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INTERVISTA A VINCENZO SANTORO
Abbiamo chiesto a Vincenzo Santoro, uno dei curatori de "Il ritmo
meridiano", di parlarci di questo testo in occasione della presentazione
del libro a Roma presso il centro sociale ex Snia Viscosa. Abbiamo cercato
di capire da quale ispirazione nasce "Il ritmo meridiano" e come si colloca
nel panorama editoriale sulla cultura tradizionale salentina.
D. Perché un libro sul "ritmo meridiano"?
R. Abbiamo interesse a spostare la discussione da una dimensione
antiquaria alla realtà contemporanea: vogliamo capire che rapporto esiste
oggi tra le fonti tradizionali e la riproposta della pizzica. Il movimento
che si sta sviluppando ha grandi potenzialità, ma c'è un rapporto sbagliato
con le fonti, che potrebbe portare alla loro distruzione. Penso ad esempio
alla festa di San Rocco a Torrepaduli, che da festa sacra e religiosa
è diventata un grande raduno di "pizzicaroli": la festa è stata trasfigurata,
vi si ritrovano solo frammenti di tradizioni, con un buon 80% di attività
che tradizione non sono. Questo è il tipico esempio di un rapporto sbagliato
e distruttivo con le fonti. Il libro nasce dunque come una riflessione su
come costruire un giusto rapporto con le fonti della tradizione che porti
questi temi a essere fruiti da una grande massa di persone.
D. Come mai il titolo riprende un concetto chiave dell'analisi
sociologica di Franco Cassano?
R. La nostra riflessione è sul significato che assumono oggi gli
elementi della tradizione, su quale rapporto esiste fra il Salento contemporaneo
e quello tradizionale, sul perché si innesca questo movimento e a quali
bisogni risponde. In questa riflessione, scaturita prima della stesura del
libro, abbiamo incrociato la riflessione di Franco Cassano sul "pensiero
meridiano". La pizzica, a nostro parere, non è altro che una verifica
empirica del "pensiero meridiano".
D . Esiste il pericolo che pizzica, taranta e ritmo meridiano
diventino solo una moda?
R. Non bisogna aver paura che il patrimonio tradizionale diventi
una moda, non bisogna aver paura di confrontarci con le masse. Spesso gli
intellettuali che si sono occupati di questi temi hanno peccato di "settarismo".
Il problema che si pone per i Salentini è il rapporto con le fonti, cioè
capire quali sono le caratteristiche che si stanno riscoprendo: la maggior
parte dei nuovi gruppi non considera "fonti" gli anziani o i documenti,
e si limita semplicemente al riciclo di cose già riciclate che nuocciono
alla cultura. Nel Salento si sperimenta di tutto a livello musicale,
si producono melodie fatte di contaminazioni, ma non si spiega mai
programmaticamente che cosa si sta facendo. L'altro problema è che si cerca
di ripescare un tipo di tradizione che faccia vendere: non c'è una copertina
di cd, ad esempio, che non riporti le immagini del tamburello e di San Paolo.
Quindi non bisogna temere le trentamila persone a Melpignano in occasione
della Notte della Taranta, ma piuttosto il fatto che gli organizzatori
a Melpignano non spiegano bene quello che stanno facendo, contrabbandando
un festival di world music o di etnojazz per musica popolare: ormai non
c'è neppure una pizzica suonata come si suona la pizzica. Ci vuole un'operazione
di "pulizia".
TIZIANA SFORZA
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Si può essere ultimi per mille motivi. Spesso è solo un caso:
la lettera di un cognome, la data di nascita, la capacitò di reddito.
I salentini sono ultimi per destino geografico.
Ultimissimi come i calabresi, senza neppure l'alibi dell'insularità.
Ogni Continente e ogni Paese devono pur avere un inizio e una fine: il Salento
è la fine dell'Europa, una lingua di terra che galleggia tra l'Adriatico
e lo Ionio.
La fine di qualcosa è pure l'inizio, basta crederci.
I salentini non hanno mai smesso di crederci, forse perché i loro
cromosomi si sono impastati per secoli con quelli di chi dall'appartenenza
ha ricavato parecchi privilegi.
I nobili spagnoli e i gesuiti cominciano a colonizzare questa terra per
volere dei Borbone e di Dio. Due poteri con una concezione cosò elevata
di sé © e della propria missione che non potevano non scegliere
di essere rappresentati da un barocco che intimidisce prima e ammutolisce
poi.
Il Salento è pensato e costruito per stupire, i ricami della natura
e quelli degli architetti sembrano orchestrati dalla stessa mano, un gioco
di colori e di luci che rimbalzano su ghirlande sorrette da angeli, putti,
figure grottesche, simboliche e zoomorfe attorcigliate ai capitelli.
A Lecce, la chiesa di Santa Croce e piazza del Duomo raccontano più
di un manuale di storia e un trattato di sociologia. Il bianco della pietra
e l'azzurro del cielo invadono l'immaginario di chi le ammira.
I salentini osservano divertiti le reazioni di chi per la prima volta si
trova immerso in questa quinta teatrale. Loro non hanno mai avuto fretta
di fuggire.
E quando emigravano tornavano sempre, come se fossero sempre stati consapevoli
che da qui te ne vai con i piedi ma mai con la testa. Per decenni, la marginalità
ha protetto questa terra dalle convulsioni dell'industrializzazione forzata.
Aldo Moro era di Maglie, in provincia di Lecce.
Fu lui a decidere che l'Italsider doveva andare a Taranto e l'industria
chimica a Brindisi, risparmiando sempre e comunque il Salento da interventi
traumatici. Una scelta che politicamente non gli costò granché.
I salentini hanno sempre dimostrato di sapersela cavare da soli. Capacitò
progettuale e spirito pragmatico vanno di pari passo, forse perché
qui non è saltato nessun passaggio dal Medioevo alla modernità.
La borghesia è solida e con radici antichissime, anche se, da buoni
meridionali, i salentini non possono fare a meno di avere un avvocato e
un medico per ogni famiglia.
La pazienza, frutto di una storia senza sbalzi e fughe in avanti, alla
fine è stata premiata. Da anni i pugliesi e soprattutto i baresi
si interrogano sugli ultimi della classe che improvvisamente sono diventati
i primi.
Primi nella valorizzazione della loro identità, primi nella difesa
dell'ambiente, primi nella capacitò di progettare, primi nell'accoglienza
degli extracomunitari che approdavano su queste coste in fuga dai Paesi
orientali e africani più disgraziati del pianeta. Qui, nessuno li
chiama "disperati", cioè senza speranza, come i telegiornali
italiani si ostinano a gracchiare con ossessionante ripetitività.
Ma albanesi, curdi, somali, marocchini.
Un rispetto per il lessico e l'identità che forse nasce da un altro
cromosoma di tolleranza germogliato tra queste coste e l'altra sponda dello
Jonio, la Magna Grecia. Dalla società civile a quella politica poco
cambia.
La politica pugliese, dal Centrodestra al Centro-sinistra, è monopolizzata
dai salentini. Raffaele Fitto, figlio d'arte e presidente della Giunta regionale,
è solo l'esempio più visibile.
Dietro di lui si muovono decine di sindaci che al di là delle differenze
politiche non smettono di sottolineare la comune visione del Salento e del
suo futuro. Recente è la loro presa di posizione, avallata dall'economista
Gianfranco Viesti e dal presidente della Confindustria regionale, Gianni
Mongelli, contro il condono edilizio regionale.
Il Salento appare come un'isola politicamente corretta in un mare dove
i colpi bassi e i trasformismi sono all'ordine del giorno. Lo storico dell'economia
Federico Pirro, per cinque anni consigliere economico dell'ex presidente
della Giunta regionale Di Staso, lo riconosce senza mezzi termini: "I
politici salentini hanno uno stile e un rispetto per gli avversari politici
sconosciuti a Bari e in altre aree della Puglia".
Una civiltà delle relazioni umane che ha consentito al presidente
della Provincia di Lecce, Lorenzo Ria, di costruire una sorta di network
tra i 98 Comuni che passa sotto il nome di "modello Salento".
L'idea era apparentemente semplice: valorizzare il patrimonio storico,
artistico e culturale per far conoscere questa terra agli italiani e agli
stranieri. Correva l'anno 1995. E i media italiani parlavano del Salento
per gli sbarchi dei clandestini e la disfida nel collegio di Gallipoli tra
Massimo d'Alema e Rocco Buttiglione.
La prima fase fu quella pubblicitaria, una campagna aggressiva ma alternativa,
con stand allestiti fuori dai supermercati delle principali città
del Nord. Poi si passa alla fase due, con il restauro e il recupero delle
testimonianze più rappresentative della salentinità: si restaurano
chiese (San Francesco alla Scarpa) e teatri (Politeama).
Ria rastrella soldi dappertutto: patti territoriali, contratti di programma,
fondi comunitari.
Non contenta degli stand fuori dai supermarket, la Provincia sponsorizza pure la squadra di calcio, il Lecce, con uno slogan che il presidente si precipita a registrare per paura che qualcuno glielo rubasse: "Salento d'amare". Ovviamente ognuno fa la sua parte.
Il Comune di Lecce, innanzitutto, guidato dall'ex ministro delle Politiche
agricole Adriana Poli Bortone. E via via quelli minori, come i nove Comuni
della Grecia salentina di cui fa parte Melpignano, 3mila abitanti di cui
500 emigrati nella regione svizzera del Sangallo.
E proprio a Melpignano, nel '98, l'allora vicesindaco con delega alla Cultura,
il funzionario comunale Sergio Blasi, s'inventa "La notte della Taranta",
un happening lungo venti giorni in cui tutti i paesi della Grecia salentina
si trasformano in un grande palcoscenico musicale all'aperto: balli, melodie
e serenate al ritmo inesorabile del tamburello, suoni ripescati dalla tradizione
rurale del ballo della pizzica, quando le giovani contadine, sfinite da
una vita di stenti e negazioni, davano di matto.
La credenza popolare attribuiva quell'impazzimento alle conseguenze della
puntura di una tarantola. Per le "tarantate", così le chiamavano,
c'era solo una terapia: un ballo lungo una notte con sollecitazioni visive
e sonore ininterrotte che alla fine le liberava dall'incantesimo.
Una tradizione antichissima, quella delle tarantate, raccontata per la
prima volta dall'antropologo Ernesto De Martino.
Il suo saggio più famoso, La terra del rimorso, fece il giro del
mondo. Blasi non ha semplicemente disseppellito una tradizione secolare,
ma l'ha attualizzata trapiantando jazz, rock, esperimenti techno e musica
etnica. Gigantesche jam session che hanno trasformato
"La notte della taranta" in uno degli appuntamenti musicali più
¹ attesi dell'anno. La serata finale del 2003 Melpignano sembrava Barcellona:
50mila persone di tutte le età che ballavano, cantavano, saltavano
e si abbracciavano sotto il cielo stellato del Salento.
Un record cui se n'è aggiunto un altro: il tetto di 4 milioni di
turisti superato nel Salento sempre nello stesso anno. Blasi non s'accontenta:
"Se il flamenco è il ballo che identifica la Spagna e il tango
l'Argentina, non vedo perché la "pizzica" non possa essere
associata al Salento". Blasi non è un sindaco qualsiasi.
Lui, come Ria, è l'esponente della nuova classe dirigente del Sud.
"Io non amministro questo paese, lo governo.
Melpignano è il primo Comune del Salento ad aver varato la raccolta
differenziata dei rifiuti, abbiamo una delle mediateche più attrezzate
d'Italia e con una delibera all'unanimità del consiglio comunale
abbiamo comunicato alla Regione Puglia che siamo pronti ad ospitare un termovalorizzatore
(inceneritore di nuova generazione dei rifiuti, ndr) nel territorio comunale.
L'inquinamento? La diossina? No, rischi non ce ne sono. Semmai ci sono
vantaggi. I termovalorizzatori sono nel centro di Helsinki e Oslo: perché
non potrebbe essercene uno pure a Melpignano?". Anche Ria, alla fine
del suo doppio mandato, sorride soddisfatto.
Il "modello Salento" è la prova che turismo, musica, happening
e identità non sono parole buone solo per qualche convegno.
I turisti hanno scoperto una terra ai confini dell'Europa piena zeppa di
storie appassionanti; i salentini hanno ricominciato ad amare le loro tradizioni
dimenticate per decenni. Non è proprio questa, forse, la formula
del turismo del Sud prossimo venturo?
Il Sud e l'Unità d'Italia (9. La Sicilia)
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