Siamo d’accordo con Tremonti: una banca per il Mezzogiorno ci vuole; ci
vuole finanza privata che sostituisca quella pubblica che non ha
funzionato. Dopo gli errori e gli sperperi della Casmez, della legge
64, della 488 e della programmazione negoziata, sotto l’occhio vigile
di Bruxelles che tiene di mira il nostro debito pubblico, il Governo in
carica ha deciso di tagliare i contributi alle aree depresse, che da
questo momento hanno, per ovvia conseguenza, solo la possibilità
di deprimersi ancora un po’.
Ad ogni modo, se il denaro pubblico non viene più giù dal
cielo sotto forma di contributi, è venuto il momento di farne
girare un po’ secondo le regole del mercato. E una banca vuol dire
mercato, ché, lo abbiamo visto in più d’un’occasione – in
Italia e all’estero - se una banca non si inchina al mercato, esce dal
mercato.
D’accordo dunque con Tremonti, anche se poteva svegliarsi prima, magari
quando contava di più. Non siamo, invece, d’accordo con quelli –
soprattutto banchieri e industriali – che hanno approfittato
dell’occasione per riaprire il processo al Banco di Napoli e per
osannare le scelte di facciata delle banche del centro-Nord.
Non condividiamo l’affermazione che Il Banco di Napoli è
crollato perché ha fatto credito senza guardare a fondo al
merito creditizio, perché se lo ha fatto il Banco lo hanno fatto
anche gli altri, come hanno dimostrato i bilanci delle maggiori banche
italiane nei due-tre anni successivi alla scomparsa del Banco, e
perché i forti recuperi della SGA (la bad bank del Banco di
Napoli) hanno dimostrato che in quel calderone era finito di tutto, dai
crediti in decomposizione a quelli in perfetto stato di salute; con la
benedizione della Banca d’Italia.
Non è neanche vero che Sanpaoloimi, creando il Sanpaolo Banco di
Napoli, la denominazione e il radicamento territoriale lo ha
conservato. Se il Sanpaolo avesse inteso conservare denominazione e
radicamento avrebbe fatto come per le banche della galassia Cardine,
che, dopo la fusione della loro holding con Sanpaoloimi, hanno
conservato la denominazione originaria – senza l’aggiunta “Sanpaolo” –
e una considerevole autonomia, fatta anche di manager di casa, in
posizioni chiave anche nella capogruppo Sanpaolo. Al contrario, al Sud
il personale è stato fortemente marginalizzato, gestito in
maniera standard ed in quanto ad autonomia non se ne vede neppure
l’ombra. Quindi i risultati, pur positivi, raggiunti in questi mesi per
essere strutturali devono essere accompagnati da una diversa governance
della Banca.
Abbiamo letto che l’amministratore delegato del gruppo Sanpaolo ha
detto che al Sud non servono le banche, serve il capitale di rischio e
che se nascesse una società del genere, noi come Sanpaolo
saremmo pronti a sostenerla. Ma come dimenticare che Sanpaolo gestisce
un fondo chiuso per la promozione del capitale di rischio nel
Mezzogiorno, che di fatto il capitale di rischio invece di promuoverlo
l’ha bocciato? Che in due anni ha investito solo pochi spiccioli e per
giunta in imprese che di fatto tutto sono tranne che del Sud? E come
dimenticare che la Società di gestione del risparmio che
gestisce questo Fondo ha da poco eliminato dalla ragione sociale il
termine “Mezzogiorno”?
E veniamo alle proposte serie, che auspicano la creazione di una banca
che sappia stare sul mercato e che dunque abbia nel capitale non solo
lo Stato, ma anche investitori istituzionali “forti”, come banche
straniere e istituzioni sovranazionali.
E perché la Cassa Depositi e Prestiti, ultima trovata del
Governo Italiano per giocare un po’ col debito pubblico, dovrebbe
comprare azioni di Stm, una multinazionale che è il quarto
produttore mondiale di chip, o di Terna, un’utility a rischio zero che
non ha certo bisogno dei soldi del risparmio postale per trovare
compratori interessati? La CDP potrebbe investire una quota marginale
delle proprie risorse nella creazione della banca per il Sud, o magari
assisterla con garanzie che ne tengano alto il rating.
In sintesi, la ricetta è semplice ed è fatta di tre
ingredienti miscelati con sapienza: a) fra gli azionisti devono esserci
grandi istituzioni pubbliche e private, italiane e straniere, b)
un’operatività a 360 gradi, dalla raccolta al capitale di
rischio, c) la presenza di manager locali, indipendenti e dal track
record brillante. E ce ne sono. Tanti.
Così facendo le banche del Nord (soprattutto quelle che hanno
sostenuto investimenti consistenti e che giustamente attendono un
adeguato ritorno reddituale) comprenderebbero meglio che il futuro del
territorio e della banca sono strettamente connessi e che questa
reciprocità debba essere assunta come un valore, più che
come un vincolo.
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