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Memorie di quando ero italiano

Un provocatorio libro del calabrese Nicola Zitara

sul rapporto fra Nord e Sud

di FRANCO NOCELLA

Segretario della Feder-Mediterraneo (FIDM)


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"Memorie di quad'ero italiano" è il titolo, volutamente provocatorio, dell'ultimo libro di Nicola Zitara, giornalista e scrittore di Siderno (Reggio Calabria), per lunghi anni fiero militante socialista poi impegnato in prima fila nel Movimento meridionale, che, già nel 1971, aveva scandalizzato molti benpensanti con un altro volume dal titolo e dall'impostazione non meno corrosivi e dissacranti rispetto ai modelli ed alle certezze costruiti negli anni del risorgimento, imposti per un secolo sotto i governi sabaudi e considerati come bandiere intoccabili anche con l'avvento dei governi repubblicani: "L'unità d'Italia: nascita di una colonia". Sviluppando ulteriormente l'analisi avviata con l'opera di 29 anni fa, Zitara indaga a fondo sulle cause che portarono nel 1860 il Meridione continentale ed insulare alla perdita dell'autonomia statale che lo aveva caratterizzato per sette secoli, dall'epoca di Ruggiero il Normanno alla fine del Regno delle Due Sicilie. L'indagine è allargata alle vicissitudini che le regioni meridionali hanno dovuto subire in quasi un secolo e mezzo di vita "italiana" nell'ambito dello Stato unitario, considerato sia nella sua versione sabauda che in quella repubblicana.

"Mi sono reso conto che il Nord non era, puramente e semplicemente, la parte in alto del mio paese, ma un altro paese e non propriamente amico, indulgente con se stesso e serio e severo con me", spiega l'autore per introdurre quello che definisce "un viaggio nella memoria alla scoperta della mia vera patria". Un nuovo libro sulla "questione meridionale", dunque? No, un altro - assai stimolante - libro sulla "questione coloniale". Per di più scritto senza peli sulla lingua e senza riguardo alcuno per i "partiti sedicenti nazionali", che definisce, chiaro e tondo, come i "mediatori della colonizzazione". Una vera e propria dichiarazione di guerra contro gli "intrallazzisti padani" responsabili di aver deliberatamente smantellato l'apparato industriale del Meridione e soffocato la borghesia degli affari che pure si stava formando nell'antico Regno del Sud "per realizzare una selvaggia accumulazione" delle risorse necessarie a finanziare lo sviluppo delle regioni settentrionali.

"Memorie di quand'ero italiano" ricostruisce l'esperienza di intere generazioni di meridionali illusi e traditi, ingannati e sottomessi, sfruttati ed emarginati. Una storia la cui conclusione, secondo Zitara, è questa: "Il Meridione si sta avviando verso il disastro totale". Che fare, allora? "possiamo rendere ancora un servigio alla nostra terra", sostiene l'autore: "Liberandola". "Non ripeterò l'errore dei rivoluzionari del 1799, nè quello dei liberali del 1860. Starò con loro", dice, riferendosi al popolo meridionale, "anche a costo di infiocchettarmi con i gigli dei Borbone e d'andar sottobraccio con Carmine Crocco, starò con loro. Questo è il mio popolo".

"Lo strangolamento dell'iniziativa meridionale fa parte dei meccanismi 'naturali' del mercato (a senso) unico nazionale", aggiunge, "è accaduto, subito dopo la conquista piemontese, alle nostre buone industrie nate al tempo dei Borbone. Ed accadrà sempre, fin quando i deputati del Sud non lasceranno le loro ben remunerate poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama e si riuniranno a Napoli per fondare la repubblica di Magna Grecia, da cui un giorno ripartirà la vera nazione italiana, come 2500 anni fa dalla Magna Grecia partì la prima nazione italiana, una nazione civile e ricordata con gratitudine dai posteri". E' giunto, dunque, il tempo della riscoperta e della riappropriazione dell'identità culturale del popolo meridionale? Zitara ne è convinto, ma ad una ben precisa condizione. E' necessario, infatti, quello che si profila come un ineludibile "passaggio morale". Questo: "Il recupero delle radici deve essere totale, a cominciare dal suo simbolo politico e dalla sua forma concreta: il Regno di Napoli, i Borbone, la svendita del Meridione al sistema cavourriano, la miseria importata con la nazione".

Italia addio, dunque? No, se con il termine Italia ci si riferisce allo spazio culturale e geografico in cui è collocato il Meridione. Si, se si parla dell'Italia scaturita da quel "risorgimento" che del Meridione ha sancito la sconfitta e la sottomissione. Zitara, in altri termini, quando sostiene di non sentirsi più "italiano", vuol dire di non identificarsi più nello Stato unitario scaturito dalla conquista piemontese. Un concetto che, con le sue stesse parole, può essere spiegato così: "L'Italia, che fu la prima nazione plurietnica a nascere in Europa, l'umile Italia di Virgilio, si era mantenuta unita nella cultura e negli ideali durante i 15 secoli della sua frammentazione politica. Ma quell'unità è stata sepolta dall'ingordigia di Cavour a partire dal settembre 1860, nonchè dall'arrembaggio municipalistico su cui è nato e cresciuto il nuovo Stato. Nè la scatola rotta può essere, in qualche modo, riparata. D'altra parte, è meglio avere una nazione italiana con due Stati, anzi che uno Stato con due nazioni. L'Italia meridionale ha fatto la sua parte a favore dell'industria settentrionale, pagando con il proprio suicidio. Adesso, deve usare le proprie risorse economiche ed umane per edificare un sistema industriale. Ma è necessario che si renda libera, che torni indipendente. Poi, quando il risultato sarà raggiunto, e sempre che esista ancora il concetto ottocentesco di nazione, si riparlerà eventualmente di unità.".

Una visione drammatica quella che Nicola Zitara esprime attraverso il suo libro, ma tutt'altro che priva di presupposti oggettivi e sostenuta con un ragionamento lineare e ineccepibile. Sbaglierebbe chi non accettasse questo nuovo, approfondito e appassionato sforzo di analisi come un prezioso contributo a capire i perchè delle troppe contraddizioni che continuano a caratterizzare i rapporti fra il Nord e il Sud dell'Italia e come uno stimolo a ricercare soluzioni reali, concrete, immediate: il meridionalismo della prima Repubblica era una truffa ed è miseramente fallito, quello della seconda è ancora più sbiadito ed evanescente. La domanda che si impone, al punto in cui siamo, è questa: esistono alternative allo scenario ipotizzato e auspicato dallo scrittore socialista di Siderno?

FRANCO NOCELLA - Segretario della Feder-Mediterraneo (FIDM)

Memorie di quand’ero italiano

NICOLA ZITARA EDITORE

Nicola Zitara,

Memorie di quand’ero italiano,
Siderno, 1994
Lit.25.000 + spese postali



Alcuni stralci dal romanzo

La cosa che più mi entusiasmava del lavoro dei “facchini” era lo scarico della pasta. molto più di oggi, esisteva a quell’epoca una grande varietà di formati di pasta, e ogni formato non era soltanto in funzione dei gusti personali o familiari, quanto specialmente della tradizione che voleva che, a un certo sugo, corrispondesse una precisa trafila di pasta.(...)

La pasta arrivava per ferrovia. Dal carro-merci passava sul cassone di un camion FIAT, età prima guerra mondiale, con le marce fuori dallo sportello, anzi fuori punto e basta, perché mi pare che lo sportello non ci fosse. Dal cassone del camion in magazzino. Ma sarebbe estremamente sciocco pensare che scaricare pasta fosse la stessa cosa che è oggi lo scaricare pacchi. Essa arrivava e si vendeva sfusa. La confezione era da cinque chili, ma anche il termine confezione ci imbroglia le idee. Si trattava di un bel foglio di carta blu, resistente e liscio, il quale divideva, puramente e semplicemente, cinque chili di fili di pasta dai cinque chili di fili che gli stavano accanto, lasciandone scoperte la testata e la codata. Il filo di pasta veniva commerciato nella stessa lunghezza in cui veniva prodotto. Immaginate due fili di pasta che, uniti, formano una lunghissima U, diciamo settanta centimetri circa ogni gamba. Ciò perché, nel corso della lavorazione, la pasta era posta ad asciugare appesa a delle canne o bastoni. Una volta asciutti, i fili venivano raccolti, formato per formato su un carrello. Quando il carrello era carico, andava alla pesa, e ogni pesa avvolta in un foglio di carta blu. In tal modo ogni foglio separava - senza avvolgerla - una cartata di pasta da cinque chilogrammi da un’altra. La pasta arrivava al consumatore senza essere segata nelle misure attuali. Non solo, ma anche con i due fili ancora uniti dalla U. Era poi compito del rivenditore soddisfare il particolare gusto di ciascun cliente, spezzandola in due o tre parti (quest’ultima è forse la lunghezza attualmente in uso nei pacchetti).

L’operazione di trasporto e messa a magazzino non era semplice. Esisteva un apposito deposito per la pasta, che era una specie di biblioteca con scaffalature di dimensioni ciclopiche, il tutto in legno, in modo che la merce restasse preservata dall’umidità. Ogni scansia conteneva ordinatamente il suo formato: le scansie più grandi, suddivise al loro interno, potevano contenere venti quintali di pasta, quelle minori sette o otto. Lo scarico del vagone, in stazione, e lo scarico dal camion in deposito avvenivano con il sistema del passamano. In stazione bisognava affrettarsi perché, se il lavoro si protraeva oltre mezzogiorno (quando passava il treno-merci che portava via i vagoni vuoti), si pagava la sosta, ma in deposito lo scarico si faceva con cura. Il facchino che stava sul camion, prendendo e porgendo una cartata di pasta, “gridava” il nome del formato. Dopo due o tre passaggi della catena umana, la cartata arrivava in mano a Peppi u Piccirillu, il quale a ‘battia (batteva la testata - cioè la parte della cartata dove il filo si piegava ad U) contro un’apposita tavoletta, per allinearne i fili, e ripeteva con la sua voce da baritono il nome del formato. Nella biblioteca pastacea, la catena dei facchini si allungava o si contraeva, a seconda la distanza tra u Piccirillu e lo scaffale appropriato. Cosicché il lavoro era rapido, se lo scaffale era vicino, e meno rapido e più pesante, se lontano, o del tutto al secondo piano di scaffalatura. Un facchino, a turno, essendo quasi una pausa del lavoro, si spostava da scansia a scansia pemmu a stringi (per “stringere”, cioè avvolgere meglio) la cartata ultima giunta.

La catena della pasta imponeva la torsione del busto ed una semirotazione delle braccia veloce, ma ritmata. Era un lavoro di un’eleganza paragonabile a quella di Liedolm, Grimm e Nordal quando si passavano tra loro la palla sul campo a San Siro. Io andavo e venivo dalla stazione accovacciato accanto allo chaffeur, il quale indossava un’untissima tuta grigia (quelle del tempo, composte di una giacca col colletto da fante e di pantaloni indipendenti) e la berretta in pelle. Nei decenni successivi, tutte le volte che ho visto un ritratto di Mao Tse Tung non ho potuto non pensare a Mastro Gatano (Gaetano), al suo insolito abbigliamento e alla sua pancetta, ancora più insolita in un lavoratore. Giunti in magazzino, mi appollaiavo su una finestra con le inferriate, che pareva la feritoia di una fortezza, e stavo incantato a guardare quel ricamo di gambe, di braccia e mani, le carte turchine come il cielo nei presepi, e i fili dorati come spighe mature. I facchini, lavorando, trovavano anche il tempo di sfotticchiarsi fra loro, e qualche volta anche in modo triviale. Io ne afferravo immediatamente la forma, ma i contenuti non ero ancora in età per capirli. Ricordo soltanto che u Piccirillu a quei giochi verbali non partecipava mai e che, quando il discorso andava oltre un certo limite, diceva basta mo’, ca ‘ndavi u figghiolu (basta adesso, che c’è il ragazzino). (...)

Quando u Piccirillu batteva la testata contro la tavoletta cadeva qualche spezzoncino di pasta, e più frequentemente la testa della U. Una cassetta era posta appositamente sotto la tavoletta per raccogliere i ruttami (rottami), uno scarto venduto a poco prezzo e qualche volta regalato agli indigenti, ma molto saporito di spezzoncini misti di pasta: quale di trafila sottile, quale grossa, quale callosa, come appunto la U, con cui si preparavano vari piatti.. (...)









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