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Fonte:
https://www.casadellacultura.it/

Il Risorgimento

(Incontro 15 Marzo 2001)

Il dibattito sulla storia e sulla sua interpretazione è di estrema attualità, vista le recenti esternazioni di personaggi della cultura e della politica. Proprio per questo la Casa della Cultura ha dato vita ad un ciclo di incontri che, a partire da alcuni eventi fondamentali della storia italiana, dia strumenti per riflettere sul loro significato, sulle legittime possibilità di lettura e interpretazione, e su quelle illegittime. L'uso pubblico della storia può infatti a volte trasformarsi in 'abuso', travisando così momenti determinanti della vita di una nazione, quegli stessi che fondano la società civile.



Ferruccio Capelli, segretario della Casa della Cultura


Con questa iniziativa, promossa insieme con l'Istituto Nazionale Ferruccio Parri, la Fondazione Feltrinelli e la rivista "Reset", non si vuole mettere sotto accusa la revisione di una presunta vulgata ufficiale della storia: è chiara la consapevolezza che la storia è sottoposta a continui stimoli e ripensamenti, in quanto il mutare delle cose presenti induce la visione degli accadimenti e dei fatti del passato sotto un'angolazione e una luce prospettica nuove e inedite. Del resto non è da dimenticare che già Gramsci e Gobetti avevano praticato una revisione della storiografia risorgimentale. Si tratta piuttosto di riflettere sull'uso pubblico della storia contemporanea, e sulla sua torsione mediatica, disinvolta e svilente, ampiamente praticata qui in Italia. Tra gli esempi a profusione che si potrebbero mettere in campo, basti pensare alla campagna riminese della scorsa estate, che è servita come spunto scatenante per una rivalutazione generalizzata, da parte della stampa e dei media, di tutte le figure avverse storicamente al processo di unificazione nazionale.

Di qui alla beatificazione di Pio IX, al recupero di tutte le forze reazionarie di quella stagione, fino alla rivalutazione del Sillabo e alla riduzione dell'unificazione d'Italia a un processo giacobino, il passo è stato breve, tanto da indurre molti storici a firmare un appello pubblico contro tale sconcertante manipolazione. Capelli precisa che la prima idea di questa iniziativa risale a quelle giornate, come del resto risalgono ad allora i primi colloqui con Alberto De Bernardi, direttore dell'istituto Parri, che ha contribuito alla realizzazione di questi incontri. Le considerazioni fin qui fatte possono essere tranquillamente estese a tutte le vicende della storia contemporanea italiana: dal fascismo, di cui si minimizza il carattere totalitario e la presa del potere violenta, all'avventura coloniale, all'espansionismo militare, alla subalternità al nazismo. Resta solo la cosiddetta "morte della patria" dopo l'8 settembre, accompagnata da uno sguardo compiacente sull'adesione alla Repubblica di Salò da parte di molti giovani. Si cerca di spezzare il legame tra Italia democratica e Resistenza, facendo apparire la prima non come una conquista, ma come un risultato della spartizione di Yalta, e riducendo la seconda a una guerra civile tra fascisti e comunisti. In realtà la storia contemporanea qui in Italia appare sempre più un campo di battaglia in cui la destra cerca di legittimarsi. La vicenda della censura e riscrittura dei libri di testo scatenata dal Presidente della Regione Lazio parla da sola. Va da sé che l'impresa che si prospetta la Casa della Cultura attraverso il progetto di questi incontri si pone nella direzione di un recupero della memoria e di una rielaborazione storica libera e limpida.


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Prof. Luciano Cafagna, Università di Pisa


L'uso pubblico della storia non deve essere inteso in maniera univoca, ma piuttosto è suscettibile di essere praticato in vari modi. In particolare due sono i modi che interessano: l'uno, elevato e nobile, e tuttavia non per questo circonfuso di un alone di fondatezza a priori; l'altro, deteriore, subordinato in termini estremamente banali alle polemiche del giorno prima. Il primo modo è quasi inevitabile, è qualcosa che ha a che fare con la celeberrima battuta di Benedetto Croce, che affermava essere tutta la storia una storia contemporanea. Un profondo pensiero di impostazione idealistica, che però è proprio di quell'idealismo filosofico che ha radici solide nella realtà. Insomma, si tratta di capire che quando si fa storia, quando si guarda il passato, si hanno tuttavia sempre i piedi nel presente. È inevitabile che tutti i tentativi di ricostruire una dimensione oggettiva al passato vengano ritagliati a partire dall'oggi. L'"oggi" si presenta come una categoria complessa, dove tra l'altro viene in primo piano la politica, con la conseguente predominanza del rapporto tra la politica del presente e quella del passato. Si delinea qui quella configurazione che viene chiamata storia contemporanea, dove uno dei perni è rappresentato dalla storia del Risorgimento.

L'opera di Antonio Gramsci costituisce un esempio di interpretazione del Risorgimento indubbiamente determinato da convinzioni politiche. È un'interpretazione che si apre proprio a una visione revisionistica della storiografia risorgimentale, e che infatti è stata definita di "revisionismo risorgimentale". Con tale espressione si intendeva contrapporre la ricostruzione del processo risorgimentale da parte di alcuni storici alla visione per così dire apologetica che era fino ad allora prevalsa. Gli storici "revisionisti" consideravano il Risorgimento come un processo incompiuto, una sorta di rivoluzione dimezzata, e aprivano così la prospettiva di un suo compimento, di una sua completa realizzazione, offrendo materia a quelle visioni politiche che si ponevano in tale prospettiva. Già Alfredo Oriali, prima di Gramsci, si era misurato in una lettura non apologetica del Risorgimento, e non era un uomo di sinistra.

In fondo il revisionismo risorgimentale può avere uno sbocco di sinistra oppure uno sbocco di destra. Si può muovere e agire facendo leva sui connotati sociali e democratici di un processo, oppure si può accentuare il recupero di un'idea nazionalista di compimento di uno Stato debole. Gramsci nella sua lettura del Risorgimento opera un confronto con il modello della rivoluzione francese, trovando la sua caratterizzazione nell'avvento sullo scenario storico di una certa fascia sociale, quella dei contadini, che nel risorgimento italiano era venuta completamente a mancare. Trascinando nel processo questa base sociale la rivoluzione francese aveva potuto portare a compimento la cosiddetta "rivoluzione borghese". È proprio questa assenza che caratterizza il nostro Risorgimento, e che tra l'altro fa mancare una base sociale ai democratici, al contrario dei moderati, che invece una base sociale, solida e di classe, l'avevano. Il giudizio di Gramsci riconosceva correttamente ai moderati una saldezza e completezza identitaria che mancava ai democratici, i quali non avevano capito che il nodo essenziale era costituito da una questione sociale ancora al di là dall'essere posta. È a partire da tale "fallimento" dei democratici che Gramsci fondava allora il programma di lavoro della sinistra. In questo senso Gramsci assumeva una posizione revisionista rispetto alla cosiddetta storiografia apologetica, in qualche modo di destra, ma si trattava, appunto, di un revisionismo radicalmente di sinistra. Oggi sembra che il procedimento revisionista vada in senso opposto a quello di Gramsci, con la valutazione, da Rosario Romeo in poi, del carattere quasi miracoloso del Risorgimento. Quanto poi al tentativo di rimettere in discussione oggi la legittimità del Risorgimento, si tratta di una pura operazione reazionaria.


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Prof. Silvio Lanaro, Università di Padova


L'uso pubblico della storia non è una specie di abuso di minori, ma è in qualche modo consunstanziale alla ricerca storica stessa. Esistono innumerevoli e autorevoli esempi di tale uso pubblico da parte di alcune delle più grandi opere storiche, che a partire, da Tucidide sono state, appunto, opere di storia contemporanea. Si tratta spesso di gente che racconta vicende storiche a cui ha personalmente partecipato, come appunto Tucidide, che scrive La guerra del Peloponneso forzandola a giustificazione del proprio fallimento quale stratega; o come Procopio di Cesarea, che scrive sulla guerra dei Goti cui ha partecipato come proconsole di Belisario. Paolo Sarpi scrive la Storia del concilio di Trento da posizioni filo-protestanti, a distanza di meno di cinquant'anni. Si può continuare con Voltaire, che scrive Il secolo di Luigi XIV, con Michelet storiografo della rivoluzione francese, con il Toqueville di L'ancien régime, e altri a scelta. Sono esempi che ci permettono di constatare come la storiografia che nasce da un'esplicita preoccupazione sul presente sia impregnata di "uso pubblico", ma non per questo fallisca nella produzione di un materiale scientifico che può diventare patrimonio collettivo.

Altra cosa è l'"abuso di minori", che non sempre procede dalle sopraffazioni mediatiche nei confronti della storiografia pura. Spesso l'abuso pubblico della storia, quello manipolatorio dei materiali, è stato praticato anche da storici che si presentavano come tali. Un esempio singolare è dato da un libro pubblicato anni addietro da un personaggio non certo notissimo, un certo Vannoni, nel quale con un eccezionale sfoggio di dottrina si cercava di dimostrare che il Sillabo è una variante edulcorata e spurgata di quello che avrebbe dovuto essere all'origine, cioè una ben altrimenti radicale condanna della modernità. Tutto ciò presentato come il frutto di una congiura massonica e corredato di una messe di citazioni e di riferimenti dotti, con grande esibizione di tecnica storiografica. Qui, certo, si tratta decisamente di un abuso. In ogni caso l'uso pubblico della storia quando si configura come abuso crea dei cortocircuiti incredibili in cui gli estremi più diversi si toccano. I giovanotti del meeting di Rimini, che rivalutano il brigantaggio meridionale post-unitario, non fanno altro che riprendere le tesi apparentemente di estrema sinistra sostenute trent'anni fa in Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria.

Si deve dire allora, fatte tutte queste premesse, e per quanto possa sembrare paradossale, che è proprio dall'uso pubblico della storia che nasce l'interesse attuale per il Risorgimento italiano, e che si producono le ricerche più interessanti e più innovative degli ultimi tempi. Si ritorna dopo un lungo sonno agli studi sull'Ottocento italiano con il superamento di questi motivi populisti e reazionari, dove il Risorgimento appare la sentina delle nefandezze della borghesia. Se ora tali studi vengono ripresi, è perché urgono nel presente problematiche di carattere politico e culturale suscitate principalmente dai tentativi di delegittimazione delle istituzioni del paese. Tentativi scatenati soprattutto dopo l'arrivo della Lega Nord, con la sua idea secessionista che ha rimesso in gioco il concetto di nazione. Ritorna, insomma, in discussione l'origine e il concetto stesso dello Stato italiano, ributtato sul campo anche dalle forme neo-liberiste dell'economia. Qui viene in campo anche il problema del federalismo e della sua necessità.

Quando nel 1861 veniva fatta la scelta centralista, in modo chiaro e in netta direzione modernizzante, gli spiriti più illuminati del tempo mettevano in guardia dal decentramento, dal trasferimento, dal regalo agli enti autarchici territoriali di poteri che avrebbero rimesso in gioco le forze reazionarie, antiliberali, clericali, e nemiche dell'unità. Il cosiddetto stato centralista è stato un potente fattore di accelerazione del processo di modernizzazione e democratizzazione del paese, quel processo che non era riuscito nel 1848. Si può dire di più. Quando gli storici si volgono nuovamente e finalmente agli studi sul Risorgimento, lo fanno anche perché si rendono conto che una parte della popolazione italiana, forse anche maggioritaria, ignora, o forse anche rigetta la legittimazione democratica resistenziale. È necessario allora chiedersi se non sia da rintracciarsi, alla base di questo rifiuto, un'insufficiente capacità della legittimazione democratica resistenziale stessa di creare, nel lungo periodo, le virtù tipiche di una religione civile, per dirla con Gian Enrico Rusconi. E se non risieda invece, quel rifiuto, nell'appiattimento della categoria di stato liberale su quella di pre-fascismo di cui molti storici sono responsabili. Bisogna allora chiedersi se lo stato giolittiano sia stato semplicemente il luogo di incubazione del fascismo e dell'autoritarismo, oppure sia stato anche qualcosa d'altro. Si pone in definitiva il problema di ripensare la nazione, in presenza di masse oggi del tutto indifferenti rispetto ai processi di formazione democratica così come sono stati concepiti nell'arco del dopoguerra.


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Prof. Roberto Balzani, Università di Bologna


Bisogna porsi il problema di come certe tematiche riescono ad entrare nel senso comune delle masse, cosa che non sono in grado di fare né i discorsi sul Risorgimento, né quelli sulla Resistenza, né vicende come quella dei soldati italiani uccisi a Cefalonia che occupano un paio di giorni le pagine dei giornali e poi cadono nell'oblio più assoluto. Quella della memoria culturale è oggi una questione estremamente dibattuta, soprattutto in Germania. La memoria culturale si differenzia dalla storia in quanto quest'ultima è una disciplina a carattere scientifico che riguarda un numero ristretto di addetti ai lavori. Più propriamente la memoria culturale attiene a quella parte di passato che viene ritualizzato, e prima ancora banalizzato e strumentalizzato, e gioca come cemento, come coagulo unitario di una costellazione sociale, venendo trasmesso di generazione in generazione, tramite il linguaggio, la scrittura, l'iconografia, la festa, ecc. Soffermandomi su questo terreno, le mie considerazioni prendono il via dai programmi scolastici voluti da Giovanni Gentile nel 1923.

In riferimento alla storia, questi programmi prevedevano per la terza classe elementare lo studio degli avvenimenti dal 1848 al 1918, per la quarta classe la storia greca e romana, per la quinta la storia dei secoli bui, la storia dell'Ottocento e della rinascita italiana, la storia della marina e dell'esercito, la prima guerra mondiale, ultima del Risorgimento, e infine le opere grandiose costruite dallo Stato unitario. Appare chiaro qui cosa significhi memoria culturale: lo studio della storia doveva trasmettere un senso di identità chiaro e inequivocabile, e bisogna dire che questo intento ha funzionato alla grande. La compattezza del progetto di Gentile va in crisi dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto negli anni Sessanta. E va in crisi perché il modello di memoria culturale che comincia a dominare, e poi si impone definitivamente, è quello dei vincitori della guerra, gli anglo-americani, fondato su due basi essenziali: da un lato, il consumo di beni materiali, di musica, e di beni immateriali; dall'altro, la ricostruzione di un universo di valori basilari che si fondavano non più su modelli quali le guerre di indipendenza e la prima guerra mondiale, ma piuttosto sull'Ottocento americano, quello dei film western, per intenderci, veicolato dalla cultura mediatica americana.

Sono nato nel 1961, e appartenengo alla cosiddetta generazione dei baby-boomers. Il 1876, anno della crisi della destra storica, se mai aveva un senso per la mia generazione, era perché si trattava dello stesso che aveva visto soccombere il generale Custer e i suoi trecento cavalleggeri al Little Big Horne, sotto gli assalti delle tribù Sioux e Cheyenne riunite. Nulla sapeva la sua generazione, per esempio, dei trecento garibaldini comandati da De Bronzetti che nel 1860 avevano fatto la stessa fine, ma sicuramente in modo più glorioso. Si tratta, insomma, a partire dagli anni Sessanta, di una memoria culturale che ha altri punti di riferimento, per lo più extrascolastici, e che ricostruisce un rapporto con il passato su altre basi e su altri presupposti. Questo mutamento epocale della memoria storica viene puntualmente riflesso nelle forme e negli strumenti della cultura di massa, dalle figurine ai soldatini di piombo, dal Corriere dei piccoli alla pubblicità in genere. In un tale quadro, un rinnovato approccio alla storia del nostro Risorgimento non può non prendere atto che a livello di massa quella vicenda e quei presupposti dello Stato unitario sono ormai del tutto insignificanti. Il Risorgimento è assente dalla cultura delle nuove generazioni dal tempo in cui il prof. Lanaro cominciava a occuparsene storiograficamente.

Il rapporto delle nuove generazioni con la storia è stato mediato, per un verso dalla retorica alleata della seconda guerra mondiale, e qui siamo al Novecento; e per l'altro verso, dalla mitologia western, e qui siamo all'Ottocento. Comunque, se non altro, per la generazione dei baby-boomers esisteva ancora un rapporto con il passato, e giocava ancora una memoria culturale. È quando si spezza questa connessione con il passato, quando incomincia a emergere nella realtà giovanile uno schiacciamento sul presente, che si aprono problemi inquietanti. La generazione del '68 non ha conosciuto questo schiacciamento: contestava la cultura ereditata dalle classi dominanti, ma sempre avendo uno sguardo sulla memoria e sul passato e sulla storia. In questo senso è più vicina alla generazione che l'ha preceduta che non a quella che l'ha seguita. Quest'ultima neppure si pone il problema della memoria. Qui c'è una cesura periodizzante che si può collocare intorno al 1977-78, quando Mazinga e Goldrake appaiono, con le prime Tv commerciali. Qui si può individuare un inizio di cancellazione del passato dall'universo extra-scolastico dei giovani.

Nessuna immagine della storia passata, non si dice il Risorgimento, ma neppure la seconda guerra mondiale è più presente oggi, ad esempio, in nessun oggetto di consumo giovanile, a partire dai giocattoli. Qui viene in primo piano un'assenza di prospettiva e di profondità che riducono la percezione della storia e del passato a una sorta di gora appiccicosa dove tutti i contorni si confondono. È come se la profondità di quadro fosse sradicata dai quadri di Piero della Francesca. Riferita alla storia e al tempo questa assenza di profondità di campo non può produrre che uno schiacciamento del passato sul presente. Ora noi ci troviamo in questo schiacciamento in cui i piani storici si confondono, i personaggi sono intercambiabili, e Mao, Carlo Magno, Mussolini, Marx, o chiunque altro, sono esattamente la stessa cosa. E anche nei prodotti di consumo culturale, come ad esempio i fumetti, ritorna continuamente tale immagine di schiacciamento sul presente, dove il passato viene virtualizzato, oppure semplicemente mistificato, e comunque appare sempre come del tutto privo di realtà. Tutto ciò rappresenta certo un grande problema per gli storici. E forse sarebbe il caso di fare come fece il Piaget alla fine degli anni Quaranta: mettere in campo progetti di ricerche che interroghino i giovani sulla loro percezione del passato, magari a partire dai ricordi della loro infanzia, se non altro per cominciare a indagare questo buco nero di cui non capiamo nulla, evitando di occuparci esclusivamente delle cose da insegnare e non dei soggetti a cui insegnarle.

 

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