Onorevole Chiesa, in queste ultime settimane, nel Mezzogiorno d’Italia si percepisce un certo fermento. Il voto del 3 e 4 di aprile ha impresso una svolta agli equilibri politici nazionali soprattutto grazie alle scelte degli elettori di quest’area del Paese. Il coordinamento delle Regioni del Sud, nato proprio in questo nuovo clima politico, guarda con uno spirito nuovo al rapporto con Bruxelles. Lei, da parlamentare europeo, come giudica il progetto della nascente macroregione del Mezzogiorno?
«Credo sia un’iniziativa di enorme interesse. Secondo me,
un’unificazione delle Regioni meridionali è un fatto
politico storico. Dopo tanto parlare intorno alla
“Padania”, il fatto che il Sud si dia una sua definizione
organica è una cosa assolutamente importante. Leggendola da una
prospettiva europea, io sono convinto che la questione meridionale non
si risolva in Italia, ma nel Mediterraneo. Mentre l’Italia
è il Sud per tutta l’Europa, il Mezzogiorno è il
centro del Mediterraneo. Sembra una banalità, ma non lo è
per nulla. Ragionando in termini di equilibri geopolitici, dalla
scoperta dell’America in poi, il Mediterraneo è stato
ridotto a un lago. Oggi, invece, quest’area può diventare
uno straordinario centro nuovo dei commerci mondiali e del traffico
delle culture. In questo mutato contesto, l’Europa, seppur con
lentezza, sta diventando un nuovo Stato nel senso tradizionale del
termine. Quest’entità, storicamente, ha delle enormi
responsabilità verso il Sud, area da sempre focolare di enormi
conflitti, di grandi problemi come la fame nel mondo. L’Europa ha
una sua vocazione equilibratrice su questo territorio, dal punto di
vista economico-sociale e culturale. In quest’ottica, il
Meditteraneo diventa il centro di questa operazione».
Una delle proposte avanzate dal
coordinamento è quella di creare
in ogni Giunta regionale, un assessorato al Mediterraneo. Che cosa
potrebbe fare di importante un organismo di questo genere?
«L’Europa oggi ha grandi mezzi. Stiamo diventando un grande
centro finanziario che serve circa un miliardo di persone.
L’influenza europea va sempre più rafforzandosi, a
prescindere da quale sarà l’esito del referendum francese
sulla Costituzione europea. Quindi, l’Europa ha
possibilità notevolissime di condizionamento sull’economia
del Mediterraneo. Le scelte di Strasburgo e Bruxelles ormai influiscono
ben oltre i confini dell’Unione Europea. Perciò, i fondi
strutturali devono essere utilizzati per politiche equilibratrici che
favoriscano lo sviluppo. Quello che manca all’Europa, in questo
momento, sono gli strumenti. L’idea degli assessorati al
Mediterraneo risponde all’esigenza di costruire questi strumenti.
Lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno deve necessariamente
camminare insieme a quello dell’area del Nord Africa. I fondi
europei incidono indirettamente anche su queste aree. Avere, quindi,
un’impostazione regionale che spinga in questa direzione non
può che favorire queste politiche».
Certo. Tuttavia, negli anni passati, a
livello europeo, si sono fatti
discorsi di integrazione dell’area Mediterranea abbastanza
generici, cui non sono seguite politiche di effettiva integrazione
delle regioni del Sud. L’Europa continentale ha guardato molto
più a Est che a Mezzogiorno. Oggi, sta davvero cambiando il
focus dell’intervento europeo a favore del Mediterraneo?
«In politica non esiste beneficenza. Da Bruxelles molte cose non
si vedono. Occorre perciò che da qui, dalle regioni del
Mezzogiorno si creino i centri propositivi, i cosiddetti
“motori” che noi stessi dobbiamo essere in grado di
alimentare. Bruxelles e Strasburgo sono soltanto delle camere di
compensazione di questi processi, laddove motori forti producono
interessi forti. È chiaro, quindi, che se la Campania da sola
non ce la può fare, deve mettere in piedi un motore forte
insieme alle altre regioni del Mezzogiorno. Se questo motore,
rappresentato dal coordinamento per il Mezzogiorno, è in grado
di produrre idee e progetti importantio, allora il suo peso sarà
rilevante. Oggi l’Europa vive una fase di sviluppo basata sulla
dinamicità degli scambi, ma anche sulla dialettica interna. Per
la prima volta, da sei mesi a questa parte, da quando è partita
la nuova legislatura, al Parlamento di Strasburgo ci sono i primi
scontri veri tra i vari gruppi delle diverse estrazioni politiche. In
questi mesi, l’Assemblea ha sfiduciato prima il Commissario
Buttiglione, poi lo stesso Presidente Barroso. Atti questi mai avvenuti
prima e di un’assoluta rilevanza politica, ancora di più
perché assunti da parte di un Parlamento prevalentemente di
destra nei confronti di una Commissione dello stesso orientamento
politico. L’arrivo a Strasburgo dei parlamentari dei Paesi
dell’Est ha portato una maggiore indipendenza del Parlamento.
L’Europa sta adesso davvero nascendo come soggetto politico, pur
tra le grandi difficoltà, dovute al fatto che
quest’entità è ancora la somma degli interessi
materiali ed economici di quei soggetti che hanno agito e influenzato
su di essa negli anni ’70 e ’80, in un periodo in cui
l’Europa non era ancora democratica. Oggi, invece,
l’elemento di novità che ha fatto fare all’Europa il
salto di qualità, è proprio il fattore della democrazia.
Questo processo non può che nascere dalla Regioni che sono il
veicolo più forte per far emergere le istanze dal basso in tutti
i campi, dall’economia, alla cultura, ai bisogni sociali».
Quello che Lei dice non contrasta col
fatto che alla presentazione
della nuova Costituzione europea siano state simultaneamente avanzate
proposte per ridurre il budget destinato all’attuazione di
politiche di coesione sociale?
«Ci sono delle opinioni contrastanti sul tipo di Europa che si
vuole costruire. Nel caso specifico, mi sembra evidente che ci troviamo
di fronte a delle politiche di stampo americano, neo-liberista, che
rivendicano il primato dell’efficienza amministrativa,
dimenticando i principi del Trattato di Barcellona. Bisogna invece che
nella costruzione della nuova Europa entrino anche soggetti nuovi, come
i sindacati. Questo permetterà che al tavolo del dibattito
arriveranno altre importanti questioni, come quelle
dell’occupazione, dell’ambiente e del commercio. Man mano
che ognuna di queste tematiche verrà portata avanti, sarà
importante che le regioni esprimano il loro punto di vista. Il
coordinamento del Mezzogiorno dovrà quindi al più presto
fare un suo inventario dei problemi, tema per tema. Se a Bruxelles
arriveranno documenti di questo tipo, peseranno, e non poco, sulle
scelte della nuova Europa. Da altre aree dell’Ue, come ad esempio
il Baltico e la Scandinavia, sono già partite iniziative di
questo tipo. Il Mezzogiorno e il Mediterraneo non possono rimanere
indietro. È allora importante che il nuovo soggetto delle
regioni del Sud, oltre alla questione degli assessorati, definisca
subito un programma con proposte, scadenze, tempi e obiettivi da
raggiungere».
Uno degli obiettivi che i Governatori
del Mezzogiorno si sono posti
è quello di fare massa critica per presentare a Bruxelles i
problemi che riguardano quest’area del Paese...
«Fare massa critica significa impegnare risorse intellettuali. Il
livello legislativo dell’Unione Europea è molto elevato,
perché formula norme che riguardano un intero continente. Quindi
se si vogliono fare proposte, bisogna dotarsi di strumenti scientifici
adeguati, per esempio l’università. Una delle cose che
bisogna valorizzare subito sono i centri di ricerca per fare in modo
che a Strasburgo e a Bruxelles arrivi un input di qualità
elevata».
In quest’ottica, è
ipotizzabile un coordinamento di tutti
gli atenei del Mezzogiorno?
«Certo. L’importante è che un soggetto di questo
tipo prenda corpo a partire dalle questioni d’interesse,
piuttosto che dagli atenei. Bisogna creare, su ogni specifico problema,
un gruppo di università, in tutto due o tre, che facciano da
capofila e da coordinamento dei centri di eccellenza. Queste strutture
devono diventare permanenti perché occorre che vi siano dei
centri dove si elaborino le proposte politiche d’intervento
attraverso l’accumulazione dei saperi e della conoscenza».
Un’altra questione su cui la
macroregione del Mezzogiorno punta
per la crescita è il libero scambio. Come vede Lei, da
Strasburgo, l’affermazione di un mercato basato questo
presupposto?
«Come un’opportunità, ma anche come un rischio.
È un’opportunità perché apre prospettive
importanti, non solo per le Regioni del Mezzogiorno. È un
rischio perché può portare all’affermazione di
regole - a esempio nel mercato del lavoro - che penalizzino i cittadini
europei in nome di un concetto della crescita che non può
continuare a basarsi sulle statistiche del Pil, quasi sempre
inattendibili, ma che ha bisogno di nuovi criteri a partire dalla
qualità dello sviluppo».
Questa, per l’Unione Europea,
è la legislatura
dell’avvio della dialettica politica in seno al Parlamento.
Tuttavia, su alcune questioni importanti, come la politica estera, gli
Stati nazionali continuano gelosamente a mantenere una loro autonomia.
In questo momento, le relazioni estere dell’Italia aiutano la
macroregione del Mezzogiorno a costruire un ponte verso il Mediterraneo?
«La risposta è molto semplice. Oggi, in Europa
dell’Italia si ride. Il governo italiano in Europa ha un
prestigio pari a zero perché non esprime nessuna linea. A
maggior ragione la macroregione del Mezzogiorno può essere
importante, perché può avere una sua capacità di
elaborazione e di proposta che può in parte supplire al vuoto
politico del governo nazionale. In quest’ottica, è ovvio,
quindi, che un nuovo governo potrebbe aiutare questo soggetto. Tuttavia
è pur sempre evidente che, di qui a un anno, un nuovo esecutivo,
qualunque sia il suo colore politico, debba avere una strategia
politica di ampio respiro in grado di esprimere un progetto, sia in
seno all’Ue sia con gli altri soggetti internazionali. Occorre
una visione del mondo ampia su tutte le questioni. Faccio un esempio:
la politica degli armamenti. Che strategie, che investimenti vengono
proposti in seno all’Europa?».
La macroregione può avere voce
in capitolo anche sul tema della
difesa?
«Assolutamente sì. A Napoli, a Taranto, in Sardegna, ci
sono le basi Nato. Bisogna interrogarsi, in maniera costruttiva, sul
futuro di questo soggetto. Una politica di difesa e di pace non
dev’essere un tabù per il nuovo coordinamento del
Mezzogiorno, ma sarà un argomento da inserire nell’agenda
delle priorità all’ordine del giorno nella discussione.
È una questione che riguarda le risorse da investire, ma anche
la politica sulla sicurezza su cui le regioni devono esprimere la loro
posizione e confrontarsi con l’opinione pubblica».
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