Dino Cofrancesco
Da diversi anni la crisi cronica in cui versa—e non solo in Italia-- lo Stato nazionale e la comparsa al Nord di un movimento come la Lega hanno portato, anche nel Sud, storici e pubblicisti a ripensare la vicenda unitaria, i modi in cui si è pervenuti all’indipendenza, il trattamento riservato alle regioni meno evolute.
Ormai non si contano più gli scritti che rifanno, ancora una
volta, il processo al Risorgimento e rievocano le grandi figure della
cultura meridionale e non solo settentrionale, che criticarono, anche
aspramente, i modi e i tempi dell’unificazione. E, in effetti, furono
non poche le cose andate storte: dalla svendita dei beni ecclesiastici
e demaniali, che non convertì certo gli acquirenti borghesi in
moderni imprenditori agrari (anche se i loro risparmi bancari
contribuirono a quella che i marxisti chiamano l’<accumulazione
primitiva>) all’insorgere della cosiddetta questione meridionale’;
dagli obblighi imposti dall’acquisito status di grande potenza(spese
per gli armamenti, impegni di politica estera, accresciuto senso di
insicurezza etc.) alla mancata trasformazione in cittadini di
popolazioni rurali premoderne che conoscevano, sì, la miseria ma
venivano ignorate da governi lontani e neghittosi—ovvero lasciate in
balia di signorotti e notabili locali spesso ignoranti e prepotenti ma
pur protettivi all’interno di codici clientelari.
Parlando delle <manifestazioni di recupero dell’identità
meridionale—non solo borbonica—che precedette e successivamente
avversò l’Unità d’Italia>, Paolo Mieli, ad esempio, ha
criticato Giuseppe Galasso <il quale ha bollato questo genere di
iniziative come per metà folcloristiche e per metà di
nessuno spessore culturale>. Una <serena discussione> con i
promotori di tali iniziative, ha rilevato, va pur fatta. E va <fatta
nello spirito di chi è disposto a riconoscere qualche torto dei
vincitori e qualche ragione dei vinti. Che è lo spirito giusto
per occuparsi, bene, di storia>.
Nulla da eccepire sul piano del metodo, sennonché ,ci si chiede,
i grandi meridionalisti del passato—dal liberal-conservatore Giustino
Fortunato al comunista Antonio Gramsci—non avevano già
ricordato, spesso con un’efficacia stilistica pari alla passione
etico-politica che li animava, le ragioni dei vinti? O ve ne sono altre
che ad essi sfuggivano e che la nuova storiografia non
pregiudizialmente antiborbonica sta facendo emergere?
In realtà, dietro tanto odierno fervore revisionistico, vi
è qualcosa che con la ricerca e la scienza non ha nulla a che
vedere: la rimessa in discussione dell’unità d’Italia, con lo
scontato ritorno del vieto ritornello della conquista regia.
Beninteso, nessuno nega che i piemontesi abbiano avuto, per così
dire, la mano pesante: dalla repressione di quella autentica guerra
civile che fu il brigantaggio meridionale ai nuovi pesi fiscali imposti
alle due Sicilie, dalla carta bianca concessa alle ciniche borghesie
emergenti (i Calogero Sedara del Gattopardo) alla netta subordinazione
delle campagne del Sud alle esigenze dello sviluppo industriale del
settentrione.
Né può essere negato che, a indurre Vittorio Emanuele II
a mandare in esilio il cugino Franceschiello, fosse, più che la
volontà della nazione, una inappagata ambizione dinastica
portata a legare la potenza all’estensione territoriale.
E, tuttavia, ciò riconosciuto, vi sono altri aspetti del
problema non proprio trascurabili.
Innanzitutto, l’ampia saggistica, che oggi ripropone il processo al Risorgimento pare poco disposta a riflettere sul nostro peccato d’origine, ovvero sulle circostanze—sfortunate—che da noi fecero coincidere i due processi cruciali della modernizzazione politica: la costruzione dello Stato—ovvero di apparati di ordine forti e capillari—e la costruzione della nazione—ovvero di quel consenso dato alle istituzioni che trasforma i sudditi in cittadini. (In Francia, tanto per fare l’esempio più classico, i monarchi, i loro grands commis, i cardinali costruirono lo Stato e l’89, Napoleone, i ministri e intellettuali della Troisième République costruirono, secoli dopo, la Nazione..)
Di qui il pericolo, sempre in agguato, dell’ideologismo, pericolo
opposto allo storicismo—che tutto giustifica anche i delitti commessi
in passato—ma non meno grave giacché rischia di trasformare la
ricerca storica nel dossier di un GIP aggressivo.
Non è poco significativo che rispondendo, nel 1952, alla
domanda: Fu l’Italia prefascista una democrazia?, Gaetano Salvemini, il
grande storico pugliese che, nei primi anni del ‘900, inalberò
la bandiera del federalismo e della democrazia, contro lo Stato
unitario monarchico accentratore e insensibile alla democrazia delle
autonomie, rilevava : <Bisognava creare un’amministrazione civile,
un esercito, una flotta, un sistema tributario e scolastico, per popoli
vissuti per dodici secoli sotto governi separati, con consuetudini
eterogenee>.
E concludeva: <se si ignorano i punti di partenza, non si possono
apprezzare equamente i punti di arrivo>. Salvemini era meridionale e
non a caso erano meridionali i teorici più intransigenti (e a
lui, liberale di stampo anglosassone, invisi) dello Stato unitario—gli
hegeliani di Napoli (v. soprattutto i fratelli Bertrando e Silvio
Spaventa, parenti e protettori di Benedetto Croce), <liberali di
destra>, non nel senso odierno della passione per il mercato ma,
all’opposto, per il loro statalismo quasi dirigistico (la Destra
storica cadde sul progetto di nazionalizzazione della rete
ferroviaria..)
In secondo luogo, va ricordato che le dinastie vinte—di cui vanno,
certo, ascoltate le ragioni— apparvero ai grandi viaggiatori stranieri
dell’età romantica—l’Ottocento è il secolo, per
antonomasia, del Grand Tour-- governi indegni di far parte del
consorzio delle nazioni civili. Si pensi solo ai Borbone di Napoli che,
alla fine del Settecento, diedero prova di tale efferatezza, nella
repressione di una delle più elette classi intellettuali della
penisola (i martiri della Repubblica Partenopea), da fare inorridire
quel noto filantropo che era lo zar di tutte le Russie.(<Cugino, in
tal modo, state decapitando la testa pensante del Vostro Regno!>).
In realtà, gli stati più estesi della penisola—quello
Pontificio e il Regno delle Due Sicilie—non contenevano significativi
germi di progresso culturale ed economico, né a livello
istituzionale, né a livello sociale. Non a caso le loro classi
intellettuali non elaborarono, neppure a unificazione avvenuta, alcuna
teorica federalista che non fosse ancorata a vecchi privilegi storici o
proiettata in avanti nell’inseguimento di utopie rivoluzionarie o
sindacalistico-rivoluzionarie.
Persino in un volume collettivo di qualche anno fa-- curato da Leonardo
La Puma, Il federalismo nella cultura politica meridionale (Ed.
Lacaita)—un’opera altamente meritoria volta a recuperare una tradizione
di pensiero politico perduta-- emerge, sostanzialmente, l’inesistenza
di una vera e propria cultura federalista nel Meridione.
Non è solo in Giovanni Bovio, uno dei più eletti
rappresentanti dell’intellighentzia napoletana di fine Ottocento, che
<manca quella visione dei poteri degli stati federati che
garantiscono la coesione e l’armonia di quelle che, altrimenti,
resterebbero delle entità immiserite nella logica dei
particolarismi comunali>.
In quasi tutti i meridionali troviamo, a ben guardare, un federalismo
strumentale: le autonomie diventano la testa d’ariete in grado di
abbattere le fortezze di uno stato impari al suo compito di apportatore
di benessere e di più elevate chances di vita per tutti. Quando
ci si convince che quegli obiettivi potrebbero raggiungersi anche
mediante il rafforzamento dello Stato, il federalismo e le autonomie
vengono messe in un canto.
Il federalismo al Sud può anche fondarsi sulla coscienza
(infelice) di un’identità separata ma non si alimenta ,certo,
dell’orgoglio di quella identità –come in Carlo Cattaneo--ovvero
della volontà di preservare tradizioni, opere, modelli di vita
di cui si è fieri e che si vogliono tramandare, integri, alle
generazioni future. La battaglia autonomistica, scuola di educazione
civica di altissimo livello, non bastò a fondare un movimento
politico incisivo né una forte ideologia.
In terzo luogo, va richiamata l’attenzione sull’inevitabilità
della fine dei domini pontificio e borbonico in un’Italia unita i cui
confini fossero giunti all’Argentario o al Volturno. Uno Stato in via
di modernizzazione, infatti, --e, pertanto, sempre più simile
alla Francia e al Belgio, quale sarebbe stata l’Italia
centro-settentrionale (il materiale umano e le risorse culturali,
economiche, sociali, di cui disponeva, almeno potenzialmente, avrebbero
sicuramente prodotto un tale risultato)--, difficilmente avrebbe potuto
tollerare avanzi d’ ancien régime come il Regno delle Due
Sicilie o lo Stato Pontificio (per non parlare dei deboli ducati
infeudati all’Austria). Per la loro congenita arretratezza, è
ragionevole pensare, questi ultimi avrebbero oscillato tra lunghi
periodi di reazione e improvvise quanto effimere rivolte.
Durante i primi, sarebbe stati i naturali protettori delle classi e dei
partiti, da Roma a Torino, mal rassegnati al nuovo corso (a cominciare
dai clericali, il cd partito nero); nel corso delle seconde, avrebbero
costituito un focolare populistico minaccioso per la borghesia
centro-settentrionale, da sempre legata alla formula del <progresso
senza avventure>. Quale paese europeo si sarebbe sentito al sicuro
con coinquilini della penisola dai tratti così
inequivocabilmente centro-sudamericani?
In quarto luogo ,a giustificare l’unificazione politica della penisola,
v’era un progetto civile che dovremmo continuamente richiamare alla
memoria, rappresentando una delle pagine luminose della nostra storia
plurisecolare. Alla sua base v’era la (generosa) finzione che gli
Italiani del Sud e del Nord, al di là delle palesi differenze,
costituissero uno stesso popolo, una sola grande famiglia al cui
interno i più dotati e fortunati avessero l’obbligo di
soccorrere quanti erano rimasti indietro.
L’assunzione del fardello meridionale corrispondeva a un liberalismo
solidale ispirato al principio per cui le <benedizioni della
modernità> dovevano ricadere su tutti i fratelli d’Italia,
dalle Alpi a Pantelleria. E’ facile, oggi, far rilevare le profonde
differenze (culturali, economiche, religiose) che dividevano i popoli
della penisola e, tuttavia, non vanno neppure dimenticate le fitte reti
che, nei secoli passati li avevano pur tenuti insieme in una embrionale
‘comunità di destino’—dall’unificazione romana alla comune
civiltà medievale agli splendori dell’umanesimo e del
Rinascimento—i fiorentini Boccaccio e Machiavelli soggiornano a lungo,
rispettivamente, a Napoli e a Roma; Genova è piena di cognomi
‘storici’ napoletani; a Napoli troviamo un grande illuminista che si
chiama Antonio Genovesi….
Gli stessi papi --tutti italiani, dopo l’olandese Adriano VI(m.1523)--
contribuiscono—anche per ragioni nepotistiche—al melting-pot italico: a
chi oggi viene più in mente che una famiglia di nobiltà
nera, radicata nel Centro Italia, i Della Rovere, provenivano dalla
ligure Savona? D’altra parte, se le classi popolari, in gran parte
analfabete, parlavano lingue—o, come è divenuto politicamente
scorretto dire, dialetti-- incomprensibili da regione a regione, quelle
alte e i ceti medi—che, dappertutto, costituiscono l’ossatura della
modernizzazione—uscivano dalle stesse scuole, scrivevano e comunicavano
tra loro nell’idioma toscano (ovvero in italiano), leggevano gli stessi
autori, seguivano le stesse mode artistiche e letterarie, esaltandosi,
da Milano a Palermo, sulle note di Verdi e di Donizetti o commuovendosi
sui versi di Foscolo e di Leopardi.
Infine, va drasticamente ridimensionato il luogo comune che
l’unificazione sia stata un cattivo affare per i meridionali. Un paese
in cui il 70% degli abitanti viveva di agricoltura, restando
indipendente, avrebbe potuto risolvere il problema del decollo
economico—impossibile senza l’esodo massiccio dalle campagne—o con un
drastico (ma soprattutto allora inconcepibile) controllo delle nascite
o con l’emigrazione in lontani lidi. L’unificazione, dando una patria a
tutti gli italiani, riversò nel Settentrione, a ondate
successive, masse di connazionali che finirono per radicarsi nelle
grandi città del Nord senza sentire troppo il trauma del
distacco dai luoghi natii.
C’è una risposta definitiva a quanti si preoccupano più
della sopravvivenza delle culture che del benessere degli individui in
carne ed ossa : l’elenco telefonico ! I milioni di cognomi meridionali
che vi figurano --a Milano come a Torino, a Genova come a Padova—e
spesso in posti chiave :nelle amministrazioni, nelle imprese, nelle
professioni liberali, nel giornalismo—stanno a significare che il
Risorgimento creò, bene o male, una comunità di destino,
una casa comune che nessun revisionismo tribale potrà più
cancellare.
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