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https://www.liberalfondazione.it/archivio/Fl.htm

Contro il meridionalismo

di Mauro Maldonato

È ora di voltar pagina e di superare la filosofia che finora ha egemonizzato la cultura e la politica italiane

Ad oltre un secolo dall'unificazione nazionale il destino del Mezzogiorno è ancora immutato. Il divario economico e sociale con il resto del Paese è ormai divenuto una secessione di fatto.

Se la fine del Novecento ha evidenziato l'inconsistenza delle classi dirigenti nazionali, ha messo a nudo il fallimento culturale e politico dei ceti dirigenti meridionali. Il loro intero patrimonio concettuale è stato sconfessato dagli eventi. Intere biblioteche di previsioni, linee di tendenza, programmi, attese, sono divenute carta straccia.

Il meridionalismo, l'autobiografia intellettuale e politica delle classi dirigenti meridionali, si è rivelato per quello che è stato: un'ideologia della dipendenza e della irresponsabilità, la storia di un sistema di protezione e di una periferia politica.

L'unificazione nazionale, la conquista militare senza libertà costituzionale - che ha fatto del Mezzogiorno una realtà di province subordinate a un potere centralizzato rigido e distante - pesa ancora come una cappa di piombo sull'avvenire dei meridionali.

Tuttavia, molte delle mitografie di ieri, a cominciare dalla stessa periodizzazione storica, vengono oggi messe in questione.

Da più parti, in sede storiografica, si ammette che l'annessione del Mezzogiorno venne portata a termine effettivamente solo nel 1870, alla fine della decennale guerra civile combattuta da bande legittimiste, briganti, contadini in rivolta contro un terzo delle forze armate piemontesi.

Al termine, cioè, dello stato d'assedio e della militarizzazione dell'intero territorio meridionale stabilito dalla legge Pica (1863).

Dopo il sangue e il piombo di un'unificazione nazionale manu militari, nasce la questione meridionale. E, con essa, il meridionalismo: l'ideologia fondata sulla tesi che il Meridione, dopo il lungo malgoverno borbonico che ha impoverito il Sud, sarebbe stato sollevato dai suoi endemici mali solo attraverso le cure di un governo energico e illuminato, come quello unitario nazionale.

L'unificazione, insomma, avrebbe risolto di per sé la questione meridionale. La strategia del governo dello Stato unitario è, infatti, di rigoroso accentramento. La motivazione era forte ed esplicita: il Mezzogiorno non può essere abbandonato a se stesso.

La società meridionale, corrotta in profondità dal potere politico, non è in grado di autogovernarsi.

Concedere al Mezzogiorno un sistema federale avrebbe significato non solo rinviare la soluzione del problema, ma soprattutto mettere a repentaglio la stessa unità dello Stato italiano, lasciando il Sud esposto a un malessere sociale potenzialmente pericoloso.

La retorica unificazionista ebbe gioco facile.

Il Mezzogiorno appariva predisposto a una struttura unitaria e centralizzata. La sua storia era priva di esperienze plurali - cittadine, comunali, regionali - legate a una borghesia produttiva.

Le vicende delle sue città di provincia, dei suoi borghi contadini, erano segnate da subordinazione, dipendenza, assenza di autonomia. Mancavano del tutto élites in senso moderno. I suoi ceti dirigenti erano costituiti da oligarchie locali con una forte propensione a mediare con il potere centrale e i funzionari del re.

La nazionalizzazione dall'alto compiuta dal Regno d'Italia attraverso la conquista militare, la gestione poliziesca dei prefetti piemontesi, la costruzione organica del meccanismo politico-amministrativo più accentrato d'Europa, rendevano necessaria una forte identificazione dei popoli italiani con l'ideologia dello stato-nazione.

Questa missione venne assunta e portata a compimento con l'apporto determinante del pensiero politico e filosofico storicistico.

La stragrande maggioranza degli intellettuali meridionali assunse come proprio vocabolario di identità l'unitarismo e il centralismo, lavorando alacremente, da un lato, alla nazionalizzazione italiana e, dall'altro, alla denazionalizzazione di quella napoletana.

La loro disponibilità venne remunerata con la promozione a funzionari della cultura del nuovo Stato nazionale. L'ideologia della questione meridionale ebbe questi valori fondativi.

Da questo baratto discenderanno la meridionalizzazione della burocrazia nazionale e la completa indifferenza della popolazione meridionale nei confronti della pedagogia di una minoranza di intellettuali nazionalizzati.

L'unico serio progetto di decentramento razionale - quello di Marco Minghetti - verrà liquidato dai governi della destra storica, con l'adozione definitiva di un sistema di totale accentramento.

Anche quando al Nord nascerà un riformismo moderato, al Sud la continuità del sistema di corruzione e di intimidazione sarà palese: per Gaetano Salvemini, Giolitti sarà «il ministro della malavita» e «il mandante dei mazzieri».

Il fascismo, più tardi, decreterà, con la sua mistica della nazione, la fine della questione meridionale, ma realizzerà una forte meridionalizzazione della burocrazia nazionale e, insieme, il primo organismo di economia pubblica pianificata, l'Iri.

Nel secondo dopoguerra, il meridionalismo si salderà esplicitamente al collettivismo marxista. Collante dei partiti ciellenisti era una collettivizzazione programmatica.

Se ne trovano tracce evidenti nella Costituzione del 1947, organicamente dirigista in economia e quindi centralista.

Ancora una volta, come nel 1861, le istanze autonomiste e federaliste vengono espulse dalle scelte costituzionali.

Il vecchio centralismo unitario si rafforza, con la marginale concessione delle Regioni a statuto speciale e il rinvio ventennale delle regioni a statuto ordinario.

Con la guerra fredda, prende corpo una poderosa statalizzazione delle democrazie, come meccanica conseguenza della lotta contro il totalitarismo sovietico.

La sovraesposizione geopolitica, lo scarso radicamento interno della sua giovane democrazia, la rigida inclusione nello scacchiere di Yalta, fanno dell'Italia un Paese dove la guerra fredda rischia di trasformarsi in una guerra civile calda.

Al di la delle dinamiche internazionali, per scongiurare tutto questo e limitare lo scontro solo sul terreno ideologico, si mette mano a una potente strategia di interventismo statale (in nome della solidarietà) con la programmatica limitazione del mercato e delle libertà individuali.

L'Italia fornisce uno degli esempi più fulgidi di regime di welfare-warfare. Il 18 aprile 1948 la Dc vince contro il pericolo del comunismo. Ma anche se vince in nome dei valori cristiani, della difesa della proprietà e dei diritti della persona, scenderà presto sullo stesso terreno socialista con un'organica politica interventista-welfarista.

Non a caso, le figure più importanti del partito democristiano, personalità liberali come De Gasperi e Sturzo, verranno emarginate.

Il termine democristiano assumerà progressivamente connotazioni negative divenendo sinonimo di assistenzialismo statale e il partito stesso si strutturerà come i partiti di massa di sinistra.

Asse di saldatura tra l'assistenzialismo-clientelismo democristiano e il collettivismo dei partiti di sinistra è la questione meridionale.

Su questo terreno, nasce e si espande una classe dirigente meridional-nazionale a Roma e dispensatrice di risorse pubbliche in periferia: una vera e propria nomenklatura, selezionata da un sistema di cooptazione, nemica di ogni forma di concorrenza e di ogni idea di libertà.

L'embrassez nous statalista produce continui accordi tra la maggioranza governativa e la forte minoranza di sinistra, che riguarderanno l'80% della legislazione.

L'assenza della normale competizione tra governo e opposizione renderà impossibile qualsiasi coerenza ed efficacia legislativa. I danni saranno enormi.

Al Sud, i vantaggi clientelari derivati da provvidenze, pensioni, interventi a pioggia, saranno massimi per i patronati, minimi per i beneficiati, disastrosi per una larga maggioranza della popolazione meridionale.

Gli interventi della mano pubblica presenteranno costi altissimi in termini di corruzione di sistema, emigrazione, arretratezza civile, gap culturale e formativo, potere delle organizzazione criminali.

Anche se tutto verrà fatto in nome della eterna questione meridionale, sarà proprio lo sviluppo del Mezzogiorno ad esserne la prima vittima.

Va detto che sotto la voce meridionalismo sono stati inclusi pensatori e personalità meridionali che hanno saputo esprimere scelte chiare, senso di responsabilità, autonomia: Salvemini, Sturzo, De Viti De Marco e, ancor prima, il fecondo illuminismo dei Genovesi, Galiani, Filangieri.

Questi stessi uomini sono stati definiti meridionalisti: e, talvolta, si sono definiti tali. Ma il loro meridionalismo - quello di Salvemini, Sturzo, De Viti De Marco - è stato meridionale e non unitario, responsabile, etico.

La loro critica della coercizione unitaria e dei vizi meridionali è stata radicale, a volte spietata, da meridionali integri che hanno opposto un rifiuto netto della logica unitaria statale e del servilismo.

Tutto questo, però, non muta il giudizio su ciò che è stato il meridionalismo nel lungo periodo: e cioè un formidabile strumento di rendita politica e clientelare, un mezzo attraverso il quale il sistema di potere dello Stato italiano ha subordinato le province meridionali e sottratto larghe quote di ricchezza produttiva all'economia privata del Nord.

Di fatto s'è rivelato una strategia antimeridionale realizzata attraverso un mix di secessione economica e sociale e di rigida dipendenza da una struttura centralizzata.

I suoi frutti avvelenati sono la pesantezza burocratica, l'inflazione legislativa, l'economia amministrata e regolamentata, il volume abnorme del debito pubblico, la pressione fiscale, il ruolo delle organizzazioni criminali.

Nonostante un bilancio così fallimentare, il colossale vuoto di legittimazione, la classe politica governante non sembra affatto intenzionata a mettere in discussione la propria sovranità.

Così, la pervicace difesa della Costituzione vigente (che ha visto e vede i meridionalisti in prima fila) impedisce anche quel funzionalismo minimo che consentirebbe il passaggio almeno da un centralismo accentrato a uno decentrato.

Queste ossificazioni fanno impallidire il modello costituzionale italiano anche al confronto con quello tedesco, che federalista non è (in quel modello tedesco i Lander restano subordinati al Bundestaat).

Nella storia della Germania, infatti, la centralizzazione operata di fatto dal Primo Reich degli Hohenzollern e di Bismarck non cancellò gli stati pre-unitari.

Al contrario, in quella italiana l'unificazione nazionale ha la sua eroica genealogia nelle province prefettizie, nei sindaci di nomina regia, nell'estensione meccanica dei codici e dello statuto sardo-piemontese a tutti i territori annessi.

Una soluzione, insomma, più prussiana del Re di Prussia.

Il fascismo erediterà, dunque, uno stato ipercentralizzato, rinforzandolo attraverso il passaggio a un regime compiutamente illiberale.

Ai danni determinati da tali scelte, sperimentati lungo tutto l'arco della storia italiana, si aggiungono oggi i problemi derivanti dalla sovrapposizione sulla struttura burocratica dello stato italiano delle normative e dei poteri di un altro centralismo: quello di Bruxelles, ancora più astratto e distante. Strutture così verticistiche diventano del tutto incompatibili con la libertà dell'economia, con le imprese a rete, gli stili di vita, la difesa della famiglia, i valori religiosi, il riconoscimento delle diversità, le libertà associative.

Queste istanze radicali rendono più acuta e diffusa la delegittimazione morale dell'intera classe politica nazionale e sollecitano le domande di indipendenza territoriale nelle regioni più produttive del Paese. Ma se, al Nord, la classe politica è apertamente contestata, al Sud continua ad esercitare il proprio dominio.

Al Nord, infatti, la cultura dell'individuo, l'autonomia della società civile, la produzione di ricchezza, fanno da argine all'invadenza dello Stato. Nel Sud a carico pressoché totale del bilancio pubblico, l'infezione statalista galoppa inarrestabile, anche contro la storia. Eppure, ovunque, le spinte di un'Italia plurale e disomogenea vanno progressivamente imponendosi negli eventi e nell'opinione pubblica.

Contro i dogmi di ieri, si fanno strada le interrogazioni, le critiche e le problematizzazioni di oggi. Si pensi, solo per citarne alcuni, ai temi di Gian Enrico Rusconi in Se cessiamo di essere una Nazione o alle tesi radicali di Sergio Salvi in L'Italia non esiste. Pensare l'Italia attraverso categorie unitarie, come nazione omogenea, è impossibile.

La civiltà italiana è stata sempre una molteplicità di storie plurali. Le storie dei Comuni e delle Signorie sono state luminosamente plurali: civiltà abissalmente distanti da ogni idea monocentrica, storie evolutive che verranno spezzate dal dominio degli Stati imperiali e, successivamente, dallo stato unitario nazionale. Origina da qui il potente contromovimento che sarà all'origine dell'arretratezza italiana.

Costruito dentro lo schema fantasmatico di una Italia omogenea, il meridionalismo è stato, dunque, per storia, natura e vocazione, interamente centralista e unitario: un errore lungo più di un secolo che ha dato origine a fenomeni sociali ed economici di corruzione sistemica e sistematica, di mediazione incessante, di parassitismo crescente.

Sarebbe miope, tuttavia, trattare questa materia con le categorie di un rozzo determinismo sociobiologico.

Sostenere, infatti, la tesi di una diversità antropologica meridionale equivale a ripetere il simmetrico errore della retorica giacobina sull'uguaglianza di tutti gli uomini e sulla cittadinanza generale, che ha negato, livellato e conculcato le differenze individuali e territoriali interne. Come è ovvio, gli uomini meridionali non sono eguali tra loro.

Nelle sue varianti di destra e di sinistra, il meridionalismo è stato un blocco politico-sociale-culturale indifferenziato, che ha moltiplicato i vizi dei meridionali, ne ha soffocato le virtù ed ha accreditato l'immagine di un Mezzogiorno eterna appendice di uno stato-nazione.

Era perfettamente conseguente che tutto questo dovesse dar vita a un poderoso meccanismo di diritti-spettanze, di consumo parassitario di tasse sottratte all'economia produttiva, che ha ostacolato la nascita di un sistema produttivo e di sviluppo capace di competere.

Paralizzati nel loro provincialismo servile e nella immorale dipendenza dalle casse dello Stato nazionale e del super-Stato europeo, gli esponenti meridionalisti continuano a negare l'unico luogo in cui i meridionali possano decidere strategie e relazioni con altre comunità: una sede istituzionale di rappresentanza, con una propria sfera di governo indipendente, per stare con un proprio profilo nella rivoluzione delle aspettative crescenti, nei fenomeni di interdipendenza tecnologica di un mondo a cambiamento veloce.

Delegittimato sul piano culturale e morale, fallimentare su quello politico ed economico, bersagliato dalle popolazioni produttiva del Nord, il meridionalismo pervade ancora, nelle forme aggiornate di pianificazione centralizzata e decentrata (Sviluppo Italia, Agenda 2000, patti territoriali, contratti d'area, eccetera), l'attuale paesaggio meridionale.

La nuova stagione della spesa pubblica non riesce a imitare neppure gli strumenti più sofisticati dei Lander tedeschi e dell'Agenzia gallese.

Siamo al punto che ogni annuncio di decine o centinaia di miliardi di nuovi «investimenti pubblici» per il Sud, viene considerato dall'opinione pubblica più attenta come l'annuncio di una catastrofe.

Si continua fatalmente a pensare che esistano «investimenti pubblici». Ma non solo la loro reale esistenza non è mai stata provata (ci sono infatti solo voci di spesa pubblica, dati di incremento del debito pubblico), ma questi stessi calcoli sono politici e di «giustizia sociale», per nulla economici.

Presentano, cioè, la malattia di sempre del socialismo come hanno dimostrato, sin dagli anni '20, Mises e Hayek.

Particolare importanza assume, ai fini di tale discorso, la questione criminale nel Mezzogiorno.

Contrariamente alle viete rappresentazioni politiche di sempre che individuano nell'assenza dello Stato le cause del potere e dell'espansione criminale, i dati storici, strutturali e i comportamenti quotidiani dimostrano che il potere della camorra e della mafia è provocato e rafforzato dalla realtà pre-capitalista e dalla mentalità anticapitalista, così diffuse nel Mezzogiorno.

La criminalità organizzata controlla, infatti, con la violenza, parti del territorio e della popolazione proprio in regioni a struttura di economia amministrata e pianificazione pubblica: quei territori appunto dominati da quelle relazioni di comando-obbedienza e di protezione-fedeltà, che sono proprie sia delle clientele politiche che delle gerarchie criminali.

Se diagnosi e terapia sono sbagliate, anzi invertite, non deve dunque sorprendere l'espansione delle bande criminali, l'inefficacia di tanti interventi di polizia, l'inanità di tante campagne di «educazione alla legalità».

Questa strada, che sollecita una sempre ulteriore produzione legislativa, ingessa ancor più l'iniziativa dei cittadini, determinando un controllo (senza sicurezza) della parte sana della popolazione meridionale.

Non si vede, al contrario, che solo il vento pulito della concorrenza e di un diritto di regole di condotta, può essere l'antidoto efficace al veleno criminale. Che tutto questo sia avvenuto lo si vede dai danni e dalle devastazioni. Che avvenga ancora chiarisce a qual punto sia compromesso l'esame di realtà delle classi dirigenti del Paese, quanto profonda sia la loro separatezza dalle storie di milioni di uomini meridionali.

Non ci si accorge nemmeno che, in nome della necessità della tutela governativa e di una pervasiva mano pubblica, l'avvenire del Mezzogiorno è interdetto da una drammatica sindrome da assenza di futuro.

Vanno via, così, gli anni decisivi della concorrenza internazionale, le nuove ondate di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche.

Al punto in cui siamo, senza un drastica inversione di rotta, una conversione di idee e condotte umane, senza una autonoma produzione di ricchezza, senza consapevolezza geopolitica, il Mezzogiorno resterà una mera espressione geografica.

La fine ingloriosa dello storicismo e di ogni idolatria della storia sembra aver spinto gli intellettuali meridionali ad abbandonarsi a una deriva impotente, a un conformismo acritico, al servo encomio dei potenti di turno, alla chiusura irrigidita verso ogni innovazione concettuale.

Nessuna visione, nessuna idea. Neanche l'intenzione di un'idea. Una grande cristallizzazione avvolge la cultura meridionale come un sudario. Ma c'è di che sperare.

La fine dello storicismo segna anche la fine del meridionalismo e questo, oggi, rende possibile il riconoscimento dei meridionali alla propria diversità, della singolarità dei loro nomi e dei loro volti, della scelta e della responsabilità delle loro decisioni, delle risorse del loro territorio, della libertà delle loro creazioni dai vincoli e dalle omologazioni nazionali ed europei, per un proprio modello di sviluppo.

Su questa strada, a partire dal Mezzogiorno, l'Italia potrà riconoscersi per quello che è: una nazione composita e pluralizzata, che può diventare una nazione per consenso, una nazione libera, secondo le volontà dei suoi cittadini e dei suoi popoli. Ma questo potrà accadere solo se sarà in grado di destatalizzarsi, riconoscendo la sua varietà, la sua pluralità interna e i diritti degli individui in nuove strutture istituzionali e costituzionali.

Mauro Maldonato insegna alla Seconda Università di Napoli








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