Eleaml


Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Leopoldo Franchetti - Sidney Sonnino

La Sicilia nel 1876

VALLECCHI EDITORE FIRENZE

1877

§ 3— Associazioni per l’esercizio della prepotenza.

Peraltro non mancano anche le associazioni regolarmente costituite con statuti, regole per l’ammissione, sanzioni penali, ecc., ecc., associazioni destinate all’esercizio della prepotenza e alla ricerca di guadagni illeciti. È impossibile conoscerne il numero e gli oggetti tutti. Così, sono state recentemente scoperte sotto la prefettura Gerra due società dette, l’una dei Mulini, l’altra della Posa.

La prima fu fondata con iscopo apparentemente legale, sotto forma di consorzio fra gli esercenti mulini per la riscossione e il pagamento della tassa del macinato, allorquando questa tassa, prima che fosse introdotto il contatore meccanico, si riscuoteva col sistema degli accertamenti. Aveva realmente per iscopo principale di tenere alto il prezzo della molenda per mezzo del monopolio procurato colla violenza. I soci dichiaravano il loro guadagno medio fino al loro ingresso nella società, e questo veniva loro garantito. La società, regolandosi sugl’interessi comuni, decretava la chiusura dell’uno o dell’altro mulino, e passava agli esercenti di questi l’equivalente del loro guadagno mensile medio. Gli altri soci pagavano alla società una tassa proporzionata ai loro prodotti (un poco più di 5 lire per ogni salma di farina, un poco più di 3 lire per ogni salma di semola prodotta). Il provento di queste tasse in parte serviva a indennizzare gli esercenti i mulini chiusi per ordine della società. Il rimanente, pare venisse diviso fra i soci in proporzione dei loro guadagni. I soci renitenti a pagare la loro tassa, erano puniti prima cogli sfregi, coll’uccisione cioè di animali, coll’incendio di piantagioni, ecc.; se tali avvertimenti non bastavano, venivano ammazzati. Nel medesimo modo erano trattati coloro che la società desiderava avere fra i suoi membri e che vi si rifiutavano. Il terrore sparso da questa associazione era tale che bastava talvolta il consiglio dato a taluno di entrare nella società, per farlo rinunziare in tutta fretta alla propria industria. Un gruppo di pastai che stava trattando con un mulino a vapore per una fornitura di farina a prezzo minore di quello stabilito dalla società, desistette dalle trattative per non porsi in urto con questa.

La società della Posa, fra garzoni mugnai e carrettieri, strettamente connessa con quella dei mulini, aveva per iscopo apparente il mutuo soccorso. Ciascun socio pagava un tanto per ogni salma di farina prodotta nel mulino dov’era impiegato, o trasportata col carro, secondo le professioni. Ai soci era proibito farsi vicendevolmente concorrenza. Il capo destinava chi doveva lavorare, e chi rimanere ozioso. La tassa della Posa era per i garzoni mugnai pagata dai loro padroni; i garzoni carrettieri la pagavano essi stessi; col provento delle tasse si mandava un tarì (L. 0.42) al giorno ai membri della società arruolati nell’esercito, si soccorrevano i vecchi e gl’infermi, e si pagavano gl’impiegati che tenevano l’amministrazione; il rimanente si divideva fra i soci. Gli esercenti mulini dovevano impiegare i membri della società, e pagare la tassa, pena gli sfregi e la morte. Pare inoltre che la società della Posa esigesse una tassa di un tanto per salma di grano depositato presso i magazzini dei sensali di cereali (che a Palermo fanno anche da magazzinieri). I sensali pagavano questa tassa, e se la facevano restituire dai proprietari depositanti. Ambe le società erano in mano a un potente capo mafia che se ne valeva per l’esercizio d’ogni sorta di prepotenze, e specialmente adoperava i membri della seconda per suoi cagnotti, contro quei proprietari d’agrumeti che non accettavano i fittaiuoli e i guardiani da lui proposti, ed in genere contro quelli che pretendessero agire a modo loro in qualunque affare dove a lui piacesse intervenire. Malgrado il bell’impianto dell’amministrazione sociale, i suoi numerosi libri e registri, non sembra che tutti i proventi andassero a vantaggio dei soci; una parte finiva in mano dei faccendieri che, in Roma, sostenevano gl’interessi o l’impunità dell’associazione e dei suoi membri, nei ministeri e altrove.

[...]

§ 27. — La Mafia.

Così si formano quelle vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico: abbiamo descritto la MAFIA, che una persona d’ingegno, profonda conoscitrice dell’Isola ci definiva nel modo seguente: «La Mafia è un sentimento medioevale; Mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e delle leggi».
Come fuori di Sicilia sono più conosciute quelle manifestazioni del suo stato sociale, che hanno carattere violento, così sono pure conosciuti più generalmente quegli elementi della mafia che sono cagioni immediate di siffatte manifestazioni. Perciò è generalmente significata con questo nome quella popolazione di facinorosi la cui occupazione principale è d’essere ministri ed istrumenti delle violenze, e coloro che sono con essi in relazioni dirette e continuate. Così si dice: «la mafia del tale o tal altro paese». Siffatta incompleta cognizione del fenomeno non entra per poco nella difficoltà incontrata a spiegarlo ed a scoprirne l’indole, come avremo luogo di manifestarlo più particolarmente nel corso di questo studio.
In siffatta condizione di cose, avviene per necessità che le gare personali a poco a poco ingrossino e diventino divisioni di partiti, e che le divisioni di partiti abbiano tutto il loro fondamento in gare ed ambizioni personali. Se una quistione d’amor proprio o d’interesse divide due delle prime famiglie di un Comune, a poco a poco le altre si aggruppano intorno a quelle, il paese è diviso in due fazioni. Ognuna impiega contro l’altra tutti i mezzi. Dalla violenza al Processo penale o civile, e alla legge elettorale e comunale. Ognuno cerca di tirar dalla sua il pretore, il procuratore del Re, il sotto prefetto. Dove poi non v’ha divisione o lotta, dove la persona preponderante in un Comune è sola e senza rivale, la sua potenza diventa assoluta. Dispone a modo suo dell’amministrazione pubblica e quasi delle sostanze e della vita di tutti.


[...]

§ 51.— La mafia.

Principieremo colla mafia.

Abbiamo già accennato ( ) come questa parola sia sul Continente usata per lo più in un senso improprio. Si crede generalmente che i fenomeni abbracciati da questo suo significato comune compongano da sè soli un fatto sociale completo, mentre ne sono solamente manifestazioni parziali. Laonde si cerca dentro di essi le loro cagioni per non trovarci invece che una confusione inestricabile di fatti disordinati e spesso contraddicenti fra di loro. Il fatto completo di cui solamente un fenomeno è compreso nel significato comune della parola mafia, è una maniera di essere di una data Società e degli individui che la compongono ed in conseguenza, per esprimersi efficacemente ed in modo da ottenerne un’idea chiara, conviene significarlo non con un sostantivo, ma con un aggettivo. L’uso siciliano, giudice competente di questa materia, lo esprime precisamente coll’aggettivo mafioso, col quale non vien significato un uomo dedito al delitto, ma un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazione fatta dei mezzi che adopera a questo fine. E siccome nello stato sociale che abbiamo cercato di descrivere, la violenza spesso è il miglior mezzo che uno abbia di farsi rispettare, così è nato naturalmente che la parola usata in senso immediatamente derivato, venisse ad esprimere uomo dedito al sangue. Laonde il sostantivo mafia ha trovata pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi.

Stabilito in tal modo il significato che noi, in conformità coll’uso siciliano e colla realtà dei fatti, intendiamo dare alla parola «mafioso» e la sua diversità da quello usato generalmente, potremo liberamente per la comodità del discorso e per evitar perifrasi inutili, usare la parola mafia nel suo significato comune e parziale, ed in questo caso lo segneremo in carattere corsivo.


[...]

§ 52. — Caratteri speciali dell’industria del delitto a Palermo e suoi dintorni. Loro cagioni.

Per chi abbia un poco seguito durante questi ultimi anni la discussione nel Parlamento e nella stampa sulla questione della pubblica sicurezza in Sicilia, è cosa ormai conosciuta che la mafia ha il suo tipo più perfetto e le sue manifestazioni più energiche in Palermo e nei suoi dintorni. Anzi, a questo proposito, conviene notare che molte descrizioni dove si credono generalmente esposte le condizioni di Sicilia tutta, dovrebbero invece riferirsi esclusivamente a Palermo e a quel territorio che la circonda ed è in relazioni immediate e continue colla città. Nell’analisi che ora cercheremo di fare del fenomeno, terremo dunque più specialmente in vista le sue manifestazioni in codesto angolo dell’Isola.


[...]

§ 54. — Facinorosi della classe media.

Imperocchè la città e l’agro palermitano ci presentano un fenomeno a prima vista incomprensibile e contrario alla esperienza generale e alle opinioni ricevute. Ivi l’industria delle violenze è per lo più in mano a persone della classe media. In generale questa classe è considerata come uno elemento d’ordine e di sicurezza, specialmente dov’è numerosa, come lo è infatti in Palermo. Noi stessi abbiamo più sopra notato come il suo scarso numero in Sicilia fosse una delle principali cagioni della condizione dell’Isola( ). Questa contraddizione però è solamente apparente. Invero, quando la classe media non ha preso in un paese una preponderanza di numero e d’influenza tale da assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla potenza privata, l’osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato. Ora, la caratteristica essenziale che fa sì che codesta classe sia in generale un elemento d’ordine, è per l’appunto il timore che domina in chi la compone di perder ciò che ha acquistato, e la ripugnanza di correr rischi per acquistare di più. Per modo che, quando per le condizioni sociali da un lato, per l’impotenza dell’autorità dell’altro, il rischio non è maggiore a usar violenza che a non usarla, cessa ogni cagione per i membri della classe media, di sostenere l’ordine. Anzi, per poco che abbiano intelligenza, energia e desiderio di migliorare il proprio stato, (e in quella parte del territorio dove la classe media sarà più numerosa, saranno pure più numerose le probabilità che si trovino nel suo seno uomini dotati di siffatte qualità), niuna industria è per loro migliore di quella della violenza. Perchè portano nell’esercizio di questa tutte le doti che distinguono la loro classe, e, in altri paesi, la fanno prosperare nelle industrie pacifiche: l’ordine, la previdenza, la circospezione; oltre ad una educazione ed in conseguenza una sveltezza di mente superiore a quella del comune dei malfattori. Perciò l’industria delle violenze è, in Palermo e dintorni venuta in mano di persone di questa classe. A quelle deve la sua organizzazione superiore; l’unità dei suoi concetti, la costanza dei suoi modi di agire, la profonda abilità colla quale sa voltare a suo profitto perfino le leggi e l’organizzazione governativa dirette contro il delitto; l’abile scelta delle persone, dalle quali conviene accettare la commissione d’intimidazioni o di delitti; la costanza colla quale osserva quelle regole di condotta, che sono necessarie alla sua esistenza anche nelle lotte che non di rado insorgono fra coloro i quali la praticano.

Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata. Sono sempre assicurati di trovare istrumenti sufficentemente numerosi a cagione della gran facilità al sangue della popolazione anche non infima di Palermo e dei dintorni. Del resto sono capaci di operare da sè gli omicidii. Ma in generale non hanno bisogno di farlo, giacchè la loro intelligenza superiore, la loro profonda cognizione delle condizioni della industria ad ogni momento, lega intorno a loro, per la forza delle cose, i semplici esecutori di delitti e li fa loro docili istrumenti. I facinorosi della classe infima appartengono quasi tutti in diversi gradi e sotto diverse forme alla clientela dell’uno o dell’altro di questi capi mafia, e sono uniti a quelli in virtù di una reciprocanza di servigi, di cui il resultato finale riesce sempre a vantaggio del capo mafia. Il quale fa in quell’industria la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. Egli determina quell’unità nella direzione dei delitti, che dà alla mafia la sua apparenza di forza ineluttabile ed implacabile; regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di questa industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni. A lui spetta il giudicare dalle circostanze se convenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltiplicarle e dar loro un carattere più feroce, e il regolarsi sulle condizioni del mercato per scegliere le operazioni da farsi, le persone da sfruttare, la forma di violenza da usarsi per ottenere meglio il fine. È propria di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione. Un’accozzaglia od anche un’associazione di assassini volgari della classe infima della società, non sarebbe capace di concepire siffatte delicatezze, e ricorrerebbe sempre semplicemente alla violenza brutale.

[...]

§ 55. — L’omertà.

Ma questa potente organizzazione della classe dei facinorosi, per quanto sia efficace a far riescire le imprese comuni a parecchi fra di loro, non potrebbe da sè sola bastare a salvare la classe dallo sfacelo nei casi numerosissimi a Palermo e dintorni, dove le imprese dei suoi membri implicano interessi contradittorii, e nei quali adoperano gli uni contro gli altri quelle medesime violenze che usano contro il rimanente della popolazione. Se non che, siccome i malfattori, anche nel contrasto dei loro interessi momentanei, conservano sempre comune e identico per tutti l’interesse al libero e sicuro esercizio della loro industria, la classe dei facinorosi della città e dell’agro palermitano è stata dal sentimento della conservazione portata a promuovere quest’interesse che potremmo chiamare sociale, astrazione fatta dagl’interessi individuali e momentanei dei suoi membri. Laonde è invalso fra di loro un vigoroso spirito di corpo più forte di qualunque odio o rivalità personale. Ora, l’interesse della classe dei facinorosi per mestiere essendosi ormai imposto come il più forte di ogni altro alla Società in Palermo e dintorni, ne è risultato il fatto di cui già ragionammo( ), che, cioè, questo interesse si è imposto agli animi, all’opinione pubblica insomma, come interesse dell’intera società, e così, le regole che si sono imposte agli animi della popolazione come regole di virtù, di moralità e di onore, sono quelle che favoriscono l’esistenza di codesta classe. Vogliamo parlare di quell’assieme di norme in virtù delle quali è proibito ricorrere alla legge contro la violenza, pena non solo la morte ma anche il disonore. Queste regole sotto il nome di codice dell’omertà sono in Palermo e dintorni più che nel rimanente di Sicilia precise e stringenti nella popolazione, perchè qui l’interesse che colla forza si è imposto materialmente e moralmente è quello di una classe intera, mentre in altre parti dell’Isola, come avremo più sotto occasione di esporlo, si può dare e si dà effettivamente il caso che abbia assunto il predominio sopra l’opinione pubblica la preponderanza di un numero limitato di persone, e perciò il loro interesse individuale fa legge, per modo che contro di loro non sia permessa la denuncia, ma a loro favore sia ammessa dall’opinione pubblica non solo la denuncia, ma la denuncia calunniosa.

Nè può, secondo noi, l’autorità morale del codice dell’omertà attribuirsi a cagione diversa da quella ora accennata: non all’odio tradizionale contro il Governo e la legge, avanzato dal dominio borbonico, perchè più di una volta, una parte della mafia ha cooperato, a suo modo è vero, ma pur cooperato col Governo alla polizia. Nei militi a cavallo, corpo di polizia più o meno sicuro, ma pure corpo di polizia, prepondera nel più dei casi, l’elemento mafioso. E nemmeno si può attribuire tale autorità a un sentimento d’indipendenza e d’insofferenza di ogni giogo per parte della popolazione in generale, il quale, quantunque male inteso, pure sarebbe segno di una certa energia di carattere; giacchè mai nella popolazione si manifestò segno alcuno di sdegno o d’impazienza contro la società dei mulini che aveva imposto col terrore un rialzo fittizio sul prezzo delle farine. E pure sarebbe lungo a contarsi nella storia di Palermo il numero delle sedizioni popolari per il caro prezzo del pane. Ma bisognò che l’autorità facesse conto sulle sue sole forze ed attività per sgominare cogli arresti la società dei mulini, ed ottenere per tal modo da un giorno all’altro un ribasso nel prezzo di molenda di L. 1.50 a salma per le farine, e di L. 2.50 a salma per le semole, e nel prezzo di vendita delle paste di cent. 6 il rotolo.

Riassumendo i ragionamenti fin qui fatti sulle condizioni della sicurezza pubblica in Palermo e dintorni, possiamo dire:

Che le cause occasionali del predominio della violenza in quella regione, sono quelle tradizioni non interrotte e quelle circostanze in parte storiche, le quali imprimendo alla gran massa della popolazione un carattere violento e sanguinario, hanno fatto sì che fosse possibile alla prepotenza di esercitarsi col mezzo della violenza materiale;

Che l’esercizio della violenza vi ha assunto caratteri speciali per l’esistenza e l’organizzazione eccezionalmente perfetta di una classe di facinorosi indipendente e con interessi suoi propri, dovute a cagioni in parte storiche, comuni ad altre province di Sicilia per una parte, e speciali a Palermo e dintorni per l’altra. L’influenza di questa classe ha reagito sopra quei costumi che ne avevano resa possibile l’esistenza, determinandone meglio i caratteri.

Ma la cagione che ha rese efficaci tutte queste cause secondarie, è lo stato sociale comune a tutta la Sicilia, il quale fa sì che la potenza privata sia in grado di predominare nella società, e che quella forza che ha assunto il predominio, sia per consenso generale accettata come legittima. Questo stato è cagione che gli elementi di violenza, appena hanno acquistato una certa importanza, non rimangono isolati, ma diventano un elemento della vita sociale e un istrumento per tutti gl’interessi e tutte le pretese. In quella guisa che una goccia d’olio, cadendo sopra una tavola di marmo, rimane quello che era prima di cadere, e si può facilmente asciugare, ma se sopra un pezzo di carta, principia a imbeverlo, si estende, s’immedesima colla sua materia in modo da fare con esso una cosa sola, e non si può estirpare che con energici reagenti chimici; così in un paese di condizioni diverse dalle siciliane, se vi sono, per esempio, cento malfattori, l’autorità trova dinnanzi a sè cento malfattori e nulla di più. Ma in Sicilia, se non riesce a sopprimerli appena comparsi, e lascia loro il tempo di insinuarsi nelle relazioni sociali, l’autorità trova dinanzi a sè tutta una organizzazione sociale, e per estrarre dalla società l’umore malsano ha necessità di una energia e di una abilità, che sarebbero superflue in circostanze ordinarie.

Certamente, anche le cause occasionali sono elementi necessari delle cattive condizioni della sicurezza. Così, quando il numero delle persone capaci di commettere delitti di sangue fosse limitato, per quanto queste si fossero insinuate nella vita sociale, pure il giorno in cui l’abilità eccezionale di un funzionario o altre circostanze speciali avessero reso possibile all’autorità d’impadronirsi di quelle persone, le violenze cesserebbero. Questo accadde in Messina, dove la massa della popolazione è più mite che nella provincia di Palermo, dopo la cattura della massima parte della banda Cucinotta, e della mafia cittadina sua alleata. Inoltre, dove scarseggiano per l’indole della popolazione le persone capaci di commettere in circostanze ordinarie dei delitti di sangue, la violenza non sarà nelle tradizioni, e non si userà se non quando qualche persona influente o intelligente voglia adoperarla a suo vantaggio, cerchi gl’istrumenti adattati e prepari le circostanze favorevoli. Così avviene attualmente nelle parti tranquille delle province di Catania e di Siracusa. In quelle parti la potenza privata si fa valere con altri mezzi che avremo occasione di analizzare in seguito.

[...]

§ 64. — La mafia nelle province.

Ma se le speculazioni fin qui enumerate sono le principali dei malfattori in provincia, non sono le sole. Non mancano anche in provincia occasioni di guadagno analoghe a quelle che sono gli oggetti principali dell’industria del malfattore in Palermo e dintorni, e per cagione di questa analogia sono generalmente qualificate per atti di mafia. Nel medesimo modo anche ai malfattori in Palermo e nei dintorni non mancano occasioni di commettere atti di malandrinaggio vero e proprio, come grassazioni, lettere di scrocco, talvolta anche ricatti. Solamente a Palermo come in provincia, i generi di speculazione secondari non essendo sufficenti ad assicurare guadagni continuati, non impiegano generalmente un personale a parte, ma sono occupazioni accessorie di quei malfattori, dei quali abbiamo descritto le caratteristiche principali. Essi in conseguenza traggono la loro forza e la loro autorità dall’esercizio delle speculazioni principali, adoperano poi questa loro forza nell’esercizio delle secondarie. Perciò, il malfattore di provincia, che eseguisce operazioni simili a quelle che fanno l’oggetto principale dell’industria dei facinorosi palermitani, avrà nonostante tutti i caratteri del malandrino; mentre viceversa il mafioso di Palermo e dintorni, anche quando compie atti di malandrinaggio, conserva le sue caratteristiche. Le varietà nell’industria dei malfattori in Sicilia, non si devono dunque, a nostro avviso, distinguere a seconda delle varie speculazioni, colle quali siffatta industria si pratica, bensì, a seconda della qualità delle persone che l’esercitano. E questa qualità stessa è determinata dalle varie circostanze locali, in mezzo alle quali queste persone la esercitano: da un lato, quelle di Palermo e dintorni, o di taluni altri centri di popolazione, in quanto le loro condizioni si ravvicinano a quelle di Palermo, e dall’altro, quelle delle province.

Molto più, l’industria del brigantaggio ha a Palermo uno dei suoi principali centri d’informazione e di azione. A Palermo stessa si combinano molte delle operazioni di brigantaggio da commettersi nell’interno. A Palermo viene a finire buona parte del provento di queste. Insomma uno dei centri del manutengolismo vero e proprio, spontaneo e socio nei guadagni dell’industria, è Palermo. La cosa si spiega facilmente dall’esser questa città soggiorno per buona parte dell’anno di molti importanti proprietari delle terre percorse e dominate dai briganti, centro considerevole di affari e di ricchezze, finalmente sede d’importanti amministrazioni civili, giudiziarie e militari, sui procedimenti e intenzioni delle quali i malfattori hanno necessità di essere minutamente informati, e colle quali hanno continuamente bisogno di avere mezzi di contatto e d’influenza. Queste intime relazioni con Palermo non tolgono però all’industria dei malfattori di provincia i suoi caratteri speciali, nel medesimo modo che una società per la costruzione di ferrovie, o l’escavazione di miniere nell’America Centrale può avere la sede principale della sua amministrazione e dei suoi interessi pecuniari a Londra, senza diventare perciò una società bancaria o commerciale.

L’essere generalmente invalso l’erroneo criterio delle varie specie di speculazioni, per distinguere le varie specie dell’industria facinorosa, si spiega facilmente. Fra i diversi modi nei quali si esercita l’industria dei facinorosi in Sicilia, quelli che hanno prima e più d’ogni altro colpito le menti di chi riflette, parla e scrive dentro e fuori dell’Isola, sono da un lato il brigantaggio e il malandrinaggio, dall’altro i fatti che avvengono a Palermo. Di modo che, da una parte fu dato, e a buon diritto, il nome di brigantaggio e malandrinaggio agli atti simili a quelli che sul Continente erano designati con questi nomi. E dall’altra parte, invalsa nell’uso comune (sempre indeterminato e inesatto) la parola mafia (nel suo significato volgare ed improprio) per designare genericamente gli atti di qualunque specie coi quali si esercita l’industria dei facinorosi in Palermo e dintorni, venne naturalmente fatto di applicare il medesimo nome a quelle speculazioni dei facinorosi in provincia, che avevano una somiglianza formale con quelle di Palermo. La similitudine del nome genera naturalmente nelle menti l’idea della similitudine della cosa, e così accade che a prima vista nasca nella mente, se non il pensiero, almeno l’impressione che in provincia le speculazioni analoghe a quelle che costituiscono l’oggetto e il guadagno principale dei malfattori di Palermo, e per la loro natura e per le persone che praticano, siano una cosa distinta dal brigantaggio e dal malandrinaggio, e si confondano con l’industria della mafia palermitana, mentre è vero precisamente il contrario.

Posta la distinzione fra i facinorosi della città e dell’agro palermitano da un lato, e quelli di provincia dall’altro, senza pretendere di trarre fra le due categorie una linea di demarcazione che non esiste, se ricerchiamo una caratteristica costante che le distingua, troviamo la seguente cui già accennammo. In provincia l’unione fra i malfattori di un territorio per i loro fini immediati esiste quasi sempre, a Palermo no. Le rivalità e le lotte che talvolta avvengono fra bande brigantesche, sono fatti accidentali, che non mutano nulla ai caratteri generali, giacchè nella popolazione dei malfattori, il brigante è l’eccezione, e il malandrino la compone quasi esclusivamente. La necessità già dimostrata di questa unione nei fini immediati per i malandrini fa sì che, anche quando si adoperano nelle relazioni fra le persone estranee alla loro classe, i malandrini di un dato territorio, si mantengono quasi sempre uniti. Il che è, del resto, reso loro molto facile come lo esporremo or ora per l’indole delle relazioni sociali nella maggior parte dei paesi di provincia, dove non esiste gran varietà d’interessi di forza uguale, ma predomina l’interesse di uno, di due, o tutt’al più di tre gruppi di persone.

Questa differenza tra Palermo e le province, insignificante a prima vista, genera una diversità importantissima nei costumi dell’una e delle altre. Difatti, a Palermo, come già lo osservammo, il solo interesse comune che leghi insieme i facinorosi in modo costante, è la conservazione della loro classe come tale, in altri termini la sicurezza nell’esercizio della violenza, qualunque sia il fine al quale è diretta, contro le forze intese a sopprimerla in genere. Le regole di condotta prevalse nella classe dei facinorosi e da loro imposte materialmente o moralmente al rimanente della popolazione, sono quelle che per la natura delle cose hanno efficacia per tutelare l’esercizio della violenza, e, come tutte le altre che hanno carattere sociale, fanno astrazione dagli interessi momentanei ed immediati degli individui, anzi, sono spesso in contraddizione con quelli. Laonde il codice dell’omertà, in Palermo, non ammette eccezioni, e ne soffre nel fatto poche. In provincia invece, l’interesse della classe violenta s’identifica e si confonde con quello di determinate persone. In conseguenza l’interesse, la cui forza predomina, ed il quale per ciò si impone materialmente e moralmente a tutta la popolazione, è quello di determinati individui, che hanno fra di loro interessi comuni, oppure sono divisi in due, o tutt’al più, in tre campi avversarii. Chi adopera la violenza per reagire contro coloro che predominano, se riesce ad avanzarli di forza, piglia il loro posto, se rimane più debole, è vinto e distrutto. Chi adopera le sole leggi, rimane inevitabilmente più debole e ugualmente distrutto, e, se vien dai vincitori dichiarato infame, è per un di più. In conseguenza, ognuno, nella lotta, può usare a suo piacere, in aiuto alla violenza anche le leggi, senza rischio di dar di cozzo contro l’ostacolo fisso ed immutabile della consuetudine e dell’opinione pubblica. Perchè non vi sono altri violenti per reclamare e sancire a nome di un interesse di classe l’applicazione del codice dell’omertà, all’infuori dei componenti e aderenti del partito contrario. Il quale, se sarà più forte, potrà anche darsi il lusso di dichiarare i vinti infami, ma, in fin dei conti non farà che una sola vendetta e per le loro violenze, e per le loro insidie legali; e se sarà vinto, non avrà alcuna influenza sull’opinione pubblica. Sicchè il codice dell’omertà non è sicuro di essere rispettato che nei casi, non molto frequenti, di lotte fra malfattori di mestiere. Non abbiamo ormai bisogno di spiegare il perchè.

In conseguenza, nelle province, le regole dell’omertà, non si sono imposte all’opinione pubblica che in quanto giovano ai più forti; valgono a favore di questi, non contro di loro. Lo prova il fatto molto caratteristico già da noi citato, non di una denuncia, ma di una calunnia giudiziaria commessa dal vero colpevole, uomo temuto, a danno di un meschino impiegato del macinato, colla complicità del silenzio di un’intera popolazione. Lo prova anche meglio l’andamento dell’istruzione del processo cui diede luogo quell’omicidio. Finchè l’istruzione rimase in mano del pretore locale, per la fiaccona o per la poca autorità di questo, o per altre cagioni, gli indizi e le prove si accumulavano addosso all’innocente. Appena l’autorità superiore, avvisata, si mise in moto, mandò sul luogo il sotto-prefetto, il procuratore del re fece sentire che anch’essa era forte, sorsero per incanto le testimonianze a carico del vero colpevole. Del resto senza citar casi tanto estremi, accadono ogni giorno fatti, i quali provano che in provincia, il codice dell’omertà non ha fatto presa sull’animo delle popolazioni nel grado medesimo che a Palermo, e che soffre numerose eccezioni. I ladruncoli che non sono stati ancora buoni ad uccidere uno, sono dai proprietarii denunciati all’autorità, mentre o un brigante, o un malandrino temuto, può, meno rare eccezioni, uccidere chi gli pare senza pericolo di denunzia, neppure per parte dei prossimi parenti della vittima. L’unica volta, crediamo in cui contro il famoso brigante Angiolo Pugliese sia stato, innanzi al suo arresto, presentato lamento all’autorità, fu prima che egli si fosse dato all’esercizio del brigantaggio in Sicilia. E fu portato lamento per la detenzione di un cavallo prestatogli dal proprietario stesso, e che egli, nella sua confessione dichiara non avere avuto intenzione di rubare( ). Va pure citato il fatto seguente: due partiti si combattevano in un Comune. Un membro dell’uno fu ucciso, per opera dei capi del partito opposto, credettero i congiunti della vittima; i quali da una parte tentarono di fare uccidere alcuni di quel partito, dall’altra porsero querela contro i suoi caporioni accusandoli di mandato per omicidio. E ciò senza scandalizzare punto l’opinion pubblica.

Fra le infinite forme colle quali si esercita in provincia la mafia, parleremo di una sola, di quella cioè che è caratteristica delle condizioni delle campagne siciliane, dove fiorisce l’industria dei malfattori. Vogliamo parlare della protezione delle proprietà e fino a un certo punto anche delle persone, che del resto si esercita da essi anche in Palermo, ma più nelle campagne dell’interno dell’Isola.

In un paese dove la classe dei malfattori ha l’importanza che ha in Sicilia, e dove l’autorità pubblica non ha o non usa forza sufficiente per distruggerla, bisogna pure che si trovi un modus vivendi fra essi ed i privati. Il quale, del resto, giova agli uni come agli altri; perchè se i malfattori usassero fino all’estremo la loro facoltà distruttiva, mancherebbe loro ben presto la materia rubabile. Essi sono in grado d’intenderlo, perchè la loro industria, stabile e regolare da tanti anni, ha tesori di esperienza e di tradizioni, e permette a coloro che la praticano di capire in quali condizioni possa sussistere e prosperare. È dunque invalso un sistema di transazioni e quasi diremmo di tassazioni regolari per parte dei malfattori, il quale pur lasciando luogo a molti disordini, nonostante è più tollerabile che uno stato di guerra aperta e continua. Una delle forme principali di queste transazioni è l’accollo preso dai malfattori stessi della protezione delle cose e delle persone. Già accennammo il modo con cui i capi briganti potenti fanno a proprio profitto le parti di un governo regolare. Ma tal sistema è eccezionale, come è eccezionale nell’industria dei malfattori la forma del brigantaggio. Più generalmente, alcuni fra i malfattori assumon ufficialmente le funzioni di guardiani della sicurezza delle cose e delle persone non solo dai privati, ma anche dai Comuni e perfino dal Governo. Limitandoci per adesso a parlare dei primi; senza ritornare qui sul già detto intorno all’importanza del campiere facinoroso nell’economia agraria siciliana( ), osserveremo solamente che ciò che fa di questi campieri una istituzione caratteristica ed attissima a dare un’idea netta delle condizioni siciliane, è il fatto che sono in provincia uno dei principali fra gl’infiniti modi delle relazioni continue fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche. Cercheremo adesso di analizzare codeste relazioni.


.










vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.