi storici ma di annullare una accumulazione di sapere e di memoria ingombrante per chi vuol fare accettare un presente quanto più possibile svincolato da riferimenti ideali, da precedenti di carattere storico – soltanto cercando di riproporre la riflessione sui grandi temi della storia nazionale e internazionale, al di fuori di ogni compiacimento tattico.


Ma il discorso sul rilancio culturale della sinistra, che è il cuore della prospettiva che ho cercato di illustrare, ha senso soltanto se si individuano i soggetti politici e culturali destinati a farsi protagonisti attivi di una simile iniziativa, se il ceto politico della sinistra avverte il bisogno di tornare ad attingere alle risorse della propria storia non per banale strumentalizzazione o legittimazione, che è comunque la stessa cosa, ma perché è convinto che da lì scaturiscono componenti essenziali del proprio patrimonio ideale e politico (la tradizione democratica e laica, lo spirito di partecipazione e di internazionalismo, l'aspirazione alla giustizia sociale, una visione pluralistica della società che non espelle ma anzi include il conflitto di classe nel gioco democratico, e così via) dal quale possa trarre nuova spinta e nuova linfa per operare sul terreno politico oggi.


Soltanto in un contesto del genere la polemica contro il revisionismo riacquista piena dignità culturale, rivendicando l'attualità del nesso storiografia-politica, nella reciproca autonomia ma con piena consapevolezza dei momenti di interazione tra le due categorie.



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