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Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

La Sicilia nel 1876 - Leopoldo Franchetti - Sidney Sonnino (Edizione 1925)

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

di Enea Cavalieri



I.

La genesi di questi due volumi va ricercata e nelle condizioni subiettive degli autori, e in quelle oggettive della Sicilia, allora vivacemente ed aspramente discusse sia nel Parlamento sia nel Paese.

Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, ed io con loro, avevamo quasi contemporaneamente potuto portare innanzi, insieme con gli studi, l’osservazione pratica, durante parecchi viaggi nell’interno ed all’estero, delle differenti conseguenze lasciate lungo le lotte per la conquista delle libertà politiche, dai modi e dalla data di abolizione o di riforma degli ordinamenti feudali, riscontrandovi la più chiara spiegazione sia delle peculiari condizioni nelle quali venivano a trovarsi anche più regioni di un medesimo Stato, sia della contraddizione che talora correva fra il grado di prosperità delle industrie locali, e il benessere dei lavoratori che pure tanto contribuivano a farle vivere; tuttavia eravamo accesi dal desiderio di saperne di più e di spingerci a più larghe visioni almeno in riguardo all’Italia. Mentre dalle Cattedre Universitarie ci si impartivano, con ispirazione abbastanza liberale, le ultime lezioni, eravamo già preoccupati dal pensiero di quelle nostre plaghe, dove, come in alcune dell’Inghilterra, il contadino era poverissimo anche in confronto di un’agricoltura assai progredita, dove il proposito sincero di governare con giustizia e con amore, s’infrangeva più o meno davanti ad ostacoli che sapevano di misterioso, e che esigevano tuttavia una perspicua e fedele rivelazione.

Non che fossimo i soli giovani ad avere siffatte sensazioni; ma per un felice insieme di zelo studioso, di amor patrio e di carità civile, si era radicata in noi la speranza di poter così concorrere a promuovere via via il progresso economico e morale di tutte quelle provincie che il passato malgoverno aveva lasciato in condizioni ben dolorose.

Si aggiunga che nell’Università di Pisa, donde tutti tre siamo usciti, gli studenti solevano infervorarsi così delle questioni del giorno da essersi scissi, nello stesso seno dell’Associazione che avevano costituito, in quasi altrettanti partiti, e così battaglieri, quanti ne aveva la Camera; e anche allora, non senza appassionanti evocazioni retrospettive, agitavano e riagitavano la discussione, sorta già la vigilia della spedizione dei Mille, e resa più ardente dall’infelice esito di quella di Mentana, se il Governo nostro doveva sfidare audacemente ogni più aspra difficoltà internazionale per tentare ancora la conquista di Roma e il compimento dell’unità dell’Italia o se dovevasi pazientare per trarre partito da più opportune circostanze politiche dell’Europa. Le divagazioni su questo tema davano luogo a vere lotte e a pericolosi episodi per le contrastanti tendenze clericali, conservatrici, liberali e radicali; ma Leopoldo Franchetti ed io che più vi fummo coinvolti, anche nelle declamazioni più estreme eravamo indotti a riconoscere un monito salutare, e davanti a certe accuse più violente, ci chiedevamo se non potevasi governar meglio, almeno nel Mezzogiorno e nelle isole. Inoltre molti dei valorosi professori dell’Università, e della Scuola normale di Studi Superiori che le fioriva accanto, nel confabulare famigliarmente con noi degli episodi locali e sugli avvenimenti politici, ci incoraggiavano a dar saggio sollecito della nostra preparazione a servire il paese.

Già s’era giunti alla fine del 1870. Una profonda impressione avevano fatto in Italia le vittorie tedesche contro la Francia, e più ancora le nefandità e le devastazioni che vi fece tener dietro la Comune insediatasi a Parigi. Perfino il Bonghi ebbe a dire poco dopo alla Camera nel combattere alcune nuove imposte, anch’esse più dure pei meno abbienti: «È entrato ormai nella mente e nell’animo di tutti quanti gli uomini di Stato d’Europa che le classi agiate, se vogliono vivere posate e tranquille, e sperare il progresso costante della Società civile, bisogna che si persuadano di aver esse cura d’anime in favore delle classi povere». Anche le assidue letture ci avevano infervorato sempre più di spirito liberale, e affidati ad esso, abbiamo dato più animosi i nostri primi passi nel campo dell’azione. Così Sidney Sonnino pubblicò nel 1874 la sua monografia «sulla Mezzeria in Toscana», tradotta subito in tedesco nella Rivista Italia, diretta dallo Hillebrand, con lo scopo di mettere in piena luce uno dei mezzi atti a sostituire nell’agricoltura alla lotta fra capitale e lavoro, la loro conciliazione mercè un’equa compartecipazione del contadino ai lucri del proprietario. Così Leopoldo Franchetti, fattosi a percorrere successivamente gli Abruzzi, il Molise, la Calabria e la Basilicata, ne espose in alcune lettere al giornale fiorentino La Gazzetta d’Italia le infelici condizioni economiche ed amministrative, facendole risalire all’insufficienza delle provvidenze di Governo( ). Così io stesso, dopo essermi indugiato sulla fine del 1870, in nome del Comitato per le elezioni politiche di Ferrara, in vivaci polemiche sui temi della legge sulle guarantigie, della miglior forma di Governo, e delle applicazioni da darsi alle dottrine liberali per difendersi dalle utopie socialiste e comuniste, avendo assunta nel 1872 per tre anni l’Amministrazione delle lagune da pesca di Comacchio, mi adoperai a renderla fonte di moralità e di benessere per quelle popolazioni( ).

Nel frattempo le agitazioni e le accuse partigiane, inasprendo le già profonde divergenze sui metodi di Governo, avevano piombato sempre peggio il Paese e il Parlamento nella confusione e nell’irrequietezza; ed Ernesto Nathan, nostro caro amico personale, ma allora di pura fede mazziniana, obbedendo a concetti etici in lui profondamente radicati, pubblicava in opuscolo un appello per costituire una Lega degli onesti, la quale doveva far argine contro gli intrighi ed i fini loschi dei politicanti di mestiere. Per discutere sull’opportunità di associarsi a lui, Leopoldo Franchetti mi invitò con Sidney Sonnino ad un convegno ospitale nella sua dimora di Firenze.

Le disposizioni dei miei amici erano favorevoli: ma io obiettai subito che era progetto poco pratico, parendomi chiaro che i meno onesti sarebbero stati i più frettolosi a voler far parte della Lega, mentre poi non vedevo come si potesse riescire a respingerli. Alla dubbia influenza di siffatti organismi opposi l’opportunità di continuare quegli sforzi individuali in cui già ci eravamo provati. L’occasione parevami offerta dall’avere il Governo proposto al Parlamento per ben due volte delle leggi eccezionali, cioè più o meno lesive di libertà e di diritti già riconosciuti, ma intese a dare una maggior sicurezza alle persone ed ai loro averi in quelle Provincie dove ce n’era bisogno.

Tutti si appassionavano a discutere sull’efficacia del rimedio, e in quelle regioni dove v’era maggior ragione di temere la sua applicazione, violentissime erano le proteste contro di esso che per lo meno qualificavasi un’offesa ingiustificata e ingiustificabile. Noi dovevamo recarci successivamente sui luoghi e verificarne e studiarne i fenomeni morbosi. Poichè il contratto agrario era tanta parte di tutte le manifestazioni della vita civile ed economica, suggerivo di pigliare a pretesto lo studio dei suoi svariati tipi locali per fare nello stesso tempo, senza destare sospetto, un’indagine minuta intorno le condizioni morali, politiche e sociali della popolazione.

Non mi fu difficile vincere il partito, e, senz’altro, ci siamo chiesti quale regione dovevamo visitare per prima.

Una proposta di legge per provvedimenti eccezionali era già stata presentata nel 1871 quando nella Romagna i reati di sangue si seguivano con una frequenza impressionante, e avevano fatto numerose vittime anche fra i più alti funzionari. Se n’era poi elaborata un’altra assai di recente con l’intendimento di colpire nel vivo il brigantaggio, la camorra e la mafia.

Avevamo dunque dinanzi due indicazioni concrete. Sulle prime il nostro pensiero si rivolse alla Romagna, ma si rinunciò presto ad essa perchè il Parlamento aveva bensì concesso più severe disposizioni pei casi di detenzione, vendita e fabbricazione di armi insidiose, e anche la facoltà di trattenere i vagabondi e i facinorosi a domicilio coatto perfino per cinque anni se recidivi, ma la tranquillità, per buona sorte, era già tornata specialmente ad opera degli stessi cittadini, i quali, nella veste di guardie nazionali, ed anche senza, avevano a gara prestato man forte alle autorità ed ai loro agenti. Che se poco dopo era sopravvenuto l’allarme politico di Villa Ruffi, perchè colà vennero arrestati in massa molti capi dei partiti rivoluzionari che vi si erano dati convegno, il processo seguitone aveva escluso il reato di cospirazione, e certo ormai anche la Romagna poteva ritenersi allora una regione in condizioni normali.

Diverso era il caso della Sicilia.

Fu un giusto risveglio di energia che spinse il Governo a proporre perfino provvedimenti eccezionali pur di ristabilirvi la pubblica sicurezza, e giusto anche fu il suo scrupolo costituzionale di chiedere prima l’assenso della Camera quantunque assai alto salisse il clamore della voce pubblica sulla gravità di quelle condizioni, ma non per questo era da aspettarsi una insurrezione meno accanita da parte della sinistra che, cresciuta di forze con le ultime elezioni, e già vedendosi alla vigilia di giungere al potere, volle subito insinuare che quella era una vendetta contro l’isola per aver essa mandato alla Camera molti più deputati d’opposizione che per lo innanzi. La discussione si fece presto tempestosa ed impressionante, anche perchè da un lato il Ministro dell’interno Cantelli s’era indotto a comunicare parecchi rapporti di Prefetti dove facevansi gravi accuse alla popolazione di sistematico favoreggiamento ai ribaldi, e dall’altro vari deputati mossero rimprovero a più di un funzionario di provocare ed inscenare reati, e di mantenere rapporti coi briganti e con la mafia per servirsene come mezzo di governo. Persone e fatti erano stati in questo senso precisati dal deputato Tajani, già Procuratore del Re a Palermo, con accenni alla responsabilità dell’attuale e dei passati Ministeri; e per quanto non fossero mancate vivacissime proteste, smentite, e una domanda di inchiesta parziale da parte del Lanza per le imputazioni che si facevano risalire a lui, per quanto il Crispi, il Nicotera, il Lacava da sinistra, e il Rudinì, il Lioy e il Codronchi da destra, con altri ancora, ammonissero di non far questione di partito in questione così spinosa, la Camera a voto palese con 220 si contro 203 no approvò l’ordine del giorno puro e semplice, e a scrutinio segreto anche i provvedimenti eccezionali, che tuttavia, secondo un ordine del giorno Pisanelli, dovevano applicarsi solo ai già ammoniti e perseveranti nel mal fare; e, poichè molti deputati, presi da sdegno avevano abbandonato l’aula, il disegno di legge per un’inchiesta generale sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e sull’andamento dei pubblici servizi raccolse appena 145 voti favorevoli, contro 48 contrari e 12 astenuti.

Se andava da sè che appunto in Sicilia conveniva dar seguito agli studi che avevamo deciso di fare, era anche naturale l’obiezione che ormai stava per provvedervi l’Inchiesta Parlamentare rendendo superflua l’opera nostra. Ma l’obiezione non ci ha trattenuto. Per sanare dei mali bisogna giungere a conoscerli bene, e nessuna superfluità poteva esserci se anche noi svolgevamo indagini in via privata indipendentemente dalle altre più solenni e di carattere pubblico. Era da presumere che la Giunta Parlamentare, coi nove membri che dovevan comporla( ), avrebbe invitato a sè in corpo Rappresentanze e Delegazioni, fatto incetta di documenti ufficiali e di statistiche, tenuto udienze solenni col sussidio di uno o più stenografi, seguìto insomma procedimenti che lasciassero traccie sindacabili; ma proprio perciò atti a rendere timorosi e perplessi i più dei testimoni; noi invece dovevamo e potevamo cercare l’intimità di conversari riservati, per attingerne rivelazioni, giudizi e voti che giovassero a lumeggiare la psicologia della popolazione e i retroscena della vita civile e dell’interdipendenza economica e sociale delle varie sue classi. C’era da aspettarsi, ed infatti avvenne poscia, che come molti deputati e senatori dell’Isola convenivano con noi in via confidenziale su molte anormalità che pure avevano negato nella discussione parlamentare, così molti privati e molti funzionari non essendo in sospetto delle nostre finalità, si lasciassero andare, insieme con le informazioni sulle condizioni culturali, a rivelazioni incidentali meno prudenti e di ben altro carattere. Inoltre la inclusione nella Legge per l’inchiesta anche delle indagini sulle condizioni sociali si sarebbe risolta, quali erano i più dei membri della Giunta, in un prudente riserbo, poichè allora, anche molti liberali, per la nebulosità in cui la questione sociale rimaneva ancora avvolta, preferivano negarla al discuterla. Noi invece avremmo avuto la nostra coscienza meno preoccupata.

Presa la nostra decisione abbiamo subito pensato alla preparazione necessaria. Anzitutto occorreva che ciascuno raccogliesse quante più lettere di presentazione presso siciliani di diversa condizione ma sempre dimoranti nell’Isola e preferibilmente interessati nell’Agricoltura; infatti alla vigilia della partenza ne contavamo già quaranta che poi si moltiplicarono grazie alla grande cortesia con cui quei signori ci accolsero, e ce ne munirono. Fin da allora ci siamo prefissi di non prendere appunti durante i nostri colloqui, ma di affidarne alla memoria le parti più importanti e redigerne ricordo scritto alla sera aiutandoci scambievolmente. Conservo ancora il mio testo che comprende oltre cinquecento pagine e nel quale si leggono perfino gravissime accuse sulle quali, com’era doveroso, abbiamo conservato un geloso silenzio. Poichè era da prevedere che avremmo passato moltissime notti nei più umili villaggi e nei loro alloggi primitivi, abbiamo pensato ad aggiungere al nostro semplicissimo bagaglio dei letti da campo pieghevoli, ognuno munito di quattro vaschette di rame, rientranti l’una nell’altra per economia di spazio, nelle quali, riempiutele d’acqua, tuffare i piedi del letto prima di coricarci, per isolarlo dagli insetti. Abbiamo pure dovuto preoccuparci dell’eventualità di venire aggrediti dai briganti a scopo di ricatto, e quindi abbiamo deciso di provvedere per noi e per un fidato nostro servo che ci doveva accompagnare, quattro carabine «vetterli» del recentissimo modello a ripetizione, e quattro rivoltelle di grosso calibro, da portare costantemente su noi lungo il viaggio nell’interno.

II.

Questi ed altri preparativi ci fecero ritardare la partenza, sicchè fummo preceduti di qualche mese dalla Giunta parlamentare: ma ciò giovò a meglio dissimulare il nostro scopo più vero.

Ricordo che alla vigilia di lasciar Roma, mi trovavo con Leopoldo Franchetti nell’appartamento occupato da lui in via S. Sebastianello, quando egli nel maneggiare la sua rivoltella, ne lasciò partire un colpo involontariamente. Il proiettile spense la lampada ch’era già accesa sul tavolo, e andò a conficcarsi nell’opposta parete, a pochi millimetri dal petto di un suo vecchio cameriere che stava attraversando la stanza. Costui ne fu assai spaventato e traendone un triste presagio si provò a scongiurare il suo padrone di non partire. Naturalmente fu vana fatica.

Non solo il preteso presagio fu bugiardo, ma se abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perchè scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minaccie concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento. Eppure, ecco, secondo una relazione presentata dal Nicotera alla Camera poco dopo la nostra visita, un quadro delle condizioni della sicurezza pubblica in quell’epoca, quale la riconosceva il Governo.

«Cinque bande di audacissimi malfattori a cavallo nelle provincie occidentali commettevano assassinii, sequestri, grassazioni e rapine. Quella di Angelo Rinaldi, cui s’era unito il feroce Bottindari, infestava la provincia di Palermo, facendo qualche escursione nell’altre vicine, ed aveva trovato un sicuro rifugio nel Comune di S. Mauro Castelverde, ove protetto da numerosi manutengoli sfidava le ricerche della forza pubblica. L’altra comandata dal non meno feroce e terribile Domenico Sajeva scorrazzava nella provincia di Girgenti, e, protetta dall’alta mafia, aveva potuto sottrarsi alla giustizia. I superstiti briganti della banda Capraro avevano prescelto a loro capo il sanguinario loro compagno Merlo, per rimeritarlo dell’audacia dimostrata nell’assassinare, quasi alla presenza della forza, nell’abitato di Sambuca l’infelice milite Maggio, uccisore del Capraro, e percorrevano i circondari di Sciacca, di Corleone e di Mazzara commettendo atti di inaudita ferocia. Il bandito Nobile che per lo innanzi si era associato ora all’una ora all’altra banda, unitosi al Marino, aveva finito per costituirsene una propria e taglieggiava la parte occidentale della provincia di Palermo, mentre la parte orientale era infestata dalla comitiva del feroce Leone, la quale spesso irrompeva nel circondario di Mistretta e nella provincia di Caltanissetta. Codeste cinque bande di terribili malfattori avevano sparso lo spavento nelle quiete provincie occidentali dell’Isola ed avevano eseguito, sul cadere del 1875 e nel principio del corrente 1876 diversi sequestri e molti assassinii, tra i quali quello dell’Alberto, del Calzolari, del tenente Soldani, del milite Maggio, di Castellazzo Filippo, dei fratelli Leone ed avevano esterminato le due famiglie Pepe e Giacino in S. Mauro».

Certo ogni banda aveva un’organizzazione complessa e se pure si citavano per nome soltanto quattro o cinque dei suoi componenti, era risaputo che all’occorrenza poteva mostrarsi anche forte di venti e più; ma non per questo non dovevamo temere che qualcuna spingesse l’audacia fino ad aggredirci. Nè ciò contraddiceva al concetto che ce ne siamo andati facendo poi, e che Leopoldo Franchetti ha così bene esposto. Della loro organizzazione, sia stabile, sia periodica od eventuale, le bande solevano giovarsi non contro i forestieri, presumibilmente affatto alieni da ingerenze locali, ma nei loro rapporti coi signori del luogo, che dovevano o rassegnarsi alle loro imposizioni o vedersi combattuti ad oltranza, e anche nei loro rapporti con Ditte e gruppi industriali e commerciali cui assicuravano la loro tutela dietro corrisposta di determinati contributi. Oltre che di ricatti e di rapine, vivevano così di tasse sulla molenda o sulla fabbrica di mattoni o su altre industrie, salvo poi ad affermare sempre meglio all’occasione la pretensione di costituire un nucleo autoritario apparentemente interessato ad integrar l’azione del Governo per la tutela dell’ordine, con episodi di atroci violenze frammisti ad ostentazioni di generosità e di giustizia punitiva. Forse anche per la nostra insignificanza di oscuri viandanti abbiamo potuto affrontare impunemente le visite a Mistretta, a Bivona ed a S. Mauro alle quali la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, a malgrado della sua scorta, finì col rinunciare.

Ma se i briganti forse non pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l’errore provocando la nostra più schietta ilarità. Viceversa fin dal nostro primo soggiorno a Palermo, ricevuti dal fratello di un antico aiutante di campo del generale Medici pel quale io avevo una lettera di presentazione, ci sentimmo dire che le loro terre nei pressi di Alia erano visitate frequentemente dai briganti, che il suo fratello ben li conosceva, e che, se ci pungeva curiosità di intervistarli ce ne avrebbe procurato il modo. Declinammo concordi l’offerta per non esporci a quel rimprovero di riconoscerli e di coltivare rapporti con essi che noi stessi facevamo a lui e ad altri siciliani, e, per la stessa ragione, rifiutammo l’offerta che ci venne fatta a Castelbuono di farci entrare furtivamente a S. Mauro nonostante il cordone che un battaglione di bersaglieri vi teneva intorno, nel disegno di sorprendere il brigante Rinaldi che si credeva dovesse far ritorno a quel suo nido naturale, dove già aveva impunemente svernato.

A S. Mauro ci siamo entrati lo stesso, e apertamente, per la scoscesa e pittoresca strada che da Castelbuono vi conduce, e in verità allora le difficoltà, più che per accedervi, erano per uscirne, giacchè i tre punti concessi al passaggio attraverso il cordone militare erano ancor più sorvegliati nel secondo caso. Forse proprio perciò era accaduto che cinque giorni prima, la banda Rinaldi avesse potuto penetrarvi con tutti i suoi cinque uomini confusa fra 50 contadini reduci dal lavoro, e, commesso l’eccidio di tutta la famiglia Pepe, vi avesse affisso uno scritto che diceva «che quella era la giusta punizione di una grande infamia». La spiegazione pare fosse che avendo il padre Pepe, un muratore, attentato all’onestà di una sua nuora, e avendo lo sposo preso seco una ganza, essa nuora, per vendicarsi, propalò che la banda era stata a lungo ricoverata in quella casa, e diede indicazioni per sorprenderla.

Del resto, in un viaggio come il nostro, che nell’interno si svolse insolitamente traverso comunicazioni spesso alpestri e sempre in pessimo stato, emozioni e pericoli non mancarono. Ho sempre vivo il ricordo di una caduta in mare, che mi incolse il 16 aprile, quando ritornati a Palermo, venni pregato dai miei compagni di visitare anche per loro il roccioso isolotto di Ustica e i suoi 212 coatti, mentre essi si fermavano a chiedere chiarimenti a persone già interpellate insieme in precedenza. Il mare si fece assai grosso, l’imbarcazione era primitiva e fragile, e nella difficoltà di accostare, essa si rovesciò e me la cavai con un brutto bagno, che avrebbe potuto essere l’ultimo se non ero discreto nuotatore. Ciò tuttavia non m’impedì di avere poco dopo tre interessanti colloqui: il primo con quel Sindaco, il secondo con un Delegato di P. S., il terzo con un bravo maestro elementare, parente del Sindaco, dal quale generosamente era aiutato a vivere non potendogli bastare le 38 lire mensili nette da ritenuta che riceveva dal Ministero.

III.

La Giunta Parlamentare d’Inchiesta ottemperò alla Legge 3 luglio 1875 della sua costituzione che le fissava il termine di un anno per presentare al Governo i documenti e la Relazione; ma se ciò fece il 3 luglio 1876, ultimo giorno utile, la pubblicazione non seguì che coi primi del settembre.

Meno solleciti fummo il Franchetti, il Sonnino ed io anzitutto perchè non ci venne dato di recarci insieme nell’isola altro che sul principio del 1876, e solo nel maggio ci siamo disposti al ritorno, pigliandosi una precedenza di qualche giorno il Sonnino, richiamato improvvisamente da circostanze di famiglia. Inoltre troppe ore ci avevano preso le gite ed i colloqui, sicchè occorse rivedere, confrontare e coordinare i nostri affrettati appunti, (nei quali si rispecchiavano moltissime contraddizioni di tendenze, di fatti e di giudizi), prima di accingerci a tracciare le grandi linee riassuntive e di fissar le conclusioni. Subito ci si affacciarono le difficoltà di una tripartizione razionale del comune lavoro, e anche di una sua redazione sociale; e un po’ per questo, ma più ancora perchè era da prevedere che esso avrebbe richiesto non poco tempo, mentre io ero assillato dall’impegno già assunto di un viaggio intorno al mondo, decisi di troncare la mia collaborazione e di partire pel Canada, lasciando ai miei amici il redigere e pubblicare i loro due volumi( ).

Il volume del Sonnino «I contadini» che doveva figurare come secondo, uscì in luce primo con lo spuntare del dicembre; l’altro «sulle condizioni politiche e amministrative» il 23 di quel mese. Entrambi non avevano quindi potuto leggere la Relazione della Giunta se non quando liberavano le proprie bozze: ma ebbero sempre agio di dichiarare nella prefazione che trovò posto a capo del volume del Franchetti, che mentre avevano la soddisfazione di trovarsi non di rado d’accordo con la Giunta nei loro apprezzamenti sopra fatti parziali (specialmente sopra quelli esposti nel primo volume), non potevano dire lo stesso dei giudizi generali. Di più in una nota al § 131 del volume del Sonnino è anche soggiunto che la diversità di apprezzamenti per la parte agraria va riferita anzitutto all’avere escluso la Giunta l’esistenza in Sicilia di una qualunque questione sociale, mentre egli Sonnino non solo insisteva nel constatarla, ma ne faceva una concausa importantissima dello stato di insicurezza pubblica e di corruzione civile di gran parte della Sicilia. Ora, poichè dei due volumi si è avuto il buon pensiero di fare una seconda edizione, e si è voluto affidare a me l’onore di premettervi una nuova prefazione, spero che non si troverà fuor di luogo che io m’indugi ad istituire un confronto fra le constatazioni delle due Inchieste, pigliando poi in esame taluni importanti scritti successivi che se ne occuparono, e dando conto per ultimo della discussione parlamentare sollevatasi quasi a loro conclusione.


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IV.

Nel leggere la Relazione della Giunta si avverte con sorpresa che essa ha palesemente evitato di parlare dei briganti. Essa riconosce bensì che in Sicilia ricorrono con grande frequenza i reati di sangue, il malandrinaggio nelle campagne e le associazioni di malfattori, ma se pure nel tener parola di quest’ultime, usa anche l’espressione bande (pag. 140), e prima, a proposito del malandrinaggio, attribuisce alle associazioni dei malfattori i ricatti delle persone quantunque eseguiti in rasa campagna, «giacchè è raro che non sieno preparati da lunga mano in conciliaboli di associati e di manutengoli nelle città» (pag. 131), ecco tutti i suoi principali commenti: «È una vera lotta d’intelligenza e di raziocinio che la barbarie sostiene contro la società». «È su questo punto che scattano più calde e più implacabili le accuse e i lamenti contro i poteri pubblici». «....Secondo le deposizioni Pellegrino, Messina e Cesarò le bande dei malfattori ricevono visite e tengono relazioni con la pubblica forza». Così scarsi e scoloriti accenni vanno connessi col proposito della Giunta di spiegare la massima parte dei fenomeni dolorosi della vita siciliana come conseguenza «di una minor preparazione dell’altre provincie italiane all’austero e difficile regime della libertà». Così sfuggono molte colpe e molte responsabilità. E anche altrove la Giunta accenna solo di sfuggita ai reati che pur sono più caratteristici («ricatti audaci come quelli eseguiti l’anno addietro sulle persone del barone Porcari, del barone Sgadari, del Camaroni sequestrato in piena città, agguati in cui cadde la forza pubblica nei poderi del barone Varisano e dei fratelli Cataldi») tutta lieta di constatare che con la sua visita ebbe a coincidere un periodo di tregua iniziatosi mesi addietro, ma costretta a confessare che i più esperti lo ritenevano una delle solite oscillazioni di intensità (pag. 116 e 117). Ma come non considerare il brigantaggio siciliano un gravissimo fenomeno morboso e peculiare dell’isola, quando se ne rintracciano le origini nella reazione contro il feudalismo ferocemente vissuto, quando abbiamo appreso di briganti cresciuti nel mestiere per atavismo, di altri che tali si fecero per isfuggire a quella leva militare la quale prima del 1860 era sconosciuta e nel 1860 venne imposta con rigore eccezionale( ), quando sapevamo che le bande si formano e si rinnovano così di frequente e in tante plaghe diverse? Sia pure che altri ancora diventarono briganti perchè resi sempre più tristi nella loro intolleranza delle discutibili leggi sull’ammonizione e sul domicilio coatto; che parecchi ruppero con baleni di generosità la fosca sequela dei propri reati; che taluni non negarono preziosi servizi nell’urgenza di qualche movimento politico agli uomini d’ordine ed al Governo, i quali ebbero gran torto nel richiederneli senza sentire in pari tempo la responsabilità di convertirli in buoni cittadini durevolmente. Certo è che ai nostri occhi concretavano il pervertimento morale dell’ambiente, pervertimento che si faceva poi sempre peggiore per la loro triste influenza.

A Ribera abbiamo saputo di un caso che ci dà la misura di questa reciproca azione. Si erano sequestrati due dei sette fratelli che componevano la famiglia Bonifacio. Uno di loro venne rimandato presso di essa per ottenerne il danaro del riscatto; invece egli stesso, i fratelli e gli amici si unirono per dar la caccia ai briganti riuscendo ad ucciderne due e a liberare l’altro fratello. A tutti fu data la medaglia al valore civile, che avevano davvero ben meritata. Senonchè non tardarono ad accorgersi che si tramava la vendetta, e dovendo pur recarsi di frequente nelle campagne pei loro affari si decisero a pagare anch’essi un tributo alla banda per non essere molestati, e presero parte perfino ad un pranzo di riconciliazione.

Può anche darsi che la Giunta si sia lasciata vincere dall’ottimismo per un certo riguardo politico. Gli è infatti che il brigantaggio non potrebbe vivere senza il manutengolismo, e il porre questo nella sua piena luce offende l’amor proprio dei moltissimi che lo praticano e si affannano a giustificarne la vergogna con la mancata tutela del Governo. Noi invece abbiamo preferito ritrarre fedelmente la situazione nella sua crudità, convinti che se pure era raro che il manutengolismo nascesse cosciente, e fosse deliberatamente volontario, rimaneva altrettanto pernicioso allorchè, caso assai più frequente, era conseguenza ultima di una serie di rapporti, superficiali prima e via via più stretti fra briganti e cittadini.

Il Franchetti ce ne ha dato tre esempi abbastanza eloquenti qua e là nei suoi §§ 20 e 21. Io voglio aggiungerne qui un altro non già raccolto da noi nei colloqui di allora, ma che balza fuori vibrante di verità dall’interessante lettura di due volumi di memorie pubblicati a Parigi in francese nel 1830 coi tipi Delafont dal proscritto siciliano Michele Palmieri di Miccichè. L’essere l’episodio seguito tanto prima della nostra visita è una prova di più che il brigantaggio ha vecchie radici naturali nell’Isola e proprio nella sua medesima fisonomia.

«Era un pomeriggio dei primi di luglio. Mio fratello che era intento a scrivere nella sua camera mentre i domestici stavano finendo il loro pasto, si vide dinanzi all’improvviso tre uomini armati di tutto punto che gli fecero molti inchini per attenuare a loro modo l’impressione sgradevole delle loro faccie e della loro apparizione. Signor marchese, gli dissero, non abbiate paura, siamo brava gente e non vogliamo far male a nessuno, ma abbiamo bisogno di denari. Mio fratello, che intuì di non poter fare diversamente, fu loro cortese e lamentò solo di non essere stato prevenuto della visita. I domestici erano stati rinchiusi a chiave, ed altri nove briganti vigilavano fuori a cavallo. Alcuni abitanti di Villalba fecero sapere di volere accorrere a riscossa: ma mio fratello li fece pregare di rimaner tranquilli, ben sapendo che in caso di resistenza, se pure i briganti fossero stati messi in fuga, o presi, od uccisi, c’era da aspettarsi una feroce vendetta, e per lo meno il fuoco ai quattro angoli della proprietà con la distruzione delle messi e dei boschi: egli fece quindi imbandire una gran tavolata e pregò che non fossero troppo esigenti perchè egli non era l’esclusivo padrone. Mangiarono bene e bevvero meglio, poi intascate duecento oncie (circa 2550 lire italiane prebelliche) e fatte molte riverenze, presero la via del ritorno, sfilando per quattro sotto il comando del loro capo Luigi Lana, davanti a mio fratello che se ne stava ad un balcone sovrastante la porta d’ingresso per dar loro il buon viaggio, augurandosi di non più rivederli. Quand’ecco uno tra essi che doveva aver bevuto più degli altri, gli rivolge una sequela di atroci ingiurie rimproverandolo di averli canzonati con un così meschino riscatto. Luigi Lana gli puntò subito contro il fucile, e mentre tutti si tacevano terrorizzati lo freddò, e cadutone il cadavere dal cavallo, si precipitò di sella, estrasse la sciabola, gli tagliò netto il capo e gettatolo in un sacco che tolse dalla sella, lo presentò sanguinante a mio fratello, dicendogli: — Signor Marchese, egli vi aveva mancato di rispetto dopo che voi ci avete così bene accolti da dovervene essere riconoscenti. Tal sia di ognuno che vorrà offendervi come lui. — Mio fratello, in preda alla più viva emozione, pur rifiutando l’orribile presente, dovè ringraziare». Lo scrittore aggiunge che la banda da allora in poi continuò ad essere piena di riguardi pel marchese suo fratello e per gli abitanti di Villalba, ma chissà quali e quanti favori ne ottenne alla sua volta! Certo s’intuisce che lo scrittore non poteva confessarlo pubblicamente se pur ne era informato — ma siffatte subdole ed accortissime arti, meglio ancora della paura, dovevano riescire, in quel tempo come al momento della nostra visita, ad assicurare intorno alle bande brigantesche, quella rassegnazione passiva iniziale che esse sanno far presto degenerare in più o meno aperta complicità.

La Relazione della Giunta d’Inchiesta non vuole che sieno considerati manutengoli coloro che terrorizzati dalle minaccie aderiscono a ricoverare una banda nella propria masseria o s’impegnano al silenzio sui suoi atti ed andamenti o perfino, in caso di ricatto, preferiscono trattare direttamente con essa all’aiutare le ricerche dell’autorità (pag. 46). A ragione il Franchetti osserva che talvolta la paura spinge altresì a dare armi ed informazioni utili ai briganti e che le condizioni di fatto della Sicilia non consentono di trovare un criterio per distinguere il manutengolo che vi obbedisce dal volenteroso e per determinare il momento in cui al timore delle ostilità si frammischia o subentra la speranza di un vantaggio o di un lucro (§ 65). È accaduto così che poco dopo la nostra visita il feroce capobanda Sajeva fosse sorpreso dalla forza mentre in un casino poco discosto da Girgenti prendeva parte unitamente ai suoi compagni ad un lauto pranzo che gli era stato offerto da un barone e da un cavaliere.

Indipendentemente dal manutengolismo, noi abbiamo potuto accertarci, mentre la Relazione della Giunta lo ha escluso, che in Sicilia s’è formato un ambiente favorevole ai briganti, anche perchè in generale perfino i più feroci di essi, si avvantaggiano di una vaga aureola che ha suscitato qualche tratto di generosità, qualche lampo di eroismo, qualche riparazione di ingiustizie da parte di altri. Io debbo confermare, a malgrado di ogni smentita, che più d’una volta abbiamo sentito parlare di loro con simpatia ed ammirazione anche da funzionari dello Stato. Non c’è che da congratularsi dell’indignazione che questa rivelazione ha sollevato, e da augurarsi che prorompa sempre più calda, ma mi sembra eccessivo il volerla smentire; del resto anche nelle Riviste più reputate se n’è scritto con deferente interessamento, e per darne un esempio, ecco un periodo che esalta il loro valore, tolto da un articolo che fu inserito nella Nuova Antologia del febbraio 1877 da Enrico Onofrio, un siciliano molto verosimilmente anche pel nome: «Briganti si aggirano attualmente per le campagne dell’isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato è Antonino Leone. Furono uccisi per vendetta privata, o per invidia di mestiere, Valvo, Rinaldi, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro di Sciacca. Questi fu ucciso dalla pubblica forza dopo che, abbandonato dai suoi compagni, sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa dove trovavasi con la sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale. Botindari trovasi ora in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni continuò a combattere; ferito gravemente si diede alla fuga, corse per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito. Uomini di tale audacia s’impongono facilmente a popolazioni di intere campagne.... Il brigante siciliano veste cacciatora e calzoni di velluto, è armato di fucili moderni e di rivoltelle delle migliori fabbriche, porta seco una grandissima quantità di munizioni ed un perfetto canocchiale per poter distinguere l’appressarsi del nemico. Il suo compito si riduce ormai al sequestro di ricchi proprietari. Il sequestrato è generalmente trattato nel modo più cortese ed è fornito a tavola di laute vivande».

Se fosse stato vero che la maggioranza dei proprietari siciliani si sottometteva riluttante ai rapporti con le bande, avrebbe dovuto accadere che anche senza dare spettacolo di eroismi individuali, come fecero sulle prime i fratelli Bonifacio a Ribera, essi ricorressero, con risvegli di dignità e di coscienza, alle difese collettive. Il Franchetti è scettico al riguardo anche quando al suo pensiero si affaccia il recente esempio della Romagna (§ 56). È scettica anche la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, ma il Franchetti lo è perchè ritiene troppo diffusa e troppo bene organizzata la violenza delittuosa, per rimaner possibile ad un’associazione di privati il formarsi e romperla e sgominarla; invece la Giunta lo è perchè da parte dei cittadini vi è un diritto ad essere difesi dalla forza pubblica, non il dovere di dirigerla e di esporsi per essa. «Se in una data provincia, essa dice, lo Stato sociale è cosiffatto che non assicura nè la vita nè le sostanze nè la famiglia, non si possono imporre ai cittadini quelle attitudini e quelle virtù che sono il risultato di uno stato sociale affatto diverso» (pag. 144).

Ecco davvero un modo insufficiente di intendere le necessità e le responsabilità della vita civile.

V.

Nell’articolo della Nuova Antologia che ho già citato, Enrico Onofrio dice che in Sicilia comunemente per mafioso s’intende chi ha del coraggio e sa darne le prove. A ragione il Franchetti ha accettato la definizione del mafioso dataci dal Prefetto di Caltanissetta. «È mafioso colui che per un sentimento medioevale crede di poter provvedere alla sicurezza ed incolumità di sè stesso e dei propri averi, mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall’azione dell’autorità e della legge». Nella Relazione della Giunta si va anche più oltre, e leggiamo: «La mafia è lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male, è una solidarietà intuitiva, brutale, interessata che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione» (§ 42). Un volume interessante col titolo «La Mafia» venne scritto e pubblicato nel 1904, coi tipi Sandron, dall’Alongi, siciliano che fu a lungo Commissario di Pubblica Sicurezza qua o là per l’isola. Egli dice che la mafia non è una vera setta ma un modo di sentire atavico. Il reagire prontamente alle offese è di tutti in Sicilia, forma anzi la nota dominante del carattere regionale. L’onesto ricorre alla magistratura o anche al duello; il mafioso non si fa scrupolo di spingersi all’insidia o all’agguato. Questo sentimento atavico genera, per affinità morali, delle Associazioni, come suole avvenire tra coloro che hanno una medesima fede politica o tra coloro che esercitano una stessa professione: ma in dati luoghi l’elemento mafioso si organizza pure in sodalizi criminosi (pag. 127). E il prof. Mosca, citato dall’Alongi, osserva alla sua volta che quei doviziosi e quegli altolocati che coltivano questi rapporti non lo fanno già per indispensabile necessità come affermano in ogni occasione alle autorità ed ai loro conoscenti dei centri meno impregnati di mafiosità, ma piuttosto per vanità, per voglia di primeggiare. L’Alongi si pone poi il quesito come fanno i mafiosi, quando non sono legati da statuti ed in organismi, a riconoscersi, e dice che bastano i contatti dei mercati e delle fiere; del resto ben pochi non lo sono.

Base della mafia, secondo ammette la Giunta (pag. 143), «è il manutengolismo perchè essa non potrebbe altrimenti organizzare i suoi ricatti, essere informata del movimento delle forze pubbliche, depositare i prodotti che preleva sui proprietari di terre e di giardini»; viceversa essa Giunta protesta «contro la leggenda di una fitta rete di manutengolismo a disposizione delle bande, avvolgente una larga complicità dalle alte alle basse classi». Eppure si può sostenere facilmente che se molti mafiosi erano ben lungi dal doversi confondere coi briganti, o dall’esserne i manutengoli, tutti i briganti, moltissimi campieri, molti militi a cavallo, senza dire dei privati, erano pure mafiosi e così il manutengolismo agli occhi nostri allargava molto la sua cerchia e con tanta maggiore insidia.

A prima impressione l’accordo fra le due inchieste pare perfetto; senonchè dopo aver definito la mafia con così foschi colori, e in altri momenti con peggiori ancora, la Relazione della Giunta osserva che non si tratta di piaga specialissima alla Sicilia, perchè la mafia «sotto varie forme, con vari nomi, con varia o intermittente intensità si manifesta anche nelle altre parti del Regno, e vi scopre a quando a quando terribili misteri del sottosuolo sociale: le camorre di Napoli, le squadracce di Ravenna e di Bologna, i pugnalatori di Parma, la cocca di Torino, i sicari di Roma (pag. 114)». Meno male che si concede che la mafia in Sicilia abbia base più larga e più profonde radici, ma, a parte l’evidenza di una preoccupazione ottimistica l’assimilazione è tutt’altro che esatta, e corre gran differenza anche fra la camorra, che suol pattuire e ha per iscopo il lucro, e la mafia che è un sentimento congenito o una disposizione datasi che porta all’esercizio di qualsiasi prepotenza con o senza lucro, cumulando specialmente nella vendetta.

Ho detto con o senza lucro. A Palermo un consigliere di Prefettura che poi fu per vario tempo deputato, dopo aver definito più semplicemente la mafia siccome un esercizio di arbitrio individuale che non implica necessariamente l’idea ed il fatto dell’associazione, ha aggiunto che vi è mafia nel senso buono come nel senso cattivo. «Io» disse egli, «sono un mafioso». — Così si comprende subito come alcuni funzionari sieno caduti facilmente in Sicilia nell’imperdonabile peccato di voler combattere e guarire il male col male. Lo stesso Consigliere di Prefettura, mentre riconosceva per vere le imputazioni fatte dal Tajani, anche in piena Camera, al Questore di Palermo Enrico Albanese, e confermateci da lui quando l’abbiamo visitato a Napoli, sosteneva in buona fede che Albanese era un fior di galantuomo e un questore zelantissimo, e soltanto debole di fibra. Proseguendo, ci narrò di aver saputo dal generale Medici che una volta egli chiese all’Albanese se era vero che a Termini Imerese, come gliene era già pervenuta notizia confidenziale, nella notte scorsa fosse stato assassinato un perverso malfattore e bruciato il suo cadavere col petrolio. L’Albanese non negò, ma mentre lasciava supporre, speriamo scherzosamente, ch’egli al volerne bruciato il cadavere non fosse estraneo, e altrettanto faceva il Sottoprefetto di Termini Imerese intanto sopraggiunto, capitò di un sùbito una completa smentita ufficiale, sicchè il Medici, sdegnato, esclamò: «Come potete vantarvi perfino di brutte azioni non commesse?».

Del disordine di moltissime amministrazioni locali la maggior responsabilità è della mafia che si annida in tutti i partiti e vi prospera a spese dell’interesse pubblico. Così avvenne che mentre in Romagna i funzionari dello Stato, nel tempo in cui si volevano applicare provvedimenti eccezionali, si sentivano isolati, in Sicilia non si cessava mai dal circondarli riuscendo a guadagnarne l’animo. Entrambe le inchieste fanno a questo proposito rimprovero al Governo l’averli mutati troppo spesso in armonia non sempre inconsapevole alle influenze della mafia locale. La Relazione della Giunta ammette per lo meno che vi fosse un po’ di vero nell’affermazione che molti Prefetti si sieno esclusivamente occupati di interessi politici con trascuranza degli interessi amministrativi.

Un così doloroso stato di cose esige una più chiara spiegazione. Si è tanto più facilmente indotti ad abusare della autorità di cui si è investiti, quanto più coloro sui quali essa si esercita abusano della libertà a loro concessa; ed è per mantenere le giuste proporzioni fra l’una e l’altra che la Legge, come impera imparziale sui cittadini tutti, contiene anche in sè i freni per chi deve applicarla. Ciò deve intendersi anche rispetto ai rapporti privati perchè nella compagine sociale essi sono sempre un intreccio di esplicazioni dell’autorità e della libertà, ma ha maggiore significato nei rapporti dei funzionari ed agenti dello Stato e delle Amministrazioni locali coi cittadini. Guai a rompere l’equilibrio normale perchè allora la giustizia si vela ed esula, e a poco a poco l’arbitrio e la violenza dappertutto subentrano con una triste vicenda di eccessi passionali e di illegali reazioni che del pari si risolvono in danno di tutti, e ci avviano ad un regime di barbarie. Eppure troppo spesso accade che quando l’ordine è turbato e si vuole ristabilirlo, si è sedotti dal bisogno di procedere con energia e di riescire radicalmente, e quindi si esagera inconsciamente la propria azione e si oltrepassano i limiti della Legge che sono quelli della morale e della giustizia. Non senza ragione fu detto e ripetuto che è questione di combattere abusi ed eccessi, e che la salvezza dello Stato, e anche soltanto la conservazione dell’ordine pubblico, costituiscono una necessità suprema la quale giustifica tutto; ma quelle dovrebbero risultare contingenze proprio inesorabili e sempre transitorie: quindi la sospensione delle libertà e l’offesa ad esse dovrebbero concretarsi in un provvedimento particolare e passeggero nell’indole più intima: anzi, contemporaneamente all’adozione, dovrebbe essere dato pegno di un prossimo ritorno alla legalità.

La teoria è presto enunciata, e nel caso del governo della Sicilia, il marchese Di Rudinì, che pure fu tanto accusato di arbitri e di violenze quando si trovò a reprimere i moti del 1866, trovò una formola felicissima che gli udii ripetere più d’una volta: «Meglio un ricatto di più che una libertà di meno»; ma difficile ed arduo quanto mai è l’applicare la teoria, e vediamo spesso smarrirvisi nonchè le classi dirigenti, proprio il Governo, sopratutto perchè fuorviato da fini politici ed anche per la instabilità sua e dei funzionari dai quali si fa rappresentare. Così, dopo le due Inchieste, mentre nella Camera era stata la Sinistra a muovere le più severe accuse di illegalità ai Ministeri di destra, il Nicotera, Ministro dell’interno con l’avvenimento della Sinistra, persuaso che un allontanamento dall’Isola dei peggiori elementi, comunque ottenuto, dovesse portare un durevole ritorno della pubblica sicurezza, applicò largamente il domicilio coatto senza che nemmeno vi fosse una preventiva contravvenzione all’ammonizione, condizione voluta anche dalla legge per i provvedimenti eccezionali. Ancora una volta fu il Governo a dare l’esempio della violazione della Legge, nè si può dubitare che allora e poi la situazione non ne fu già risanata, ma aggravata — perchè l’esempio non poteva non avere una triste ripercussione nei rapporti fra i cittadini oltre che nell’azione dell’Autorità e della Magistratura. Certo non tutto il patriziato, non tutta la borghesia è da sospettarsi o da rimproverarsi, ma non si può altrimenti spiegare la nostra dolorosa constatazione che le classi dirigenti siciliane, in gran maggioranza, invece di proporsi esse stesse un còmpito di rigenerazione, aumentavano i guai dell’Isola con l’egoistica, subdola e falsa insinuazione presso le Autorità che i propri interessi, sia privati, sia di partito, s’identificavano coi pubblici, specialmente nel campo delle Amministrazioni locali. Qui è da compiacersi che ben altrimenti energica che quella del Relatore della Giunta, sia tuonata la voce ammonitrice del Franchetti, anche se proprio di ciò più amaramente si dolsero e coloro che erano in colpa e coloro che trovarono opportuno di dimostrarsi solidali con essi.

Un esempio scandaloso è intervenuto in quei giorni. La Società di navigazione «La Trinacria» era notoriamente in condizioni di fallimento, eppure il Governo le prodigò allora altri cinque milioni, e gli organi ministeriali giustificarono l’enormità adducendo che proprio in quei momenti la pubblica opinione esigeva dei riguardi per la Sicilia. Quella non poteva essere invece che una sua falsa apparenza, e molto opportunamente il paragrafo 301 del volume deplora che poche persone, assumendo un falso carattere ufficiale, riescissero spesso a farsi credere suoi autorevoli elementi costitutivi. La Giunta pur ammettendo l’imprudenza delle esposizioni del Banco di Sicilia con la Trinacria nota che «l’opinione pubblica di Palermo era unanime nel sostenere quella Società, che aveva assunto quasi carattere nazionale ed aveva saputo quasi identificarsi con l’amor proprio isolano» (pag. 38).

Il Franchetti ha spinto la deferenza verso la Giunta d’Inchiesta, quando ne ha conosciuta la Relazione, fino a riportare integralmente, dopo aver deplorato anche egli le deficienze dell’azione del Governo per le opere pubbliche delle quali era assetata la Sicilia, la parte dove con grande competenza erano esaminati i bisogni della viabilità terrestre e marittima. Si può per altro osservare che entrambe le Inchieste dovevano meglio studiare quali provvedimenti più efficaci, specialmente in fatto di bonifica malarica ed agraria, potevano adottarsi per assicurare una maggior salubrità e prosperità economica all’Isola. Lo stesso dicasi circa la convenienza di promuovere con mezzi essenzialmente educativi l’orientazione delle menti dell’Isola verso la necessità di una vera rigenerazione morale. Contro gli arbitrî, le violenze e le illegalità, scuole, associazioni per la coltura, conferenze, congressi, riviste tecniche e letterarie si dovevano promuovere, in bel coordinamento fra loro, e sotto la guida di un personale di sana ed elevata ispirazione, non inferiore a quello invocato per le amministrazioni locali e per i servizi dello Stato. La Relazione della Giunta lamenta opportunamente una grande negligenza nei riguardi degli Asili Infantili «che troverebbero assai maggiore sviluppo educativo se cadesse sovr’essi l’occhio intelligente e l’amorosa cura delle signore del luogo, certamente colte e gentili» (pag. 89).

Pur troppo il brigantaggio e la mafia non sono le sole rivelazioni di un profondo traviamento della mentalità di molti siciliani. Come prova del mio asserto voglio citare una confidenza che ci venne fatta dal Principe di S.... Egli, pur essendosi affrettato a riconoscere il torto che il brigantaggio faceva alla Sicilia e a deplorare sia la mancanza di coraggio civile da parte dei cittadini nel non combatterlo spontaneamente, sia l’inettitudine di aver lasciato disperdere la banda Capraro dopo l’uccisione del suo capo, si vantò tuttavia con noi di tenere nascosta nell’abitazione di un Barone del quale allora godeva l’ospitalità, una giovinetta da lui fatta scomparire dal paese senza che nessuno del luogo e nemmeno il Barone e i suoi famigliari ne sospettassero nulla.

Mentre qui si rilevano queste gravi sconcordanze, non devesi trascurare di prendere nota che vi è consenso tra la Relazione della Giunta e il volume del Franchetti non solo nell’esposizione dei precedenti storici, ma anche negli apprezzamenti su certi fenomeni ed organismi speciali della vita siciliana coi quali hanno una stretta connessione i briganti e la mafia, per esempio l’abigeato e il contrabbando, il milite a cavallo ed il campiere.


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VI.

Gravi sono anche le sconcordanze della Relazione della Giunta col volume del Sonnino.

Una prima riguarda la divisione della proprietà.

La Relazione ammette di buon grado che la condanna del latifondo esce unanime dal giudizio degli uomini più competenti dell’Isola (pag. 14) e che il beneficio di 20 mila proprietari nuovi recato dalla censuazione siciliana fu turbato dal ritorno, immediato o graduale, di alcuni lotti venduti, che ricostituì nelle mani di un solo proprietario o un latifondo nuovo o l’incremento dei latifondi limitrofi; ma vanta assai gli effetti generali delle leggi di svincolo. Invece il Sonnino, ai paragrafi 84, 85, 86 deplora amaramente i metodi tenuti nella liquidazione di quell’enorme massa di beni. Pubblicatasi poi la Relazione della Giunta, a pag. 334 del volume del Franchetti venne inserita quella nota alla quale ho già accennato, dove si sostiene di nuovo che qualunque potesse essere l’importanza della coltura e della proprietà media e piccola, era caratteristica della Sicilia un grande concentramento della proprietà, tale da determinare le condizioni economiche e sociali. È dunque importantissimo approfondire questo punto.

La Relazione della Giunta potè far tesoro oltre che della Storia dell’Enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia, pubblicata nel 1871, anche di una deposizione del suo autore, il prof. Corleo, che citò perfino il caso di un lotto sminuzzato fra 300 aspiranti; ma da altro lato il Sonnino si fece forte della pubblicazione fatta nel 1875 dal prof. Basile di un volume «I Catasti d’Italia e l’Economia agricola in Sicilia», dove nelle pagine 78, 112, 113 è lamentata la cessazione di un movimento accentuato verso la censuazione della proprietà territoriale, già iniziatosi nel 1824, grazie alla Legge Borbonica del 10 febbraio di quell’anno, che dava diritto ai baroni di assegnare forzosamente ai loro creditori delle terre in pagamento dei propri debiti. Maggior luce venne fatta poco dopo le due Inchieste da una statistica pubblicata dall’ing. G. C. Bertozzi nel volume 4° degli «Annali di Statistica»( ) che dava come esistenti 20,670 quote enfiteutiche, possedute da 8105 enfiteuti, e per una somma di canoni annui di lire 4,785,565, ma appena il 23 per cento di questa somma riferiva ad enfiteuti possessori di una sola quota per ciascuno; e calcolava che il loro gruppo, che comprendeva i due terzi del totale, abbia avuto solo 27 lotti per ogni 100 censuati mentre gli altri 73 andarono in mano dei pochi che si presero molte quote per ciascuno. Il doppio ordine di fatti, osserva il Bertozzi, prova che un numero grande di quote enfiteutiche dev’essersi concentrato in poche persone, le quali erano già ricche per altre proprietà fondiarie, prova cioè che la ripartizione dei fondi ecclesiastici effettivamente ottenuta con l’enfiteusi era ben lungi dal corrispondere agli intenti della legge; anzi i molti lotti venuti insieme nelle mani dei singoli utenti è da supporre che nella maggior parte dei casi abbiano reintegrato i fondi che i periti avevano diviso in quote, come vien confermato dal gettar l’occhio sugli elenchi nominativi degli enfiteuti con più di una quota e dei Comuni in cui le loro quote si trovano. È poi da dare rilievo al fatto che le maggiori lagnanze del Sonnino concernono l’avere congegnato ed attuato l’alienazione di quella massa di beni senza una decisa preoccupazione di farli pervenire direttamente alla popolazione rurale che li lavorava, defraudatane così mediante le camorre nelle aste, le maliziose interposizioni di nullatenenti, e le sfavorevoli interpretazioni della giurisprudenza.

Benchè qua e là nel suo contesto la Relazione della Giunta vi faccia pure vari fuggevoli accenni, è nelle sue conclusioni che più esplicitamente esclude l’esistenza in Sicilia al tempo dell’Inchiesta di una questione sociale e di una questione politica. Vi si legge che «le ossa di quella razza robusta e vivace, non erano rose, malgrado le avversità del passato, nè da una questione politica nè da una questione sociale». Ora, prescindendo dalla politica, che anche l’Inchiesta privata riduce al preconcetto autonomista di pochi ambiziosi che speravano vantaggi per sè dall’indipendenza più o meno assoluta dell’Isola, quanto alla sociale è strano che la si voglia negare pur convenendo nella presenza di molte condizioni che sogliono generarla e fomentarla. Si può anche concedere che non vi sia un nesso diretto fra i bassi salari o i durissimi patti agricoli col brigantaggio e con la mafia, perchè le loro sedi preferite sono le zone più prosperose dell’Isola e perchè molti dei mali che possono affliggere il contadino siciliano si riscontrano in altre provincie del continente, ma è chiaro che bassi salari e durissimi patti agricoli concorrono a mantenere i contadini in uno stato di pietosa miseria, e che se non il brigantaggio, la misteriosa mafia interviene con le sue violenze ai loro danni quando s’agitano individualmente o collettivamente per migliorare le proprie condizioni. Inoltre la questione sociale può esistere anche indipendentemente da tutto ciò: essa ha radice nella cattiva distribuzione della ricchezza, e negli ostacoli, quali l’oppressione tributaria e l’insufficienza dei servizi pubblici più necessari, con cui una o più classi sociali impediscono ad un’altra di acquistare più largamente, ma si concreta anche in un vago malcontento per il bisogno insoddisfatto di giustizia e di carità in ogni esplicazione della vita; si aderge quindi a valore e significazione morale. Il giudizio definitivo sul diverso apprezzamento l’avevano già dato le sanguinose sollevazioni di Pace, di Collesano, di Bronte, e di molte altre località; ma lo ribadirono anche troppo presto quei Fasci (la cui storia io pure ho già narrato nelle pagine della Nuova Antologia)( ) i quali a taluni occhi parvero sorgere di un tratto sotto la bacchetta magica di una propaganda artificiosa, ma ebbero invece una paternità immediata nella reazione contro uno spietato sfruttamento, sicchè non si poterono frenare o sciogliere senza repressioni cruente. Nè si dica che poi, sciolti quei Fasci, l’ordine in Sicilia tornò così estesamente da poterli supporre manifestazione non già di una malattia organica e costituzionale, ma di fenomeni morbosi isolati e per sè stanti. Quei Fasci furono sciolti, ma ne sopravvive la tradizione e il senso di disciplina che li rese minacciosi; e la tranquillità che oggi si avverte è dovuta in gran parte alla maggior prosperità economica e conseguentemente al prevalere della domanda di braccia sulla loro offerta e a una certa mitigazione dei patti colonici.

E la Giunta e il Sonnino s’occupano delle Associazioni dei contadini.

La Giunta cita di sfuggita quella di Valle d’Olmo, costituitasi per introdurre migliori pratiche agrarie e per soccorrere quei borghesi che si trovavano, per gli onerosi patti agricoli, in compassionevoli strettezze, tentativo tanto rispettoso degli ordini sociali che la Presidenza ne fu affidata al Conte Tasca d’Almerita, «ricco proprietario e specchiato cittadino» e aggiungerò io, uno dei non pochi patrizi che ci si rivelarono compresi dei loro doveri sociali: poi cita l’Associazione dei borgesi di Villalba che stettero alcuni mesi senza lavorare, piuttosto che consentire ai durissimi patti imposti per gli affitti e le mezzerie da quei proprietari, ma senza usare pertanto nessuna violenza.

Invece il Sonnino include questi medesimi esempi in un apposito capitolo sui mezzi d’azione con cui i contadini possono migliorare la propria sorte; e dopo averli riassunti nell’associazione e nell’emigrazione, distingue le Associazioni in cooperative di produzione e in restrettive della mutua concorrenza. Fra le prime cita quelle di Valledolmo, di Sanfratello e di Mistretta. È noto che questa forma si è andata poi diffondendo assai, e che, mentre e socialismo e clericali le offrirono a gara il loro patronato, in generale non si è molto allontanata dal campo dell’intensificazione della produzione, salvo che nel periodo dell’agitazione dei Fasci. Ma il Sonnino va più oltre, e partendosi dal fatto che già allora, secondo il progetto di un nuovo codice penale, nulla vi era di ingiusto nell’associarsi per alzare i salari, si indusse a ragionare delle società di resistenza e degli scioperi, naturalmente riconoscendone la legittimità quando non ricorrevano a violenze, ma senza tacere che n’era sempre discussa l’opportunità e l’utilità. Quel capitolo può avere irritato assai la generalità dei proprietari siciliani e fors’anche molti di quelli del Continente, ma era più che giustificato dallo spettacolo della miseria nera dei contadini di alcune plaghe, e dopo tutto egli approvava novità già latenti, e che non tardarono ad imporsi anche colà, tanta ne era la giustizia sociale. D’altronde egli, se dimostrava pure che v’erano ragioni impellenti per estendere maggiormente nel campo agrario quelle limitazioni contrattuali il cui principio era già accolto nel nostro Codice Civile e le cui applicazioni nelle legislazioni straniere intanto illustrava, in un altro capitolo faceva appello eloquente all’azione spontanea dei proprietari. Qui mi si permetta di ricordare che anch’io incoraggiai con fervore questa parte del disegno del volume, e che quando nel 1893 il Ministero di Grazia e Giustizia d’allora, d’accordo col Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, istituì una Commissione con l’incarico di studiare e proporre le modificazioni da introdurre nel diritto vigente per quanto si riferiva ai contratti agricoli ed al contratto di lavoro, io che ebbi l’onore di farne parte( ), alla chiusura delle laboriose discussioni ho voluto dichiarare che «pure affidandosi alla legge, come nelle deliberazioni della Commissione, la tutela del contadino, il modo più legittimo e più efficace di rimediare alle attuali enormità del patto colonico era il riconoscimento da parte dello Stato delle Associazioni di resistenza intese a permettergli di integrare da sè le proprie forze; le quali Associazioni, coi loro procedimenti segreti diventano presto e volentieri un pericolo sociale, ma legittimate e controllate dallo Stato come si è fatto in Inghilterra, possono avere e mantenere il provvido carattere di istituzioni tutrici della indipendenza contrattuale».

VII.

Se i miei amici si appagarono di dichiarare con brevi parole il loro accordo con la Giunta parlamentare negli apprezzamenti su fatti parziali, ma non nei giudizi generali, lasciando al pubblico di formarsi un’opinione sulle differenze che li dividevano, invece l’on. Bonfadini, Relatore della Giunta (poichè non vi è dubbio che egli stesso si celava sotto l’anonimo), ha voluto dare alla luce un lungo articolo di garbata polemica nei tre numeri del 20, 22 e 23 gennaio 1877 del giornale La Perseveranza di cui era assiduo collaboratore. Nel pigliarli qui in esame, mi accadrà forse di cadere in qualche ripetizione, ma spero che essa non riescirà a detrimento di chiarezza sulla interessantissima contesa.

Il Bonfadini non ha saputo spogliarsi del sentimento della sua superiorità di vecchio parlamentare, e, pure prodigando molti elogi agli autori dell’Inchiesta privata, e concedendo cattedraticamente che con pochi pentimenti di forma e di pensiero si sarebbero evitate le sue critiche, prende a partito prima il Franchetti e poi il Sonnino, ma sempre da un medesimo punto di vista di conservatore, sicchè agli occhi di chi si senta animato da uno spirito liberale quelle critiche si convertono in elogi.

Abbastanza esatto e perspicuo è il seguente riassunto ch’egli fa della sostanza del volume del Franchetti: «La Sicilia è tuttora governata nelle sue manifestazioni sociali dallo spirito medioevale, le cui caratteristiche principali sono due: un’assenza quasi totale della classe media, e la tendenza di tutti a credere l’autorità privata, qualunque ne sia la forma, e più forte e più legittima e più rispettabile che l’autorità del Governo e delle Leggi. Queste, ordinate secondo il sistema italiano di una prevalenza della classe media, non hanno trovato in Sicilia una base razionale su cui esplicarsi, e non hanno servito così altro che a sanzionare nella maggior parte dei casi, con una vernice di liberalismo le prepotenze e gli abusi degli antichi sistemi, lasciando da un lato la classe dominante che ha monopolizzato tutti gli uffici e le pubbliche funzioni a beneficio dei propri interessi e della propria supremazia, e dall’altro una classe sofferente di proprietari e di lavoratori del suolo che non trovano nella legislazione nazionale mezzi legali efficaci per migliorare il proprio stato, e che, se non ora, saranno tratti più tardi a trovare nella solita violenza i soliti scioglimenti della questione sociale».

Il Bonfadini trova giusta l’affermazione che in Sicilia il concetto delle forze e delle relazioni personali prevale sul concetto delle forze di Governo e delle relazioni pubbliche, ma trova esagerato che questo fatto produca una mancanza di sentimento degli interessi pubblici, e cita a suo sostegno sia il buon ordinamento di talune istituzioni di utilità pubblica, specialmente a Palermo ed a Catania, sia i larghi concorsi votati dai Corpi locali per opere pubbliche. Ma l’una cosa non è affatto in opposizione con l’altra: eppoi si tratta di proporzioni e sarebbe occorso analizzare e far cifre prima di concludere.

Più oltre il Bonfadini ammette pure che sia una delle più forti radici dei mali della Sicilia il difettarvi la classe media sulla quale altrove può appoggiarsi il sistema liberale della nuova Italia, ma trova esagerato l’averne tratto la conseguenza che il proletariato sia in balìa della classe abbiente, e lo argomenta dall’essere anzi non pochi i Comuni nei quali gli abbienti si lagnano di essere stati soverchiati nelle elezioni locali; ma è facile che si tratti di casi di reazione naturale, oppure di lotte di partiti amministrativi, e quindi, in quelle vittorie, i proletari se mai non rappresentano che un’etichetta, e per lo meno potrebbe dirsi che furono invocati e capitanati per ben altri interessi dei propri, allo stesso modo che da parte di altri si giungeva ad allearsi perfino con bande brigantesche avversarie fra loro, con la differenza tuttavia che l’imposizione della banda vittoriosa rimaneva per lungo tempo sul partito che l’aveva invocata, e invece i proletari non erano che alleati momentanei presto ricondotti sotto la propria sferza dal partito vincitore.

È scritto negli articoli: «Come conciliare l’asserita simpatia dei siciliani pei briganti con la storia dei ricatti, delle grassazioni, degli scrocchi a cui soprattutto è soggetta la classe dei proprietari, e che li costringe in tanti luoghi e per tanto tempo a vietarsi la soddisfazione e la vista delle loro campagne?». Certo al momento delle due Inchieste, e anche di sovente, vi erano molti signori i quali, per lo sdegno della vita di umiliazione che avrebbero dovuto condurre, si assentavano per lunghi periodi, lasciando alle prese coi briganti il loro gabellotto; ma viceversa, se non la simpatia, il manutengolismo di gabellotti e proprietari aveva proprio la sua prova, come ci venne ripetuto da più fonti autorevoli, nella sicurezza con cui quelli tra loro che non si erano rassegnati ad assentarsi, risiedevano sul luogo con moglie e figli, e giravano senza scorta anche se il territorio era infestato da una banda. Nella provincia di Palermo, e nelle altre zone in condizioni di sicurezza analoghe, ricatti, grassazioni e scrocchi erano vicende clamorose ma non frequentissime perchè verosimilmente riservate agli insofferenti delle tristi imposizioni e negoziazioni; ma non per questo potevano considerarsi per eccezionali, come avrebbe voluto il Bonfadini, specialmente quando e la Giunta Parlamentare, e noi, e la stessa Camera, insieme con le denuncie e deplorazioni della tristissima piaga, ricevevamo denuncie e deplorazioni circa i rapporti che funzionari dello Stato e personale della pubblica forza avevano avuto ed avevano con le bande, delle quali anche si servivano come loro mezzo poliziesco.

Non è vero che il Franchetti, come scrive il Bonfadini, abbia voluto escludere dagli uffici governativi della Sicilia tutti gli impiegati siciliani, e solo perchè gli è risultato che taluno fra essi fosse infido. Non v’è che da rileggere il suo § 105 per accorgersi che non solo egli ammette eccezioni, ma dichiara che gl’impiegati siciliani i quali intendono egualmente lo stato dell’Isola e quello della società moderna saranno istrumenti migliori di qualunque altro. La riserva circa la loro mentalità s’imponeva perchè da impiegati siciliani abbiamo sentito troppo spesso fare l’apologia delle repressioni violente, e, peggio ancora, della mafia ufficiale; vi fu perfino chi lamentò che non si ponessero limiti per legge o per regolamenti locali alle pretese di più alti salari. Così pure a torto si imputa al Franchetti di avere affermato che nell’Isola non v’è la possibilità di governare con l’opera combinata di quei cittadini e dello Stato. Il concetto ch’egli esprime ai paragrafi 103 e 106 corrisponde in ultima analisi a quello più felicemente espresso dal Sonnino al paragrafo 128, che la Sicilia, lasciata a sè, o con una rivoluzione, o col prudente concorso della classe agiata, avrebbe trovato il rimedio ai suoi mali e quindi al disagio dei contadini e dei lavoratori.

Il Bonfadini è costretto invece ad ammettere per giusta l’affermazione del Franchetti e del Sonnino che in Italia l’abolizione del feudalismo lasciò i contadini nelle condizioni di prima, e che nel 1860 furono sovrapposte leggi moderne a costumi medioevali, ma trova esagerata la conseguenza trattane che tutta la legislazione liberale dal 1860 in poi si risolve in polvere negli occhi, e li rimprovera di essersi lasciati soverchiare dall’amore di quella tesi la quale aveva già fatto capolino in altri loro precedenti lavori, che cioè ormai l’Italia trovavasi in presenza di una vera questione sociale già adulta e minacciosa. Questo rimprovero è ben naturale che esca dalla penna di chi nella Relazione della Giunta non trovava nemmeno da sorprendersi della miseria del contadino siciliano perchè peggio di lui vivevano i contadini delle risaie lombarde, i pastori della campagna romana, i cafoni delle balze silane, e tutto scusava con la peregrina osservazione, con la quale potè giustificarsi anche la schiavitù, che le diseguaglianze sociali sono base necessaria della società umana. Eppure attenuarle, addolcirle in ragione dei mille progressi, è anzi farle più provvide.

Comunque, il Bonfadini, nell’insieme del suo importante articolo, anche attraverso le non poche divergenze nelle idealità politiche e sociali, si è venuto sempre più accostando, quando n’ebbe avuto piena conoscenza, agli apprezzamenti di fatto e alle più importanti deduzioni dell’Inchiesta privata, tanto da chiudere l’articolo con queste parole, delle quali i miei amici non possono che essersi altamente compiaciuti: «Della Sicilia dovrà pur troppo occuparsi per un pezzo la nuova generazione politica, alla quale spetta riordinare, col sussidio dell’esperienza, quella patria che la generazione cadente ha tratto dal sepolcro secolare, rinnovandola di spiriti e di vigoria. Se quella dirittura di intenti e quella pertinacia di studi che furono consacrate alla loro recente Inchiesta privata, saranno dagli autori o da altri consacrate al resto delle Provincie italiane, la base dell’avvenire sarà ben presto posata su un terreno sodo, e chi ha fatto l’Italia, potrà con tranquillo animo rassegnarsi a vederla governata ed amministrata dai propri eredi, riservandosi il diritto di quel brontolìo che è innocua protesta dell’onesta vecchiaia contro la gioventù attiva e capace».

VIII.

Più nobilmente non avrebbero potuto chiudersi nè il casuale contraddittorio nè la voluta polemica che io ho voluto rievocare: ma ben altro tono raggiunsero le recriminazioni contro il Franchetti ed il Sonnino nella maggior parte dei giornali dell’Isola. Non solo si è protestato, ma siccome ebbe a scrivermi il Franchetti quando ero al Messico, si è gridato inferociti contro i due calunniatori, citando concetti e perfino frasi che non erano loro affatto( ). Anche i giornali del continente trascinati dalla profonda impressione destata ovunque da così gravi rivelazioni, non furono avari di recensioni ispirate naturalmente alle diverse dottrine politiche ed economiche che professavano. La stessa stampa estera volle occuparsene. In Inghilterra, oltre i giornali quotidiani, accolsero notevolissimi articoli la Saturday Review e l’Edimburg’s Review; in Germania la National Zeitung dove l’Hillebrand in un seguito di numeri diè nuova prova della sua grande competenza nel ragionare delle cose italiane( ). Tra le varie Riviste nostre che si pubblicavano allora, la Nuova Antologia tacque, ma il Giornale degli Economisti, autorevolissima rivista mensile edita in Padova, ospitò nel dicembre parecchie pagine del Luzzatti sul solo volume del Sonnino, perchè l’altro non era ancora uscito in luce, e nel gennaio successivo un ampio raffronto del deputato Morpurgo, appunto sulle due Inchieste, sotto il titolo «La vita siciliana secondo gli ultimi studi».

Il Luzzatti, pure nel suo esame parziale, volle accomunare nei suoi elogi i due giovani «accintisi alla grande e difficile impresa di far conoscere i dolori e le deficienze della Sicilia, che anche nei loro scritti individuali facevano sentire la stessa ispirazione superiore essenzialmente virtuosa e la promiscua nota della collaborazione». Rivelando alcune confidenze fattegli dal Corleo sugli insufficienti risultati della censuazione in Sicilia, afferma anch’egli che quei beni ecclesiastici furono sperperati e trova che valeva meglio che lo Stato li avesse tenuti per sè, perchè ne sarebbe accresciuto il valore con l’aumento naturale della popolazione e si sarebbe potuto ponderare con maggior diligenza il modo di distribuirli a prezzo equo fra la popolazione «in guisa da rialzarne veramente la dignità ed il carattere»; il qual disegno ha per altro il difetto di non tener conto dell’urgenza del problema siciliano e delle difficoltà di una gestione di Stato, anche se transitoria. Più felice egli è quando ricorda la recente inchiesta industriale, della quale aveva gran merito, e interviene nel dissenso fra la Relazione della Giunta e il Sonnino circa il danno che una riforma della Legge sul lavoro dei fanciulli poteva portare alle loro famiglie, aggiungendo che il preferire una soluzione affidata ai progressi della meccanica, non lo eliminerebbe nè lo ritarderebbe. Dice la parte in cui il Sonnino tratta dell’azione dello Stato soverchiamente disinvolta, la sua dottrina sulla proprietà fondiaria poco rispettosa dei principii economici e giuridici, ed alcune proposte sui contratti agrari troppo vincolatrici; al qual proposito promette pel prossimo numero un più disteso articolo del quale non fu saputo mai.

L’on. Morpurgo, nel suo «Quadro della vita siciliana secondo gli ultimi studi» cade in qualche contraddizione. Egli narra per esempio di aver appreso in quegli stessi giorni dalla viva voce di un siciliano che un proprietario facoltoso sequestrato dai briganti, avendo potuto sfuggire loro di mano, mostrò del danaro a un suo campiere, gli fece sentire che il proprio sequestro era uno sfregio anche per lui e così gli lasciò comprendere che voleva essere vendicato. Il campiere si eclissò per qualche tempo e quando tornò, morte violenta aveva già soppresso parecchie persone indiziate di responsabilità nel sequestro; ma riferisce anche di un colloquio con quell’eletto ingegno che fu Matteo Raeli, dal quale s’è lasciato dire senza confutarlo che il persistente travaglio della sicurezza pubblica nella vita siciliana era soltanto un episodio contro il quale era un errore e una fallace illusione il combattere con l’occupazione militare e gli espedienti di polizia: ora, se pure si tratta di un episodio, tragico com’è, prevarranno bensì in un lontano avvenire le tanto più diffuse virtù sanatrici, ma intanto come lasciarlo radicarsi e dilagare?... Ed egli plaude del pari sia alla sollecitudine inquisitrice del Parlamento, sia alla concorrente iniziativa privata così piena di carità civile, e rimane perplesso fra l’una e l’altra esposizione dei termini del problema, fra le une e l’altre proposte di soluzione: dapprima gli pare che la Relazione della Giunta pecchi di soverchio ottimismo, e più oltre si dice tratto a dichiarare che un provvido risveglio non possa essere che questione di tempo: «lasciamo acclimatare i nuovi ordini civili, sperimentare gli uomini e le leggi, agire le virtù dell’esempio, acquistar forza l’opinione nuova e i fattori ond’essa si compone, e il rivolgimento si compirà senza alcun dubbio»; più innanzi poi condanna i timori, i dubbii, i dottrinarismi tradizionali come il peggiore dei pericoli e prosegue: «Il non fare, il lasciar fare sembra già un principio di utilità molto problematica in condizioni sufficientemente normali; l’assurdità di esso non potrebb’essere controversa in mezzo ad una società che deve guadagnare con velocità accelerata il tempo perduto.... Un governo operoso e forte, ecco la formola. Non vi dev’essere in Sicilia alcun bisogno ch’esso non sia pronto a curare, non repressione necessaria che rimanga sospesa o che sia ritardata».

Dolse molto al Franchetti che non si fosse preso in esame diligente e più ampio un lavoro di tanta responsabilità e di tanto interesse per il paese e, nello scrupolo della coscienza, voleva che gliene ragionassi di nuovo. «In fondo in fondo, mi scriveva, mi pare che anche in mezzo alle nostre discussioni vi fosse accordo e che i due volumi sieno un riassunto abbastanza fedele delle nostre triplici impressioni; ma letto il libro, vorrei tu mi scrivessi che ne pensi.... Sono molto impaziente di avere il tuo giudizio». Quando poi gli ebbi inviato qualche appunto critico mi replicò senza indugio: «Convengo in moltissime delle tue osservazioni, anche laddove accenni a trascuratezze di forma e di coordinamento, e a ripetizioni; ma il tempo mi è mancato per far meglio. Era necessario che il libro uscisse prima della nuova discussione parlamentare, e fu principiato a stampare il 27 novembre, quando avevo riveduto appena i tre quarti del manoscritto del primo capitolo. Di più, giunto a discorrere della Pubblica Sicurezza, trovai talmente impaccioso distinguere fra le caratteristiche generali dell’Isola e quelle particolari della Provincia di Palermo che mi decisi a spendere tre o quattro giorni per raffazzonare il già fatto e trarne fuori quello che è adesso la Prima Parte. Nel suggerire i rimedi particolari per ristabilire la Pubblica Sicurezza non ho difatti pensato a fermarmi di più su uno principale se non unico. Può sembrare ch’io abbia divagato nell’esame dei tanti, ma il mio convincimento è (ed ho cercato ripetutamente di esprimerlo) che pochi non basterebbero. Con la proposta che per tutti i delitti aventi connessione fra loro a motivo del fine si abbiano a ricercare, arrestare, e sottoporre a giudizio tutti quanti avessero con quei delitti attinenza lontana o vicina, non mi riferisco già ai parenti, spesso innocui, degli indiziati, ma a coloro in rapporto con questi che potrebbero intimidire i testimoni o fossero sospetti per aver commesso qualche violenza. Arresti su così larga base possono essere di difficile effettuazione, ma non mi pare di avere trasgredito alle raccomandazioni fattemi da te e da Sonnino di evitare per quanto possibile ogni proposta di provvedimenti eccezionali; raccomandazioni che trovarono bensì eco anche nei miei convincimenti, ma non senza riserve come ho esposto nel mio ultimo capitolo. Così mi sono lasciato andare alla proposta di aumentare enormemente le ingerenze dei Prefetti e speravo che fosse studiata meglio e discussa, ma ahimè!, fu un’illusione la mia l’aspettarmi che il nostro lavoro potesse venire seriamente esaminato e discusso».

L’amarezza del Franchetti è da sperarsi che sia venuta mitigandosi con la lettura di successive recensioni, ma specialmente quando nella Rassegna settimanale, una lettera di Antonio Salandra aprì un’ampia discussione sulla esistenza della questione sociale in Italia e sul miglior modo di adoperarsi per la sua soluzione. Con essa portavasi senz’altro in campo aperto la lotta di scuole e di tendenze( ).


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Il futuro Presidente del Consiglio, non ancora deputato, trasse occasione della pubblicazione del volume del Villari Le lettere meridionali e di altri scritti sulla questione sociale in Italia (Firenze, success. Le Monnier), per dar saggio di quella vivace opposizione che com’egli dice egregiamente, doveva riescire gradita all’A., perchè atta a richiamare l’attenzione generale sulle questioni da lui suscitate meglio del tacito consenso che suole essere l’espressione dell’indifferenza più che dell’approvazione. E proseguiva: «Non serve prolungar la disputa sull’esistenza della questione sociale in Italia. Se per questione sociale s’intende esclusivamente la forma che la lotta fra le classi ha assunto presso i popoli nei quali l’industrialismo è più progredito, si può dire che noi non siamo fra questi popoli, non l’abbiamo; ma se per essa s’intende quella condizione di cose che deriva dall’esistenza di una classe di cittadini cui è precluso l’adito a giovarsi dei beni, anche infimi della civiltà, è innegabile che fra noi una questione sociale esiste e gravissima; non importa che il fenomeno col quale si rivela non sia lo sciopero, ma il brigantaggio e l’emigrazione.... Non è giusto rimproverare aspramente al Governo italiano di non aver curato l’adempimento del suo grande dovere di occuparsene. Raffermare l’esistenza politica ed economica dello Stato doveva essere la sua prima e massima preoccupazione.... ed è utilissimo che vi sia ora chi si sforzi a muovere una corrente di opinione che possa costringere Governo e Parlamento al nuovo còmpito».

Il Salandra riduceva a tre le sue osservazioni. 1° Convien guardarsi dal porre troppo in rilievo come nostri speciali alcuni mali che pur sono di tutte le società anche le più civili, e dall’insistere nell’attribuirli più particolarmente ad alcune parti d’Italia, perchè si potrebbe nuocere alla diffusione delle idee di riforma tra i meglio disposti localmente. 2° Se vogliamo che le classi dirigenti italiane riconoscano, come dice il Villari, il sacrosanto dovere di aiutare le classi abbandonate alla miseria ed alla fame, oppresse in mezzo alla libertà, poniamole in grado di farlo elargendo loro una coltura e un’educazione superiore, e non inaspriamole con atti di accusa nè condanniamole senza appello. 3° Il problema sociale è oggi di produzione, non ancora di distribuzione della ricchezza. Hanno diritto a provvedere ad una migliore distribuzione della ricchezza quei popoli soltanto che hanno già risolto il problema di una grande produzione. Per non cadere in un certo Gefühlsocialism (socialismo sentimentale) che pur non suscitando agitazioni pericolose, può cagionare uno spreco di forze intellettuali e morali, bisognerebbe persuadersi che i sagrifizi delle classi abbienti hanno un limite inesorabile, e, per allontanarlo, non c’è che evitare l’abbassamento della loro capacità contributiva.

Riassumo anche le risposte della Rassegna.

1° Affinchè i mali delle varie regioni d’Italia possano venire curati, è assolutamente necessario che vengano prima studiati ed analizzati e da esse e dall’Italia tutta con la maggiore pubblicità: tacendone ed attenuandoli mancherebbe ogni coscienza ed ogni guida per qualunque riforma risanatrice: nè può valer l’obiezione che anche altrove vi sieno malati gravi perchè ciò non impedisce mai al medico coscienzioso di fare il proprio dovere presso il malato al letto del quale si trova; presso altri malati accorrano altri medici. 2° È vero che delle ripetute indagini l’amor proprio locale s’irrita e soffre; ma, lasciando da parte gl’interessati, esso non deve far perdere di vista agli onesti l’interesse del Paese; nè si sa di progressi che a loro sieno stati così impediti. Eppoi perchè irritarsi ed offendersi? non si ha responsabilità dei mali che si sono trovati nascendo. 3° Il risolvere separatamente e precedentemente il problema della produzione della ricchezza da quello della distribuzione, non facilita nè avvantaggia in nulla la soluzione del secondo. In Lombardia il primo non poteva essere svolto più brillantemente; pure ciò non ha fatto avvicinare di un passo alla soluzione del secondo. Non si deve dunque limitarci a considerare ora nella Sicilia e nelle provincie meridionali il problema della produzione della ricchezza, escludendo deliberatamente tutte le ricerche, tutti i tentativi per avvicinarsi allo scioglimento di quello della distribuzione. Attualmente nell’Italia tutta e non solo nelle provincie meridionali il problema sociale va posto così: in qual modo la produzione, specialmente agricola, possa da un lato accrescersi e dall’altro distribuirsi.

Questa risposta discende in linea retta dal convincimento che appunto perchè le diseguaglianze di classe sono una necessità imprescindibile della convivenza e della civiltà umana, non si possono fondare e far sussistere gli ordinamenti sociali nè sul solo egoismo individuale nè sul solo sentimento del sagrifizio. Occorse alquanto tempo prima che il Colaianni ed altri scrittori siciliani di buona fede rendessero giustizia ai due volumi dei miei amici; ma gli è che essi non furono subito conosciuti generalmente. Ce lo spiega un aneddoto che si legge nella prefazione del già citato volume dell’Alongi. Egli narra che nel 1878, discorrendo con un Pretore di malandrinaggio e di mafia lo sentì esclamare: «È la prima volta che trovo un siciliano d’accordo con Sonnino e Franchetti, i quali anzi sono più moderati nei loro giudizi: ma Ella giovane com’è, esagera facilmente l’impressione che ne ha ricevuto». — «Scusi, caro Pretore, soggiunge l’Alongi, io parlo per mia esperienza e mi sono ben guardato dal leggere quelli che tutti chiamano due romanzi fantastici». Ma s’indusse allora a leggerli ed ecco le parole con cui prosegue: «Provai subito un’umiliazione profonda vedendo realmente come quegli egregi signori avevano studiato la Sicilia con affetto e lealtà, ed arrossii ripensando alla critica interessata, sleale, virulenta, con cui ne furono rimeritati da noi che dovevamo loro riconoscenza e stima grandi».

IX.

Alla Relazione sulla situazione della pubblica sicurezza in Sicilia che il Nicotera presentò alla Camera il 13 dicembre 1876 erano allegate le statistiche comparative della criminalità per ciascuna provincia, durante i primi nove mesi del 1875 e quelli del 1876. Da esse risultava che mentre in tutto il Regno nel primo periodo vi erano stati 1496 omicidi consumati, 1218 mancati, 5206 ferimenti gravi, 1752 grassazioni, 362 estorsioni, violenze e rapine, 21256 furti, nel secondo periodo queste cifre erano rispettivamente 1502, 1199, 5075, 1635, 472, 21078, dunque si ebbe un miglioramento sensibile per tutte le categorie, eccezion fatta per quella delle estorsioni, violenze, e rapine. Invece in Sicilia nel primo periodo si ebbero rispettivamente per le suddette categorie nel primo periodo le cifre di 310, 261, 701, 419, 44, 1898 e pel secondo 372, 319, 920, 525, 64, 2148; cioè in tutte un peggioramento compresa quella pei furti, senza dire che la sproporzione fra Regno e Sicilia era assai sensibile.

All’impressione sconsolata di queste statistiche si aggiunse presto quella di alcuni reati più clamorosi seguiti poco dopo, e nella seduta del 27 novembre se ne dolse vivacemente il deputato di Belmonte, in quella del 7 dicembre il deputato Pellegrini e ad entrambi il Nicotera rispose con asprezza che in Sicilia la pubblica sicurezza non poteva ristabilirsi pel manco di appoggio da parte dei cittadini: come sintomo della situazione si ebbe anche nella metà del gennaio la notizia che alcuni commercianti inglesi che dimoravano nell’Isola pei loro affari s’erano rivolti al proprio Governo chiedendogli di interporsi presso il Governo italiano per una maggior tutela delle loro persone e dei loro averi.

In queste circostanze il marchese Di Rudinì presentò una interrogazione al Presidente del Consiglio, che fu cominciata a svolgere il 23 gennaio, per conoscere le intenzioni del Governo riguardo alle proposte della Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulla Sicilia. «So pur troppo, egli esordì, che alcuni vorrebbero cuoprire di un velo misterioso i mali dell’Isola; io credo invece che le stesse amarissime e tumultuose discussioni del 1875 abbiano portato il loro contingente di bene perchè produssero l’inchiesta privata del Franchetti e del Sonnino e quella ufficiale da noi ordinata. Non posso, non debbo discutere qui l’Inchiesta privata. Dirò solo che quantunque ben lontano da certi apprezzamenti, da certi giudizi e da certe sue proposte, lodo il sentimento di amorevolezza che la ispirava e mi piace che privati cittadini abbiano voluto investigare le origini dei mali che travagliano la Sicilia, e soccorrervi coi loro studi e coi loro consigli». Così l’interrogazione sua, le discussioni che vi si collegarono e le risposte del Presidente del Consiglio e di altri Ministri (non del Nicotera, assente per malattia e pel quale parlò il Depretis) non tennero conto che della più blanda Inchiesta ufficiale; in ogni modo una certa autorità anche di quella privata era già apertamente dichiarata e tacitamente consentita.

Dopo ciò la discussione potè procedere più calma e le risposte del Governo venire semplificate. Fu l’on. Morana a tenere più vivacemente la parola: non risparmiò l’Inchiesta privata che rimproverò di soverchie generalizzazioni, di superficiali osservazioni, e di deduzioni paradossali, ma senza darne nessuna dimostrazione; i mali deplorati, disse egli, non son di tutte, ma solo di alcune provincie e sono la conseguenza della storia dell’Isola: ma l’on. Colonna di Cesarò gli rimbeccò che il Franchetti ch’egli non aveva l’onore di conoscere da vicino, in quanto alla mafia non aveva detto che verità, ed anzi gli era parso che avesse scritto sulla falsariga del discorso ch’egli stesso aveva fatto alla Camera nel giugno precedente.

Il Depretis, sbrigatosi facilmente del telegramma da Messina con l’osservazione che il Governo inglese nella sua correttezza ed amicizia non vi aveva fatto seguire nessun passo, fu prodigo riguardo all’interrogazione di affidamenti e di promesse. Per la pubblica sicurezza, che assicurò esser già più tranquillante, ma che a suo avviso era il più grosso problema, avrebbe provveduto con migliori funzionari e con l’unificare l’azione delle forze impiegate a tutelarla. In fatto di viabilità egli ed il Ministro dei Lavori Pubblici presero persino l’impegno, ora per buona fortuna da tempo assolto, per una nuova linea che per Messina e le Calabrie unisse Palermo a Roma; ed in guisa di riparazione degli errori della censuazione ecclesiastica magnificò i vantaggi che i Comuni avrebbero potuto ritrarre da una migliore e più coscienziosa liquidazione della parte di quei beni che loro spettava. Ma fu a proposito della mafia che la seduta si fece più interessante.

L’on. Morana riprendendo la parola, tentò di giustificare la tolleranza dei siciliani per la mafia e di spiegare come, pur costituendo questa a parer suo una minoranza, i galantuomini, che sono gran maggioranza, se ne lasciano imporre, e ricorse all’imagine di un esercito invasore che marciando compatto mantiene sotto il suo terrore disgregato e rassegnato il paese invaso. Non per questo si tacque il Mancini, Ministro di Grazia e Giustizia: «Ho voluto studiare, egli disse, da vecchio criminalista se il fenomeno della mafia da sè solo costituisse reato e quindi potesse diventare oggetto di procedimento penale. Io non debbo e certamente non intendo imporre la mia opinione a nessuno. Spetta ai magistrati di pronunciarsi con piena indipendenza, ma io non posso nascondervi di avere acquistato il convincimento che trattandosi di un’organizzazione latente o manifesta di persone che si propongono di far prevalere la violenza, l’intimidazione e l’inganno, per costringere i cittadini a non usare dei loro diritti o per farli soggiacere a indebite coercizioni, una sana applicazione del codice penale quale oggi esiste potrebbe bastare. Attualmente di questa azione si fa appunto l’esperimento in due giudizi, ed ho disposto che si prosegua fino alla Corte Regolatrice, acciò si stabilisca una massima autorevole per tutti i tribunali. Stabilito e deciso che non si tratta solo di una grande immoralità, ma di un reato preveduto dalla Legge penale, sarà dovere del Governo e del Pubblico Ministero che ne dipende di esercitare un’azione vigorosa per l’applicazione di questa massima».

Se l’on. Di Rudinì aveva posto grande energia nel reclamare i provvedimenti che si dovevano prendere e non furono presi dopo che la Giunta Parlamentare d’Inchiesta nominata con Legge ne aveva fatto diligente enumerazione nella sua Relazione al Parlamento, dal canto suo il Depretis a nome del Governo parlò con tale abilità e acquetò tutti con una così gran dose di buona volontà che l’on. Di Rudinì dovè dichiararsi soddisfatto, e anche l’on. Morana, per disciplina di partito, dovè ritirare una sua mozione intesa a provocare un più ampio dibattito e che pure diceva appena: «La Camera, confidando che il Governo del Re saprà soddisfare alle legittime aspirazioni della Sicilia tutelando energicamente la pubblica sicurezza, continuando nei provvedimenti intesi a rendere più celere ed efficace l’amministrazione della giustizia, sviluppando il progresso economico dell’Isola e dando il maggiore impulso al compimento delle opere pubbliche, passa all’ordine del giorno».

Ahi, quanta distanza corse e corre dalle parole ai fatti!

Ci ispiri tuttavia un po’ di rassegnazione il ricordare che Leopoldo Franchetti, ritratto che ebbe con una acutissima analisi storica e psicologica le condizioni medioevali della società siciliana, e le chine fatali lungo le quali anche i migliori funzionari governativi ne subivano involontariamente la triste influenza, pure riaffermato che spettava al Governo di trasformare le condizioni della Sicilia per la pubblica sicurezza come per il resto, e ch’esso solo poteva farlo in un breve giro di tempo, nell’affacciare l’ipotesi di non essere ascoltato, non per questo volle disperare, e solo constatò mestamente che non si può chiedere alle forze isolane di operare prestamente su di sè quelle trasformazioni che nel rimanente d’Europa hanno richiesto parecchi secoli.

XII.

Fin qui il Discorso che sono stato pregato di premettere a questa nuova edizione dei due volumi per raccogliere su di essi un altro po’ della luce originaria, e per contribuire alla rivendicazione della loro alta importanza.

Mi si consenta ora di esprimere, a mo’ di epilogo, le impressioni che ho provato nel frequente raffronto che m’è accaduto di istituire nel mio interno fra le condizioni dell’Isola che ci si rivelarono allora, e quelle che corrono oggi.

Il primo posto voglio darlo alla soddisfazione con la quale ho potuto accorgermi che avevamo ben ragione di negare ogni serietà alle preoccupazioni della questione politica come allora veniva formulata, e cioè che vi fosse e si agitasse ancora minaccioso un vero partito autonomista. Già lungo tutto questo cinquantennio, attraverso pure alle più complesse vicende, il sentimento nazionalista si è andato sempre rafforzando nei Siciliani, ma alle nostre parole di fede era riservato il più glorioso trionfo nei giorni in cui essi si associarono con entusiasmo al nostro avventurarci nella terribile guerra, e perseverarono con noi nello sfidarne i paurosi pericoli, nel sopportarne i dolorosi sagrifici, nell’accettarne le parziali disillusioni, perchè al pari di noi compresero la grandezza del successo che ci attendeva. — E ad esso oh quanto eroismo, oh quanto sangue, oh quante altre virtù di Siciliani ha contribuito! Quali si sieno le peripezie che si celino nella storia, l’abbraccio fraterno è stretto per sempre, il vincolo nazionale ci ha fusi in una sacra indissolubile unità!

E di un’altra intensa soddisfazione ho sentito il conforto quando m’è occorso di constatare che se traverso il cinquantennio, il turbamento morale della vita siciliana pur troppo non può dirsi ancora sanato, da altro lato immenso è il progresso materiale dell’isola e dovrà pur avere salutari ripercussioni anche nei costumi la sua popolazione che nel censimento del 1871 era di 2,584,099 anime crebbe a 4,299,313 con quello del 1921 a malgrado della fortissima emigrazione, specialmente nella Libia. I depositi solo nella Cassa di Risparmio del Banco di Sicilia, e solo nel periodo 1909-1922 sono passati da 7 milioni a 405. La produzione agraria dev’essere certo assai aumentata se, da una ventina d’anni, come constata lo Zingali, è stata introdotta la rotazione del grano con la fava sarchiata e concimata con perfosfati, e solo su questo binomio viene ora riversato annualmente un milione di quintali di perfosfato( ). Gli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra non impedirono che anche nel 1922 le esportazioni, che nel Regno figurano tanto al disotto, invece nell’isola superassero le importazioni di oltre 63 milioni, a malgrado della crisi dell’industria zolfifera per cui in quell’anno non si ebbe che il quarto della produzione media e a malgrado la crisi del commercio agrumario che si confida superata con la riapertura dei mercati dell’Europa Centrale e di quelli della Russia.

Io non farò qui un’esposizione dell’odierno risveglio industriale, ma non posso a meno di allietarmi per le grandi promesse insite nell’opera fervorosa della Società Generale Elettrica della Sicilia, della quale è anima l’ing. Enrico Vismara. Egli ha comunicato nel 1923 al Congresso delle Società per il progresso delle scienze ed ora ha pubblicato in un opuscolo( ) un importantissimo studio che ben fa arguire quanto la Sicilia potrà in breve influire sul bilancio economico dell’Italia. Mercè un bacino artificiale alimentato dalle piene invernali del Simeto e del Salso quei miracoli di intensificazione culturale che nella Piana di Catania sono vanto di pochi ettari, i quali non temono inondazioni e son forniti già di acque irrigue, si potrebbero estendere a tutti i suoi 30,000 ettari, perchè il corso d’acqua estivo che ora è appena della portata di un metro cubo al minuto secondo s’ingrosserebbe a quella di 15 a 20 metri cubi. Se ne gioverebbero anche molti terreni vulcanici della falda meridionale dell’Etna. Opere simili sono progettate per la Piana di Terranuova e per la Piana dei Greci, in questa trasformando in agrumeti ed in orti feracissimi 2500 ettari tuttora di poco o nessun valore. Questi bacini artificiali creerebbero anche forza motrice e darebbero origine a linee elettriche con le quali procedere a una grande diffusione del sollevamento delle acque, non più traverso le norie già assai preziose in Sicilia, ma traverso elettropompe tanto più efficaci. Sono 350,000 gli ettari sotto la quota 100 che così potrebbero irrigarsi sia a mezzo di acque fluenti dall’alto, sia a mezzo di sollevamento dal sottosuolo; il Vismara calcola che ove si proceda a trasformarne anche solo 60,000, si creerebbe oltre un miliardo di lire di maggior valore.

Ma se il mio cuore esultava nella visione di questa nuova ricchezza, dalla quale anche tanta rigenerazione sociale può bene attendersi, era invece oppresso dalla più profonda tristezza nel sentir che purtroppo non avrei potuto ragionarne coi miei due amici. Come non rimpiangere quella reciproca fiducia, quella dolce intimità, quella cara comunanza di lavoro che ci aveva allora, e per lungo tempo ancora, avvinti insieme? Come non ricordare con Sidney Sonnino anche la parte che ebbe poi nei nuovi destini dell’Italia, con Leopoldo Franchetti tutte le generose manifestazioni del nobilissimo animo suo? Io non so se li avevo più amati od ammirati; ma il mio rimpianto si faceva ancor più doloroso quando correvo col pensiero agli efficacissimi servigi che, sopravvivendo essi, anche pel prestigio del proprio passato, avrebbero sempre potuto rendere, in queste difficilissime ore, alla nostra patria.

Enea Cavalieri.










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