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Fonte:
Libero – Domenica 5 Novembre - pag. 17

Colpa di Garibaldi se la malavita la fa da padrona

di GILBERTO ONETO

Il 7 settembre del1860 Giuseppe Garibaldi entra a Napoli con pochi fidi precedendo di due giorni l'armata attardata in Calabria. La città è ancora presidiata da 6.000 soldati borbonici che se ne stanno disciplinati nelle caserme. Ma Liborio Romano, Ministro degli Interni e della Polizia delle Due Sicilie, gli ha assicurato che non ci sono problemi: da tempo si è accordato con Salvatore De Crescenzo (detto Tore 'e Criscienzo), il capo riconosciuto della Camorra, detenuto in carcere. Romano ha patteggiato la sua liberazione e quella di tutti i camorristi in cambio dell'aiuto "patriottico" a Garibaldi, consistente nell'eliminazione "per coltello" dei delegati di polizia e nella presa di controllo della città.

Nel loro innovativo ruolo di "tutori dell'ordine", i camomsti sono stati dotati di una coccarda tricolore come segno di riconoscimento. 

All'una e mezzo del pomeriggio Garibaldi arriva alla stazione di Napoli: lo saluta Liborio Romano, nella sua nuova veste di ministro garibaldino (è stato il ribaltone più fulmineo della storia italiana) davanti a una folla enorme. il Generale sale su una carrozza assieme a fra' Giovanni Pantaleo (lo stravagante cappellano dei Mille), Agostino Bertani (il medico che, alla fine dell'avventura, sarà uno degli uomini più ricchi di Lombardia), il conte Giuseppe Ricciardi e il patriota calabrese Demetrio Salazaro.

Con loro ci sono, in posizione di evidente privilegio, anche i nuovi amici: Tore 'e Criscenzo e i suoi luogotenenti Michele '''O chiazziere" (il collettore delle tangenti) e "O schiavuttiello". La presenza del "capo" e dei "capipanza" garantisce a Garibaldi l'incolumità e alla Camorra una nuova autorevolezza .

Passano davanti al Maschio Angioino. Le sentinelle borboniche, che ancora lo presidiano indisturbate, presentano le armi: se ne andranno poco dopo verso Gaeta, bandière al vento. Garibaldi si affaccia dal Palazzo Reale e termina un breve discorso alzando il dito indice, simbolo di unità: un gesto che i camorristi provvedono a far subito diventare popolare in città offrendo l'alternativa fra il grido di "Una!" (nel senso di 'Italia una!') e una pugnalata. Chi non ha alternativa sono gli agenti della polizia borbonica, efficientemente messi in condizione di non nuocere.

Nei giorni seguenti Garibaldi assegna riconoscente alla Camorra un contributo di 75.000 ducati (circa 17 milioni di Euro) da "distribuire ai bisognosi del popolino” e poi attribuisce una pensione vitalizia di 12 ducati mensili (circa 2.700 Euro) a Marianna de Crescenzo (pudicamente indicata sulla delibera come Marianna la Sangiovannara, sorella di Tore e proprietaria della bettola dove si riuniva il vertice malavitoso), Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto, e cioè all'intero gotha femminile del simpatico sodalizio partenopeo.

Ma quel che è peggio, Garibaldi "sdogana" la Camorra e ne consacra l'autorità e l'immagine di fronte al popolo umiliando l’autorevolezza delle forze di polizia. Aveva fatto lo stesso in Sicilia con la Mafia, in una disinvolta e patriottica interpretazione del "fine che giustifica i mezzi". Ed è stato solo il primo di una lunga lista di potenti che hanno avuto strani compagni di merende.

Quando si invoca oggi il ritorno dell'autorità dello Stato nella Napoli devastata dalla Camorra, si dimentica che la prima (e sempre esaltata) apparizione locale dello Stato italiano ha avuto il volto strafottente dei camorristi, con coccarda tricolore e un dito alzato. Allora era l'Indice.

 







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