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Il 16 Dicembre 1862 la Camera nomina una commissione d'inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio nelle provincie meridionali. 

Nel maggio 1863 la commissione d'inchiesta conclude i lavori. 

La Legge Pica viene varata il 15 agosto 1863.

Questo testo, pubblicato nel marzo 1863, prova che si stava svolgendo un serrato dibattito sulle misure di carattere legislativo da prendere per combattere il brigantaggio e il luogo in cui aveva raggiunto il punto più alto era proprio Napoli!

Anche se la nostra è una domanda ingenua e a posteriori, ci chiediamo come sia stato possibile che proprio a Napoli, dove vi era la cultura giuridica per opporsi  alle misure liberticide, non ci sia opposti alla emanazione di una legge che avrebbe fatto strame dello stesso statuto albertino e delle garanzie di tutela della persona.

Probabilmente, non vi era via d'uscita o si metteva in discussione l'unità stessa del nascente stato italiano oppure lo si accettava. Non esistevano vie di mezzo.

Impressionante la considerazione del consigliere Martinelli sulla camorra:

"La camorra è il regalo che Napoli ha fatto all'Italia, dicono alcuni, con amara e ingiusta ironia. Io dico, invece, che uno de' grandi benefizj che Napoli riceverà dall'unità d'Italia sarà appunto questo, di vedere estirpata la camorra; tanto, che converrà forse deliberare se della camorra debba occuparsene il codice penale, o una legge speciale e transitoria."

Sembrano parole dei nostri giorni, a leggerle così - senza tener conto di quanto era accaduto nelle settimane immediatamente precedenti l'ingresso di Garibaldi a Napoli e quello che accade dopo il 7 settembre 1860, quando la camorra fu utilizzata come polizia per mantenere l'ordine pubblico - una persona normale non può far \altro che pensare che si trattasse di un male endemico, quindi di una triste eredità del passato regime.

Eventuali errori rispetto al testo originale sono nostri e ce ne scusiamo.

Webm@ster - Luglio 2007
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DI ALCUNE RIFORME
DEI

CODICI PENALI ITALIANI

A PROPOSITO DI UNA CIRCOLARE
DEL MINISTRO GUARDASIGILLI
PER
L'AVV. SANTE MARTINELLI


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CIRCOLARE DEL MINISTRO GUARDASIGILLI

Ministero di Grazia e Giustizia e de' Culti.
— VI Divisione — Numero 10908.

Torino, 12 febbraio 1863
(spedita a Napoli il 7 marzo)

Ogni italiano deve vivamente desiderare che la unità della nazione sia raffermata dall'uniformità della legislazione; la qual cosa, a dir vero, non è più un desiderio in riguardo alle leggi penali ed a quelle ordinatrici dei magistrati e del procedimento penale, dappoiché, eccettuata quasi la sola Toscana, esse sono le stesse in tutte le altre provincie. Secondo che è pur da desiderare che nell'estendersi dette leggi alla Toscana, s'investighi se potessero ricevere altri miglioramenti, dettati dai progressi della scienza e dalla pratica fin'ora avuta.

Ed in ispezialità è mestieri indagare, se in talune parti sia da modificare la dichiarazione de' fatti annoverati tra' reali, o la corrispondente penalità; se la competenza possa meglio ripartirsi ed ordinarsi tra le diverse giurisdizioni, e se il procedimento possa rendersi più spedito e semplice senza danno della verità, di cui dev'essere mallevadore.

Egli è perciò che lo scrivente si volge alle SS. VV. che alla piena cognizione del giure penale accoppiano quella dei dati della esperienza; perché si compiacciano di trasmettergli al più presto i risultamenti delle loro investigazioni sul proposito. E gli giova sperare che, mercé tale cooperazione la legislazione penale, che in Italia ebbe i suoi primi riformatori, ora possa attingere quello stato di perfezione ch'è richiesto dalla civiltà de' tempi.

II Ministro

Pisanelli
Al Sig. Sante Martinelli
Consigliere della Corte d'appello di Napoli

AL LETTORE


L'Italia saprà grado al Governo del Re e al Parlamento, se vorranno intendere efficacemente all'opera, non che utile, necessaria, di riformare la legislazione penale, di quel modo ch'è detta nella circolare del ministro guardasigilli. Ed è tempo.

L'unità della nazione non comporta che la legislazione penale, la quale ritrae una parte rilevantissima del suo diritto pubblico, si mostri più lungamente difforme in alcuna provincia dello Stato; ed è dovere, estendendo a la Toscana i codici imperanti nel resto della monarchia, di emendarli e migliorarli secondo il lume dell'esperienza che fin' ora si è fatta, rinfrescando, ove d' uopo, a vantaggio comune, le parti buone e vive di parecchi antichi istituti.

Conviene persuadersi: niuna legge riuscirà mai adeguata al bisogno, se, nella sua sfera, non esprime, qual'è realmente, la vita del popolo italiano; il che importa che si dee anche tener di conto il passato, e guardarlo senza preoccupazione, non rigettando alla cieca, in odio del male, il bene che pure ha fatto e che vive tuttavia nelle abitudini delle popolazioni, se più correttamente gli articoli, che non si lasci desiderare in un codice italiano quella proprietà e chiarezza di stile notabilissime nell'abolito codice napolitano del 1819, e la elegante semplicità di locuzione che splende nel codice toscano del 1853.

In ogni caso, ciò che rileva, soprattutto, è di profittare dell'esempio salutare che il Parlamento ha dato ultimamente nella discussione de' bilanci, voglio dire, di affidare a la sua commissione i disegni che saranno presentati dal Ministero, autorizzandola a ricevere e ad esaminare gli emendamenti, per non avere a discutere nelle pubbliche tornate se non que' soli capi intorno a cui ministero e commissione non sieno potuti venire in accordo. In somma, se riesce di frenare le parole in grazia dell'opera, ei si potrà cavarne la conclusione; che non è dato di venire altrimenti a capo di un lavoro di lunga lena.

Quanto al pò di osservazioni ch'io qui presento al lettore, messe insieme ne1 ritagli di tempo che lascia ai consiglieri di appello l'interminabile fatica di questa Sezione di accusa della Corte di Napoli, non dirò altro se non che sarei pago di avergli fornita l'occasione di meditare sopra di un argomento, che una delle pietre angolari di questo sì grande e meraviglioso edilizio della patria italiana.

Napoli, marzo 1863.

 

RIFORME DEL CODICE PENALE

CAPO PRIMO

DELLE PENE


I. Il sistema delle pene del codice imperante tiene il mezzo tra il rigore relativo dell'abolito codice napolitano del diciannove e la mitezza del toscano del cinquantatre, ed è, come a dire, l'equazione degli altri due; di forma che, in generale, risponde, por ciò stesso, al bisogno di un codice comune a tutta Italia.

Nondimeno, alcune condizioni particolari delle provincie toscane e delle napolitano, hanno già in esso rilevato, per opposte vie, un eccesso e un difetto notabilissimi; un' eccesso a Firenze e un difetto a Napoli, dei quali si è preoccupata la pubblica opinione.

La gentile Toscana, non usa da molti anni a veder scritta nelle sue leggi e molto meno applicata la pena di morte, che di mal'animo la vide introdotta nel codice del cinquantatre, quasi frullo della dominazione straniera, e l'abolì non appena cacciati i Lorenesi, male anche saprebbe riceverla adesso dal codice italiano.

D'altra parte, in Napoli, la mala signoria dei Borboni ha lasciato troppo lungamente attecchirvi un reato sui generis, la camorra, cui non basta a svellere alcuna delle pene ricevute. Ecco i due primi problemi, posti veramente dalle reali condizioni d'Italia, che ì nostri statisti incontrano al primo passa e debbono necessariamente risolvere.

II. In una memorabile tornata del Parlamento, quell'onesta e ardita figura del Ricasoli, lasciando il potere, annunzio come nel suo ministero si fosse, appunto a cagione della Toscana, discusso tra ministri se convenisse abolire la pena di morte. Le opposte opinioni andarono divise tra ministri toscani e non toscani, gli uni propendendo, gli altri no, ad abolirla. Ma non fu preso alcun partito.

Le voci di abolizione si sono rincalzate adesso che l'onorevole Pisanelli è salito a reggere il ministero di grazia e giustizia; però che avendo egli pubblicata alcuni anni sono una erudita e faconda lezione contro la pena di morte sia paruto a molti che ben gli si addica ora di inaugurarne, lui ministro, l'abolizione.

Non so, invero, qual sia l'opinione del ministro; ma dubito forte che si possa nelle presenti condizioni d'Italia e della legislazione, parlare seriamente di ciò.

Chi oggi si adopera a dire e a scrivere contro la pena dì morte dice e scrive una cosa chiara buona santa giustissima alla quale la società moderna s' è incamminata, e verso la quale ha dato forse di gran passi; ma non si accorge che la chiave del problema non sta in mano del legislatore, sibbene dei giurali, cioè dire, della società stessa, di cui quelli sono l'espressione verace e sincera. Mi spiego. La legge umana, a considerarla sul sodo, non crea il diritto, ma lo descrive, quando si è rivelalo nel costume e nella vita di un popolo; onde una legge così universale e antica, come quella sopra la pena di morie, non può essersi campala in aria, ma deve avere avuta la sua ragione e profonde radici in seno della società.

A volerla abolire, conviene, dunque, star sicuri che le condizioni sociali sieno mutate e ch'essa non sia più necessaria. Il problema, rimpetto al legislatore, a cui domandale l'abolizione di questa pena, non è e non può essere che storico. Or la chiave per risolverlo è, a mio avviso, nell'istituzione dei giurali, così come adesso è organizzala nel codice italiano, mercé il sistema delle circostanze attenuanti.

Non v'è reato punito di morie dalla legge, che i giurali non possano lasciar punire con pena minore, dichiarando il concorso delle circostanze attenuanti, di cui sono giudici sovrani. Quando, dunque, i costumi saranno tanto raggenlilili, e l'educazione del popolo italiano mutata tanto in bene, che la pena di morie ripugni alla coscienza popolare, non temete che le Assisie saranno mai per pronunziarla. Ed essa resterà scritta nel Codice, e gioverà che vi dimori per alcun tempo, come una lontana minaccia, tanto più temuta ed efficace quanto meno applicata. Quel giorno che tutto ciò si sarà avverato; quel giorno che un ministro del Re potrà presentare al Parlamento una copiosa statistica di giudizi simiglianti; l'abolizione della pena di morie, già avvenuta di fallo, sarà proclamala di dritto. Prima no; che l'innovazione sarebbe avventata e recherebbe, nelle presenti condizioni molto più danno, che non saria da temere, se la pena capitale non fosse stata mai scritta. Non accade dire che il sistema de' giurati scioglie anche interamente la difficoltà per la Toscana: se in quelle provincie la pena di morte esce di misura, i giurati toscani non si rimarrano di adoperare, al bisogno, il correttivo dello circostanze attenuanti.

III. La camorra è il regalo che Napoli ha fatto all'Italia, dicono alcuni, con amara e ingiusta ironia. Io dico, invece, che uno de' grandi benefizj che Napoli riceverà dall'unità d'Italia sarà appunto questo, di vedere estirpata la camorra; tanto, che converrà forse deliberare se della camorra debba occuparsene il codice penale, o una legge speciale e transitoria.

A ogni modo, una legge bisogna pure che ci sia, e presto. Della natura e de' caratteri specifici di questo reato, toccherò un motto più opportunamente testé, discorrendo dei reati particolari.

Qui basti avvertire com'esso stende i suoi tristi e folli rami nelle città, in Napoli, sopra ogni altra; ma tiene le sue più profonde radici nelle prigioni e ne' bagni. Un recente scritto del signor Marco Monnier, un francese schietto amico d'Italia, che dimora in Napoli da alcuni anni, ha divulgale parecchie notizie circa la camorra e i camorristi più rinomati, attinte dagli archivj della questura di Napoli.

Altre più sicure particolarità saranno probabilmente fornite dalla commissione esaminatrice dei processi stati compilati da due egregi uomini e animosi magistrati, Carlo Avela e Nicola Amore, i quali, durante lo stato d'assedio, auspice il Generale La Marmora, osarono affrontare i primi pericoli e colpire i capi della setta. A sbarbicarla addirittura, due rimedi principali occorrono, il più subitamente che si possa, cioè dire, che una legge contempli e definisca questo reato, e che lo punisca con la deportazione. Non e' è via di mezzo.

La camorra ha una qualità particolare, di avere certa sua tradizione settaria che ha sede propria nel le carceri e nei bagni, ove ripullola sempre. Onde è chiaro, non solo per questa che per molte altre ragioni, che sarà gran ventura se si potrà un giorno riordinare le carceri del napolitano a sistema cellulare. Ma è opera lunga e dispendiosa, che richiede studio e tempo non breve. Non dico già che non s'abbia a porvi subito la mano; anzi è necessario ed è dovere del Governo di farlo nel minor tempo possibile; ma né dobbiamo dissimularci le difficoltà intrinseche dell'opera, né questa basterebbe al bisogno.

II sistema cellulare darebbe appunto il vantaggio grandissimo di rompere le fila della setta in uno dei luoghi più prossimi alle città, dove principalmente s'intessono, e d'impedirne le relazioni esterne.

Ma il sistema cellulare non può estendersi ai bagni e ad altri simiglianti luoghi di pena, né è possibile di troncare affatto ogni sorta di relazioni tra questa specie di condannati e le loro famiglie e aderenti.

In ogni caso, un disegno sì vasto non può recarsi in atto e compiere nel giro di pochi anni; mentre qui il pericolo è nella mora, e non è lecito indugiare.

La deportazione, in America, per esempio, o in altra lontana contrada, adempie, in vece, interamente allo scopo. Pena perpetua ch'essa vuol'essere, metterà fuori delle società una classe omicida e ladra dì persone che non è possibile, o assai difficile, di emendare. Ciò nel resto, non toglie che il deportato, il quale per un cotal numero di anni abbia dato prove non dubbie di essersi corretto, possa sperare la grazia del Principe e rivedere la sua terra natale.


IV. Dico anzi dì più. Dubito che le pene del codice attuale rispondano interamente a quell'altra dolorosa calamità ch'è il brigantaggio. Nei casi in cui la legge non punisce di morte il brigante, basteranno le altre pene a guarire questa piaga, o tu voglia considerare le origini e la forma del brigantaggio, o il numero dei briganti? E tra per l'una ragione e l'altra, non sarebbe pena più efficace e sicura la deportazione?

Poniamo che si mettano in istato dì guerra le provincie infeste da questo flagello; fino che non ricaschi in fondo la peggior feccia della società venula a galla in occasione di avvenimenti politici, e fomentata dai nostri nemici, ei vi vorrà un gran pezzo; e di briganti ce ne sarà anche troppi, eziandio dopo molte e molle catture, i quali non sarà possibile nò prudente di contenere nelle carceri e ne' luoghi soliti di pena.

Ci si pensi: la deportazione potrebbe troncar alla prima molte difficoltà, massime se congiunta a un sistema di lavori forzali, mantenuto con severa disciplina. Le obbiezioni che contro di essa si sono sollevate in Francia, ove dal codice penale è applicala ai reali politici, presso di noi non hanno valore; perché il camorrista e il brigante escono dall'ordinaria sfera de' malfattori, gli uni corrompendo e demoralizzando la società col coperto lavorio della setta; gli altri rubando ed uccidendo in nome della politica e della religione, in nome del Borbone e del cardinale Antonelli, ai quali la giusta ira di Dio non poteva certo concedere soldati e sacerdoti più degni.


1) il primo da cinque a sette anni, il secondo da otto a dieci. L'esempio del Codice francese non può giustificare un' errore evidente, e non è ragione che s'abbia a ripetere in Italia.


CAPO SECONDO
DEI GRADI DELLE PENE

V. La gradazione delle pene non è esalta, e diviene in pratica una divisione inutile, quando pure non crei inconvenienti maggiori, se l'un grado non sia distinto e separato dall'altro; di guisa che il minimum del superiore sovrasti al maximum dell'inferiore, senza che il primo termine dell'uno si confonda con l'ultimo dell'altro.

Quando, in fatti, la legge comanda in generale la diminuzione o l'aumento di un grado, niuno potrà dire se il passaggio abbia avuto luogo, una volta che il minimo di quello da cui si deve discendere si confonda col massimo dell'altro in cui si scende, o viceversa. Il che, d' altronde, ripugna al fine stesso della gradazione della pena, ch'è di proporzionare questa ai gradi correlativi di colpa. Il grado è termine di quantità che s'ha a distinguere dai suoi termini correlativi. Una quantità composta di più parti, delle quali l'estremo di una si confonda con l'inizio dell'altra, è quantità continua e non graduata. E a che gioverebbe? Se una data quantità di colpa trova il suo corrispettivo di penalità nell'estremo di un grado, perché ripeterlo in un altro.

Per esempio, quindici anni di lavori forzati rappresentano il minimo del secondo grado e il massimo del primo; sette anni di reclusione segnano gli opposti termini del secondo e terzo grado di essa pena; e così via via di tutte le pene criminali correzionali e di polizia. E, senza dubbio, un difetto del nostro codice, facile a emendare.

Il secondo grado dei lavori forzati può ben cominciare dal decimosesto anno, come l'ultimo grado di reclusione dall'ottavo, e così mano mano per le altre pene.

VI. Come i diversi gradi, così i diversi generi di pena arguiscono una graduata quantità e talora una diversa specie di colpa. I gradi differiscono per la durata; i generi per la qualità della pena. Or quando la legge, esauriti tutti i gradi di un genere di pena e stimandoli insufficienti, passa a un genere di pena superiore, bisogna che il primo grado di questo genere superiore non cominci dall'avere minor durata dell'ultimo grado del genere inferiore: che, altrimenti, la differenza di maggiore intensità rimanendo compensata dalla differenza di minor durata, il trapasso diventa efì- mero. Il massimo della pena del carcere, dalla quale si ascende alla reclusione, è di cinque anni, ed il minimo della reclusione, di tre. Or perché non sai egli abbastanza punito con cinque anni di carcere un reato cui l'aumento di pena non riesce che a tre anni di reclusione. La diversa qualità non è compensata dalla minor durata? Proporrei, dunque, che la reclusione e la relegazione comincino da cinque anni, in corrispondenza del massimo della pena del carcere, e che la reclusione sia divisa in due soli gradi, il primo da cinque a sette anni, il secondo da otto a dieci. L'esempio del Codice francese non può giustificare un errore evidente, e non è ragione che s'abbia a ripetere in Italia.

VII. Ma un più grave inconveniente deriva nella pratica dal modo di passaggio prescritto nell'articolo 66, e dalla indeterminata indicazione dei generi di pena, che il codice statuisce pel maggior numero di reali, senza specificarne i gradi. Il che mentre lascia troppo arbitrio ai magistrati, da luogo a mostruose disuguaglianze.

Tutte le volte che la legge da facoltà al magistrato di spaziare incondizionatamente in un genere di pena, stale certi che, tranne rarissimi casi, sarà sempre applicalo il minimum. Ma il peggio è di vedere una medesima specie di reati punita oggi con tre anni di relegazione e domani con venti, senza che il magistrato abbia a render conto di tanta disparità.

Anzi, (ciò che mi accadrà di rilevare anche meglio a proposito dei furti), un reato qualificato può riuscire punito con minor pena del semplice. Non diverso sconcio avviene nell'ipotesi del tentativo. Quando voi pel reato consumato ponete a disposizione del magistrato tutta la latitudine della pena, qual norma seguirà e gli e a quale stregua ne misurerà la discesa pel tentativo?

Figurerà forse ad arbitrio le circostanze possibili a verificarsi se quel reato si fosse per davvero consumato, e quindi fisserà ipoteticamente la quantità di pena con cui lo avrebbe punito in tal caso, per misurare poi da quel punto fin dove diminuirla per applicarla al tentativo?

A causare tulio ciò, è, dunque, necessario che la pena assegnala in ciascuna ipotesi di legge sia circoscritta tra gradi determinali. Così, quando la legge comanda l'aumento o la diminuzione di pena, il punto di partenza sarà sempre il maggiore o il minore dei gradi stati comminali. In questo senso anderebbe riformalo l'articolo 66, esprimendo una regola chiara e semplice.


CAPO TERZO

DELL'INFLUENZA DELLA MINORE ETÀ
E DELL'UBBHIACHEZZA SULLA PENA

VIII. Ai minori di diciott'anni e maggiori di quattordici, l'articolo 90 del codice italiano accorda diminuzione di tulle le pene criminali. Commuta la morie in quindici e i lavori a vita in dieci anni di reclusione; i lavori a tempo anche nella reclusione non più che per sette anni; la reclusione nel carcere; e diminuisce ogni altra maniera di pena o criminale o correzionale o di polizia, sempre di due gradi.

Or che non si adopera la stessa misura rispetto alla relegazione? Una volta ammesso il trapasso da una pena criminale a una pena inferiore, non v'è ragione di adoperarlo per la reclusione e non per la relegazione.

Né gioverebbe osservare di essere questa una pena più mite, la quale costituisce un genere speciale e a parte; però che certamente sia sempre una pena criminale, molto più aspra del carcere, la quale nella scala delle pene occupa un posto intermedio appunto tra la reclusione e il carcere. Se, dunque, è permesso il salto dalla reclusione al carcere, mollo più dovrebbe potersi discendere dalla relegazione a questo. Se non che sarebbe a fare una distinzione, per non uscire dal parallelo fatto fra questa pena e quella della reclusione, il cui maximum è di anni 10, mentre quella della relegazione è di 20; stabilire, cioè, il passaggio alla pena del carcere, pei reati punibili sino a 10 anni di relegazione; e per gli altri puniti da 11 a 20 anni accordare sempre una diminuzione di tre gradi.

IX. L'articolo 91 accorda la diminuzione di un solo grado al reo maggiore degli anni diciotto e minore dei ventuno, salvo alcuni casi, tra cui è noverato l'omicidio proditorio. Il codice del 1859 riteneva la prodizione come qualifica di assassinio, e quindi punibile di morte. La commissione napolitana, che modificò il codice per le provincie meridionali, ritenne, invece, la prodizione meritevole di morte quando costituisse premeditazione, e dei lavori forzati a vita quando rimanesse semplice prodizione: art. 531 e 534. Il secondo caso dell'articolo 91 vuolsi, dunque, emendare in questo senso, eccettuando, secondo la cennata distinzione, non già l'omicidio proditorio, ma l'omicidio premeditata, ovvero l'omicidio con produzione costituente premeditazione.

X. In fallo di reali commessi in istato di ubbriachezza, è dottrina, di presente universalmente ricevuta, che si debba accordare una diminuzione di pena sol quando l'ubbriachezza sia piena e contratta senza deliberalo proposito da colui che non è solito di ubbriacarsi. Una disposizione siffatta era testualmente scritta nel secondo capoverso dell'articolo 95 del co dice subalpino.

La Commissione napolitana ne ha cambiata la dizione, mutandola in una formula più generale, la quale, per verità, non ne muta il senso; però che abbracci, seconde le regole dell'imputabilità, così l'ubbriachezza, come ogni altra cagione che scemi la responsabilità penale. Ma, in pratica, la giurisprudenza, almeno in queste provincie napolitano, si è sviata a non distinguere, secondo la mente della legge, se l'ubbriachezza sia piena e contratta senza deliberato proposito da colui che non sia uso di ubbriacarsi; onde accade che i giurati, ammettendola in digrosso, sono corrivi a far diminuire le pene più che non consenta la giustizia, e a scapito del fine della legge. Voglio aver notalo l'inconveniente, chi sa si stimi opportuno di rinnovare in questa parie il lesto primitivo dell'articolo 95.


CAPO QUARTO

DEL MANDATO

XI. Il codice del 1859 aveva l'articolo 99, così concepito: II mandante è punito come reo di reato mancato e tentato, secondo le disposizioni di cui nei due precedenti articoli, quando l'esecuzione del mandato sia stata sospesa o non abbia prodotto il suo effetto, sia pel pentimento del mandatario, sia per qualunque altra causa indipendente dalla volontà del mandante. Nel caso in cui il mandatario non avesse proceduto ad alcun principio di esecuzione, il mandante sarà tuttavia punito come reo di reato tentato. La Commissione napolitana l'abolì, per questa ragione:

"A rispetto del conato la Commissione crede doversi conservare, non senza un ravvicinamento alla teorica del Codice, l'instituto già tra noi radicato di sottrarre il più che si possa al rigore della punizione i tentativi dei delitti. E d'altra parte egli era mestieri respingere la disposizione del Codice contenuta nell'articolo 99, che vuoi punito il mandante di un reato anche quando il mandatario desistesse dalla esecuzione del medesimo; imperocché la coscienza giuridica in queste provincie napolitane non potrebbe rinunziare al principio che il o mandalo si risolve in puro proponimento criminoso o al massimo, in un atto preparatorio, quando l'e a sedizione del reato vien manco per volontario desistere di colui che aveva assunto l'incarico di tradurlo in alto. Che se poi nell'articolo 99 del Codice si tiene anche punibile il mandante, quando il mandatario desista dalla esecuzione per cagione in dipendente dalla sua volontà, l'abolizione di questo articolo non inchiude l'impunità del mandali le per tal caso, perché essendo punibile il mandatario come autore di conato criminoso, le regole generali dalla correità e della complicità bastano a produrre la punibilità del mandante".

XII. Ma è egli vero che quando il mandatario desista volontariamente dall'esecuzione del reato, il fallo del mandato dato e accettato, sia da considerare, rispetto al mandante, siccome un puro atto preparatorio, che non è da punire? Pare a me che bisogna distinguere se il mandatario desista volontariamente prima o dopo di aver cominciali gli alti di esecuzione; e che se è lecito di lasciare impunito il mandante nel primo caso, non è giusto di lasciarlo impunito nel secondo.

Il malefizio per mandato nasce dal concorso di due volontà criminose, l'una determinante, l'altra determinata, le quali si unificano nello scopo, e di cui la prima è la principale ed efficace causa motrice; di forma che l'azione del mandante, dato il mandato, dee tenersi compiuta, se l'esecuzione del reato non dipende che interamente dalla volontà del mandatario.

Or se è principio di dritto, inchiuso nella teoria del tentativo, che la volontà di delinquere manifestata in atti di esecuzione, non sia punibile quando l'autore vi desista da sé e non per circostanze fortuite e indipendenti dalla sua volontà; non vedo perché il mandante non abbia ad essere punito quando la sua azione sia già compiuta e manifestata in alti di esecuzione, il cui effetto non sia sospeso da lui, ma dalla sola volontà del mandatario. La teoria del tentativo si adagia sopra una ragione morale, il pentimento, cui la legge deve aver riguardo, nell'interesse sociale e politico, per agevolarlo con la promessa dell'impunità.

Qual merito in ciò può avere il mandante, la cui mala volontà, pervenuta ad atti di esecuzione, manchi di effetto per volontà d'altrui, che vuoi dire, per circostanza fortuita e indipendente dalla sua? Perché la società dovrebbe lasciarlo impunito ed a qual prò, se egli, persistendo nel mandato, non elio pentirsi,ei continua ad influire sulla esecuzione del reato?

Ciò che basta a non togliere la responsabilità penale, giusta la teoria ricevuta del tentativo. Che il mandalo non debba poter costituire più che un semplice atto preparatorio, e come tale impunibile, quando per parte del mandatario non siasi devenuto ad alcun'atto di esecuzione, si animella pure, come quello che in questo caso mancherebbe di una espressione estrinseca e di quella prova sicura che non lascia alcun dubbio sull'accordo delle due volontà, e sulla efficacia della persuasione ingenerala dal mandante nel mandatario. Ma quando questa prova esiste già, per gli atti di esecuzione, e con essa la volontà pertinace e costante di delinquere, alla coscienza giuridica ripugna di considerare il mandato come un puro proponimento criminoso, e di vederne impunito il mandante.

L'articolo 99, secondo queste idee, anderebbe, dunque, formulalo così: "Il mandante è anche punito come reo di reato mancato o tentato, secondo le disposizioni dei due precedenti articoli, quando il mandatario abbia manifestata la sua volontà con atti di esecuzione, e questa manchi o resti sospesa pel pentimento di esso mandatario".


CAPO QUINTO

DELLA COMPLICITÀ

XIII. Il Codice del 1859, nella teoria generale dei reali, ha usufruita dall'antico progetto del codice penale italico una distinzione, sconosciuta agli altri codici sì italiani che stranieri, salvo che all'estense, la quale, poco intesa fin'ora, segna nondimeno un notabile progresso della nostra legislazione. Gli altri codici distinguono nel reato due soli operatori, l'autore principale e il complico, l'uno esecutore diretto e immediato, l'altro che vi partecipa persuadendo, aiutando, facilitando.

Questa distrazione, a ben considerare, non basta. Evidentemente, l'azione propria dell'autore principale deve avere un carattere distinto ed essere qualcosa più di quella del complice.

Or, colui che persuade o sforza o induce in modo un'altro a delinquere, che, se non fosse da lui, il reato non si commetterebbe, ed è come la mente del braccio perpetratore, non opera veramente da complice, perché non si limita ad aiutare o a facilitare, ma entra e partecipa direttamente nell'azione propria dell'autore principale.

La quale, in tal caso, rimane divisa tra due persone ed è fatta da entrambe, senza che l'una vi concorra meno principalmente dell'altra.

Quando, dunque, ciò avvenga, bene a ragione il nuovo Codice italiano chiama agenti principali le persone cooperanti direttamente a l'atto che costituisce il reato, e complici quelle che ne aiutino o facilitino l'esecuzione. Così il campo del complice risulta meglio determinato ed ha confini suoi proprj che non è dato di confondere col campo dell'autore principale, sia che l'azione propria di costui si mantenga tutta unita e concentrata in una sola persona, sia che spartuita in molte.

Il difetto del sistema opposto, e il pregio del Codice, è appunto questo, che l'uno rigetta nel campo della complicità, mentre l'altro ritiene in quello dell'autore principale, la parte morale dell'azione propria di costui, ancora che divisa dalla materiale; ch'è ciò di cui non si accorgono coloro che vanno censurando la nuova distinzione.

Vuolsi tuttavia dar merito alla Commissione napolitana di averla anche meglio perfezionata, disegnando più pre- cisamenle, in un punto in cui il Codice del 59 lasciava troppo rasentare e quasi confondere, l'azione propria degli agenti principali con quella de' complici, come risulta dal confronto delle due edizioni (1).

(1) Codice del 1859. Articolo 102. Sono agenti principali

1. Coloro che avranno dato mandato per commettere un reato:

2. Coloro i quali con promesse, con minaccio con abuso di potere o di autorità, o con artifizj colpevoli, avranno indotto taluno a commetterlo

3. Coloro che concorreranno immediatamente con l'opera loro alla esecuzione del reato, o che nell'atto stesso in cui si eseguisce presteranno aiuto efficace a consumarlo.

Articolo 103. Sono complici:

1. Coloro che istigheranno o daranno le istruzioni o le direzioni per commettere un reato:

2. Coloro che avranno procurate le armi, gli strumenti, o qualunque altro mezzo che avrà servito all'esecuzione del reato, sapendo l'uso che si destinava di farne:

3. Coloro che senza l'immediato concorso ali'esecuzione del reato, avranno scientemente aiutalo od assistito l'autore o gli autori del reato nei " fatti che lo avranno preparato o facilitato, od in quei fatti che " lo avranno consumalo.

Così modificati dalla Commissione napolitana per decreto del 17 febbraio 1861.

Articolo 102. Sono agenti principali:

1. Coloro che avranno dato mandato per commettere un reato:

2. Coloro i quali con doni, promesse, minaccio, abuso di potere, o di autorità, o con artifizj colpevoli, avranno indotto taluno a commetterlo:

3. " Gli esecutori immediati dell'atto costitutivo del reato.

Articolo 103. Sono complici:

1. Coloro che istigheranno o daranno le istruzioni o le direzioni per commettere un reato:

2. Coloro che avranno procurato le armi gli strumenti o qualunque altro mezzo che avrà servilo all'esecuzione del reato, sapendo l'uso che si destinava di farne:

3. Coloro che, senza essere immediati esecutori del reato avranno scientemente aiutato, o assistito, l'autore o gli autori del reato, nei falli che lo "avranno preparalo o facilitalo o consumato

XIV. Nondimeno rimane una lacuna alla quale aveva già provveduto la giurisprudenza napolitana, formulando la teorica della complicità corrispettiva, che bisogna adottare, per non lasciare privo di una speciale disposizione legislativa un caso il quale occorre assai di frequente nella pratica del foro. Fuori i casi di rissa, regolati dagli art. 564 e 565, quando consti che più individui concorsero ad un reato di sangue, e s'ignori chi ne sia stato l'autore principale, quale sarà la loro responsabilità e come saranno puniti, soprattutto quando il numero delle ferite sia inferiore a quello dei colpevoli?

La giurisprudenza napolitana considerò che sarebbe stata ingiusta esorbitanza punir tutti come autori principali, e non tollerabile rilassatezza rimandarli, nel dubbio, impuniti. Un fatto, si disse, è cerio, la sciente cooperazione o assistenza di tutti al malefizio. Nel dubbio, dunque, se sarebbe ingiusto di estendere ai complici la pena dell'autore principale, è benigno provvedimento accomunare questo a quelli.

Questo principio dovrebbe dichiararsi in una disposizione da aggiungere all'articolo 104, la quale polirebbe formularsi così: Fuori i casi di rissa degli articoli 564 e 565, quando più individui abbiano contribuito alla consumazione di un reato di sangue, e s'ignori chi fra essi sia stato l'autore della ferita, percossa od omicidio, saranno tutti considerati come complici corrispettivi, e puniti, secondo i casi, con le norme dei due primi capi di questo articolo.


CAPO SESTO
DE REATI CONTRO
LA SICUREZZA INTERNA DELLO STATO



XV. L'esperienza ha mostrato che coloro i quali arruolano genie a disegno di formare le bande armate di cui è parola nell'ari. 162, e quelli che vi si ascrivono, non sempre, prima che la banda non sia finita di costituire, ponno essere colpiti colle pene dei cospiratori, o colle norme del tentativo.

Tuttavia questo è un reato che bisogna punire fino dal suo primo spuntare, ed avere regole certe e pene corrispondenti, per non lasciare alcuna speranza d'impunità a coloro che se ne facciano colpevoli; tanto più che, colpendoli in questo punto, si crea un polente ostacolo a coloro che fossero proclivi a far parte delle bande. E l'interesse dello Stato a punirli nell'inizio della organizzazione è uguale a quello che ha di accordar loro la impunità, quando, dopo di essersi organizzali, si presentino all'intimazione dell'autorità.

D'altra parte i tristi falli che non cessano di desolare queste provincie, provano che queste bande non isfuggono altrimenti alle solerti ricerche della forza pubblica, che pel favore delle spie, le quali occorre oramai di punire con pene speciali, riuscendo assai malagevole di adoperare in questi casi le regole ordinarie della complicità.

Onde proporrei, che fra' reati contro la sicurezza interna dello Stato si aggiungano i seguenti articoli.

a) Ancorché la banda non fosse formata coloro che con mercede, promesse, o senza arruolano gente a fine di comporla; saranno (salvo il caso dell'ari. 160) puniti col secondo al terzo grado di relegazione.

Coloro che vi si arruolano, col quinto al sesto grado di carcere.

Questi ultimi saranno esenti da pena, se, prima che contro di essi si apra un procedimento penale, avranno rivelato il fatto all'autorità.

b) Le spie delle dette bande sono punite col primo al 2. grado di reclusione.

Sono considerati spie: 1. coloro che non ignorando la qualità de' ribelli, avvisano o fanno avvisare i componenti delle bande o taluni di essi, dei movimenti della forza pubblica. 2. Coloro che additano o fanno loro additare il cammino. 3. Coloro che fanno dare o danno loro contezza di qualsiasi fatto che possa giovare alla loro associazione, o allo scopo cui mirano 4. Coloro che scientemente additano o fanno additare alle forza pubblica un falso cammino perché non si scontri con la banda, o che daranno o faranno dare ali' autorità false notizie per eluderne la vigilanza (I).

(1) Per non parlare due volle di queste novelle ipolesi che si propongono, dirò fin d' ora che sarebbe opportuno di ripeterle anche sotto il capo dell'associazione dei malfattori (articoli 426 e seguenti) proporzionandone la penalità a quella dell'ari. 429.

A questo proposito vuolsi notare, che queste associazioni di malfattori sarebbero meno frequenti se si colpissero i birbi che somministrano i viveri. Ipolesi che non manca per le bande politiche, ma che non si legge nell'art. 429. E poiché difficilmente potrebbero colpirsi con le regole generali della complicità, è mestieri prevederne il caso, nel detto ari. 429.


XV. Pei componenti di queste bande politiche, tranne che pei capi, il Codice prevede tre casi: 1.° Se sieno arrestati nel luogo della riunione (art. 164, pena di relegazione o di lavori forzali): 2.° Se continuano a farne parte, dopo la intimazione fatta dal- l'autorità (art. 166, alinea, la stessa pena, ed in taluni casi anche il carcere): 3.° Di coloro che ne danno parte all'autorità, o contribuiscono allo scioglimento della riunione, e di coloro che si presentino dopo la intimazione (articoli 165 e 166, esenti da pena). Ma non si prevede il caso in cui fossero arrestati prima della intimazione, e non sul luogo della riunione. Questa lacuna può mandare impuniti non pochi componenti di una banda politica — E, quindi mestieri di formularne la ipotesi, il cui bisogno nella pratica diviene ogni dì più necessario, come dimostra l'esperienza in queste provincie meridionali.

CAPO SETTIMO

DE' REATI DI FALSO


XVI. L'articolo 329, riguardando le falsificazioni di cedole ed obbligazioni dello Stato ed altre carte di credilo pubblico equivalenti moneta, non abbraccia le fedi di credito del banco di Napoli, le quali, mentre sono indubitatamente carte di credilo pubblico equivalenti moneta, sono trasferibili per girata, che è una dichiarazione privata scritta sopra quella specie di carta. L'importanza della gira, e la qualità della carta che si trasferisce per essa, richiede che la


CAPO NONO

DE' REATI CONTRO LA PUBBLICA SANITÀ'


XIX. Il nostro codice prevede due casi di reati contro la pubblica sanità; l'uno di colui che abbia somministralo a una determinata persona commestibili o altre sostanze atte a produrre grave sconcerto alle salute (articolo 555); e l'altro dei venditori e dei vetturali, i quali abbiano, gli uni vendendo e gli altri trasportando, frammischiato nei commestibili nei vini nei liquori o in altre bevande, alcuna estranea male ria che per indole sua sia alta a nuocere, o che diventi tale col mischiarla a cibi o bevande (art. 416. 417). Non si legge altra disposizione la quale preveda un terzo caso, non certo impossibile, voglio dire, di colui che con deliberalo e doloso proposito si faccia a recare indistintamente a più persone non designate, e forse ad una intiera popolazione, con sostanze nuocive, grave danno e forse anche la morte. In questo caso, gli articoli sopracennati non bastano a punire il colpevole; perché l'articolo 553 riguarda il caso speciale di sostanze somministrate ad una determinata persona: e gli articoli 416 e 417 non preveggono il reato che nei limiti della colpa.

Non può essere certo mente della legge che colui, per esempio, il quale avvelena una pubblica cisterna, o altre cose destinate a pubblica consumazione, dovesse andare impunito, o riportare una pena calcala sulla norma del tentativo, quando non si verifichi la morte di alcuno. Un reato che mette in pericolo di vita gran parte di una popolazione merita del sicuro di essere molto più rigorosamente punito.

Sarebbe dunque, da adottare l'articolo 555 del Codice toscano del 1855, che modificato secondo il sistema di pene del nostro codice, potrebbe formularsi così:

Chiunque, avvelenate dolosamente cose destinate alle consumazione pubblica, ha posto in pericolo le vita o la salute di un numerò indeterminato di persone, soggiace,

A) alla pena di morte, se ha cagionato omicidio;

B) ai lavori forzati a vita se ha cagionato pericolo di vita,

C) al primo grado dei lavori forzati, negli altri vasi.


CAPO DECIMO

DEI DELITTI CONTRO LA PUBBLICA TRANQULLITA'

XX. I nemici dell'ordine e coloro che non osano alla svelala di agitare le popolazioni, e destare timori e sgomento nelle moltitudini, procacciano, con lo scoppio di bombe, di mortali, o simili, spaventare gli abitanti, spesso con grave danno delle persone e degli edifizii. E poi che lo scopo di questi facinorosi spesso è di suscitare tumulti, sogliono scegliere i luoghi o le circostanze dei luoghi di pubblico ritrovo, ove più tristi ed esiziali sono le conseguenze della confusione che nasce dall' improvviso spavento. Il codice non ha alcuna disposizione che punisca adeguatamente questa sorta di reati. E però si potrebbe aggiungerla, formulata cosi:

1.° coloro che ad oggetto di suscitare tumulto, o (gittar lo spavento fra gli abitanti facessero scoppiare bornie, mortali, e simili, saranno puniti col primo (il secondo grado dì relegazione 2.° se lo scoppio avvenisse in luogo di pubbliche riunioni come chiese, università, teatri, o loro adiacenze, quando il pubblico v'interviene, la pena sarà aumentata di uno a due gradi 3.° Ove in seguito al perturbamento cagionato, ne avvenga nello scompiglio, la morte o la ferita o percossa dì alcuno, l'autore dello scoppio sarà punito, nel caso di morie, coi lavori forzali a vita, e nel caso di ferita o percossa, se queste saranno gravi, col primo grado dei lavori forzati, e se lievi, con le pene dei due numeri precedenti applicate nel massimo del maggior grado.

CAPO DECIMOPRIMO

DELL'OMICIDIO VOLONTARIO

L'atto di un uomo che spegne la vita del suo simile, secondo la stessa definizione della legge, non costituisce omicidio volontario se non vi concorre la volontà del colpevole, sicché il danno sia in corrispondenza di questa (articolo 522).

Per l'identica ragione, quando la volontà del colpevole sia solo di ferire, o di percuotere, le nozioni fondamentali intorno agli elementi costitutivi del reato hanno costretto il legislatore a non poter adottare il nome di omicidio volontario, ancorché queste ferite, o percosse cagionassero la morte dell' offeso.

Sicché l'elemento differenziale tra le due ipolesi di legge, tra l'omicidio e la ferita o percossa che cagiona la morte, sta nella diversa volontà dell'offensore, non nel maggiore o minore tempo trascorso tra la ferita e la morte.

Vero è che la legge, in odio dei reali di sangue agguaglia all'omicidio la ferita o percossa volontaria che produce la morte in fra 40 giorni, e vi decreta le stesse pene (articolo 541); ma vi fa luogo ad una diminuzione proporzionata:

1. se la morte dell' offeso, seguita entro i 40 giorni, non sia succeduta per la sola natura delle ferite, o delle percosse, ma per causa preesistente o sopravvenuta: 2. se sia avvenuta dopo i 40 giorni: 5. se queste due condizioni si verifichino entrambe.


XXII. Intanto talora avviene che anche quando si ferisce con la volontà di uccidere, la morte dell'offeso segua non per sola natura della ferita, ma per causa preesistente, o sopravvenuta. In questo caso, se si negasse al colpevole una benché minima diminuzione di pena, si agguaglierebbe la responsabilità di colui che con la sola ferita ha prodotto in tutta la sua pienezza il danno da lui voluto, alla responsabilità, certo meno grave, di colui che non l'ha prodotta se non per il concorso di un' altra forza estranea ed indipendente della sua azione; talché ove questa seconda causa non si fosse verificata, egli non sarebbe punito che come autore di omicidio mancalo. Bisogna, dunque, che la legge preveda questo caso e vi statuisca la corrispondente diminuzione di pena, onde si possano evitare tutti gli errori e gl'inconvenienti cui da luogo, nella pratica del foro, la mancanza di una disposizione speciale e adeguata.


XXIII. Tanto in fatti, è ciò vero, che sotto la, presente, come sotto le passate legislazioni, sempre che occorre il caso di una ferita prodotta con intenzione di uccidere, e la morte sia avvenuta pel concorso di cause sopravvenute; per non negare al colpevole la diminuzione di pena, si vuole definire il fatto con la norma dell'articolo 541, ferita volontaria che ha prodotta la morte, e non omicidio vo lontano.

Non è questa una grave confusione di nomi e di cose? La ipotesi dell'articolo 541 allogato nella, sezione delle ferite e percosse, inchiude evidentemente la condizione dell'eccesso dì fine 3 cioè che mentre il colpevole ha voluto unicamente ferire q percuotere, segua, oltre la sua intenzione, la morte dell'offeso.

Tramutare così in ferita la definizione dell'omicidio volontario, sol perché la morte non se, gue immediatamente la ferita, vale sconoscere 1$ propria natura dei reali, e smarrire il criterio giuridico di ogni definizione, che non dee prescindere dalla, volontà del colpevole. Di che nasce che la difesa acquista un diritto, che altrimenti non avrebbe, di proporre la quistione dell'articolo 569, cioè se il colpevole poteva prevedere le conseguenze dello, ferita.

Onde si avvera lo scandalo, oramai frequentissimo, che mentre i fatti provano chiaro che il feritore voleva uccidere, e la morte dell'offeso si è verificata, sol perché questa non è avvenuta immediatamente o per sola natura di essa ferita, i giurati cui si pone, quando meno se l'aspettano, la quistione intenzionale, si veggono trascinati sul campo della prevedibilità delle conseguenze delle lesioni arrecate.

XXIV. A troncare le con tradizioni e gli abusi, è, dunque, necessario di aggiungere un nuovo testo di legge nella I. sezione del capo I del titolo X, dove il nostro Codice prefigura l'ipolesi dell' omicidio volontario propriamente detto, in cui l'effetto, o il danno che vogliasi dire, è uguale alla volontà, e ne sanziona la pena. Affinché quando il medesimo effetto sebbene voluto, non si sarebbe verificato senza il concorso dì una causa estranea ai mezzi adoperati dal colpevole, la definizione e la pena rispondano all' indole speciale del reato.

Ecco l'ipotesi che manca, la quale potrebbe formularsi così: I. Se la morte dell' offeso avviene non per sola natura delle lesioni state prodotte con volontà di uccidere, ma pel concorso di causa preesistente o sopravvenuta, la pena sarà diminuita di un grado: 2. La stessa diminuzione avrà luogo se la morte segua dopo i quaranta giorni immediatamente successivi al reato: 3. Questa ultima diminuzione non avrà luogo quando la morte sia l'effetto di somministrazione di sostanze venefiche.

Nel primo caso è chiaro che la causa preesistente o sopravvenuta dee provarsi dall'imputato che l'allegal. Nel secondo, si presume giusta il principio ricevuto nell'articolo 542. Nel terzo, questa presunzione di una causa occulta non mi par ragionevole, perché l'azione delle sostanze venefiche suole anche naturalmente essere lenta e tarda. In generale è poi evidente di non doversi qui ammettere tutte le gradazioni previste dall' articolo 542, perché inchiudendosi nella novella ipotesi la volontà di uccidere, che non è in quello, è giusto di mantenere la pena in un livello superiore.

XXV. L' articolo 525, risentilo dalla Commissione Napolitana così com'è nel codice del 1859, qualiGca parricidio l'omicidio volontario di genitori naturali quando questi abbiano legalmente riconosciuto il figlio uccisore. L'articolo 554 poi, secondo le modifiche recatevi dalla Commissione predetta punisce coi lavori forzati a vita l'omicidio volontario.

1.° Quando è commesso con prodizione o agguato, salvo il caso che la prodizione o l'agguato costituisse premeditazione: 2. Quando è commesso senz'ultra causa che per impulso di una brutale malvagità: 3. Quando è accompagnato da gravi sevizie: 4. Quando è commesso sul discendente legittimo e naturale, o quando è commesso dalla madre sul figlio naturale, o dal padre sul figlio naturale e legalmente riconosciuto, o quando è commesso sul figlio adottivo, sul coniuge, sul fratello o sulla sorella in secondo grado.

Su questi due articoli importa di fare tre osservazioni.

1. II caso dì omicidio per impeto di brutale malvagità, secondo l'opinione più comunemente ricevuta, dovrebbe sopprimersi, non fosse che per la quasi impossibilità della pruova negativa sulla causa motrice. Invece sarebbe giusto ed opportuno di sostituirvi l'ipotesi, stata preveduta dall'articolo552 numero 5.° delle abolite leggi napolitane, dell' omicidio in persona di chi non è P offensore dell' omicida, per vendicare un' offesa da altri ricevuta; ch'è proprio il caso chiaro preciso e determinato di una brutale malvagità.

2. II numero 4.° dell'articolo 554 fa una giusta distinzione tra il padre e la madre naturale, richiedendo per l'una, non per l'altro, il riconoscimento legale; però che la maternità naturale sia sempre certa e noia, e ammessa per legge la pruova, la quale è invece vietata per la paternità naturale, fatto di sua natura incertissimo è impossibile a provare altrimenti che per il riconoscimento del genitore. Questa medesima distinzione bisogna quindi ripetere nell' articolo 523, e qualificare parricidio l'omicidio volontario della madre naturale, prescindendo dall'atto del riconoscimento legale, che a nulla rileva.

3. Un altro caso, a mio avviso è necessario di aggiungere ai quattro dell' articolo 534, ed estendere la pena dei lavori forzali a vita, quivi comminata, anche all'omicidio commesso in persona dei testimoni e dei periti, in conformità di quello che il codice non ha tralasciato di fare per le ferite. Se la legge ga renlisce con più aspra sanzione penale la vita del magistrato, deve medesimamente garentire coloro senza la cui coopcrazione la verità non sarebbe conosciuta. E se questa norma appunto ha serbata per le forile o le percosse, non v' e ragione di non mantenerla per gli omicidj.


CAPO DECIMOPRIMO

DELLE FERITE, PERCOSSE,
O SIMILI OFFESE CONTRO LE PERSOLE

XXVI. Onesto delle lesioni personali, legislativamente consideralo, è uno degli argomenti più importanti e dei problemi più difficili, tra per la grande varietà di casi che conviene abbracciare; e tra per proporzionarvi la pena secondo i gradi di colpa quali non sempre ponno determinarsi precisamente, come quelli che discendono sposso da infinite cause che restano occulte, o mal note, Onde tornano incomplete, dall'una parte, le formule generali, e dall'altra, la nuda enumerazione de' casi, che sono pure i soli sistemi che la legge può adottare. Il y a (diceva Monseignat) dans celie matière beaucaup a dire et beaucoitp a supposer; il fraudait riew lais ser a svpposer; et il est impossibile de tout dire.

La legislazione francese, che nel 1791 erasi tenuta alla enumerazione dei casi; nel 18.10, volendo combinare i due opposti sistemi, divise le ferite e percosse in due categorie generiche, secondo che producessero, o non, malattia o incapacità al lavoro personale per più di venti giorni; e puniva le prime con la reclusione, col carcere le altre. Il più grave difetto di questo sistema sta in ciò che le mutilazioni e gli sfregi, quando non cagionassero incapacità al lavoro, sarebbero puniti come ferite di seconda categoria, ch'è assurdo; mentre, al contrario, l'incapacità al lavoro può spesso venire in. queste ultime facilmente simulata o procurata dal risentimento personale o dalla cupidigia degli1 offesi. Oltrechè non è esatto di far dipendere la maggior gravezza delle lesioni personali unicamente dalla incapacità al lavoro per un determinato minierò, di giorni.

XXVII. L' attuale codice italiano ha in gran parte adottato il sistema francese del 1791 malgrado che, poi, incidentalmente, chiami gravi le ferite e le percosse, trattando della provocazione nei reati di sangue, senza che questa distinzione si trovi altrimenti definita nella legge. È una copia del sistema francese, non cerio bella né lodevole quanto si saria invece potuto seguire un modello di origine affatto italiana, voglio dire, la stupenda teorica sopra le ferite ch'era negli articoli 336 e seguenti delle leggi penali napolitane del 1819, ultimamente abolite.

Le quali distinguevano le ferite e percosse in lievi e gravi, e queste graduavano, quanto alla penalità, secondo il maggiore o minore pericolo in cui fosse stata messa la persona offesa, o secondo il danno verificato. Così, mentre evitavano una sconfinata enumerazione di casi, che di sua natura non può mai riuscire compiuta, abbracciavano lutti i casi possibili sotto que' due generi di gravi e di lievi.

Nel primo si distinguevano cinque specie, secondo la natura del danno prodotto dalla ferita o percossa, cioè, 1.° star; pio; 2.° mutilazione; 5.Q sfregio; 4.° pericolo di vita; 5.° pericolo di storpio, valutando diversamente il pericolo, secondo che fosse da propria natura della lesione j o per gli accidenti. Se non che, difettavano in ciò, che non figuravano un'altro caso, o un'altra specie di offese che vogliasi dire, le quali producessero debilità delle facoltà mentali, o alcuna malattia fisica che non sì potesse comprendere nella specie dello storpio; due ipolesi prevedute dal Codice italiano. Salvo, dunque, questa aggiunzione, il Codice italiano convien che rinnovi in se la distinzione delle leggi napolitano, e sotto di essa classifichi e corregga la sua pericolosa enumerazione di casi.

Con questo disegno, propongo una nuova serie di disposizioni da sostituire agli articoli 557, 558, 559, 540, 5 il, 542, 545, 544, 545, 546, 547, 548, 549, 550, 551, 552, 555. Ma importa di premettere talune avvertenze.

XXVIII. Il nostro codice comincia per noverare e punisce di relegazione le lesioni che portano seco il pericolo di vita, e che impediscono per trenta o più giorni all' offeso di valersi, come altrimenti avrebbe potuto, delle sue forse fisiche o mentali. (articolo 558 numero 1.).

Quando poi di queste due condizioni, se ne verifica una soltanto, invece della relegazione, commina la pena del carcere non minore di un anno (articolo 544 numero 1. 2)

Questa condizione del non potersi avvalere delle forse fisiche o mentali, o come più genericamente è detto nel!' articolo 544, l'incapacità al lavoro per oltre trenta giorni, son di credere che debba sopprimersi; tra per la ragione che ho testò cennata, di potere l'incapacità essere facilmente simulata, e la legge divenire complico del risentimento e della cupidigia degli offesi, e tra perché l'unico fatto serio e meno fallacemente accertabile è appunto quello della conseguenza immediata e palpabile di esse lesioni, o quello delle conseguenze che ne possono derivare.

In questi fatti, proprii della natura delle ferite, può il magistrato, che non deve ignorare le discipline affini al diritto penale, riesaminare il giudizio dei periti dell' arte cerusica, ed impedire che si eluda la legge, dove che negli altri sarebbe, ed è sovente, tratto in inganno da simulata o procura rata incapacità (1).

Oltrecchè queste specie d'incapacità non sono, in fondo, che una conseguenza della gravezza delle ferite o percosse; onde non vedo perché la legge debba aver l'occhio ad uu effetto, di sua natura elastico e incerto, e non invece alla qualità generica delle ferite, eh' è appunto la natura del pericolo di vita o di danno alla integrità personale, in cui vi s'inchiude virtualmente l'incapacità al lavoro, sempre che si veriflchi.

La quale incapacità, come conseguenza, ch'essa è, della lesione personale, può molto più propriamente servire di base e venir calcolata nella liquidazione dei danni e interessi, anzi che servire di misura alla qualità dell' offesa.

XXIX. Ho già detto a proposito dell' articolo 522 che, come ivi si figura l'ipotesi di chi, ferendo con la volontà di uccidere, uccide; negli articoli 541 e 542 è figurata invece l'altra della morte cagionata da una ferita prodotta senza volontà di uccidere, che la legge, in odio de' reali di sangue e a maggior tutela della vita degli uomini, agguaglia nondimeno all'omicidio volontario, e ne punisce gli autori con la pena medesima.

Di che segue che se la ferita o la percossa da cui derivi la morte sia qualificata, dovendo il reato agguagliarsi all' omicidio, la pena deve ascendere a quella dell' omicidio qualificalo. Sicché potrebbe essere punito perfino con l'ultimo supplizio chi, senza intenzione di uccidere, abbia voluto soltanto con premeditazione, percuotere o ferire.

Non è egli troppo? Né si dica che questo eccesso di pena spesso può mitigarsi una volta che vi concorre l'eccesso del fine (art. 569)j o alcuna circostanza attenuante; perché il rimedio eziandio quando giovasse sempre, non è già una buona ragione per giustificare un male non necessario di mantenere.

Agguagliare all'omicidio la ferita volontaria che prodotta senza intenzione di dar morte, l'abbia nondimeno cagionata, è un trascendere i limiti della giustizia penale; I principii fondamentali delle nozioni del reato e della pena hanno percorso il naturale cammino dell'uomo e della ci viltà;

Secondo che ha primeggiato il vigore soprabbondante dei sensi, o grandeggiata la luce dell'intelletto, il criterio giuridico della proporzione tra il reato e la pena si è desunto quando del danno e quando dalla volontà del colpevole; Ma il vero non riposa che nella equazione esatta di questi due elementi. Non debb'essere lecito di punire il danno senza volontà, né la volontà senza danno.

Dunque, il principio supremo della proporzionalità delle pene nei codici delle nazioni cristiane, non può essere che questo che la pena, non dee poter toccare il suo maggior grado se non quando il danno prodotto risponda alla volontà del colpevole, e che la si debba attenuare a misura che l'uno elemento scemi, o l'altro digradi.

Un sistema esclusivo che ne attìngesse la misura dall'uno più che dall' altro, farebbe indietreggiare di gran trailo la legislazione. Non è forse a questa giusta equazione tra la volontà ed il danno che van debitori i codici moderni delle due stupende teoriche del tentativo, e del praeter intentionem?

Colui che con la intenzione di unicamente ferire o percuotere, cagiona la morie, non può essere considerato e punito come autore di omicidio volontario; non altrimenti che colui che volendo uccidere e non uccide soggiace ad una pena inferiore.

XXX. Il Codice francese non aveva alcuna disposizione che contemplasse il caso in ispecie. La giurisprudenza, eccedendo in rigore ritenne che il colpevole di ferita e percossa volontaria dovesse rispondere sempre di omicidio — I compilatori delle leggi napolitane del 1819, riformando il codice francese, vollero, memori delle patrie tradizioni, specificarne il caso, e non fidandosi di chiamare omicida il semplice feritore che non avesse volontà di uccidere, si contentarono di dire sarà punito quale omicida, salvo alcune minorazioni di pena per la causa sopravvenuta, pel lungo tempo o per l'eccesso del fine. (Articolo 562)

II foro napolitano, comunque la magistratura si mostrasse titubante nel secondarlo, spesso sostenne che la frase quale omicida, non valesse altro nella mente della legge, che di assegnare al colpevole il quarto grado dei ferri, pena riserbata all'autore dell'omicidio volontario non qualificalo; e che in conseguenza, qualunque aggravante avesse accompagnato le percossa o la ferita, non potesse farle anche in ciò assimilare all'omicidio, non dovendo, in materia penale e odiosa, darsi a una disposizione di rigore più larga interpretazione che non consentissero le sue parole espresse.

In Francia, nel 1832, i revisori del codice, persuasi della esorbitanza della loro giurisprudenza, modificarono l'articolo 309, aggiungendovi una seconda parte, e formularono un nuovo articolo 310. La seconda parte dell'articolo 309 fu questa: se le percosse o le ferite fatte volontariamente, ma senza, intenzione di dar morte, l'abbiano non pertanto cagionata il colpevole sarà punito coi lavori forzati a tempo.

L'articolo 310 suona così: quando vi sarà stata premeditazione o agguato, se sarà avvenuta la morte, la pena sarà dei lavori forzati a vita; se non, quella dei lavori forzati a tempo. Cosi la legislazione francese, malgrado che mantenga tuttavia l'eccesso di punire il tentativo come omicidio consumalo, non ha saputo parificargli la ferita o percossa volontaria data senza volontà di uccidere, e che produce la morte, salvo se accompagnata da premeditazione, nel qua! caso la pena è nondimeno quella dell'omicidio semplice, non del premeditalo. Il Codice italiano pecca dell'eccesso opposto, mentre nel tentativo discende dalla pena dell'omicidio, nella ferita produttiva di morie, la mantiene allo stesso livello.

Nel criterio giuridico dell'una prevale l'elemento subbiettivo del reato, la volontà del colpevole; nel criterio dell'altro, l'elemento obbiettivo, il danno. Dei Codici moderni quello che abbia meglio risoluto il problema, contemperando le due parli, è il codice toscano del 1853, nei suoi articoli 311 e 312, scritti così: Articolo 311: L' omicidio oltre l'intenzione, prodotto da una lesione personale premeditata) si punisce: a) con la casa di forza a da 8 a 15 anni, se l'agente poté prevedere, come conseguenza possibile del suo fatto la morte dell' offeso: o ) con la carcere da 2 a 6 anni, se l'agente poté prevedere, come conseguenza probabile del suo fatto, la detta morte. Articolo 512: l'omicidio oltre l'intenzione, prodotto da una lesione personale improvvisa, si punisce con la carcere a ) da 2 a 6 anni) se l'agente poté prevedere come conseguenza probabile del suo fatto la morte dell'offeso: b ) e da 4 a 2 anni, se l'agente poté prevedere come conseguenza possibile del suo fatto la detta morte.


Le pagine
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dei naviganti
sono tratte da:
DI ALCUNE RIFORME
DEI

CODICI PENALI ITALIANI
A PROPOSITO DI UNA CIRCOLARE
DEL MINISTRO GUARDASIGILLI
PER
L'AVV. SANTE MARTINELLI
Consigliere a la Corte d'appello di Napoli

Napoli
Vincenzo Priggiobba
39, Vico dei Maiorani
1863

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Biblioteca universitaria - Napoli - NA
Biblioteca Reale - Torino - TO
Biblioteca dell'Accademia delle scienze - Torino - TO
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