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Fonte:
https://antoniomenna.wordpress.com/ 12 giugno 2012

Marco vuole restare a Napoli

di Antonio Menna

L’ultimo rapporto Migrantes conferma quello che sentivamo già addosso. Ne parla oggi Il Mattino.

I nostri amici, i nostri fratelli, i nostri vicini, i nostri compagni di studio ci stanno lasciando. Se ne vanno. Abbandonano Napoli, abbandonano il Sud, abbandonano l’Italia.

A gennaio del 2010 erano 420mila i campani residenti all’estero. A gennaio del 2012 erano 10mila in più.

Ci stiamo svuotando.

Partono i giovani tra i 25 e i 35 anni. Partono per non tornare. Partono per sempre. Partono per avere un’opportunità. Non è la migrazione poverissima del Novecento. Nessuna valigia di cartone. Partire è quasi un lusso. Parte chi se lo può permettere, chi ne ha la possibilità. Chi ha qualche carta da giocare. Laurea, master, valigia. Si parte felici? No, non mi pare.

I miei amici andati hanno un lutto permanente, il nastro nero sul cuore. Non è la nostalgia delle «lacrime napulitane». È il dolore sordo della necessità. Partire non per scelta ma perché non c’è scelta. Si diventa, così, barche ancorate sull’abisso. Il prezzo della realizzazione è recidere le radici, coltivarle nel vaso stretto della nostalgia, o di ritorni low cost, sempre più faticosi.

Mamme che dicono «vai, non ti preoccupare per me», rovesciando il copione della chioccia perché l’amore è innanzitutto rinuncia.

Relazioni che si frammentano. Ragazzi che temono legami sentimentali. Stiamo insieme così perché su questa giostra, magari, io finisco a Nord e tu ad Est.

Amicizie collassate come mongolfiere che precipitano all’improvviso.

E, su tutto, la dittatura feroce del lavoro.

Ma c’è chi si ribella.

Marco, dopo la laurea in Lettere (follia) con 110 e lode, e un master, non vuole partire.

Ingaggia addirittura una lotta furiosa con il padre e con la madre. Gli dicono «cazzo fai qui? Vattene via». Hanno una figlia a Verona. Insegna in una scuola privata. Le suore. Pagano bene. Un po’ severe. Ma pagano. E quando falliscono le suore??

La ragazza ha parlato alle monache di questo fratello bravissimo. C’è un posto per lui a Verona, nella scuola delle suore.

«Vai, Marco, che cazzo ci fai qui? Napoli è morta. Vuoi morire pure tu?».

«Ci trasferiamo tutti».

Marco, però, non vuole partire.

Ha un nonno pazzo e geniale, un ottantenne con i jeans, la camicia bianca e i capelli come Einstein. Ha fatto il professore e quando gli è morta la moglie, si è ritirato su un piccolo pezzo di terra con una casupola. Il fatto è che questo sputo di terreno sta al Vomero, il quartiere napoletano del cemento e dei palazzi, in mezzo alle case.

Proprio in mezzo.

Un fazzoletto di terra nera, per giunta edificabile, dove avrebbe potuto costruire una villa da due milioni di euro, e dove, invece, lui si ostina a coltivare un orto e una vite.

Una vigna di città, da cui fa un rosso che ha chiamato, beffardamente, «vaffanculo».

Il nonno dice a Marco una cosa sola: «le radici hanno bisogno di terra, scegliti una terra e metti radici. Non ti muovere più ».

Marco ha scelto. Le sue radici le tiene a Napoli, ben salde. Non è un mammone, non è un fannullone, non è uno sfaticato.

È solo uno che vuole restare a Napoli.

«Ma qui che fai?», gli chiede il padre, ansioso.

Che fa? Insegna in una scuola privata, senza stipendio. Per fare punteggio. Fa supplenze nella scuola pubblica. Per fare punteggio. Scrive su un giornale. Gratis. Per fare esperienza. Fa tre stage in aziende private. Gratis. Per fare curriculum. Fa dodici concorsi pubblici. Pochi posti per migliaia di concorrenti. Per provarci. Invano. Collabora col professore all’Università. Gratis. Non si può mai sapere. Finisce in un call center. Cinque euro l’ora. A nero. Per pagarsi la benzina.

Per lo Stato, Marco è disoccupato. Ma lui non fa che lavorare. Non guadagna. Ma lavora, lavora, lavora come un pazzo.

Perché qui il lavoro c’è, non si fa che lavorare. Solo che nessuno paga.

Marco resta a Napoli. Vuole restare a Napoli. È dopo otto anni, una Laurea, un Master, 12 concorsi, 17 colloqui, tre stage non retribuiti,  capisce che c’è, però, un prezzo da pagare.

Sia che parti sia che resti.

Partire significa andare in frantumi restando in piedi, ma restare significa riscrivere l’idea di sè.

A Marco, ancora una volta, lo spiega il nonno, con una lettera che lui trova dopo la morte del vecchio.

«Se vuoi restare, cambia tutto. Spariglia. Pigliati questo spazio».

Marco, oggi, fa il contadino al centro di Napoli. Coltiva quel terreno al Vomero. Ha appeso la sua Laurea in bagno, tra il water e il bidet.

Vicino ci ha messo anche la pergamena del Master.

Marco coltiva un orto biologico. Ci tira ortaggi e verdure per sè, e per due supermercati della zona. Ha fatto crescere la vigna, l’ha resa rigogliosa, ha comprato una macchina per il vino.

Ne tira un bel po’ di bottiglie, è un bel rosso, lo vende a tutto il quartiere. Ci campa, ma solo perché ha tolto il piede dall’acceleratore.

Vive di poco.

Pochi soldi, meno consumi, non ha l’auto, veste semplice, scrive per sé, ha rinunciato all’insegnamento.

Gli basta la terra. Uno sputo di terra nel cuore della città.

Al vino, intanto, ha cambiato nome. Lo ha chiamato «radici». Sull’etichetta ha messo una foto del nonno, e minuscolo, giusto sotto, in suo onore, ha lasciato scritto: «vaffanculo».









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