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L'Articolo - Giovedì, 05 Maggio

La macroregione ’motore’ del Mediterraneo

La sicurezza e la pace non devono essere tabù per il neocoordinamento del Mezzogiorno
 di redazione

Onorevole Chiesa, in queste ultime settimane, nel Mezzogiorno d’Italia si percepisce un certo fermento. Il voto del 3 e 4 di aprile ha impresso una svolta agli equilibri politici nazionali soprattutto grazie alle scelte degli elettori di quest’area del Paese. Il coordinamento delle Regioni del Sud, nato proprio in questo nuovo clima politico, guarda con uno spirito nuovo al rapporto con Bruxelles. Lei, da parlamentare europeo, come giudica il progetto della nascente macroregione del Mezzogiorno?


«Credo sia un’iniziativa di enorme interesse. Secondo me, un’unificazione delle Regioni meridionali è un fatto politico storico. Dopo tanto parlare intorno alla “Padania”, il fatto che il Sud si dia una sua definizione organica è una cosa assolutamente importante. Leggendola da una prospettiva europea, io sono convinto che la questione meridionale non si risolva in Italia, ma nel Mediterraneo. Mentre l’Italia è il Sud per tutta l’Europa, il Mezzogiorno è il centro del Mediterraneo. Sembra una banalità, ma non lo è per nulla. Ragionando in termini di equilibri geopolitici, dalla scoperta dell’America in poi, il Mediterraneo è stato ridotto a un lago. Oggi, invece, quest’area può diventare uno straordinario centro nuovo dei commerci mondiali e del traffico delle culture. In questo mutato contesto, l’Europa, seppur con lentezza, sta diventando un nuovo Stato nel senso tradizionale del termine. Quest’entità, storicamente, ha delle enormi responsabilità verso il Sud, area da sempre focolare di enormi conflitti, di grandi problemi come la fame nel mondo. L’Europa ha una sua vocazione equilibratrice su questo territorio, dal punto di vista economico-sociale e culturale. In quest’ottica, il Meditteraneo diventa il centro di questa operazione».


Una delle proposte avanzate dal coordinamento è quella di creare in ogni Giunta regionale, un assessorato al Mediterraneo. Che cosa potrebbe fare di importante un organismo di questo genere?


«L’Europa oggi ha grandi mezzi. Stiamo diventando un grande centro finanziario che serve circa un miliardo di persone. L’influenza europea va sempre più rafforzandosi, a prescindere da quale sarà l’esito del referendum francese sulla Costituzione europea. Quindi, l’Europa ha possibilità notevolissime di condizionamento sull’economia del Mediterraneo. Le scelte di Strasburgo e Bruxelles ormai influiscono ben oltre i confini dell’Unione Europea. Perciò, i fondi strutturali devono essere utilizzati per politiche equilibratrici che favoriscano lo sviluppo. Quello che manca all’Europa, in questo momento, sono gli strumenti. L’idea degli assessorati al Mediterraneo risponde all’esigenza di costruire questi strumenti. Lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno deve necessariamente camminare insieme a quello dell’area del Nord Africa. I fondi europei incidono indirettamente anche su queste aree. Avere, quindi, un’impostazione regionale che spinga in questa direzione non può che favorire queste politiche».


Certo. Tuttavia, negli anni passati, a livello europeo, si sono fatti discorsi di integrazione dell’area Mediterranea abbastanza generici, cui non sono seguite politiche di effettiva integrazione delle regioni del Sud. L’Europa continentale ha guardato molto più a Est che a Mezzogiorno. Oggi, sta davvero cambiando il focus dell’intervento europeo a favore del Mediterraneo?


«In politica non esiste beneficenza. Da Bruxelles molte cose non si vedono. Occorre perciò che da qui, dalle regioni del Mezzogiorno si creino i centri propositivi, i cosiddetti “motori” che noi stessi dobbiamo essere in grado di alimentare. Bruxelles e Strasburgo sono soltanto delle camere di compensazione di questi processi, laddove motori forti producono interessi forti. È chiaro, quindi, che se la Campania da sola non ce la può fare, deve mettere in piedi un motore forte insieme alle altre regioni del Mezzogiorno. Se questo motore, rappresentato dal coordinamento per il Mezzogiorno, è in grado di produrre idee e progetti importantio, allora il suo peso sarà rilevante. Oggi l’Europa vive una fase di sviluppo basata sulla dinamicità degli scambi, ma anche sulla dialettica interna. Per la prima volta, da sei mesi a questa parte, da quando è partita la nuova legislatura, al Parlamento di Strasburgo ci sono i primi scontri veri tra i vari gruppi delle diverse estrazioni politiche. In questi mesi, l’Assemblea ha sfiduciato prima il Commissario Buttiglione, poi lo stesso Presidente Barroso. Atti questi mai avvenuti prima e di un’assoluta rilevanza politica, ancora di più perché assunti da parte di un Parlamento prevalentemente di destra nei confronti di una Commissione dello stesso orientamento politico. L’arrivo a Strasburgo dei parlamentari dei Paesi dell’Est ha portato una maggiore indipendenza del Parlamento. L’Europa sta adesso davvero nascendo come soggetto politico, pur tra le grandi difficoltà, dovute al fatto che quest’entità è ancora la somma degli interessi materiali ed economici di quei soggetti che hanno agito e influenzato su di essa negli anni ’70 e ’80, in un periodo in cui l’Europa non era ancora democratica. Oggi, invece, l’elemento di novità che ha fatto fare all’Europa il salto di qualità, è proprio il fattore della democrazia. Questo processo non può che nascere dalla Regioni che sono il veicolo più forte per far emergere le istanze dal basso in tutti i campi, dall’economia, alla cultura, ai bisogni sociali».


Quello che Lei dice non contrasta col fatto che alla presentazione della nuova Costituzione europea siano state simultaneamente avanzate proposte per ridurre il budget destinato all’attuazione di politiche di coesione sociale?


«Ci sono delle opinioni contrastanti sul tipo di Europa che si vuole costruire. Nel caso specifico, mi sembra evidente che ci troviamo di fronte a delle politiche di stampo americano, neo-liberista, che rivendicano il primato dell’efficienza amministrativa, dimenticando i principi del Trattato di Barcellona. Bisogna invece che nella costruzione della nuova Europa entrino anche soggetti nuovi, come i sindacati. Questo permetterà che al tavolo del dibattito arriveranno altre importanti questioni, come quelle dell’occupazione, dell’ambiente e del commercio. Man mano che ognuna di queste tematiche verrà portata avanti, sarà importante che le regioni esprimano il loro punto di vista. Il coordinamento del Mezzogiorno dovrà quindi al più presto fare un suo inventario dei problemi, tema per tema. Se a Bruxelles arriveranno documenti di questo tipo, peseranno, e non poco, sulle scelte della nuova Europa. Da altre aree dell’Ue, come ad esempio il Baltico e la Scandinavia, sono già partite iniziative di questo tipo. Il Mezzogiorno e il Mediterraneo non possono rimanere indietro. È allora importante che il nuovo soggetto delle regioni del Sud, oltre alla questione degli assessorati, definisca subito un programma con proposte, scadenze, tempi e obiettivi da raggiungere».


Uno degli obiettivi che i Governatori del Mezzogiorno si sono posti è quello di fare massa critica per presentare a Bruxelles i problemi che riguardano quest’area del Paese...


«Fare massa critica significa impegnare risorse intellettuali. Il livello legislativo dell’Unione Europea è molto elevato, perché formula norme che riguardano un intero continente. Quindi se si vogliono fare proposte, bisogna dotarsi di strumenti scientifici adeguati, per esempio l’università. Una delle cose che bisogna valorizzare subito sono i centri di ricerca per fare in modo che a Strasburgo e a Bruxelles arrivi un input di qualità elevata».


In quest’ottica, è ipotizzabile un coordinamento di tutti gli atenei del Mezzogiorno?


«Certo. L’importante è che un soggetto di questo tipo prenda corpo a partire dalle questioni d’interesse, piuttosto che dagli atenei. Bisogna creare, su ogni specifico problema, un gruppo di università, in tutto due o tre, che facciano da capofila e da coordinamento dei centri di eccellenza. Queste strutture devono diventare permanenti perché occorre che vi siano dei centri dove si elaborino le proposte politiche d’intervento attraverso l’accumulazione dei saperi e della conoscenza».


Un’altra questione su cui la macroregione del Mezzogiorno punta per la crescita è il libero scambio. Come vede Lei, da Strasburgo, l’affermazione di un mercato basato questo presupposto?


«Come un’opportunità, ma anche come un rischio. È un’opportunità perché apre prospettive importanti, non solo per le Regioni del Mezzogiorno. È un rischio perché può portare all’affermazione di regole - a esempio nel mercato del lavoro - che penalizzino i cittadini europei in nome di un concetto della crescita che non può continuare a basarsi sulle statistiche del Pil, quasi sempre inattendibili, ma che ha bisogno di nuovi criteri a partire dalla qualità dello sviluppo».


Questa, per l’Unione Europea, è la legislatura dell’avvio della dialettica politica in seno al Parlamento. Tuttavia, su alcune questioni importanti, come la politica estera, gli Stati nazionali continuano gelosamente a mantenere una loro autonomia. In questo momento, le relazioni estere dell’Italia aiutano la macroregione del Mezzogiorno a costruire un ponte verso il Mediterraneo?


«La risposta è molto semplice. Oggi, in Europa dell’Italia si ride. Il governo italiano in Europa ha un prestigio pari a zero perché non esprime nessuna linea. A maggior ragione la macroregione del Mezzogiorno può essere importante, perché può avere una sua capacità di elaborazione e di proposta che può in parte supplire al vuoto politico del governo nazionale. In quest’ottica, è ovvio, quindi, che un nuovo governo potrebbe aiutare questo soggetto. Tuttavia è pur sempre evidente che, di qui a un anno, un nuovo esecutivo, qualunque sia il suo colore politico, debba avere una strategia politica di ampio respiro in grado di esprimere un progetto, sia in seno all’Ue sia con gli altri soggetti internazionali. Occorre una visione del mondo ampia su tutte le questioni. Faccio un esempio: la politica degli armamenti. Che strategie, che investimenti vengono proposti in seno all’Europa?».


La macroregione può avere voce in capitolo anche sul tema della difesa?


«Assolutamente sì. A Napoli, a Taranto, in Sardegna, ci sono le basi Nato. Bisogna interrogarsi, in maniera costruttiva, sul futuro di questo soggetto. Una politica di difesa e di pace non dev’essere un tabù per il nuovo coordinamento del Mezzogiorno, ma sarà un argomento da inserire nell’agenda delle priorità all’ordine del giorno nella discussione. È una questione che riguarda le risorse da investire, ma anche la politica sulla sicurezza su cui le regioni devono esprimere la loro posizione e confrontarsi con l’opinione pubblica». 

 





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