Eleaml


Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Fonte:
www.ilfattonisseno.it - Anno I Num. 7 - Ottobre 2011

 Fatti contro la mafia per non dimenticare

Cutrera, il professionista dell’antimafia che non fece carriera

di Giovanbattista Tona


Se qualche volenteroso volesse consultare un po’ di testi, qualificati e non, sul fenomeno mafioso, vi troverebbe ripetutamente citato un vecchio libro, pubblicato nel 1900 e intitolato “La mafia e i mafiosi” di tale Cutrera.

Questo volumetto, negli ultimi decenni, è stato di uso solo attraverso imperfette ristampe anastatiche di piccoli editori, in vendita nelle bancarelle dei remainders, ma meglio di altri celebri best-sellers spiega della mafia tante cose che allora come adesso si finge di non capire.

Chi era il suo ignoto autore e perché il suo posto nella storia è limitato agli angusti spazi delle note bibliografiche? Antonino Cutrera, così si chiamava, era un funzionario di polizia e coltivava – a sue spese – studi di criminologia e di sociologia. Entrato nell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza a venticinque anni nel 1888, prometteva brillante carriera; a Catania aveva conseguito diversi encomi per arresti di truffatori, ladri, rapinatori e ricercati. Un poliziotto così non poteva che ricevere stima e apprezzamento presso potenti deputati, i quali, quando egli chiese di essere trasferito a Palermo, sua città natale, non gli fecero mancare aiuto.

Era l’epoca dei Fasci Siciliani, il movimento contadino considerato ai tempi una congrega di terroristi; i suoi dirigenti erano latitanti per la giustizia e il Governo esigeva dal Questore di Palermo, Michele Lucchesi, la loro cattura. Cutrera riuscì a sapere il luogo dove stavano nascosti i ricercati, in procinto di fuggire per Tunisi; predispose allora un servizio di pedinamento e riferì tutto al Questore, il quale, nella notte tra il 15 e il 16 gennaio del 1894, si recò personalmente ad arrestarli dentro il pozzetto delle ancore del bastimento “Bagnara”. Già era stato arrestato uno solo dei loro capi, un deputato socialista, l’on. De Felice Giuffrida; ora per mano di Cutrera finivano in manette Nicola Barbato, Garibaldi Bosco e Bernardino Verro.

Ma della grande operazione si fregiò Lucchesi e nessuno, nemmeno dinanzi ad una nota riservata del suo Questore che ne ammetteva i meriti, si preoccupò di dare un riconoscimento a Cutrera per consentirgli un avanzamento di carriera; anzi siccome egli questi meriti li rivendicava con rispettose ma insistenti note scritte, i suoi superiori e gli uomini di Governo cominciarono ad insolentirsi.

Come fu, come non fu, Cutrera fu presto assegnato ad un incarico ben poco prestigioso, la “Buoncostume”; “Ella vorrà attendere”, gli scrisse il Questore, al “delicatissimo servizio della vigilanza sul meretricio”.

E il nostro diligente funzionario controllò una per una le 151 prostitute censite a Palermo e probabilmente apprese tutto quanto ruotava attorno a loro, clienti compresi.

Sul suo conto cominciarono a scatenarsi gli anonimisti ma le numerose delazioni risultarono tutte “infondate e ispirate da sentimenti di odio”, come riferirono i suoi superiori al Ministro; finchè qualcuno non lo accusò di avere avvisato il cognato avvocato dell’imminente scarcerazione di un suo cliente.

Nemmeno questa accusa fu provata ma stavolta lo trasferirono a Girgenti, avvisando il Questore di lì che Cutrera andava considerato persona poco corretta sia per la storia del cognato avvocato sia perchè alcuni anni addietro avrebbe addirittura abusato di un biglietto ferroviario di servizio.

Lo assegnarono alla delegazione di Cammarata dove c’era da arrestare l’imprendibile bandito Varsalona e, per quanto contrariato per quel trasferimento, Cutrera dovette impegnarcisi sul serio, perchè in poco tempo entrò in conflitto con tutti; “è invaso dalla smania di emergere” si lamentava il Questore con il Ministro e chiedeva di avere a Cammarata “un funzionario di P.S. che senza gelosie agevoli e coadiuvi l’opera degli altri agenti di P.S.”. I quali fino ad allora in realtà non avevano combinato nulla e che nulla combinarono anche dopo.

Ma intanto Cutrera fu trasferito di nuovo.

In quel pochissimo tempo che era rimasto a Cammarata aveva indagato su un barone per favoreggiamento e complicità con il bandito, aveva riferito di alcune operazioni fallite perché il bandito era stato avvisato della presenza degli investigatori dal grido di altolà di uno di loro, aveva segnalato che il sindaco del paese diceva spesso parole di elogio riguardo Varsalona.

Tutte queste cose Cutrera le scrisse in un saggio molto apprezzato dai criminlogi, ma assai poco dai suoi superiori e dalla politica. Il Ministero lo richiamò “ad una maggiore ponderatezza di giudizi e all’osservanza della disciplina gerarchica” e nel suo fascicolo personale questo rimprovero rimase a disposizione di chi ne voleva sottolineare il “carattere borioso”.

In quegli anni Cutrera pubblicava “La mafia e i mafiosi” e, senza farsi scrupoli, del fenomeno descriveva quello che osservava.

Diceva che la mafia esisteva da tanto tempo e veniva combattuta solo a fasi alterne, quando qualche fatto eclatante scuoteva l’opinione pubblica; prevedeva che se l’attività di contrasto non fosse stata continua e se i mafiosi avessero mantenuto le compiacenze dei potenti, il male non sarebbe stato debellato.

Raccontò di “enormi corruzioni”, delle volte in cui si erano “graziate pene” e trasferiti “funzionari e magistrati non pieghevoli”; scrisse che “in Sicilia specialmente i partiti hanno dato cattivi frutti” e che “dove sta il partito non sempre sta la giustizia”, dimostrando che attraverso alcuni di essi la mafia aveva intossicato la democrazia.

Poi, peggio di peggio, narrò dei mafiosi di Palermo che “costituiscono la parte più importante del galoppinismo elettorale”; “è a loro che si raccomandano i candidati, di qualunque colore politico, mettendo a loro disposizione la borsa”. Del governo diceva che era sceso “a transazione con i tristi e i mafiosi per servirsi di essi a scopo elettorale” e che pertanto c’era poco da meravigliarsi se la mafia fosse riuscita ad inquinare la pubblica amministrazione e la giustizia.

Con il suo carattere intransigente e con un libro del genere, con le sue imbarazzanti analisi documentate da fatti e dati, Cutrera il “borioso” si procurò tantissimi altri trasferimenti più o meno punitivi; in ogni luogo dove andava, trovava un politico che subito lo additava come inadeguato e irrispettoso; perché allora tutti dicevano di essere impegnati per fare prevalere la legge e lo Stato, e se un piccolo funzionario metteva in dubbio la probità dei potenti, se non diceva, come facevano molti, che la mafia era stata favorita solo dai notabili del passato o dagli avversari dei notabili del presente, certamente veniva tacciato come uno con la smania di emergere.

Cutrera andò in pensione nel 1924 da commissario aggiunto, mentre altri funzionari erano diventati questori e, quando dodici anni dopo, morì, il “Giornale di Sicilia” ne parlò come di uno “studioso”. Della sua professione di poliziotto nessuno si ricordò.

Perché Cutrera nell’antimafia era stato un vero professionista, ma un pessimo carrierista.

E i professionisti dell’antimafia, se non sono prudenti e ossequiosi verso i potenti di ogni potere, o hanno poca vita o fanno poca carriera.



Fonte:
www.ilfattonisseno.it - Anno I Num. 7 - Ottobre 2011

“I professionisti dell’antima!a” in un articolo pubblicato sul Corriere

Sciascia e la sua polemica più famosa

Era il 10 gennaio 1987 quando il Corriere della Sera pubblicava uno degli articoli più famosi di Leonardo Sciascia dal titolo “I professionisti dell’antimafia”.

Sciascia recensiva un saggio dello storico Cristopher Duggan che racconta la lotta alla mafia sotto il fascismo e, alla luce di quanto accaduto ai tempi del Duce, evidenziava che “l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile.

E' incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso»”.

Secondo Sciascia, tuttavia, l’antimafia come strumento di potere era un’eventualità che poteva verificarsi anche nel sistema democratico, “retorica aiutando e spirito critico mancando”.

Prendeva come esempio in politica quello di un Sindaco che per sentimento o per calcolo decidesse di esibirsi come antimafioso; anche se la sua attività amministrativa fosse stata inadeguata, egli si sarebbe fatto scudo dinanzi alle critiche rivendicando la sua fede antimafiosa e nessuno si sarebbe potuto mettere contro di lui, tranne a rischiare di essere additato come mafioso.

Secondo Sciascia, questo allora era un esempio ipotetico, ma ce n’era uno, secondo lui, attuale ed effettuato ed era la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore di Marsala; egli era stato preferito ad altri magistrati anche più anziani perché si era occupato di indagini contro la mafia e questo era un modo surrettizio per fare carriera.

Lo scrittore allora non poteva immaginare che sorte sarebbe toccata a Paolo Borsellino, il quale con la sua vita e la sua morte ha dimostrato la differenza tra i professionisti dell’antimafia e i carrieristi dell’antimafia; i primi, checchè ne dicesse Sciascia, sono quelli che la mafia la contrastano veramente e con sacrificio, i secondi, che non sempre sono veri professionisti, contrastano la mafia senza particolari sacrifici e cercando di perseguire vantaggi o addirittura chiacchierano, pontificano e basta così...

Cutrera, il professionista dell’antimafia che non fece carriera di Giovanbattista Tona - ilfattonisseno.it - Anno I Num. 7 - Ottobre 2011






vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.