Eleaml


"Addio, Napoli" è un libretto, frutto di una discussione durata negli anni tra i collaboratori napoletani di “Lo straniero” e altri collaboratori meridionali. 

Ringraziamo il direttore della rivista, Goffredo Fofi, che ha gentilmente autorizzato la pubblicazione in formato html dei tre lavori contenuti nel libretto:

Chi è interessato ad averne copia integrale in formato pdf può collegarsi al sito della rivista “Lo straniero” e cercare nell'archivio - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003.

Eventuali errori nella trasformazione del contenuto dell'opuscolo dal formato pdf al formato html è da addebitare esclusivamente allo scrivente.

Buona lettura!

Webm@ster - 28 agosto 2005

___________________________________________________________________________________

Fonte:
LO STRANIERO - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003

Dieci anni di gloria

di Goffredo Fofi

Alla cara memoria di Sergio Bruni

La grande mutazione napoletana è avvenuta negli anni Novanta dello scorso secolo, in concomitanza con “l’era Bassolino”. Se la nostra analisi è esatta, quello che Pasolini temeva è accaduto. Le ragioni per cui egli prediligeva in Italia Napoli su ogni altra città, la sopravvivenza di un popolo e di una sua specifica cultura capaci di resistere alle lusinghe della omologazione, non hanno più corso: anche Napoli è irrimediabilmente, definitivamente “mutata”, ed è diventata una città comune e conforme.

A ottenere questo risultato non è stata solo la borghesia nazionale e internazionale, per il tramite dei rovesciamenti economici e dei modelli consumistici, e non sono state le idee correnti nella società italiana del tempo (verificabili giorno per giorno, nella loro atroce continuità e ipocrisia, sulle colonne dei principali quotidiani, in testa a tutti il luogo centrale delle nuove voghe e degli eterni giochi, “la Repubblica”) ma proprio la sinistra, e per essa, alla sua testa, il sindaco del rinnovamento che aveva fatto della conquista “della normalità” (bisogna pur riconoscergli tutti i suoi meriti) la propria bandiera.

Nella prima metà degli anni Novanta, almeno nel Sud, si era potuto sperare in una rinascita della società meridionale tutta, che finalmente liberata dalla soggezione ai modelli settentrionali (che erano anche quelli dei “comunisti”, progressisti per eccellenza e i più tenaci sognatori dell’adeguamento ai modi in cui la società italiana “matura” amava rappresentarsi) e riconquistata a una dimensione civilmente utopistica e progettuale, sembrava avere molto da offrire alla comunità nazionale e non solo a quella, in fatto di modelli di convivenza e di accoglienza, in fatto di civiltà. Più preparata di altri luoghi del mondo, per antica tradizione e mediterranea centralità, al nuovo muoversi del mondo.

La ricerca di nuovi modelli era infatti impellente, o avrebbe dovuto esserlo almeno per la sinistra nel tempo lungo del “crollo dei muri” a Est, mentre, nell’Est vicino come in quelli lontani e nei Sud, il contrasto tra le condizioni di vita degli abitanti del pianeta, cioè ancora tra ricchi e poveri, era diventato più evidente e insostenibile che mai per i più poveri, irrequieti, oppressi. Costoro hanno dunque cercato, e cercano in ogni modo, di raggiungere le nostre sponde, per fermarsi tra noi o per attraversare il nostro paese verso altri Nord nella convinzione di trovarvi, se non un regno ideale, almeno dei luoghi di possibile, di onorevole sopravvivenza.

Anche per Napoli il problema dell’immigrazione è diventato importante, e se è meno vistosa che altrove la presenza, nel mezzo di una vociante ed estroversa varietà di nuova e più ricca plebe, degli stranieri, rispetto a città dove gli insediamenti appaiono fisicamente più rilevanti e più varii, essi però ci sono, sono tanti, e si organizzano in proprie comunità scavando le proprie nicchie in un mercato del lavoro ancora semiclandestino e soggetto a troppi ricatti sia economici che sociali, cioè “politici”.

In questo senso, però, la novità storico-sociale maggiore del decennio 1990-2000 non ha riguardato tanto Napoli, e neanche la Sicilia o tutte le regioni dell’arco tirrenico, ancorché esposte al mare e assolutamente “mediterranee”, bensì l’Adriatico e lo Ionio, ieri e di nuovo oggi porta all’Oriente, e luogo degli scambi e intrecci di civiltà più intensi e più duraturi. E anche, sul momento, più tragici.

La Storia con la esse maiuscola ha riguardato – riguarda – soprattutto le zone più marine del nostro Est, per arrivi, benché osteggiati, irrefrenabili, e per mille traffici di tipo economico che si sono riaperti con l’Est: l’Est ex “sovietico”, e più in basso il Sud-Est, e quell’Asia Minore che è anche, però, terra di passaggio per chi arriva fin qui dalle più lontane lande della “Maggiore”.

Alla condizione di degrado della metropoli partenopea non avevano saputo dare risposta né i movimenti degli anni Settanta né il loro pallidissimo esito municipale dei fiacchi anni della giunta Valenzi, rappresentante un Pci ancora forte e però sempre confuso tra grandi ambizioni e piccoli, abituali, stupidi interessi di parte, con tutte le loro conseguenze dei piccoli cabotaggi e delle intermediazioni tattiche che non potevano, dovunque e comunque, localmente e nazionalmente, che aprire il passo – e nell’unico caso di un governo nazionale pienamente di sinistra, proprio negli anni Novanta – al ritorno trionfante delle destre.

Questo avverrà anche a Napoli, forse, chissà, prima o poi. È dubbia la previsione, tanto sono consustanziali alla situazione le giunte di sinistra campane, nel Comune e nella Provincia di Napoli e, nonostante o grazie a Bassolino, nella Regione Campania. Esistevano allora, negli anni Settanta, e ancora negli anni Ottanta e negli anni che hanno preceduto lo scontro Mussolini-Bassolino e il così pessimamente utilizzato trionfo bassoliniano, delle condizioni per proporre, inventare, attuare qualcosa d’altro e di meglio, e soprattutto esistevano tensioni sociali identificabili in ceti e categorie tradizionalmente tenuti lontani da ogni possibilità concreta di incidenza sul destino della città, come sul proprio immediato destino.

C’era da un lato un “sottoproletariato” che tale non era, proletariato marginale di un mercato del lavoro da sottosviluppo, soggetto alle imprese del Nord e ai locali imprenditori speculanti sull’arte d’arrangiarsi e le sue possibili varietà non infinite, attirato dalla malavita per fisiologica necessità ma non necessariamente catturato dalla malavita, se non in minima parte, semmai a essa soggetto e aspirante ad altro di più sicuro e più degno; c’era una piccola borghesia variegata e decentrata, non solo statale e municipale, fragile nelle sue volontà e nei suoi caratteri, capace di ideologizzare a proprio uso e consumo e di affiliarsi cambiando rapidamente bandiera a chi le offrisse più sicurezza, ma tuttavia decentrata e difforme, al suo interno confusa, sulle cui componenti migliori o sui cui interessi più sani sarebbe stato possibile operare con risultati decorosi, e che sarebbe stato dunque possibile “egemonizzare” se si fossero avuti progetti di riscatto e di richiamo non solo elettoralistico; e c’era perfino una parte di borghesia stanca di essere tutta e solo parassitaria, legata ai carri del Nord e dei clientelismi che si dipartivano dai grossi potentati  statali, anche partiti, e interessata a sperimentare una sua possibile, perlopiù inedita, capacità di elaborazione, col gusto dell’azzardo.

E c’erano infine, assieme a una piccola rappresentanza di borghesia intelligente e aperta, c’erano ancora, istituzioni non completamente soffocate e soffocanti – soprattutto la scuola – sulle quali era possibile far leva: su molti insegnanti nelle medie e inferiori, sugli studenti e molti insegnanti nelle superiori, e nell’Università.

La quale Università, luogo abituale di grandissima corruzione perché d’importanza centrale in ogni gestione del potere nel caso di alcune facoltà (Diritto, Architettura e Ingegneria, e accessoriamente Medicina), aveva in altri ambiti personalità di rilievo non trascinate del tutto nei vortici della complicità, e studenti che speravano, che credevano ancora in un loro positivo ruolo nell’opera di cambiamento.

Anche sulla scia, sia pure flebile e progressivamente conquistata al peggio nella sua smania di collocazioni dentro o ai margini dei poteri politici e mediatici, di un ’68 che a Napoli era stato meno ideologico che altrove e più radicato che altrove nei bisogni e nelle pieghe di una società più affamata, e che insomma appariva nella sua migliore e maggior parte più concreto del ’68 nazionale. Ma la politica era davvero una “cosa sporca”.

L’abbiamo appreso sulla nostra pelle, nella nostra ostinazione a occuparci non da politici della “cosa pubblica” in nome dei non-privilegiati, dei nuovi nati, dei nuovi ospiti, e insomma di tutti quei “minori” che non hanno voce in capitolo e che non contano, stimolandoli all’autorganizzazione quand’era il caso, e semplicemente difendendo i loro diritti quando non erano in grado di difenderli da soli.

Quest’operazione è quanto mai inattuale anche nei movimenti, che in Italia sono pervicacemente votati a entrare nella politica, a servirla o a servirsene, a farsi politica rinunciando, come forse è da sempre nella storia della nazione, a un ruolo non soltanto propedeutico o accessorio alla politica.

Di questa operazione, però, che è di sollecitazione delle (poche) forze positive in campo, di critica della politica e più in generale del potere e di ogni potere, ci è sembrato che il paese, e Napoli, avessero soprattutto bisogno. Attenti alle trasformazioni di un humus culturale e sociale, si tratta in definitiva di saper assumere le proprie responsabilità di preoccupati della cosa pubblica, però renitenti nei confronti di quell’occupazione della cosa pubblica che caratterizza i politici e, a maggior ragione, in pianta più stabile, i burocrati di carriera.

Si parla qui per un giro di persone che venivano dai movimenti e non hanno scelto la politica come loro percorso fisso, proprio perché la politica si faceva mestiere e queste persone, anche se tante si sono perse per strada risucchiate dal “particulare” e dal “tengo famiglia” di eterna tradizione, queste persone si sono presto ritratte disgustate dalla conoscenza dei modi della politica – anche di quelli dei gruppi, delle minoranze la cui aspirazione non era e non è quella di testimoniare una diversità e operare per e con il basso, credendo in una democrazia del basso, ma di collocarsi nella progressiva farsa della rappresentanza o della caccia al “successo” personale e alla carriera istituzionale.

Nel corso del tempo, si può forse dire che l’ultima speranza di un’adesione alla politica di cui non ci si dovesse poi vergognare sia stata proprio la battaglia per Bassolino sindaco, non certo per i suoi aspetti folklorici (gli scontri televisivi, con la contrapposizione Bassolino- Mussolini…) o per il tradizionale revanscismo della sinistra sempre frustrata nella sua aspirazione a occupare i piani alti della politica e di lì programmare, decidere, premiare, e soprattutto, alleandosi, occupare.

Non ci siamo tirati indietro, ci siamo assunti per un certo tempo qualche responsabilità, e poi c’è stato chi si è “incastrato” nel sistema, e talo-  ra infognato, o chi si è allontanato senza clamore, senza vergognarsi del poco che erano riusciti a fare, ma ovviamente con un sano ribrezzo nei confronti, ancora una volta, dei politici. Vanno riconosciuti a Bassolino tutti i suoi meriti di volpe della politica, ma nell’unico modo di intendere la politica che, al dunque, anche la sinistra ha dimostrato di conoscere e di volere – che è quello eterno della manovra, dell’alleanza, della clientela, della retorica e della menzogna “in nome di”. Anche Bassolino, semplicemente ha tradito (come d’uso tra i comunisti) le speranze riposte nelle sue parole.

Egli resta, è accorto quanto basta per sopravvivere a venti e maree, e nella sostanza non ha mai voluto essere altro da ciò che è: mediatore tradizionale di interessi di gruppi forti (per carità, se lo sono abbastanza, se si agitano abbastanza, anche gli interessi di gruppi “di sinistra” o che rappresentano la base e ceti sociali non privilegiati).

Allievo egregio del compagno Togliatti “il migliore”, ben più delle pompose e nefaste cariatidi del “manifesto” e dei loro allievi saltabeccanti tra giornalismo e istituzioni, Bassolino “sa come muoversi”. Intuisce, previene, sa “stare al mondo”. Ma, in sostanza, non sembra aver mai nulla da dire di proprio che non sia, per l’appunto, connotato da un’antica astuzia nel cavalcamento delle nuove mode e situazioni.

Grazie a lui e al suo primitivo staff di collaboratori – molti via via allontanati o allontanatisi, alcuni con risentimento nei suoi confronti – la città è davvero cambiata rapidamente e rapidissimamente.

Quel che non era accaduto nei decenni precedenti, la “mutazione” consolidata negli anni Ottanta nel resto d’Italia, è accaduto a Napoli nel decennio di Bassolino; e per una sinistra velleitaria e meschina ma non ancora del tutto “laicizzata” secondo vocazioni più o meno “democristiane”, è stato il trionfo. Ma, e lo si è già detto ma merita di insisterci, questo trionfo, questa mutazione, ci sono stati anche altrove.

Un paragone con Bari, amministrata dalla destra, sarebbe illuminante: stesso percorso e velocità anche maggiore, ma con la differenza che lì davvero si giocano carte grosse per il futuro.

La riapertura delle “porte dell’Oriente”, l’altra sponda dell’Adriatico, la tradizione levantina di una borghesia particolarmente aggressiva e amorale (l’intellighenzia appresso: e c’è da strabiliare seguendo voltafaccia e carriere di coloro che fino a ieri occupavano cattedre di marxismo italico dandoci lezioni di materialismo dialettico) fanno di quella mutazione qualcosa di terribilmente vivo, dagli esiti ancora non tutti realizzati, anzi incombenti, e forse oggi ancora insospettabili.

Non ha bisogno del turismo, Bari, per mutare arricchire crescere! La stagione che ha preso il nome dai sindaci, quando il Sud pareva potesse dare a tutto il paese esempi di novità e di invenzione – liberato dalle sudditanze e dai sentimenti di inferiorità accortamente intrattenuti dalla cultura sabauda, fascista, democristiana, comunista – e di affrontare tempi nuovi come nuovi progetti e nuove concezioni dello sviluppo, del progresso, della democrazia, è stata davvero breve.

Essa è stata osteggiata da molto statalismo, e forse con più acrimonia che da ogni altro potere proprio dai compagni di partito di Bassolino, a cominciare da D’Alema, che del Sud stava diventando un competente affarista. Ma non è colpa di D’Alema, se le strade scelte per Napoli, in presenza di un’economia mondialmente mutata, sono state solo quelle, molto al passo coi tempi, della terziarizzazione turistica.

L’intelligenza di Bassolino e dei suoi consiglieri più arditi (o più “borghesi” o più “vili”, a seconda dei punti di vista) non è in discussione: la mutazione che hanno intravisto per Napoli dopo un breve periodo di un tentennante saggiar l’ambiente locale e il paesaggio nazionale, andava nella direzione vincente.

E seguire quella direzione, la meno rischiosa e   6 l’unica forse vincente a tutti gli effetti, compreso quello del “ritorno d’immagine” che è sempre stato l’assillo numero uno del sindaco e dei suoi accoliti, ha voluto dire lasciare in secondo piano tutte le altre, considerandole comunque meno importanti.

Se un progetto partiva o non partiva, se da esso nasceva qualcosa di buono o di non buono, questo contava sempre meno rispetto all’insieme. E l’insieme era l’immagine, il “Maggio” perenne della vendita dell’immagine (e talvolta della sostanza) di una Storia e di una Civiltà.

La città che doveva tornare a esser vivibile per i bambini? La lotta alla camorra? Il traffico? La giovane criminalità? Il “genocidio” morale di un ceto sociale fondamentale come era stato il cosiddetto sottoproletariato e la “cultura del vicolo”?

I progetti variamente pedagogici? La lotta all’abusivismo? Ai motorini selvaggi? Allo smog? Alla monnezza? Aria fritta, al solito. Quel che contava era l’immagine. E allora, certo, riapertura dei “monumenti”, degli spazi, dei vicoli a nuovissimi frequentatori; ripulitura generale, imbiancamento e disneylandizzazione come nel resto d’Italia, da Bergamo a San Gimignano, dai luoghi leghisti a quelli comunisti, come dovunque, come è nel vento…

Si potrebbe rifare la storia di questa politica, e c’è chi l’ha fatta (vedi Maria Federica Palestino, miraNapoli, edizioni Clean, con un saggio di Vincenzo Andriello, che è uno dei pochi, nella infinita produzione cartacea napoletana autoreferenziale di questi anni, degno di consultazione).

Con conclusioni non meno sconsolate delle nostre, anche se meno abbacchiate, e senza quella sensazione di sconfitta definitiva di antiche e alte speranze che il vecchio meridionalismo non-comunista ci aveva prospettato, di una morale della politica, di una dimensione diversa e più armonica della democrazia e, più ancora, dell’umano e del sociale. (Noncomunista, sia chiaro, non in rapporto alle speranze e alla generosità della base comunista, ma rispetto ai tatticismi e dottrinarismi dei vertici).

La scelta di campo dell’immagine, la politica decisamente e americanamente post-moderna dell’immagine hanno avuto più fasi, ma non è così importante, ci pare, distinguere, sul piano della cosiddetta “cultura” intesa da tutti come cultura-spettacolo e cultura-merce, o procacciatrice di movimento economico attorno a eventi e monumenti – tra una linea Nicolini e una D’Agostino e una Furfaro. E a maggior ragione tra Bassolino e una Iervolino senza idee proprie.

La prima puntava all’evento spettacolare di dignità culturale (vera o presunta, comunque convalidata dai media e dai loro critici-funzionari); la seconda si attestava tradizionalmente sull’intervento “alla democristiana”, a pioggia, e sulla costruzione di una clientela politica tradizionale; la terza si trascina con scarsa autonomia, rinunciando via via alle sue migliori ambizioni, diciamo “pedagogiche”, e si limita a gestire e mediare tra le maggiori forze in campo, e il modello è ancora democristiano e clientelare, come ha fatto con il Mercadante.

Sarebbe più importante analizzare, nel decennio dal 1992, altre scelte e tappe, da Bagnoli a Secondigliano, da Barra ai Quartieri Spagnoli. Ma ogni iniziativa – anche le migliori e benvenute, che comunque ci sono state e sono molte – è sempre stata ricondotta sotto il segno di quella politica, prima culturale che economica e sociale, e certamente oggi economica e sociale in quanto culturale.

Due eventi simbolo vanno però ricordati: la liberazione dalle auto di Piazza Plebiscito con la magnifica scadenza della Montagna del Sale di Mimmo Paladino, il cui significato fu evidente, di liberazione e riappropriazione di uno spazio storico da parte della città e di festa della città; e il nuovo disegno di Piazza Dante, spazio neutro e non-luogo, da luogo che era, per volontà di Bassolino e sul progetto di una micidiale scenografa per i ricchi di sinistra e di destra, Gae Aulenti. 

Parliamo ora di un ceto che ci è stato a cuore e che abbiamo avuto la ventura, anzi la fortuna, di conoscere bene, il cosiddetto sottoproletariato. Parliamo della sua morte, piangendola; perché è in essa la morte della storia e identità più forte che la città abbia avuto nel corso almeno degli ultimi, lunghissimi secoli. Napoli è cambiata, perfino gli scugnizzi sono cambiati.

Quando anni fa Pasolini scriveva la sua “lettera a Gennariello”, un ideale interlocutoreragazzo, pensava e sceglieva ovviamente qualcuno che la sua lettera potesse leggerla e meditarla, ma parlava a Gennariello anche in nome di quelli che non l’avrebbero certamente letta. Ipotizzava ancora un incontro, uno scambio tra due Napoli “positive”, quella di una piccola borghesia che tra mille difficoltà e separatezze riuscisse a emanciparsi dai modelli imposti dal potere (consumismo e conformismo, in definitiva) e a farsi carico di un processo di trasformazione positiva, aperta, e quella di un proletariato marginale, abitualmente detto sottoproletariato, tenuto lontano da quasi tutto e spesso destinato, per la sopravvivenza, alla malavita.

Erano gli anni Settanta turbolenti e confusi, ma nei quali ancora albergava la speranza: emancipazione e omologazione sembravano e non erano un’alternativa radicale; e invece la storia ci ha dimostrato che potevano andare insieme. Napoli è mutata fortissimamente nel decennio bassoliniano in concomitanza con un cambiamento che ha investito un po’ tutto il Sud. Un cambiamento forte c’è stato per effetto della maggior circolazione di denaro e l’uscita allo scoperto di un ceto sociale, appunto la piccola borghesia, appunto i “gennarielli”, che si è modernizzata e messa al passo e ha abilmente e irresistibilmente invaso pressoché tutto.

Come dovunque nel Centro-Nord, prima che a Napoli o a Bari o a Reggio. A Napoli questo ha comportato cambiamenti vastissimi. Proviamo a soffermarci sul più evidente, che riguarda appunto il sottoproletariato, cioè quel proletariato, di cui abbiamo detto, fatto di artigiani, di lavoranti a domicilio per ditte del Nord, di industriosi lottatori per il pane quotidiano della famiglia, e anche, va da sé, di attratti dal sottomondo paracamorristico o camorristico; il sottoproletariato è stato aggredito e rinchiuso dentro spazi più ristretti, il centro gli è stato tolto e, nei vicoli del Decumano Maggiore e perfino delle “roccaforti” che sono state i Quartieri Spagnoli e la Sanità, sono arrivati e si sono insediati gli intellettuali e artisti (perlopiù, come dovunque, intellettualini, artistini) e i “mercanti da turisti” (non più artigiani ma rivenduglioli), come è accaduto in tante altre città prima che a Napoli. Il sottoproletariato non è più un ceto importante e inventivo, centrale.

E poco è rimasto da questo “genocidio”, per dirla alla Pasolini, di un intero ceto che, poco alfabetizzato, aveva dato alla storia di Napoli due cose fondamentali sul piano delle arti come il teatro e la canzone: Viviani, Eduardo, Totò eccetera e la sceneggiata, e i musicisti ed esecutori di una splendida storia canora.

È incomparabile questa storia a quella assai misera della cultura scritta, del romanzo per esempio, con rarissime eccezioni (il solito Ferito a morte) almeno fino a… un decennio fa.

Quella storia ha dato alimento a centinaia di film, inchieste, articoli, canzoni, luoghi comuni che è senza paragone con altri ceti di altre città e regioni, esclusa la mafia siciliana, nella storia dell’Italia unita. E non c’è più, oggi, questa cultura. È diventata una variante della nazionale fiacchezza dell’immaginario e della comune volgarità, televisione assistendo.

Confinato, aggredito, il sottoproletariato dei vicoli è diventato una tragica minoranza variamente assediata, soprattutto da interventi di tipo poliziesco e militare. Perché sì, il sottoproletariato è diventato una ristretta realtà assai pericolosa: sostanzialmente ricco, per traffici illeciti e soprattutto la droga, ma culturalmente deprivato dalla sua identità, esso è caduto in una sorta di isteria aggressiva e autodistruttiva

Gli “scugnizzi” per primi: non più bambini e adolescenti poveri e inventivi, ma isterici consumisti (in giro a modo loro) su micidiali motorini senza legge (che le autorità si guardano dal condizionare) o in gruppi che, quando il terreno o l’ora sono propizi, potrebbero farsi capaci del peggio.

Sono questi gli effetti più vistosi del “genocidio” di un ceto, sono queste le nuove realtà urbane con cui il potere dovrà fare i conti ora e in futuro. Il folklore non c’entra, e non c’entra più neanche Pasolini.

La produzione culturale e artistica napoletana è ricchissima anche oggi, ma come lo è in ogni parte del paese o quasi.

Ai giovani si dà una laurea e si moltiplicano corsi di tutto, scuole di tutto ma fuori dalla scuola istituzionale, distrutta dal suo ceto pedagogico quanto dai suoi ministri, a cominciare, prima della Moratti, dai suoi Berlinguer e De Mauro e dai “pedagogisti di sinistra” del modulo e del quiz. Si dice ai giovani di essere “creativi” e che è facile essere “creativi”.

Le Università sfornano ovunque, a Napoli come altrove, masse di giovani molto ignoranti e molto presuntuosi. Non gli si dà il lavoro, però gli si dà “la cultura” e l’illusione della facilità, una sensazione di quasi onnipotenza…

Col tempo, la loro disillusione crea dei cinici o degli spostati. Ma su questo non vogliamo insistere, anche se ne varrebbe la pena poiché, appunto, la produzione culturale e artistica abbonda e, priva di strumenti di selezione critica – nella decadenza o morte della critica e di una selezione operata dal mercato, poiché assai più del mercato contano la protezione e il finanziamento degli enti pubblici e l’inserimento per cooptazione clientelare nel grande circuito delle iniziative spettacolari – non può che produrre una proliferazione di graziose scemenze o di deprecabili idiozie.

Romanzo, teatro, cinema, musica, e quel che si chiama “belle arti”, e fotografia, non hanno mai sfornato così tanti artisti e opere come nella Napoli dalla seconda metà degli anni Novanta, ad libitum. Ma che artisti? e che opere?

Negli anni del “rinascimento” molto di buono nasceva o si consolidava, dai primi film di Martone, Corsicato, Capuano, ai primi romanzi di Montesano, Braucci, a spettacoli memorabili come Rasoi a fotografi come Biasiucci e pochi altri, all’ultima grande produzione musicale di Bruni e Palomba e poi agli Almamegretta, alla maturità di Nino D’Angelo, alla nascita di un’editoria di portata nazionale con L’Ancora del Mediterraneo e altre più piccole iniziative, ai primi Galassia Gutenberg presto appassiti nel familismo liguoriano, eccetera eccetera – e sorprendeva l’Italia, e si sintonizzava, partendo da qui, con quanto di egregio si produceva lontano da Roma, a Palermo, a Torino, a Milano, a Lecce.

Ma da allora, anno dopo anno, la qualità si abbassava e abbassava mentre aumentava a dismisura la quantità delle opere insignificanti, velleitarie, consolatorie, nel flusso di una sottocultura costernante. Si è partiti, nel “rinascimento”, coi giovani di Rasoi – una riflessione storica e poetica del basso di un ceto di cui si auspicava il riscatto – e si finisce con i vecchi, i vecchissimi di Napoli milionaria!, filodrammatica miliardaria che avrebbe dovuto celebrare i dieci anni del trionfo bassoliniano e ne rivela tutti i tradimenti, le miserie, le impotenze.

In questi anni, dunque, mentre fioriscono le parodie della napoletanità, una piccola borghesia vorace di tutto si appropria risibilmente della tradizione e del passato delle classi subalterne, che sembrano peraltro ben felici di svenderle e semmai mimarle assieme alle contadinelle desimoniane con appartamento o villa a Posillipo.

Queste parodie sono perfettamente consone alla cultura del berlusconismo, che come si è detto ha fin troppe affinità con un certo bassolinismo, ma qualche artista ha cer-  cato di “uscire” dal ricatto di Napoli e azzardare un’altra modernità che non quella balorda offertagli dalla città, e rifiutare una ormai fastidiosissima – perché più falsa che mai – autoreferenzialità quasi d’obbligo per il successo locale e per quello nazionale.

E se ha fallito nell’impresa, perché? Penso ad alcune opere interessanti proprio per il loro coraggio: i film di Pappi Corsicato (Chimera) e di Nina Di Majo (Inverno), gli ultimi dischi degli Almamegretta (Quattro quarti, Imaginaria) dove più forti erano gli impulsi ad altri suoni e armonie, o disarmonie. Il film di Corsicato non ha un retroterra napoletano evidente, quello di Di Majo è ambientato in una Roma-Europa; le radici se ci sono non vengono mostrate, non si fa leva su di esse e non le si mette in mostra, non si vuole usarle per una comunicazione facile facile.

Si tratta di opere importanti, lodevoli, significative, ma come astratte ed esangui. Troppa distanza? O troppa poca? (questo non implica una vera distanza fisica degli autori, un loro radicarsi altrove, sia pure per mezzo come è di ogni sradicamento attuale).

Quel che questi artisti hanno capito è che la tradizione soffoca invece di liberare, e che non c’è più nessuna “casa” possibile se non il pianeta – e dunque neanche un “ritiro a casa” plausibile.

Che nella “casa” che ci è data ci si può stare solo con un piede dentro e uno fuori, se proprio ci si vuol stare. Il loro tentativo di volare secondo un’altra ispirazione e altre immagini o suoni è stato punito con un relativo insuccesso, e certamente con il disinteresse da parte della città.

E con una forte incomprensione critica, in generale, anche altrove, perché dagli artisti napoletani ci si aspetta sempre una dose massiccia di umori (e colori) locali. A Napoli viene meglio accettata, anzi esaltata, la post-modernità di facciata e che viene da fuori. Il caso dei Natali di piazza Plebiscito è esemplare: solo il primo anno, con la Montagna del Sale, si intuirono delle strade possibili (ma era anche il primo anno di Bassolino, cioè di una speranza in ben altre trasformazioni, poi velocemente svanita), mentre l’ultimo, con le “capozzelle”, ha dimostrato anche ai ciechi come la città ormai non abbia più la vecchia identità, e abbia dimenticato lo ieri e non subisca più nessun fascino della cultura che peraltro ha contribuito ad ammazzare.

Una lezione amara, mi pare, su un avvenuto distacco. Opere come Inverno, Chimera, Imaginaria eccetera non sono “istituzionali” e sono partite da altre esigenze, diverse anche da quelle che mossero tanti anni fa le fatiche degli Amelio, dei Vitiello e Neiwiller, del primo Martone eccetera, che erano, da dentro una sorta di stagno, degli aneliti al nuovo. C’è una strada da consigliare, una strada “giusta”? Sono gli artisti veri a dover uscire dalla loro prigione e a dover trovare le strade più fertili (o anche le più mortali, perché no?), ma che non possono essere che strade ardue, di negazione più che di affermazione, o di affermazione attraverso la negazione.

Di opposizione in un paese privo di opposizione, in cui, e si parla anche per Napoli, i volti e i corpi di una delle civiltà meno omologate del mondo fino appena a ieri si sono rapidissimamente adeguati allo standard delle masse solitarie dell’Occidente producendo democratiche somiglianze, piattezze, clonazioni.

La classe dirigente napoletana di oggi ha tutta la stessa faccia, destra, centro, sinistra, ben pochi si distinguono nella massa che noi possiamo ben chiamare “loro”. Il popolo napoletano di oggi comincia ad avere anche qui un’unica faccia.

È un “loro” cui ahimé apparteniamo a volte anche noi, se non altro nei modelli e nelle pratiche di molto consumo e nella soggezione, per quanto recalcitrante, alla produzione di massa che propongono “loro” (dirigenti) e i “loro” (piccoli borghesi all’arrembaggio, dovunque dilaganti e corrodenti).

Da questi “loro”, e anzitutto dalla “loro” classe dirigente monocolore, è sempre più indispensabile distaccarsi. Per poter ragionare, anzi per poter vivere senza vergognarci di noi stessi. Questo trionfo di mediocrità, questa voluttà del cosiddetto nuovo sono stati narrati meglio che da ogni altro da Giuseppe Montesano, che nel suo ultimo romanzo Di questa vita menzognera (il titolo viene da Blok: “Di questa vita menzognera / cancella l’untuoso rossetto /…/ e anche non vedendo l’avvenire, / di’ no ai giorni del presente”) racconta il progetto di trasformare Napoli in Eternapoli avanzata da un’oscena ricca famiglia di dominatori napoletani, i Negromonte, alleata a un presidente e un potere certamente berlusconiani. Il progetto è la costruzione di “un enorme parco tematico” in cui “ricostruire la vita di un tempo” a uso dei turisti di tutto il mondo.

“Bisognava ricostruire la vita dell’antica Neapolis, della città angioina e della città spagnola, e su quei palcoscenici far recitare la storia”. E ancora: “Il potere centrale, l’esercito e le televisioni nazionali restavano nelle mani del Presidente, il governo dava il Sud in concessione ai Negromonte e agli altri imprenditori e in cambio riceveva la massima fedeltà. Era una forme di outsorcing, no?” Non siamo così lontani dai progetti che possiamo chiamare “bassoliniani”, e questo, purtroppo, Montesano dimentica di dirlo: che la sinistra non ha oggi sul fondo idee di sviluppo e di progresso diverse da quelle della destra, anche se restano delle differenze nella gestione, in parte e solo in parte e non grande.

Per il momento, la sinistra napoletana sta attenta a consolidare le sue clientele e l’ultima sua grande invenzione – imitatrice d’America anche questa, va da sé – è la fondazione di lobbies.

Ha cominciato Amato Lamberti, presidente della Provincia, a convocare con appelli roboanti attorno a sé come lobby e gruppo di pressione, per lui base elettorale, una pletora di associazioni del cosiddetto volontariato (ormai dilagate sul territorio a occupare ogni piccolo spazio in attesa di ogni piccolo o grande finanziamento, associazioni di cui conta solo la interna burocrazia e in cui perdono di peso e di senso gli scopi sociali dichiarati); Rifondazione è una lobby, a Napoli, da sempre; e si è precipitato Bassolino a fondare la sua, la più lustra e soddisfatta di tutte.

Sono morti i partiti, si va verso una democrazia presidenziale, e le lobbies sono il modo di riciclare i gruppi di potere locali e collegarli a quelli nazionali e sovranazionali, trasversali.

Quante lobbies in Italia, a destra al centro a sinistra e fittamente intrecciate tra loro, ed economiche e sindacali e culturali variamente corporative! e quanta corsa a entrarvi o a fondarne di altre!

E quante mafie, camorre, ’ndranghete, e quante mescolanze tra buona e mala vita, quante clientele, quanta amoralità e immoralità politica, sociale, culturale!

Finché il modello regge, l’adesione di massa gli sarà garantita, dentro l’unico ceto vincitore e avvolgente della piccola borghesia con laurea e diploma.

Due conclusioni possibili, per noi: La prima è l’abbandono del campo, nella convinzione che la sconfitta delle prospettive di una civiltà migliore non solo sui piani dei consumi sia definitiva, per Napoli e forse per l’Italia. Bisogna saper perdere, e ci siamo abituati. Ma al loro gioco non ci staremo.

Resteremo pronti a farci in quattro se ci sarà ancora bisogno di noi pochi “volontari” senza associazioni e senza prebende, ma diffidando ormai di ogni potere, di ogni politica, e anche, è bene dirlo, di ogni sinistra o centro o destra!

La seconda, l’interesse che permane per i margini, per le periferie, per i “lontano dal centro”, che a Napoli vuol dire ancora – ma è prevedibile non sempre perché anche qui il modello allarga le sue braccia – disagio, disparità, e in qualche modo novità, come dovunque nelle altre grandi città d’Italia e d’Europa.


Torna su


___________________________________________________________________________________

Fonte:
LO STRANIERO - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003

Di due realtà cerchiamo in quest’opuscolo di dare testimonianza: quella del vecchio ceto che è stato Napoli e ha vissuto il suo centro, e che è ormai scompaginato e cacciato, o corrotto; e quella delle periferie, che è più mobile e vitale di quanto non si pensi, benché oggi sottoposta a dirompenti mutazioni che sono destinate a cambiarne ogni assetto. Le periferie si allontanano, ma non scompaiono, anzi crescono.

Il più e meglio che possiamo fare è forse, ancora e sempre, “rompere le scatole”, e cioè affermare il nostro diritto di tener gli occhi bene aperti su ciò che è politica e cultura, nella città che pur da nomadi abitiamo e che è il nostro punto di riferimento primario, anche se non più una vera “casa”. Difendiamo il nostro diritto di critica dell’esistente.

Continuiamo a “non fidarci degli occhi” e a voler vedere oltre le apparenze, e capire oltre le chiacchiere e oltre la chilometrica kermesse di eventi e altri eventi e altri eventi, talmente quotidiani ormai da meritare il nome di rumore di fondo. “Fa’ quel che devi, accada quel che può”, ci ha insegnato tanti anni fa, al momento della nostra scoperta del Sud e del nostro innamoramento per Napoli, il vecchio Salvemini.

Addio, Napoli. E soprattutto, addio trionfante stoltezza dell’immagine, addio politica e sogno di democrazia dal basso. Il mondo cambia e cambierà ancora.

Cose da fare ce ne sono tante. Non è più tempo di perderlo, il tempo, appresso al superspettacolo di una città che ha voluto essere uguale a mille altre, nella comunanza della loro stessa stupidità.

_______________________________________________________________________________

Addio, Napoli


Addio, Napoli


_______________________________________________________________________________




Torna su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.