Il dibattito sulla storia e
sulla sua
interpretazione è di estrema attualità, vista le recenti
esternazioni di
personaggi della cultura e della politica. Proprio per questo la Casa
della
Cultura ha dato vita ad un ciclo di incontri che, a partire da alcuni
eventi
fondamentali della storia italiana, dia strumenti per riflettere sul
loro
significato, sulle legittime possibilità di lettura e
interpretazione, e su
quelle illegittime. L'uso pubblico della storia può infatti a
volte
trasformarsi in 'abuso', travisando così momenti determinanti
della vita di una
nazione, quegli stessi che fondano la società civile.
Ferruccio
Capelli, segretario della Casa della Cultura
Con questa iniziativa, promossa
insieme con l'Istituto Nazionale Ferruccio
Parri, la Fondazione Feltrinelli e la rivista "Reset", non si vuole
mettere sotto accusa la revisione di una presunta vulgata ufficiale
della
storia: è chiara la consapevolezza che la storia è
sottoposta a continui
stimoli e ripensamenti, in quanto il mutare delle cose presenti induce
la
visione degli accadimenti e dei fatti del passato sotto un'angolazione
e una
luce prospettica nuove e inedite. Del resto non è da dimenticare
che già
Gramsci e Gobetti avevano praticato una revisione della storiografia
risorgimentale. Si tratta piuttosto di riflettere sull'uso pubblico
della
storia contemporanea, e sulla sua torsione mediatica, disinvolta e
svilente,
ampiamente praticata qui in Italia. Tra gli esempi a profusione che
si
potrebbero mettere in campo, basti pensare alla campagna riminese della
scorsa
estate, che è servita come spunto scatenante per una
rivalutazione
generalizzata, da parte della stampa e dei media, di tutte le figure
avverse
storicamente al processo di unificazione nazionale.
Di qui alla
beatificazione di Pio IX, al recupero di tutte le forze reazionarie di
quella
stagione, fino alla rivalutazione del Sillabo e alla riduzione
dell'unificazione d'Italia a un processo giacobino, il passo è
stato breve,
tanto da indurre molti storici a firmare un appello pubblico contro
tale
sconcertante manipolazione. Capelli precisa che la prima idea di questa
iniziativa risale a quelle giornate, come del resto risalgono ad allora
i primi
colloqui con Alberto De Bernardi, direttore dell'istituto Parri, che ha
contribuito alla realizzazione di questi incontri. Le considerazioni
fin qui
fatte possono essere tranquillamente estese a tutte le vicende della
storia
contemporanea italiana: dal fascismo, di cui si minimizza il carattere
totalitario e la presa del potere violenta, all'avventura coloniale,
all'espansionismo militare, alla subalternità al nazismo. Resta
solo la
cosiddetta "morte della patria" dopo l'8 settembre, accompagnata da
uno sguardo compiacente sull'adesione alla Repubblica di Salò da
parte di molti
giovani. Si cerca di spezzare il legame tra Italia democratica e
Resistenza,
facendo apparire la prima non come una conquista, ma come un risultato
della
spartizione di Yalta, e riducendo la seconda a una guerra civile tra
fascisti e
comunisti. In realtà la storia contemporanea qui in Italia
appare sempre più
un campo di battaglia in cui la destra cerca di legittimarsi. La
vicenda
della censura e riscrittura dei libri di testo scatenata dal Presidente
della
Regione Lazio parla da sola. Va da sé che l'impresa che si
prospetta la Casa
della Cultura attraverso il progetto di questi incontri si pone nella
direzione
di un recupero della memoria e di una rielaborazione storica libera e
limpida.
Prof. Luciano
Cafagna, Università di Pisa
L'uso pubblico della storia non
deve essere inteso in maniera univoca, ma
piuttosto è suscettibile di essere praticato in vari modi. In
particolare due
sono i modi che interessano: l'uno, elevato e nobile, e tuttavia non
per questo
circonfuso di un alone di fondatezza a priori; l'altro, deteriore,
subordinato
in termini estremamente banali alle polemiche del giorno prima. Il
primo modo è
quasi inevitabile, è qualcosa che ha a che fare con la
celeberrima battuta di
Benedetto Croce, che affermava essere tutta la storia una storia
contemporanea.
Un profondo pensiero di impostazione idealistica, che però
è proprio di quell'idealismo
filosofico che ha radici solide nella realtà. Insomma, si tratta
di capire che
quando si fa storia, quando si guarda il passato, si hanno tuttavia
sempre i
piedi nel presente. È inevitabile che tutti i tentativi di
ricostruire una
dimensione oggettiva al passato vengano ritagliati a partire dall'oggi.
L'"oggi" si presenta come una categoria complessa, dove tra l'altro
viene in primo piano la politica, con la conseguente predominanza del
rapporto
tra la politica del presente e quella del passato. Si delinea qui
quella
configurazione che viene chiamata storia contemporanea, dove uno dei
perni è
rappresentato dalla storia del Risorgimento.
L'opera di Antonio
Gramsci costituisce un esempio di interpretazione del Risorgimento
indubbiamente determinato da convinzioni politiche. È
un'interpretazione che si
apre proprio a una visione revisionistica della storiografia
risorgimentale, e
che infatti è stata definita di "revisionismo risorgimentale".
Con
tale espressione si intendeva contrapporre la ricostruzione del
processo
risorgimentale da parte di alcuni storici alla visione per così
dire
apologetica che era fino ad allora prevalsa. Gli storici
"revisionisti" consideravano il Risorgimento come un processo
incompiuto, una sorta di rivoluzione dimezzata, e aprivano così
la prospettiva
di un suo compimento, di una sua completa realizzazione, offrendo
materia a
quelle visioni politiche che si ponevano in tale prospettiva.
Già Alfredo
Oriali, prima di Gramsci, si era misurato in una lettura non
apologetica del Risorgimento,
e non era un uomo di sinistra.
In fondo il
revisionismo risorgimentale può avere uno sbocco di sinistra
oppure uno sbocco
di destra. Si può muovere e agire facendo leva sui connotati
sociali e
democratici di un processo, oppure si può accentuare il recupero
di un'idea
nazionalista di compimento di uno Stato debole. Gramsci nella sua
lettura del
Risorgimento opera un confronto con il modello della rivoluzione
francese,
trovando la sua caratterizzazione nell'avvento sullo scenario storico
di una
certa fascia sociale, quella dei contadini, che nel risorgimento
italiano era
venuta completamente a mancare. Trascinando nel processo questa base
sociale la
rivoluzione francese aveva potuto portare a compimento la cosiddetta
"rivoluzione borghese". È proprio questa assenza che
caratterizza il
nostro Risorgimento, e che tra l'altro fa mancare una base sociale ai
democratici, al contrario dei moderati, che invece una base sociale,
solida e
di classe, l'avevano. Il giudizio di Gramsci riconosceva correttamente
ai
moderati una saldezza e completezza identitaria che mancava ai
democratici, i
quali non avevano capito che il nodo essenziale era costituito da una
questione
sociale ancora al di là dall'essere posta. È a partire da
tale
"fallimento" dei democratici che Gramsci fondava allora il programma
di lavoro della sinistra. In questo senso Gramsci assumeva una
posizione
revisionista rispetto alla cosiddetta storiografia apologetica, in
qualche modo
di destra, ma si trattava, appunto, di un revisionismo radicalmente di
sinistra. Oggi sembra che il procedimento revisionista vada in senso
opposto a
quello di Gramsci, con la valutazione, da Rosario Romeo in poi, del
carattere
quasi miracoloso del Risorgimento. Quanto poi al tentativo di
rimettere in
discussione oggi la legittimità del Risorgimento, si tratta di
una pura
operazione reazionaria.
Prof. Silvio
Lanaro, Università di Padova
L'uso pubblico della storia non
è una specie di abuso di minori, ma è in
qualche modo consunstanziale alla ricerca storica stessa. Esistono
innumerevoli
e autorevoli esempi di tale uso pubblico da parte di alcune delle
più grandi
opere storiche, che a partire, da Tucidide sono state, appunto, opere
di storia
contemporanea. Si tratta spesso di gente che racconta vicende storiche
a cui ha
personalmente partecipato, come appunto Tucidide, che scrive La guerra
del
Peloponneso forzandola a giustificazione del proprio fallimento quale
stratega;
o come Procopio di Cesarea, che scrive sulla guerra dei Goti cui ha
partecipato
come proconsole di Belisario. Paolo Sarpi scrive la Storia del concilio
di
Trento da posizioni filo-protestanti, a distanza di meno di
cinquant'anni. Si
può continuare con Voltaire, che scrive Il secolo di Luigi XIV,
con Michelet
storiografo della rivoluzione francese, con il Toqueville di L'ancien
régime, e
altri a scelta. Sono esempi che ci permettono di constatare come la
storiografia che nasce da un'esplicita preoccupazione sul presente sia
impregnata di "uso pubblico", ma non per questo fallisca nella
produzione di un materiale scientifico che può diventare
patrimonio collettivo.
Altra cosa è
l'"abuso di minori", che non sempre procede dalle sopraffazioni
mediatiche nei confronti della storiografia pura. Spesso l'abuso
pubblico
della storia, quello manipolatorio dei materiali, è stato
praticato anche
da storici che si presentavano come tali. Un esempio singolare è
dato da un
libro pubblicato anni addietro da un personaggio non certo notissimo,
un certo
Vannoni, nel quale con un eccezionale sfoggio di dottrina si cercava di
dimostrare
che il Sillabo è una variante edulcorata e spurgata di quello
che avrebbe
dovuto essere all'origine, cioè una ben altrimenti radicale
condanna della
modernità. Tutto ciò presentato come il frutto di una
congiura massonica e
corredato di una messe di citazioni e di riferimenti dotti, con grande
esibizione di tecnica storiografica. Qui, certo, si tratta decisamente
di un
abuso. In ogni caso l'uso pubblico della storia quando si configura
come abuso
crea dei cortocircuiti incredibili in cui gli estremi più
diversi si toccano. I
giovanotti del meeting di Rimini, che rivalutano il brigantaggio
meridionale
post-unitario, non fanno altro che riprendere le tesi apparentemente di
estrema
sinistra sostenute trent'anni fa in Proletari senza rivoluzione di
Renzo Del
Carria.
Si deve dire
allora, fatte tutte queste premesse, e per quanto possa sembrare
paradossale,
che è proprio dall'uso pubblico della storia che nasce
l'interesse attuale per
il Risorgimento italiano, e che si producono le ricerche più
interessanti e più
innovative degli ultimi tempi. Si ritorna dopo un lungo sonno agli
studi
sull'Ottocento italiano con il superamento di questi motivi populisti e
reazionari, dove il Risorgimento appare la sentina delle nefandezze
della
borghesia. Se ora tali studi vengono ripresi, è perché
urgono nel presente
problematiche di carattere politico e culturale suscitate
principalmente dai
tentativi di delegittimazione delle istituzioni del paese. Tentativi
scatenati
soprattutto dopo l'arrivo della Lega Nord, con la sua idea
secessionista che ha
rimesso in gioco il concetto di nazione. Ritorna, insomma, in
discussione
l'origine e il concetto stesso dello Stato italiano, ributtato sul
campo anche
dalle forme neo-liberiste dell'economia. Qui viene in campo anche
il problema
del federalismo e della sua necessità.
Quando nel 1861
veniva fatta la scelta centralista, in modo chiaro e in netta direzione
modernizzante, gli spiriti più illuminati del tempo mettevano in
guardia dal
decentramento, dal trasferimento, dal regalo agli enti autarchici
territoriali
di poteri che avrebbero rimesso in gioco le forze reazionarie,
antiliberali,
clericali, e nemiche dell'unità. Il cosiddetto stato
centralista è stato un
potente fattore di accelerazione del processo di modernizzazione e
democratizzazione
del paese, quel processo che non era riuscito nel 1848. Si
può dire di più.
Quando gli storici si volgono nuovamente e finalmente agli studi sul
Risorgimento, lo fanno anche perché si rendono conto che una
parte della
popolazione italiana, forse anche maggioritaria, ignora, o forse anche
rigetta
la legittimazione democratica resistenziale. È necessario allora
chiedersi se
non sia da rintracciarsi, alla base di questo rifiuto, un'insufficiente
capacità della legittimazione democratica resistenziale stessa
di creare, nel
lungo periodo, le virtù tipiche di una religione civile, per
dirla con Gian
Enrico Rusconi. E se non risieda invece, quel rifiuto,
nell'appiattimento della
categoria di stato liberale su quella di pre-fascismo di cui molti
storici sono
responsabili. Bisogna allora chiedersi se lo stato giolittiano sia
stato
semplicemente il luogo di incubazione del fascismo e
dell'autoritarismo, oppure
sia stato anche qualcosa d'altro. Si pone in definitiva il problema
di
ripensare la nazione, in presenza di masse oggi del tutto
indifferenti
rispetto ai processi di formazione democratica così come sono
stati concepiti
nell'arco del dopoguerra.
Prof. Roberto
Balzani, Università di Bologna
Bisogna porsi il problema di come
certe tematiche riescono ad entrare nel senso
comune delle masse, cosa che non sono in grado di fare né i
discorsi sul
Risorgimento, né quelli sulla Resistenza, né vicende come
quella dei soldati
italiani uccisi a Cefalonia che occupano un paio di giorni le pagine
dei
giornali e poi cadono nell'oblio più assoluto. Quella della
memoria culturale è
oggi una questione estremamente dibattuta, soprattutto in Germania. La
memoria
culturale si differenzia dalla storia in quanto quest'ultima è
una disciplina a
carattere scientifico che riguarda un numero ristretto di addetti ai
lavori.
Più propriamente la memoria culturale attiene a quella parte
di passato che
viene ritualizzato, e prima ancora banalizzato e strumentalizzato,
e gioca
come cemento, come coagulo unitario di una costellazione sociale,
venendo
trasmesso di generazione in generazione, tramite il linguaggio, la
scrittura,
l'iconografia, la festa, ecc. Soffermandomi su questo terreno, le mie
considerazioni prendono il via dai programmi scolastici voluti da
Giovanni
Gentile nel 1923.
In riferimento
alla storia, questi programmi prevedevano per la terza classe
elementare lo
studio degli avvenimenti dal 1848 al 1918, per la quarta classe la
storia greca
e romana, per la quinta la storia dei secoli bui, la storia
dell'Ottocento e
della rinascita italiana, la storia della marina e dell'esercito, la
prima
guerra mondiale, ultima del Risorgimento, e infine le opere grandiose
costruite
dallo Stato unitario. Appare chiaro qui cosa significhi memoria
culturale: lo
studio della storia doveva trasmettere un senso di identità
chiaro e
inequivocabile, e bisogna dire che questo intento ha funzionato
alla
grande. La compattezza del progetto di Gentile va in crisi dopo la
seconda
guerra mondiale, soprattutto negli anni Sessanta. E va in crisi
perché il
modello di memoria culturale che comincia a dominare, e poi si impone
definitivamente, è quello dei vincitori della guerra, gli
anglo-americani,
fondato su due basi essenziali: da un lato, il consumo di beni
materiali, di
musica, e di beni immateriali; dall'altro, la ricostruzione di un
universo di
valori basilari che si fondavano non più su modelli quali le
guerre di
indipendenza e la prima guerra mondiale, ma piuttosto sull'Ottocento
americano,
quello dei film western, per intenderci, veicolato dalla cultura
mediatica
americana.
Sono nato nel
1961, e appartenengo alla cosiddetta generazione dei baby-boomers. Il
1876,
anno della crisi della destra storica, se mai aveva un senso per la mia
generazione, era perché si trattava dello stesso che aveva visto
soccombere il
generale Custer e i suoi trecento cavalleggeri al Little Big Horne,
sotto gli
assalti delle tribù Sioux e Cheyenne riunite. Nulla sapeva la
sua generazione,
per esempio, dei trecento garibaldini comandati da De Bronzetti che nel
1860
avevano fatto la stessa fine, ma sicuramente in modo più
glorioso. Si tratta,
insomma, a partire dagli anni Sessanta, di una memoria culturale che ha
altri
punti di riferimento, per lo più extrascolastici, e che
ricostruisce un
rapporto con il passato su altre basi e su altri presupposti. Questo
mutamento
epocale della memoria storica viene puntualmente riflesso nelle forme e
negli
strumenti della cultura di massa, dalle figurine ai soldatini di
piombo, dal
Corriere dei piccoli alla pubblicità in genere. In un tale
quadro, un rinnovato
approccio alla storia del nostro Risorgimento non può non
prendere atto che a
livello di massa quella vicenda e quei presupposti dello Stato unitario
sono
ormai del tutto insignificanti. Il Risorgimento è assente
dalla cultura
delle nuove generazioni dal tempo in cui il prof. Lanaro cominciava a
occuparsene storiograficamente.
Il rapporto delle
nuove generazioni con la storia è stato mediato, per un verso
dalla retorica
alleata della seconda guerra mondiale, e qui siamo al Novecento; e per
l'altro
verso, dalla mitologia western, e qui siamo all'Ottocento. Comunque, se
non
altro, per la generazione dei baby-boomers esisteva ancora un rapporto
con il
passato, e giocava ancora una memoria culturale. È quando si
spezza questa
connessione con il passato, quando incomincia a emergere nella
realtà giovanile
uno schiacciamento sul presente, che si aprono problemi inquietanti.
La
generazione del '68 non ha conosciuto questo schiacciamento: contestava
la
cultura ereditata dalle classi dominanti, ma sempre avendo uno sguardo
sulla
memoria e sul passato e sulla storia. In questo senso è
più vicina alla
generazione che l'ha preceduta che non a quella che l'ha seguita.
Quest'ultima
neppure si pone il problema della memoria. Qui c'è una cesura
periodizzante che
si può collocare intorno al 1977-78, quando Mazinga e Goldrake
appaiono, con le
prime Tv commerciali. Qui si può individuare un inizio di
cancellazione del
passato dall'universo extra-scolastico dei giovani.
Nessuna immagine
della storia passata, non si dice il Risorgimento, ma neppure la
seconda guerra
mondiale è più presente oggi, ad esempio, in nessun
oggetto di consumo
giovanile, a partire dai giocattoli. Qui viene in primo piano un'assenza
di
prospettiva e di profondità che riducono la percezione della
storia e del
passato a una sorta di gora appiccicosa dove tutti i contorni si
confondono.
È come se la profondità di quadro fosse sradicata dai
quadri di Piero della
Francesca. Riferita alla storia e al tempo questa assenza di
profondità di
campo non può produrre che uno schiacciamento del passato sul
presente. Ora noi
ci troviamo in questo schiacciamento in cui i piani storici si
confondono, i
personaggi sono intercambiabili, e Mao, Carlo Magno, Mussolini, Marx, o
chiunque
altro, sono esattamente la stessa cosa. E anche nei prodotti di consumo
culturale, come ad esempio i fumetti, ritorna continuamente tale
immagine di
schiacciamento sul presente, dove il passato viene virtualizzato,
oppure
semplicemente mistificato, e comunque appare sempre come del tutto
privo di
realtà. Tutto ciò rappresenta certo un grande
problema per gli storici. E
forse sarebbe il caso di fare come fece il Piaget alla fine degli anni
Quaranta: mettere in campo progetti di ricerche che interroghino i
giovani
sulla loro percezione del passato, magari a partire dai ricordi della
loro
infanzia, se non altro per cominciare a indagare questo buco nero di
cui non
capiamo nulla, evitando di occuparci esclusivamente delle cose da
insegnare e
non dei soggetti a cui insegnarle.
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