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LA
CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO UNDECIMO
VOL. VII
DELLA SERIE QUARTA

ROMA
ALI'UFFIZIO DELLA CIVILTÀ CATTOLICA.
Via del Seminario 123.

1860.

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pag 357

Regno Delle Due Sicilie. 1. Lettera e bando d'un fedele Ministro di Stato — 2. Quanto pagasi il tradimento — 3. Un ingresso trionfale e atti di divozione — 4. Largizioni e confische — 5. 1 ladri si accapigliano per la divisione della preda — 6. Fatti d'arme — 7. Generosità del Re

8. Aiuto pietoso alla pericolante rivoluzione —9. Lettera del Cavour per ispacciarsi detto ambasciadore napoletano — 10. Nuovi principii di diritto pubblico — 11. Lettere di protesta del barone Winspeare — 12. Il termine della commedia è vicino; bando del Re sardo — 13. Osservazioni, e giudizi liberateschi — 14. Partili e reazione nel Regno — 15. Plebiscito per l'annessione — 16. Mirabili esempii di fedeltà—17. Protesta contro il blocco di Gaeta — 18. La confisca delle proprietà regie — 19. Apoteosi del Regicidio — 20. Fatti d'armi ed invasione sarda.


1.Ripigliando la sposizione ordinata dei fatti più rilevanti che accaddero nel Regno delle Due Sicilie, dacché il Re Francesco li uscì di Napoli a campeggiare coli' esercito tra Gaeta e Capua, ricorderemo in prima che il sig. Liborio Romano avea saputo dare di sé e della sua fedeltà e devozione così bella mostra al proprio Sovrano, che ne avea carpi la la intiera fiducia. Avvalorato da questa, egli dispose tutio per forma che il Re giudicasse prudente e savio partito il commettere la guardia della sua Capitale alle milizie cittadine, sotto la direzione dello stesso Liborio Romano. Or veggasi come rispondesse costui al nobile, ma forse troppo generoso sacrifizio, che il Re volle fare al suo amore verso i proprii sudditi, abbandonando la metropoli del suo reame, anziché porla a pericolo di sangue e di guasti per tenerla in sua fede e soggezione. Appena partito il Re, il devoto Ministro spedì al Garibaldi la seguente lettera. «All’invittissimo General Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie, Liborio Romano Ministro dell’Interno. Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il Redentore d Italia, e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato ed i proprii destini. In questa aspettativa io starò saldo a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica: la sua voce, già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno del successo di tali assunti.


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Mi attendo gli ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto. Napoli, 7 Settembre 1860. Di lei Dittatore Invittissimo Liborio Romano».

Quindi, senza porre tempo in mezzo, promulgava il seguente bando ai cittadini di Napoli. «Cittadini. Chi vi raccomanda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti è il liberatore d'Italia, è il General Garibaldi. Osereste non esser docili a questa voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti Italiane? No certamente. Egli arriverà fra poche ore in mezzo a noi, ed il plauso che ne otterrà chiunque avrà concorso nel sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino italiano possa aspirare. Io quindi, miei buoni cittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Napoli, 7 Settembre 1860. Il Ministro dell'Interno e della Polizia Generale. Liborio Romano». Così nel Paese.

Codesta voce, innanzi a cui doveano inchinarsi (e s'inchinarono pur troppo) i Napoletani, diceva loro che essi erano «un nobile ed imponente centro di popolazioni italiane, che motti secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare né ridurre a piegare il ginocchio al cospetto della tirannia.» Fattili così conscii della propria loro magnanimità e potenza, proclamava Padre della Patria il Re Vittorio Emmanuele; e per viemmeglio fare illusione al minuto popolo di Napoli, di cui ben conosceva l'animo inclinato a sensi di religione, il Garibaldi pomposamente gli annunziava che «i Sacerdoti italiani consci della loro missione hanno per garantia del rispetto, con cui saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, il contegno veramente cristiano dei numerosi loro confratelli, che, dai benemeriti monaci della Gancia ai generosi Sacerdoti del continente napolitano, noi abbiamo veduti alla testa dei nostri militi sfidare i maggiori pericoli delle battaglie». Per tal modo pretendeasi dare colore di santa crociata e di religiosissima impresa ad un' opera tutta di perfidia, di tradimento e di violenza manifesta contro il diritto delle genti. Niuno vorrà credere che il popolo napolitano, sì svegliato ed accorto, si lasciasse accalappiare ad arti così grossolane. Ma lo scandalo d'alcuni apostati siciliani attecchì pur troppo, e dietro ali' energumeno Gavazzi si videro alquanti altri infelici, che smessa ogni verecondia, e prostituito il sacro loro carattere a tristizie di setta, si diedero a predicare sui trivii e nelle piazze, profanando il Crocefisso e maneggiando indistintamente il pugnale, la carabina e i sacri arredi.

2.Il modo con cui il Garibaldi rispose alle cortesie del Liborio Romano, fu degno d'amendue. Questi avea usato i poteri di Ministro di Re Francesco 11, per lastricare la via e spalancare la porta al Garibaldi, che venisse a pigliarsi la corona e il trono di Napoli. Quegli, appunto come se gli fosse stato detto il quid vultis mihi dare et ego eum vobis tradam, non entrò senza prima rimeritare il gran fatto del Liborio con la dovuta mercede; la quale fu qualche cosa meglio d'un trenta denari, giacche il valentuomo fu confermato nella sua carica di Ministro Segretario di Stato per gli affari interni, essendo il nuovo Gabinetto composto nel modo seguente. Liborio Romano Ministro degli Interni; Enrico Cosenz, della Guerra; Giuseppe Pisanelli della Giustizia; confermati atloro posto i Direttori delle Fmanze, Carlo De Cesare e Michele Giacchi; Direttore della Polizia Giuseppe Arditi; Direttore al dipartimento della Guerra, sotto gli ordini del Cosenz, il Tenente Colonnello Guglielmo De Sauget.


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Onde si vede che parecchi di coloro che aveano accettato il carico di Ministri fedeli di Francesco II, aveano usato sì bene detta fiducia iti loro posta dal loro Sovrano, che ne erano reputati degni di premio singolare e pronto da parte dett' usurpatore. Ciò non ha bisogno di commenti.

Ma, quattro giorni dopo, la direzione detta Polizia fu tolta al Romano, che in realtà la teneva e la esercitava; e data all'Avv. Rafaele Conforti, forse per non gravare di troppa fatica l’ex Ministro di Franresco ti, e fors'anche perché la prudenza insegnava a non confidare soverchiamente in chi avea mostrato a fatti d'essere capace di rispondervi con i;nella onestà e delicatezza, che il Romano adoperò verso il proprio Sovrano legittimo.

3. Il Garibaldi entrò a Napoli il dì 7, con pochi compagni e senza truppe, il che fu piuttosto effetto di necessità che ostentazione di sicurezza. Difatto le sue masnade cosmopolitiche di francesi, ungheri, svizzeri, scozzesi ecc. (che di stranieri principalmente è composto il fiore e il nerbo dell’esercito Garibaldino) erano ancora a sessanta miglia lungi da Napoli, affrante dalle fatiche e in tale stato che, dove la vigliaccheria e la perfidia non si fossero messe d'accordo per tradire il buon Francesco II, questi avrebbe potuto, aspettandole di pié fermo a Salerno, agevolmente vincerle e sterminarle. L'ingresso trionfale fu festeggiato da qualche migliaio di matrone e vestali da trivio, da molti lazzaroni ben pasciuti quel dì perché potessero gridar forte, e da alquanti frati apostati. Il March, di Villamarina, Ambasciadore Sardo, facea viemeglio spiccare con la sua presenza lo splendore di quel nobile corteggio. Il Garibaldi andò, scimniando le imposture del Championnet, a venerare S. Gennaro, dove un. frate Pantaleo o il Gavazzi che si fosse, aperto colla violenza il sacrario, profanò i riti più augusti della religione. La cattedrale allora rimbombava degli urli di plauso del predetto corteggio.

Il giorno seguente poi, 8 Settembre, Garibaldi fu tratto dalla sua ben nota pietà a visitare, con regio rito, il santuario di Nostra Signora di Pié di Grotta; e vi fu accompagnato dal divotissimo Liborio Romano, da quegli edificanti cappellani che sono il frate Pantaleo, il Gavazzi ed alquanti altri, e da elette schiere di lazzaroni.

4.Dopo ciò si pose mano senza indugio a distruggere fin le ultime vestigia degli ordini precedenti, e costituire i nuovi. E si cominciò, come suoi farsi in questi casi, col gratificarsi le moltitudini e le plebi, saziandone l'ingordigia con largizioni, per sopperire alle quali si fecero dall'altra parte diluviare i decreti di confisca. Perciò si mandarono rilasciare lutti i pegni, deposti presso il Monte di Pietà ed i Banchi succursali, che non oltrepassassero D. 3. Furono istituiti dodici asili infantili gratuiti a spese del municipio, per accogliervi figliuoli dell'infima plebe. Fu aperto un Collegio gratuito, con disciplina militare, nei figli del popolo ecc. ecc. Al tempo stesso furono confiscati i beni della Casa reale, ed in fin allora riservati alla disposizione del Sovrano; questi dei Maggiorati Reali e dell'Ordine Costantiniano, amministrati già sotto la dipendenza del Presidente dei Ministri, e tutti quelli che il Re avesse donato altrui, i quali fu decretato che si dovessero reintegrare allo Stato. Poi, aboliti i Gesuiti con tutte le loro dipendenze e diramazioni, i loro beni mobili ed immobili furono dichiarati proprietà nazionali. Le case e i luoghi dove erigere i mentovati asili e cottegi pel popolo, furono tolti dai beni ecclesiastici e regii incamerati. Tutto ciò fu decretato ed eseguito fra i plausi cordiali de’  professori di libertà, secondo i santi principii dell’89.


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Pressoché nello stesso giorno si mandava distribuire ai benemeriti lazzaroni dei dodici quartieri di Napoli un gran numero di boni per un rotolo di pane a ciascuno, da pagarsi m gran parte a spese del Municipio; e si decretava che «tutti i beni delle mense Vescovili ed Arcivescovili sono dichiarati nazionali, assegnandosi un congruo mantenimento, che non potrà mai oltrepassare i 2000 ducati, ad ogni Vescovo ed Arcivescovo.» La delicatezza ed il rispetto al diritto di proprietà furono spinti fino a confiscare le rendite in cedole sopra il debito pubblico dello Stato, che antichi servitori e consiglieri del Re si affrettarono di rivelare essere, per la somma di oltre a 30 milioni di franchi, iscritti per membri della famiglia reale sotto altri nomi.

5.Sarebbe cosa da non finirla in cento pagine il registrarci nomi e le cariche degli ufficiali pubblici destituiti, e dei novelli a loro surrogati, per la sola ragione del doversi pur dare la dovuta mercede ai complici e fautori della trionfante rivoluzione. Il Doli. Bertani fu creato colonnello «Segretario generale di Stato; cioè factotum del Dittatore, con tanta plenitudine di podestà, che i Ministri si vedeano passare sul capo e cadere in piazza decreti e bandi, de’ quali neppure diceasi loro parola; sicché furono al punto di gittare i portafogli e andarsene: ma poi si rabbonirono. Un Sirtori fu creato Pro Dittatore, quando il Garibaldi fu in caso di ricominciare la guerra viva contro le truppe regie. Il Crispi, non più voluto in Sicilia, dove tumultuatasi contro lui dagli annessionisti, fu caramente ricevuto a Napoli e nominato segretario di Stato per gli affari esterni. Il Ministero stesso fu ancora rifiuto e rimpastato; ed ognuno può intendere da sé quale copia di nuovi ordini e di riforme dovesse grandinare ogni dì, ingegnandosi ciascuno di mettere a profitto il tempo per effettuare te sue idee. Le cose andarono così rapidamente, che fin dal 18 Settembre, si promulgava come legge fondamentale delle Due Sicilie lo Statuto sardo, riserbandosi tuttavia ad altro decreto il determinare l'epoca in cui si dovrebbe attuare. Perché, sebbene si volessero usufruttuare gli aiuti piemontesi, e perciò convenisse satisfare in qualche modo alle esigenze di Torino; pure non voleasi ancora l'annessione così pronta, poiché in tal caso un altro partito sarebbesi recata in mano la preda, di cui i Garibaldini e Mazziniani non erano ancora satolli. Il Cavour insisteva per mezzo de’ suoi messi e giornali: il Garibaldi ondeggiava tra il sì e il no; finché temendo di vedersi scappar di mano la Sicilia tutta in sobbollimento, e recando i tumulti colà scoppiati e il discacciamento del Crispi ad artifìcii del Cavour, la ruppe a mezzo (se pure non fu una pretta scena di commedia!) e scrisse all'Avvocato Brusco a Genova, sotto il lo Settembre, che egli, non solo non era d'accordo col Cavour, ma non potrebbe «mai riconciliarsi con uomini che hanno umiliato la dignità nazionale e venduta una provincia italiana.» Quindi ratto parli verso Palermo, e vi giunse il 17. Quivi, menando attorno la falce, mise in terra l'opera del partito piemontese. Il Deprétis, come troppo Cavouriano, tolto di carica e sostituitogli come Predicatore un Mordini; e rifatto un Ministero secondo il cuore di Mazzini, che intanto soffiava il fuoco a Napoli, dove fu caramente intrattenuto col fiore de’ suoi dal Garibaldi. Il quale fulminò da Palermo alquanti proclami, giurò che solo a Roma si proclamerebbe il regno italico, e che coloro i quali promoveano a Napoli l'annessione immediata col Piemonte erano traditori, che così operavano per impedire lui, invitto campione d'Italia, dal passare il Volturno. Dopo di che prontamente si ridusse di bel nuovo in terraferma.


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6. Reduce da Palermo il Garibaldi, e stanco forse di cudesti pettegolezzi politici, si volse tutto alle faccende guerresche, sperando di poter più facilmente troncare le questioni d'un sol colpo, dove gli venisse fatto di impossessarsi di Capua e stringere il Re entro Gaeta. I primi combattimenti, che furono piuttosto sanguinose scaramuccie che ordinate battaglie, avvennero sotto Caiazzo e presso Capua, nei giorni 19 e 21 Settembre. Dapprima Caiazzo venne in potere dei Garibaldini che vi si asserragliarono fortemente; poi fu ripreso a viva forza e con molto valore dai Regii, che ne li snidarono, prendendovi prigionieri parecchie centinaia di nemici. E così di giorno m giorno si vennero continuando le avvisaglie e gli scontri tino al dì 1. ' di Ottobre, nel quale si combattè dall'una e dall’altra parte con molte forze e con grande accanimento, restando la vittoria ai Regii, e perdendovi i Garibaldini, per loro confessione stessa, non meno di 4500 uomini. La Gazzetta di Gaeta, diario ufficiale, ne fece la seguente sposizione.

«I felici successi delle nostre armi sotto le mura di Capua, e lungo il Volturno decisero ij generale Ritucci a riprendere la offensiva, ed a spingere forti ricognizioni verso S. Maria, S. Angelo, b Maddaloni, sia per giudicare della forza e de’  mezzi di difesa dell’inimico, sia per occupare le sue posizioni, qualora se ne fosse offerto il destro. A tale oggetto si disposero tre colonne. La prima sotto gli ordini del generale Won-Mechel composta di tre battaglioni Carabinieri, e di alcuni battaglioni di fanteria di linea, con competente artiglieria e cavalleria, formando l'ala sinistra dell'esercito, muover doveva per Dugento e Maddaloni, affin di riconoscere l'inimico da quel lato. Delle altre due colonne, l'una composta del battaglione cacciatori comandato dal maresciallo Àfan da Rivera, e dai due comandanti di brigata Generale Barbalonga e Colonnello Polizzi, riconoscer doyea le fortificate alture di S. Angelo in Formis, ed il sottoposto villaggio: l'altra composta da' reggimenti della Guardia, battaglioni Tiragliori e da poche compagnie del 9° e 10° di linea, comandata dal Generale Tabacchi, avea ordine di minacciare sulla fronte Santa Maria e distrarre l'inimico da qualunque operazione militare che avesse potuto fare il Generale Won-Mechel. La cavalleria in seconda linea dovea sostenere le colonne che procedevano innanzi, in caso di positivo combattimento, ed in pari tempo guarentire l'ala dritta del nostro esercito. Alle 2 antimeridiane del 1° Ottobre uscirono le truppe da Capua, liete e fidenti nel loro valore, per la porta di Napoli. Ah"alba aprirono il fuoco i cacciatori dell’ala sinistra ed il battaglione Tiragliori della Guardia che per la prima volta combatteva e con valore. Allo avvanzarsi dei nostri, uscirono gli avversari da S. Maria e discesero da S. Angelo; ma in breve tempo furono vigorosamente respinti ed obbligati di ritornare alle loro forti posizioni. La colonna de’ cacciatori della sinistra, con vivo fuoco di fucileria protetta dalle artiglierie di montagna si spinse risolutamente innanzi, e giunta sulla dominante posizione di S. Angelo, conquistò alla baionetta tre batterie colà piantate, i pezzi delle quali, parte furono inchiodati, altri rovesciati nei sottoposti burroni, e sei pezzi di artiglieria da campo, e di montagna furono trasportati nella piazza; e procedendo sempre innanzi superò la prima e la seconda barricata del villaggio di S. Angelo in Formis, fece molti prigionieri, prese armi e munizioni in gran copia, cavalli e muli; e poscia si ristorava colla zuppa preparata colà pei nemici, vinti e messi in tuga.


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Non è a descriversi l'energia e l’ardore dimostrato dagli uffiziali e soldati de’ cacciatori, e dalla poca cavalleria di questa colonna nella ricognizione di S. Angelo, e la bravura degli uffiziali e soldati di artiglieria, i quali colla precisione de’ loro tiri furono di possente aiuto alla infanteria. Né altrimenti potea avvenire, poiché la presenza di S. M. il Re in quel punto animava e sosteneva il coraggio de’ prodi che combattevano e coi quali in seguito divise la gioia del successo.

«La colonna destinata a minacciare S. Maria riconobbe l'inimico e tentò un attacco, nel quale alcune compagnie del 9° e 10° di linea, ed altre dei tirngliori, con istancio incredibile giunsero nel paese superando le prime barricate sotto il fuoco micidiale di molte batterie. Le AA. RR. Conte di Caserta, e Conte di Trapani non lasciarono dal guidare quelle colonne, e divisero colle truppe le fatiche ed i pericoli. Meritate lodi si debbono all’artiglieria, la quale perdé diversi uffiziali, sott'uffìziali e soldati nello attacco delle prime barricate di S. Maria, ove si vidde obbligata di lasciar due pezzi, sol perché, feriti e morti il maggior numero dei cavalli, tornava impossibile di ritirarli sotto il vivo fuoco della mitraglia nemica. Eguale onorevote menzione meritarono i cacciatori a cavallo pel loro splendido modo di combattere. Sulla diritta della linea il brigadiere Sergardi con meno di due squadroni lancieri, ed un distaccamento di zappatori e i pezzi attaccò il villaggio fortificato di S. Tammaro, superò le barricate, se ne impossessò, prese una bandiera, e tolse al nemico molte armi, munizioni e prigionieri. Il Generale Colonna, rimasto sulla sponda dritta del Volturno, impedì al nemico di passare il fiume a Trifrisco, ove si presentò con forze imponenti, le quali furono respinte nel bosco di San Vito. e poscia da bravi cacciatori snidate e disperse. Erano allora le 3 pomeridiane e, poichè si era raggiunto lo scopo di riconoscere perfettamente l'inimico su tutta la sua linea di difesa, fu ordinato alle truppe di rientrare nella piazza e tanto venne eseguito con calma, ordine, e tempo senza che si fosse lasciato un solo uomo indietro. Il nemico non ardì riattaccare le nostre truppe, e ciò prova di quale effetto fossero state le nostre offese; solo pochi drappelli tentarono di spingersi innanzi, e furono caricati e distrutti da uno squadrone di carabinieri a cavallo egregiamente comandato dal colonnello Puzzo, e tenente colonnello Termine. Tra i prigionieri fatti al nemico nel combattimento del 1° Ottobre come nei precedenti, molti feriti ora si trovano ne' nostri ospedali: essi hanno le stesse cure, gli stessi aiuti che ordinariamente son prestati a' soldati dell’esercito».

7.Ufficiali del Garibaldi furono poi ammessi in Capua, affinché potessero co’ loro proprii occhi accertarsi della cristiana generosità, con cui erano assistiti e curati i feriti della loro parte caduti in mano de’  Regii, e come fossero fedelmente eseguite sopra ciò le volontà del Re Francesco II; il quale pochi giorni innanzi avea indirizzate a' suoi soldati queste nobilissime parole. «Soldati! Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di espugnar paesi dall’inimico occupati, obbligo di Re e di soldato m'impone il rammentarvi, che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità e ferocia, quando non sieno accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate adunque tutti generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri clic non combattono, ed i feriti; e prodigate loro, come il 14° cacciatori ne ha dato nobile esempio, quegli aiuti, che è in vostro potere di prestare.


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Ricordatevi pure che le case, e le proprietà ne' paesi, che occuperete militarmente, sono il ricovero, ed il sostegno di molti, che combattono nelle vostre file: siate adunque umani e caritatevoli con quegli infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità. L'obbedienza agli ordini de’ vostri superiori sia costante e decisa; abbiate infine innanzi agli occhi sempre l'onore ed il decoro dell'esercito napoletano. L'Onnipotente Iddio benedirà dall'alto il braccio di prodi e generosi, che combattono, e la vittoria sarà nostra. Gaeta 29 Settembre 1860. Francesco».

8. Certo è, a detta d'un Corrispondente dei Dèbats da Napoli, che in questo combattimento le cose volsero tanto male pei Garibaldini, che se i Regii il giorno appresso fossero tornati all’assalto ed avessero incalzato vigorosamente il nemico, l'avrebbero inferamente disfatto. Certo è ancora che nel vivo della mischia, quando la prevalenza dei Regii era omai certa, sopraggiunsero truppe piemontesi, mandate dal March, di Villamarina, che ne sostennero l urto poderoso e rinfrancarono alquanto i Garibaldini col tiro gagliardo delle artiglierie. Certo è per ultimo che mancando a questi copia sufficiente di artiglieri, il comandante della nave da guerra inglese il Renoum fu sollecito di fornirne largamente con suoi marinari i pencolanti amici: di che il Garibaldi gli rendette poi sentite e pubbliche grazie. Cosi i Piemontesi, senza dichiarazione veruna di guerra, entravano in battaglia contro il Re di Napoli, mentre questi teneva a Torino presso Vittorio Emmanuele, suo cugino, un suo Ministro e rappresentante.

9. Non era possibile dissimulare e tollerare più oltre, e il barone Winspeare, avesse pur voluto tacere, era tratto di viva forza a far richiami e andarsene, per la seguente Nota indirizzatagli dal sig. di Cavour, pubblicata poi dal Times, e ristampata da tutti i giornali. «Signor Barone. Gli avvenimenti che hanno avuto luogo a Napoli durante questi ultimi mesi hanno già determinato il Governo del Re a spedirvi dei bastimenti per la protezione dei sudditi sardi. D'allora in poi la situazione non ha tatto che peggiorare. Francesco II ha abbandonato la sua Capitale, ed ha in tal modo, m faccia alla popolazione, abdicato al suo trono. La guerra civile che infierisce negli Stati Napoletani e l'assenza del Governo regolare mettono in gran pericolo i principii, sui quali riposa l'ordine sociale. In questa congiuntura i cittadini e le autorità del regno di Napoli banno fatto pervenire a S. M. il Re Vittorio Emmanuele degli indirizzi coperti di numerose firme, implorando l'aiuto del Sovrano, a cui la Provvidenza ha confidato il compito di pacificare e di ricostituire l'Italia. Dietro ai doveri che gli sono imposti da questo mandato il Re, mio augusto padrone, ha ordinato che s'invii un corpo d'armata a Napoli. Questa misura che porrà fine ad uno stato di cose che potrebbe degenerare in anarchia, preserverà l'Italia e l'Europa, ed eviterà maggiori spargimenti di sangue. Colgo questa occasione per presentare a Vostra Eccellenza, ecc. ecc. Firm. Cavour».

10.Ecco pertanto il nuovo diritto europeo promulgato da Torino. Si eccita una sedizione nella capitale d'uno Stato. Da un potente Sovrano straniero si fa pregare e consigliare il tradito Principe a non ostinarsi in sanguinosa difesa de’  suoi diritti, i quali saranno per altri mezzi mantenuti salvi ed integri.


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Poi si dichiara che il Principe essendo uscito dalla sua Capitale, ed avendo così abbandonato il suo reame all'anarchia, lo Stato divenne nullius, o, per meglio dire, di chi sa procacciarsi un centinaio di aderenti, i quali mandino indirizzi e deputazioni a nome del popolo. E ciò ottenuto, lo Stato diviene proprietà di chi ha forze da pigliarselo. Con questi mezzi non farebbe stupore se il Cavour riuscisse ad effettuare la sua promessa di fare Roma capitale del nuovo Regno Italico. E chi fosse inorridito di tale teorica, ascolti il signor Cavour che in pieno Parlamento di Torino dice dell'impresa nientemeno iniqua, già compiuta contro la Santa Sede, appunto così: «Forse i mezzi non furono regolari (ossia giusti) ' ma lo scopo santo giustifica in gran parte la irregolarità dei mezzi adoperati» Così appunto egli disse nel Senato del Regno, il dì 16 Ottobre, come leggesi negli Alti uffiziali. Ecco quali Sodo davvero i professori della scellerata dottrina che il fine giusti fica i mezzi!

11. Ricevuto codesto singolare documento del cinismo, con cui procede la rivoluzione italiana, il signor Winspeare dovea pur rispondere qualche cosa, e partire Così egli fece sotto la data del 7 Ottobre, con la cortesissima lettera seguente «Eccellenza. L'occupazione del regno delle Due Sicilie per parte delle truppe piemontesi, della quale io ebbi notizia mediante la comunicazione di Vostra Eccellenza, in data di ieri, è un fatto tanto apertamente contrario alle basi di ogni legge e di ogni diritto, che sembrerebbe quasi inutile che io mi dilungassi a dimostrarne la illegalità; i fatti che hanno preceduto questa invasione ed i vincoli di amicizia e di parentela, tanto intimi quanto antichi che esistevano tra le due corone, la rendono tanto straordinaria e tanto nuova nella storia delle nazioni moderne, che lo spirito generoso del re, mio augusto padrone, non sapeva risolversi a crederla possibile; ed infatti, nella protesta che il generale Casella, suo ministro degli affari esteri, indirizzava il 16 Settembre scorso da Gaeta a tutti i rappresentanti delle potenze amiche, era chiaramente dimostrato che S. M. aveva la fiducia che S. M. sarda non avrebbe mai potuto dare la sua sanzione agli atti di usurpazione compiuti sotto ali' egida del reale suo nome, nel seno della capitate delle Due Sicilie. È parimente cosa superflua per me il cercare di dimostrare a Vostra Eccellenza che questa protesta solenne, unita avari proclami del mio augusto sovrano ed agli eroici sforzi fatti sotto le mura di Capua e di Gaeta, rispondono in modo incontestabile alla strana argomentazione dell'abdicazione di fatto di S. M. che io fui sorpreso di leggere nella comunicazione summenzionata di Vostra Eccellenza.

«L'anarchia ha trionfato negli stati di S. M. Siciliana in conseguenza di una rivoluzione invaditricc (debordante) della quale, fino dal primo momento, tutti presentivano manifestamente i disordini futuri, ed alla quale il re, mio padrone, proponeva già da gran tempo, ma invano, a S. M. il Re di Sai-degna, di opporre, con un comune accordo, una diga affinché essa non potesse traripare, e non potesse mettere in pericolo, coi suoi eccessi, la vera libertà e l'indipendenza d'Italia. In quest'ora fatale, in cui uno Stato, che conia 10 milioni di anime, difende colle armi Hi mano gli ultimi avanzi della isterica sua autonomia, sarebbe cosa vana il ricercare da chi questa rivoluzione sia stata sorretta, tanto da diventare un colosso, ed in qual maniera essa abbia potuto arrivare a tanto da effettuare tutti quegli sconvolgimenti che essa aveva progettato. Quella Provvidenza divina della quale Vostra Eccellenza ha invocato il santissimo nome pronuncierà,


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prima che scorra gran tempo, le Sue decisioni all'ora del combattimento supremo; ma, qualunque sia per essere questa suprema decisione, la benedizione del ciclo non discenderà sicuramente sopra coloro che si apprestano a violare i grandi principii dell'ordine sociale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato di Dio.

«La coscienza pubblica, dal canto suo, quando. sovra di essa non peserà più il giogo tirannico delle passioni politiche, saprà determinare la vera indole di una impresa usurpatrice, cominciata coll'astuzia e terminata colla violenza. La cortese accoglienza fattami da questa popolazione generosa e leale, accoglienza della quale sarà sempre viva nel mio cuore la rimembranza, mi vieta di addentrarmi più ancora nella critica severa degli atti del governo di S. M. Sarda; ma Vostra Eccellenza vorrà bene intendere le ragioni per cui un più lungo soggiorno a Torino del rappresentante di S. M. Siciliana sarebbe incompatibile colla dignità di S. M. , come pure colle usanze internazionali. E per questi motivi, protestando solennemente contro l'occupazione militare sopraindicata e contro qualunque usurpazione dei sacri diritti di S. M. il Re del regno delle Due Sicilie, già intrapresa e che sia per essere tentata, per opera del governo di S. M. il Re di Sardegna; riservando, inoltre, nello stesso tempo al Re Francesco II, mio augusto padrone, il libero esercizio del potere sovrano che a lui spetta, di opporsi con tutti quei mezzi che egli stimerà più opportuni, a queste aggressioni ed usurpazioni ingiuste; come pure di fare gli atti pubblici e solenni che egli stimerà esser più utili alla difesa della real sua corona; per questo, io dico, io mi appresto ad abbandonare questa residenza, appena avrò terminato di porre in ordine alcuni affari particolari di S. M., relativi alla successione dell’augusta sua madre, di santa memoria. Prima di partire, io avrò l'onore di presentare a V. E. il signor De Martini, il quale sarà semplicemente incaricato di trasmetterle le comunicazioni che il governo del Re, mio padrone, trovasse più tardi conveniente di indirizzare ancora al governo di S. M. Sarda. Mi permetta, signor Conte, di prendere congedo da V. E. ringraziandola degli atti cortesi che ella ha ben voluto usare con me nelle nostre relazioni personali, ed aggradisca ecc.»

12.La commedia oggimai toccava il suo termine, ed era giunto il momento, in cui dovea svelarsi l'intrigo e gittare al tutto la maschera. Il Garibaldi avea bastevoli argomenti per essere persuaso che da sé solo non verrebbe a capo di espugnare Capua e Gaeta; e per altra parte il Cavour ed il Farini intendevano a meraviglia che l'indugiare ancora per pochi giorni avrebbe potuto recare un colpo fatale all'impresa comune. Imperocché i regii fatti animosi dalle ottenute vittorie ed rincuorati dalla presenza del Re, ben poteano da un momento ali' altro fare uno sforzo supremo, sperdere le masnade che loro attraversavano la via, spingersi a Napoli e tornarla alla dovuta soggezione del legittimo Principe. Quindi è che il Garibaldi accettò di gran cuore le offerte fraterne del Cialdini, che gli si esibiva pronto a varcare le frontiere dello Stato Napolitano con un 25 mila uomini; e il Cavour, lambiccatosi indarno il cervello per trovare qualche pretesto di ordinare manifestamente l'impresa, e non trovandone alcuno altro meno irragionevole ed iniquo, si gittò, come vedemmo, . a quello del far così perché se ne avea la forza in mano; e si fece firmare dal Re Vittorio Emmaauele il seguente Manifesto indirizzato ai popoli dell’Italia meridionale.


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«In un momento solenne della storia nazionale dei destini italiani, rivolgo la mia parola a voi, popoli dell’Italia Meridionale, che mutato lo Stato nel nome mio, mi avete mandato oratori d'ogni ordine di cittadini, magistrati e deputati de’  municipii, chiedendo di essere restituiti nell’ordine, confortati di libertà, ed uniti al mio Regno, lo voglio dirvi quale pensiero mi guidi, e quale sia in me la coscienza dei doveri che deve adempiere chi dalla Provvidenza fu posto sopra un trono italiano.

«Io salii al trono dopo una grande sventura nazionale. Mio padre mi diede un alto esempio, rinunziando la corona per salvare la propria dignità, e la libertà de’  suoi popoli. Carlo Alberto cadde coll’arma in pugno, e morì nell’esiglio: la sua morte accomunò sempre più le sorti della mia famiglia a quelle del popolo italiano che da tanti secoli ha dato a tutte le terre straniere le ossa dei suoi esuli, volendo rivendicare il retaggio di ogni gente che Dio ba posta fra gli stessi contini, e stretta insieme col simbolo d'una sola favella. Io mi educai a quello esempio, e la memoria di mio Padre fu la mia stella tutelare. Fra la Corona e la parola data, non poteva per me essere dubbia la scelta mai. Raffermai la libertà, e volli che esplicandosi, essa gittasse radici nel costume dei popoli, non potendo io avere a sospetto ciò che a' miei popoli era caro. Nella libertà del Piemonte fu religiosamente rispettata la eredità, che l'animo presago del mio Augusto Genitore aveva lasciato a tutti gli italiani. Colle franchigie rappresentative, colla popolare istruzione, colle grandi opere pubbliche, colla libertà dell'industria e dei traffichi, cercai di accrescere il benessere del mio popolo, e volendo sì rispettata la Religione cattolica, ma libero ognuno nel santuario della propria coscienza, e ferma la civile autorità, resistetti apertamente a quella ostinata e procacciante fazione, che si vanta la sola amica e tutrice dei troni, ma che intende a comandare in nome dei Re ed a frapporre fra il Principe ed il popolo la barriera delle sue intolleranti passioni.

«Questi modi di Governo non potevano essere senza effetto per la rimanente Italia. La concordia del Principe col popolo nel proponimento dell’indipendenza nazionale, e della libertà civile e politica, la tribuna e la stampa libera, Io esercito che aveva salvata la tradizione militare italiana sotto la bandiera tricolore, fecero del Piemonte il vessillifero, e il braccio d'Italia. La forza del mio principato non derivò dalle arti di un' occulta politica, ma dallo aperto influsso delle idee e della pubblica opinione. Così potei mantenere nella parte di popolo italiano riunita sotto il mio scettro il concetto di una egemonia nazionale, onde nascer doveva la concorde armonia delle divise province di una sola nazione. L'Italia fu fatta capace del mio pensiero, quando vide mandare i miei soldati sui campi della Crimea accanto ai soldati delle due grandi potenze occidentali. Io volli far entrare il diritto d'Italia nella realtà dei fatti e degli interessi europei. Al congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per la prima volta all'Europa dei vostri dolori. E fu a tutti manifesto, come la preponderanza dell’Austria in Italia fosse infesta all'equilibrio europeo, e quanti pericoli corressero la indipendenza e la libertà del Piemonte, se la rimanente Penisola non fosse francata dagl’influssi stranieri. Il mio magnanimo alleato, l'Imperatore Napoleone III senti che la causa italiana era degna della grande nazione sulla quale impera. I nuovi destini della nostra patria furono inaugurati da una giusta guerra. I soldati italiani combatterono degnamente accanto alle invitte legioni della Francia.


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I volontarii accorsi da tutte le province e da tutte le famiglie italiane sotto la bandiera della Croce Sabauda addimostrarono, come tutta l'Italia mi avesse investito del diritto di parlare e di combattere in nome suo.

«La ragione di Stato pose fine atta guerra, ma non a' suoi effetti; i quali si andarono esplicando per la inflessibile logica degli avvenimenti e dei popoli. Se io avessi avuto quella ambizione che è imputata alla mia famiglia da chi non si fa addentro nella ragione dei tempi, io avrei potuto essere soddisfatto dallo acquisto della Lombardia. Ma io aveva speso il sangue prezioso dei miei soldati non per me, per l'Italia. Io aveva chiamato gl’italiani alle armi; alcune provincie avevano subitamente mutato gli ordini interni per concorrere alla guerra d'indipendenza, dalla quale i loro principi abbonivano. Dopo la pace di Villafranca, quelle provincie dimandarono la mia protezione contro il minacciato ristauro degli antichi governi. Se i tatti dell’Italia centrale erano la conseguenza della guerra alla quale noi avevamo invitati i popoli, se il sistema delle intervenzioni straniere doveva essere per sempre sbandito dall’Italia, io dovevo conoscere e difendere in quei popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i voti loro. Ritirai il mio Governo; essi fecero un Governo ordinato; ritirai le mie truppe; essi ordinarono forze regolari, ed a gara di civili virtù vennero ia tanta riputazione e forza, che solo per violenza d'armi straniere avrebbero potuto essere vinti. Grazie al senno dei popoli dell’Italia centrale l'idea Monarchica fa in modo costante affermata, e la Monarchia moderò moralmente quel pacifico moto popolare. Così l'Italia crebbe nella estimazione delle genti civili, e fu manifesto all'Europa come gl’italiani sieno acconci a governare se stessi. Accettando la annessione, io sapeva a quali difficoltà europee andassi incontro. Ma io non poteva mancare alla parola data agli italiani nei proclami della guerra. Chi in Europa mi taccia d'imprudenza giudichi con anima riposato, che cosa sarebbe diventata, che cosa diventerebbe l'Italia il giorno, nel quale la Monarchia apparisse impotente a soddisfare il bisogno della ricostituzione nazionale! Per te annessioni, il moto nazionale, se non mutò nella sostanza, pigliò forme nuove: accettando dal diritto popolare quelle belle e nobili province, ia doveva lealmente riconoscere l'applicazione di quel principio, né mi era lecito il misurarla cotta norma de miei affetti ed interessi particolari. là suffragio di quel principio io feci, per utilità dell’Italia, il sacrificio che più costava al mio cuore, rinunziando due nobilissime province del Regno avito.

«Ai Principi italiani che han voluto essere miei nemici, ho sempre dati schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incontrare il pericolo che l'acciecamento loro avrebbe fatto correre ai troni, e ad accettare la volontà dell’Italia. Al Granduca io aveva indarno offerta l'alleanza prima della guerra. Al Sommo Pontefice, nel quale venero il Capo della Religione de’  miei avi, e dei miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il Vicariato per l'Umbria e per le Marche.


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Era manifesto che queste province contenute soltanto dalle armi di mercenarii stranieri, se non ottenessero la guarentigia di Governo civile che io proponeva, sarebbero tosto o tardi venute in termine di rivoluzione. Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle potenze al Re Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel congresso dì Parigi furono proferiti sul suo Governo preparavano naturalmente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della diplomazia. Al giovane suo successore io mandai offerendo alleanza per la guerra dell’indipendenza. Là pure trovai chiusi gli animi ad ogni all'etio italiano e gli intelletti abbuiati dalla passione. Era cosa naturale che i fatti succeduti nella Italia settentrionale e centrale sollevassero più e più gli animi della meridionale. In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero devoto all’Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano italiani, io non poteva, non doveva rattenerli! La caduta del Governo di Napoli raffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario al Re l'amore, ai governi la stima dei popoli! Nelle Due Sicilie il nuovo reggimento s'inaugurò col mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene interpretasse per ogni rispetto quella politica che è dal mio nome rappresentata. Tutta l'Italia ha temuto che all’ombra di una gloriosa popolarità e di una probità antica tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino trionfo nazionale alle chimere del suo ambizioso fanatismo. Tutti gli italiani si sono rivolti a me perché scongiurassi questo pericolo. Era mio obbligo il farlo perché nell’attuale condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all'Europa. Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quell'accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma d'intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l'Italia degli italiani, e non permetterò mai che l'Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgano a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale.

«Popoli dell’Italia Meridionale! Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine. Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell'urna. Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compiere miei doveri di Re e di italiano! in Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie. In Italia so che io chiudo l'era delle rivoluzioni C Dat. da Ancona addì 9 Ottobre 1860. — Vittorio Emmanuele. — Farini.»

13.Non è qui luogo, né ci basterebbe lo spazio a toccare, anche solo di passata, e mettere m evidenza gli assurdi principii, le falsità di fatto, la perversità del nuovo diritto pubblico e le aMommevoli conseguenze che ne derivano, onde è lutto intessuto questo inqualificabile documento. Il sig. Farini (chè a lui solo può legalmente imputarsi questo manifesto essendo il Re non risponsabile degli atti pubblici anche muniti di sua firma) ha renduto servigio alla causa della giustizia con queste sue esorbitanze mostruose.


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Solo noteremo che la ragione, con cui si pretende giustificare il latrocinio e l'usurpazione degli Stati della Chiesa, cioè che il Papa rifiutò di accettare il propostogli Vicariato delle Marche e dell'Umbria, vale per appunto quanto il dire: il Papa non volle contentarsi che io mi appropriassi i suoi Stati, lasciando a lui nulla più che un nome e titolo fittizio; dunque è tutto colpa sua se ora glieli rubo colla forza. Muove poi a stomaco il sentire che in nome di un Re si insulti, col titolo contumelioso di accozzaglia, a quei valorosi, molli dei quali per nobiltà di natali e chiarezza di sangue possono competere con Vittorio Emmanuele, e che dopo inaudite prove di valore soggiacquero per la difesa della più giusta e santa delle cause. Chi insulta al vinto copre sé stesso d'ignominia! Or che dovrà dirsi quando i vincitori sono mercenarii A quella stampa che un Fanti ed un Cialdini, usciti fuori dal brulicame della rivoluzione, e cresciuti agli stipendii di essa dovunque poterono servirla? Che dovrà dirsi quando chi fa proferire tali vituperi è un Farini? «Si direbbe che il sig. Farini, il quale passò tutta la sua gioventù in mezzo alle cospirazioni delle sette, abbia portato gl’istinti e le abitudini del cospiratore anche al Governo!» Così il Diritto, giornale Garibaldino, del 14 Ottobre. Dove pure lagnasi che in tale Manifesto siasi dovuto ricorrere principalmente a quella ragione che l'avanzarsi del Re e dell’esercito nel regno di Napoli fosse prodotto da inviti di ogni ordine di cittadini chiedenti di essere restituiti nell'ordine, quasi che fosse vero che a Napoli e in Sicilia regnasse l'anarchia, e dice: «anche delle armi diplomatiche (cioè delle bugie) non devesi abusare, poiché tutti gli eccessi finiscono per tornare a danno di chi li commette». E perfino al Diritto mette sdegno la forma data dal Farini al suo bando, perché «il linguaggio iroso e provocatore disdice alla dignità di un manifesto reale».

14.Da cotesto bando reale, messo fuori in Ancona, come a suggello della usurpazione compiuta degli Stati Romani, ed a solenne annunzio di quella che iniziavasi sopra il regno delle Due Sicilie, si potrebbe quasi inferire che veramente questo smaniasse per ottenere l'onore di diventare piemontese sotto il governo Cayouriano. Or il fatto è pienamente falso. Tre fazioni dividono il popolo di quel reame. La prima, e la minima, di repubblicani aderenti del Mazzini; e questa è sì scarsa di partigiani, che il Diritto affermò, forse non trovarsene dieci: ma pochi o molti che siano, certo non tengono pel Cavour e sua compagnia. La seconda è di liberali che vogliono l'autonomia napoletana, e questi si passavano volentieri di Vittorio Emanuele; e se ora l'accettano, gli è solo per uscire dalle branche di Garibaldi e della sua consorteria di avventurieri. La terza è di coloro che vendettero al Piemonte la loro persona e le toro idee politiche, e questa è sì scarsa che dovette farsi aiutare dall'esercito regolare sardo per paura di essere sterminata. Resta la immensa maggioranza del vero popolo, che è per l'ordine e per la dinastia legittima, e che se fosse lasciato fare e ne avesse i mezzi, certo in poco d'ora sbranerebbe il regno di lutti i felloni delle precedenti categorie. Ciò è sì vero, che i liberali son sempre in affanno contro la reazione, la quale ad ogni poco scoppia qui e colà, ed a cui reprimere si mettono fuori, da chi tiene l'armi ed i cannoni, bandi pieni di ferocia; i quali poi sono eseguili con atrocità e spietatezza ancora più grande. Eccone uno, per saggio degli altri, pubblicato nel Giornale Ufficiale.


Serie IV, voi. VIII.                                                                           27 Ottobre 1860


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«Qualunque cittadino prenderà le armi per avversare in qualsiasi modo il presente movimento italiano, sarà dichiarato nemico della patria, e come tale condannato alla fucilazione. Una commissione militare permanente procederà immediatamente con rito sommario alla punizione dei colpevoli». Così alii 8 Settembre a Teramo. Così a un dipresso da per lutto altrove. Malgrado ciò l'oppressione libertina è tanta, che in molti luoghi i popoli ne vollero scuotere il giogo. Ad Avellino, ad Ariano, a lsernia, a Monteodorisio, a Gissi, a S. Buono, nella provincia d'Aquila, a Tagliacozzo, in Rocca di Mezzo, a Civitanova, a Carovilli, a Pietrabbondante, a Pescolaciano, a Chianci e in cento altre città o borgate la reazione scoppiò come un vulcano, e fu spenta nel sangue sparsovi largamente e con inaudita crudeltà dai sicarii Garibaldini guidati da Ungheri, da Scozzesi, da Inglesi e da Francesi. Basti accennare che a S. Antimo ne furono arrestati 60, e tratti con ogni maniera di atroci trattamenti a Napoli per esservi puniti, e sappiamo il come, senza escludere 9 donne. In Canosa fu fatto peggio. In Arzano fu, come reazionario, arrestato un Capo urbano, e si spinse la barbarie fino a recidergli d'un colpo di forbice il labbro con cui avea gridato Viva il Re; e ciò fu fatto a sangue freddo, in Casoria, dove era stato condono prigioniero. Sono racconti che si possono leggere, da chi ne ha il cuore, nei diarii liberaleschi, che li raccontano con tuono tra lo scherno e la gioia, e con dignità da cannibali. Questo è il metodo tenuto in centinaia di città e borgate per creare l'unanime suffragio di annessione al Piemonte, l'entusiasmo per l'Italia una. Or venga il sig. Farini, e metta in bocca al suo Re che, andando ad usurpare il reame di Napoli, cedeva un dovere di giustizia ed al voto dei popoli!

15. Questo unanimità è così fittizia, che volendosi dagli uni l'annessione immediata, dagli altri condizionata, da questi l'autonomia, da quelli la repubblica, e trapassando la discordia dal Ministero alla piazza, dalle città alle borgate, I anarchia era imminente. Il Garibaldi non sapea più dove voltarsi. Il Bertani fu tolto da segretario della Dittatura, e torno a Torino. Fu accomiatato il Sirtori, e sostituito a lui come Pro Dittatore il Pallavicini Trivulzio. Questi voleva l'annessione immediata per plebiscito; il Crispi Segretario di Stato sostenea doversi fare per Assemblea, il che l'avrebbe ritardata. Quindi un cozzare, un ingiuriarsi a vicenda, uno smascherarsi con cinismo schifoso, mettendo in luce la rapacità, la venalità, gli odiosi arbitrii di cui ciascuno trovava onde accusare gli altri. D farne qui la storia trarrebbe troppo in lungo, e ci riserbiamo ad altra volta il recarne i particolari e i documenti. In fine dei conti il Crispi fu soverchiato; il Pallavicini, che s'era dimesso, rimase: Garibaldi si tolse dattorno i Cattaneo, i Mario ed altri colali; ma nou Mazzini che rifiutò di partire da Napoli e fu lasciato stare. Finalmente con questi mezzi fu vinto il partito di chiamare tutto il popolo delle Due Sicilie a votare con plebiscito, nel dì 21 Ottobre, l'annessione al Piemonte, con un. vi od un no, imitando gli esempii dati dal maestro del 2 Dicembre. In Sicilia grossi guai e violenze orribili pareano imminenti, volendo questi un'Assemblea, e quelli no. Fu tolto il Pro Dittatore, furono cambiati i Ministri, furono fucilati o scannati i più renitenti. E così si ottenne il mirabile consenso unanime del popolo in immolarsi all'Italia.

16. In questo frattempo il Re Francesco II trovava nella fedeltà de’ suoi soldati e nel valore, con cui presero a combattere sotto gli occhi suoi, un gradito compenso a tanti dolori.


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Un 3500 di questi bravi soldati erano rimasti a Napoli quando ne parti il Re. Snidarli dai forti colla violenza avrebbe potuto costar caro. Al sopraggiungere delle truppe piemontesi, furono i napoletani lasciati liberi di raggiungere il Re se fosse loro piaciuto. Tutti, esempio mirabile di devozione, tutti accettarono; e colle armi brandite, a bandiere spiegate, a tamburro battente marciarono a Gaeta, dove sapeano dover trovare, più che altro, privazioni, stenti e battaglie pel loro Re. Altri, in numero di parecchi centinaia, usciti dalla cittadella d'Augusta per capitolazione, ebbero a scegliere tra l'andare a Gaeta, il tornare alle loro case liberi, o l'accontarsi col Garibaldi; essendo queste condizioni loro proposte e guarentite dall’ammiraglio francese. Ora di lutti essi circa 360 vollero raggiungere il loro Re a Gaeta; un 150 incirca, già affranti dalle fatiche, accettarono di ritrarsi alle case loro; un solo fu tanto vile da cedere alla seduzione e rimanere tra i felloni col Garibaldi.

17. Il Re a Gaeta avea nominato un suo nuovo Ministero, presieduta dal Generale Casella, Ministro della Guerra e degli affari esteri; e composto del Cavalier Ulloa per gl’Interni, del Barone Carbonelli per varii dicasteri, e del retro Ammiraglio Del Re per la marina. Quando il Garibaldi ordinò il blocco di Gaeta, codesto governo del Re Francesco II diramò subito ai suoi rappresentanti presso le corti straniere una nota in cui leggesi quanto segue. «Non sa il Governo di S. M. che alcuno de’ Ministri, e dei Consoli abbia riconosciuto una disposizione così contraria al diritto delle genti. Ma in ogni modo crede necessario protestare nella forma la più energica ed esplicita contro questo nuovo attentato a' principii che formano base della esistenza delle nazioni. Il legittimo Sovrano del Regno delle Due Sicilie, ridotto dalla più scandalosa invasione a difendersi nella linea militare di Capua e di Gaeta, è non soltanto assalito in terra dalle forze della rivoluzione, ma si rivolgono contro lui i bastimenti della sua propria marina per bloccarlo. Le Potenze Europee non possono riconoscere un blocco decretato da un potere illegittimo per imporre alle altre nazioni il sagrifizio della libertà marittima e l'interruzione del loro commercio; bisogna essere Governo pubblicamente ed officialmente riconosciuto dagli altri. Garibaldi non rappresenta un Governo; Napoli rivoluzionata non è nazione. La sola nazione riconosciuta dai trattati è il Regno delle Due Sicilie; ed il sovrano di questo Regno, riconosciuto da tutti gli altri, si trova adesso a Gaeta. Essendo cosi, il blocco di Garibaldi è illegittimo, e nessuna nazione può accettarne le conseguenze. Ma gli atii illegittimi di ostilità marittima, la interruzione arbitraria del commercio de’ neutri sono, secondo il dritto delle genti, atti di manifesta pirateria. Non è credibile che l'Europa incivilita del secolo decimonono possa tollerare la pirateria nel Mediterraneo, né si può ammettere per un momento, a che le Potenze marittime assistano impassibili a questi fatti, che rovesciano i principii di dritto pubblico ed internazionale assicurati a costo di tanti ripetuti sforzi. È con questa confidenza che il sottoscritto ecc. ha l'onore di dirigersi a S. E. ecc. per ordine espresso del suo augusto Sovrano, e pregandola a voler mettere questa nota sotto gli occhi di Sua Maestà ecc. , si attende una risposta, che egli si augura concorde coi principii del diritto delle genti e della giustizia. Il sottoscritto profitta ecc. ecc.». A questa protesta fu falta ragione, e le varie Potenze rifiutarono di riconoscere il blocco. Navi francesi e russe da guerra gittarono l'ancora nel porto di Gaeta.


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18. Rispetto alla confisca delle private proprietà del Re e della famiglia reale, più sopra già mentovata, emanò da Gaeta la nota seguente. «Dopo aver spogliato il Ile N. S. dei suoi Stati, la rivoluzione trionfante lo spoglia pure della sua privata e legittima fortuna. Con essa sono stati confiscati i maggiorati dei Principi, le doli delle Principesse, il prodotto delle loro particolari economie, tutte le proprietà in somma che, costituite dalle leggi civili, sono in tutti i paesi inciviliti, e dai più anarchici governi rispettate. Ma questo attentato non meriterebbe altro che lo sdegno di S. M. , che avrebbe creduto al di sotto di sua dignità farvi attenzione, se allo spoglio non si accompagnasse la calunnia. Il giornale di Napoli del 20 Settembre N.° 5, nel rendere conto di questo fatto al pubblico, procura raccomandarlo o scusarlo dicendo che, sapendo il Ministro di polizia di Garibaldi «come grandi ricchezze avessero a scapito del popolo accumulato i Principi di casa Borbone, si diede a veder modo onde una parte almeno di esse fosse reintegrata al tesoro dello Stato». Raccontando poi la trasmissione violenta di una somma di 184, 608 ducati di rendita, ed aggiungendola a un'altra di ducati 317, 186 prodotto annuo dei maggiorati ed economie private della Casa reale, calcola il capitale di questa doppia rendita in undici milioni, legittimamente, aggiunge, rivendicata alle Finanze dello Stato. Mentre che negli inqualificabili atti, che hanno luogo nell'invasione del regno, s'invoca soltanto il dritto della rivoluzione, il Governo di S. M. lascia alla Provvidenza, all'opinione pubblica e alla giustizia dell'Europa il giudizio di uno stato di cose che opponendosi a tutti i principii sociali, non può essere né accettato né durevole. Ma quando si parla di legge e di diritto, nello stesso tempo che si conculcano tutti i diritti e tutte le leggi, il Governo di S. M. non crede dover lasciare agli invasori e ai rivoluzionarii il beneficio dell'impunità e delle calunnie.

«Le rendite occupate violentemente dal sig. Conforti e violentemente confiscate dal governo di Garibaldi si compongono di quelle due partite accennate nel suo giornale di Napoli. La prima, cioè, quella di 184,608 ducati rappresenta l'eredità lasciata ai suoi dieci figli ed ai poveri dal (Munto Re Ferdinando II. Questo è il fruito delle economie personali di;, 0 anni di regno; e dichiarare illegittima questa eredità vai tanto che attaccare la legittimità della lista civile e del patrimonio che hanno posseduto lutti i monarchi delle Due Sicilie. L'altra partita si compone, nella maggior parte, dei maggiorati dei reali Principi, e delle doli delle reali Principesse, costituiti in virtù di antiche e finora sempre rispettate leggi. Là stanno pure piccole economie fatte in favore di orfani durante ia loro infanzia, come può ritevarsi dalla lista stessa pubblicata nel giornale della rivoluzione, trovandosi due sole partite appartenenti al Re N. S.), una di 41a ducati, economie della sua assegnazione di principe ereditario, e un'altra di 67,509, interessi composti ed accumulati durante ventitré anni, della dote ed eredità propria della sua illustre e venerabile madre Maria Cristina di Savoia. La dote di questa Principessa piemontese è stata confiscata dal governo di Garibaldi, in nome del Re del Piemonte, e si contesta al figlio il diritto a questa santa e legittima eredità di sua madre, dovutagli in virtù di un trattato colla Sardegna!


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«Nel permettermi, dopo le istanti mie preghiere, di trasmetterle queste necessarie spiegazioni, mi ha ordinato il Re (N. S.) di prendere per base la pubblicazione stessa fatta dal governo rivoluzionario che si è impadronito de’  suoi Stati in nome del Re di Sardegna. Non è cerio l'animo di S. M. di lagnarsi dello spoglio di tutta la sua fortuna particolare; S. M. ne aveva fatto il sacrifizio quando costantemente, anche nei giorni i più minaccianti della lotta e dell'invasione, si rifiutò ostinatamente a far vendere le sue rendile di Napoli per piazzarle con più sicurezza in fondi di altri e più fortunati paesi. Potrebbe sì compiangere la sorte di nove fratelli e sorelle condannati, senz'altro delitto che il loro nome a vedere confiscati dalla rivoluzione lutti i loro mezzi di fortuna, ma qualunque sia il loro avvenire, sia la loro sorte vivere nell'esilio e nelle più dure privazioni, S. M. è sicura che sapranno sopportare l'avversità con costanza degna della toro stirpe e del rango in che, per esempio degli altri, li fece nascere la Provvidenza. In mezzo a queste miserie della rivoluzione, splende più alta e più gloriosa la magnanimità del nostro augusto Sovrano. I palazzi, i musei che ha lasciato, nel partire, pieni dei tesori dell'inestimabile eredità de’ suoi antenati, attestano al mondo il completo disinteresse e la generosità d'animo di Francesco li. Unita la sua causa a quella de’  suoi popoli, non ha voluto il Re trasportare fuori del paese neanche la sua particolare fortuna, come si sdegnasse salvare per sé una tavola nel naufragio generale del Regno. La sua indifferenza pei beni materiali della vita è proverbiale; né pure i grandi dolorosi avvenimenti che hanno avuto luogo nel breve ma difficile periodo della sua ascensione al Trono avrebbero permesso queste cure ad uno spirito esclusivamente occupato della pace e della prosperità dei suoi sudditi.

«Non sono necessarie queste spiegazioni per quelli che conoscono lo stato delle cose in Napoli; ma come potrebbe avvenire che trovasse eco in codesti paesi la calunnia, credo del mio dovere tenerla al corrente dei falli, perché sia in grado di smentirla. Non sono tesori che la casa di Borbone portò seco nell'abbandonare la capitale; sono i suoi palazzi, i suoi musei e la santa eredità dei suoi antenati che lascia come monumento della sua generosità nel suo sempre amabile regno, senza curarsi dell'avvenire. La dote della madre del Re, l'eredità particolare di suo padre, i maggiorati, le economie dei Principi e delle Principesse; lutto quanto costituisce la fortuna privata della famiglia Reale, quanto assicurano le leggi Civili, quanto rispetta il diritto comune de’  popoli, lutto è stato confiscato dal Governo rivoluzionario di Napoli, senza che il Re si degnasse neanche protestare contra questo scandaloso spoglio, trovando al di sotto della sua dignità occuparsi dei suoi interessi particolari, quando cadono in rovina i grandi interessi dello Stato. Né avrebbe annuito alle rappresentazioni rispettose e ripetute del suo Governo, se non fosse dovere dei suoi Ministri respingere con indignazione le false imputazioni che possono agire sugli spiriti prevenuti od ignoranti.

«Ella è autorizzata a fare di questa comunicazione l'uso che stimerà nella sua prudenza convemente, e a rilasciarne copia a cotesto Ministro degli affari esteri».

19. Ma un fatto anche più obbrobrioso erasi compiuto dal Garibaldi in nome di Vittorio Emanuele, Re e consanguineo di Francesco Il. Una ricompensa nazionale decretavasi in onore del regicida Agesilao Milano.


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L'orrore eccitato da tale nefandezza destò il brivido in ogni uomo onesto d'Europa. Il Governo di Francesco li la denunziò ai Sovrani tutti delle nazioni civili con la seguente nota. «Il giornale officiale del Governo rivoluzionario di Napoli pubblica, nel numero corrispondente al 28 del mese ora scorso, il decreto seguente... «Italia e Vittorio Emmanuele. Il Dittatore dell'Italia meridionale. Considerando sacra al paese la memo«ria di Agesilao Milano, clic con eroismo senza pari s'immolò sull'altare della Patria per liberarla dal tiranno che l'opprimeva: decreta. Art. I. È accordata una pensione di ducati trenta al mese a Maddalena Russo madre del Milano, vita durante, a contare dal 1 ottobre prossimo. Art. 2.° È accordata una dote di ducati due mila per ciascuna delle due sorelle del detto Milano. Questa somma sarà investita in fondi pubblici a titolo di dote inalienabile e consegnata alle sorelle nel corso del prossimo ottobre. Art. 3.° Il ministro delle Finanze è incaricato della esecuzione del presente decreto. Napoli  25 Settembre 1860. Firmato — Garibaldi». Nel portare a conoscenza di S. E. il signor ecc. il sottoscritto Ministro ecc. si crede dispensato da ogni commentario intorno a questa inqualificabile disposizione. La rivoluzione non era arrivata mai in alcun paese a questo grado di perversità e di anarchia. Canonizzare come santità il regicidio, premiare pubblicamente l'assassinio, eccitare officialmente con questo esempio all'esterminio dei Sovrani; questo non si è fatto tino adesso, e si la però in una città occupata fatte truppe Piemontesi, da un condottiere che agisce in nome del Re di Sardegna, e che prende da quattro mesi, e senza essere smentito, la sua bandiera ed il suo nome. Un uomo che tenta di assassinare un altro uomo; un soldato che esce dalle file per uccidere il suo generale; un suddito clic vibra la sua baionetta contro il suo Re, è un martire degno di lode, di pianto e di premio per il Governo di Garibaldi 1 E questa apoteosi si fa pubblicamente nel Giornale officiale di Napoli! e in nome del Re Vittorio Emmanuele si danno, e si offrono ricompense ai regicidi! Tale esempio parla più atto che tutte le declamazioni sul miserabile stato morale in che è caduto il Regno, sull'anarchia clic si è impadronita de’ suoi destini dopo il trionfo dell'invasione. Il sottoscritto non crede necessario protestare contro questo scandaloso decreto, perché protestano per lui tutti i sentimenti di morale, di onore, di religione che esistono nel cuore umano. Il sottoscritto lo denunzia alla giustizia dell'Europa, come la pruova la più chiara, e fra tante, dette tendenze degli uomini che colla forza straniera, e profittando d'inauditi tradimenti, hanno usurpato l'autorità, ed occupato la più considerevole parte del Regno delle Due Sicilie. Per questo prega l'E. S. di portare questa nota a conoscenza del suo Governo e profitta di questa opportunità ecc.»

20.Addì 8 Ottobre avvenne una nuova fazione con qualche vantaggio dei regii, che addì 15 fecero toccare nuove e rilevanti perdile ai Garibaldini; di che forse provenne l'affrettarsi dell'esercito piemontese ad accorrere per mare e per terra, stando il Garibaldi con gran pericolo d'essere al tutto disfatto, malgrado dei soccorsi di denaro e mumzioni e di migliaia di volontarii speditigli dalla Inghilterra. Di questi fatti d'armi si ha sufficiente notizia dalla Gazzetta di Gaeta così compendiata. «Nella prima di queste fazioni, le artiglierie regie, sotto lo sguardo dei Reali Principi, fecero gran danno al nemico che soffrì gravi perdite in morti e feriti, mentre il colonnello de Liguori, colle sue truppe rinforzate dai tiragliori della guardia, occupò una posizione del nemico, e v'inchiodò un cannone.                                                        


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La seconda fazione del 15 fu impresa dai regii nello scopo di riconoscere le forze del nemico e di distruggere talune case rurali, dal cui coperto erano molestate le sentinelle avanzate, e per assicurarsi se per avventura si fosse lavorato per approccio verso la piazza. Questa ricognizione fu affidata al colonnello Vecchione con due battaglioni di cacciatori, ed un distaccamento di artiglieria. Alle case rurali suddette la lotta s'impegnò vivissima d'esse furono talune prese e riprese fin tre a quattro volte. La fazione durò due ore. Valutabili perdite toccarono ai garibaldini, tra quali figuravano truppe regolari piemontesi. Ingrossatesi però le loro file, il colonnello Vecchione ordiné la ritirata che fecesi in perfetto ordine. Al ritirarsi dei cacciatori regi gli avversarii audacemente si spinsero al campo di San Lazzaro, ma quivi le artiglierie della piazza cagionarono loro perdile gravissime — Da parte dei regii si denunzia in questa fazione la morte di un Alfiere, di un Sergente ed un circa 40 feriti.» Il Re Vittorio Emmanuele, avuta la notizia della resa di Ancona, parti il 30 Settembre da Torino, giunse il 2 Ottobre a Ravenna, e il giorno appresso fu ad Ancona, d'onde passò poi a visitare alquante altre città per mietervi gli allori seminati dal Farmi ed irrigati dal sangue del fiore della nobiltà francese e belgica. Quindi ricevette le deputazioni allestite dal Comitato annessionista di Napoli, con cui lo supplicavano di andare presto a, metterli nell'ordine: e com'era pattuito, accettò. Furono mancati fuori parecchi bandi firmati col nome di Vittorio Emmanuele, e tutti degni del Farini che l'accompagna. !1 giorno 15 Ottobre, varcata la frontiera del Regno di Napoli, entrò a Giùlianuova, giunse a Chieti alli 17, ed a Popoli nel giorno 19. Quivi doveano attestarsi parecchie divisioni dell'esercito sardo che da più parti aveano invaso, senza verun pretesto di guerra, gli Stati del Re Francesco Il stretto congiunto di Vittorio Emmanuele. Altre divisioni furono portate per mare a Napoli. d'onde mossero subito verso Isernia, per congiungersi con quelle già accolte verso Popoli, e quindi assalire le difese preparate dai Napoletani, tra il Volturno e il Garigliano, appoggiandosi a Capua e Gaeta.


Stati Sardi (Nostra corrispondenza) l. Cavour nega i documenti al Parlamento — 2. Un prete rivoluzionario smascherato nella Camera — 3. Risulta da un'interpellanza che gli italianissimi cercano d'ingrassare per far l'Italia — 4. La legge sulle annessioni future; osservazioni del deputato Ferrari — 5. Altri Oratori: Bertani, e suo processo contro YKspero; — 6. I deputati non rappresentano l'Italia — 7. La legge per le annessioni nel Senato: discorso del Senatore Brìgnole: il Senato rappresenta Cavour. — 8. Il Re: che cosa pensa?


1.Poiché Garibaldi ebbe mandato alle stampe la sua famosa lettera all'Avv. Brusco dove dichiarava di non essere amico di Cavour perché gli avea venduto la patria, il Conte di Cavour volle rifarsi dello smacco convocando il Parlamento in mezzo al quale gli è cosi facile trionfare. Chiamati adunque i deputati a Torino pel giorno 2 di Ottobre, propose loro una legge che facesse facoltà al Ministero di accettare quante province italiane volessero annettersi allo Stato nostro, aggiungendo che i Miniatri terrebbero tale facoltà in conto d'un attestato di fiducia.


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Il deputato Cabella il 5 di Ottobre domandò al Presidente del Consiglio «Il deposito di quei documenti, che senza danno della cosa pubblica potessero essere comunicati al Parlamento». E diceva: se noi dobbiamo giudicare il sistema del Conte di Cavour e i disegni suoi, ci è mestieri dapprima conoscerli. Ma «essi dipendono da cause che ci possono essere ignote: sono l'esecuzione di disegni che hanno bisogno d'essere rivelati.» E se il Ministero, continuava il dep. Cabella, «ha deciso di entrare in una via, dalla quale non può più ritirarsi, e ch'egli deve forzatamente percorrere a qualunque costo fino ad un finale risultamento, egli ha dovuto avere tali argomenti di sicurezza da potervisi, senza grave pericolo dello Stato, avventurare.» 1I Conte di Cavour rifiutò di somministrare i documenti richiesti, «perché non possiam dire che la questione dell’Umbria e delle Marche sia terminata,» perché le Potenze «non hanno ancor detto l'ultima parola», e concluse: «Io dichiaro che conscienziosamente io stimerei di far cosa nocevole e pericolosa, se venissi a comunicare quali sieno intorno a quest'impresa (l'invasione degli Stati Pontificii) i documenti scambiati fra il Governo di Sua Maestà e le Potenze estere». (Atti uff. N.°140 pag. 546).

2.Nella stessa tornata del 5 Ottobre venne mossa un'altra interpellanza al Ministero dal deputato Turati. Ricorderete come nel Maggio dell'anno corrente pretendesse il nostro Governo che in Toscana, in Romagna e nelle altre province annesse si festeggiasse lo Statuto e si cantasse il Te Deum. L'Arcivescovo Card. di Pisa, come tutti gli altri Vescovi, proibì a' suoi sacerdoti di cantare. Ma in quella Diocesi trovossi un prete sgraziato, di nome Gigli, che ascoltando più le voci dell'interesse che quelle del dovere entrò audacemente nella Cattedrale di Pisa e cantò. L'Arcivescovo lo sospese a divinis, ed egli ricorse alla Camera che nella tornata del 21 di Giugno invitò il Ministero a provvedere i sacerdoti sospesi dai loro Vescovi dando loro pensioni e principalmente cattedre nei Collegi, pel buon esempio, e per la buona educazione della gioventù. Intanto il Gigli scriveva ultimamente al deputante Turati: «Ho il dolore di dirvi che nulla è stato fatto finora di quanto venne stabilito a mio riguardo, e mi trovo sempre sospeso da questo Cardinale Arcivescovo, senza aver giammai avuto indennità. Perciò il Turati chiedeva, se proprio non si fosse fatto niente, perché «fosse tolta al Gigli la sospensione», o per dargli almeno un'indennità. Il Ministro Guardasigilli rispondeva quanto alla sospensione «di dover rispettare l'autorità ecclesiastica nelle cose spirituali, nelle cose che la riguardano»; e quanto all'indennità, di avere scritto fin dal 21 di Luglio al Barone Ricasoli perché volesse soccorrere il prete Gigli. Dietro l'interpellanza, continuò il Ministro, che sapea doversi in oggi fare alla Camera, scrissi al Barone Ricasoli per telegrafo, e n'ebbi la seguente risposta: «II Governo locale avea provveduto al sacerdote Gigli, ma egli aspirando a cose maggiori respinse il sussidio datogli, e perfino un impiego nel Ginnasio di Campiglia. Allora il Governo locate, nella sua dignità, non si occupò più di lui, ed informa di tutto il Ministero». A tale risposta lutti fischiarono il prete Gigli «che della sospensione a divinis facea una speculazione» come disse il deputato Boggio. E il deputato Turati scusossi così: «Io ho fatto in buona fede e per buon fine questa interpellanza; ma vedendo che mi si è taciuta la verità, mi dichiaro soddisfatto della risposta del sig. Ministro, e ritiro la mia istanza». (Alti Uff. N.° H0, pag. 458).


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Così la stessa Camera ebbe a conoscere quali sieno quei preti che servono la rivoluzione, e come procedano con giustizia i Vescovi quando sospendono a divinis qualche membro indegno del Clero.

3. Nella tornata del 6 di Ottobre ebbe luogo un'altra interpellanza; da cui risultò che l'Italia degli Italianissimi in fin dei conti è la propria borsa. Il napoletano Poerio interrogò il Conte di Cavour sopra un disgraziato contratto conchiuso in Sicilia dal Governo rivoluzionario coll'italianissima Casa dei signori Adami e Lemmi; contratto che concedeva a queste casa tutte le strade ferrate da costruirsi nel regno di Napoli e di Sicilia. La quale concessione, osservava il sig. Poerio «vincola per lunghi anni l'avvenire di quelle province, le sottopone all'onere immenso di 650 milioni di lire, poiché tale o la spesa presuntiva delle linee designate, ed assicura inoltre alla casa concessionaria l'utile netto del 7 per cento senza sborsare un obolo del proprio.» Il Conte di Cavour rispose d'aver bensì letto questo nei fogli di Napoli, ma di non saperne nulla ofticialmente. Mille altri sospetti gettaronsi intanto su coloro che stettero in Napoli ed in Sicilia all'amministrazione della cosa pubblica, si deplorò che dopo aver maneggiato tanti danari, non dessero mai un resoconto, si parlò di parecchie centinaia di lire che spendeva al giorno il deputato Bertani segretario di Garibaldi; breve: gli stessi rivoluzionari confessarono di non avere gran fede nell'onestà de’ propri colleghi, e come tutti questi risorgimenti, rinnovamenti, rigenerazioni vadano a finire coll'impoverimento de’ popoli, e colla rigenerazione di mestatori che diventano ricchi a spese altrui.

4.L'8 di Ottobre incominciò la discussione del disegno di legge per le annessioni future, e circa la fiducia da decretarsi al Ministero. N'era stato relatore il dep. Andreucci, il quale conchiudeva: «Merita d'essere approvata la legge proposta per ogni ragione, non solo di convenienza e di utilità, ma veramente ancora di necessità e di urgenza.» Il deputato Giuseppe Ferrari fu il primo a parlare contro questa legge, e disse nel suo discorso parecchie buone verità, chiamò artificiale la concordia quasi unanime de subalpini; gridò contro «il disordine massimo del Piemonte, che vuoi sovrapponi agli Slati Italiani», avvertì che tutti i ribelli in Italia hanno omai diritto di comandare, perché ogni ribelle può dire al Conte di Cavour: «Io eseguiva gli ordini del signor Ministro, io intendeva la sua voce; e perché debbo io immolarmi ed c'gli comandare?»; entrò a favellare della Capitale e disse: «non v'ha cospirazione, non v'ha concordia fittizia che possa stordirci al punto di farci dissimulare, o da farci ignorare che Torino si dee soprapporre a tutte le altre città per la forza stessa del sistema regnante, qualunque sia la sorte che l'avvenire riserba a questa metropoli;» avverlì che le leggi Napoletane erano migliori delle piemontesi: «le leggi delle due Sicilie sono ottime paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite»; dichiarò «che il partito annessionista delle due Sicilie è composto in gran parte di avventurieri» e siccome coteste verità eccitavano rumore nella Camera, così il Ferrari disse: a lo parlo nella profonda indipendenza delle mie opinioni, ho consacrato la vita alla patria; non vengo qui a chiedere impieghi». La quali parole destarono vivissimi rumori, e grida all'ordine, all'ordine i Ferrari continuò rispondendo al Conte di Cavour che avea ipocritamente annunziato di voler chiudere l'era della rivoluzione.


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«Come mai il signor Conte di Cavour, che attende la rivoluzione di Roma e quella della Venezia, vuoi egli chiudere l'era della rivoluzione?» Osservò che omai l'Italia era tutta in mano di Napoleone III «e nel proclamare, disse egli, la vostra gratitudine al capo della Francia voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte la ragione dell'Italia attuale.» Soggiunse che la Penisola tolta ai Tedeschi era passata sotto l'influenza capricciosa d'un uomo, e avvertì i deputati che «respinto l'impero tedesco voi ricadete nell'impero rivolgendovi al Cesare Francese.» (Atti. uff. N.° 145 pag. 338.)

5. Altri oratori parlarono di poi, pochissimi contro. Il deputato Bertani, segretario di Garibaldi, nella tornata del 9 di Ottobre disse al Presidente del Ministero: «Vada il Conte Cavour il più presto possibile a Napoli: meco se il consente, giacchè fui accusato fautore del dissidio, o la forbita e abile mano dell’illustre diplomatico stringa quella vittoriosa del Generale Garibaldi». Ma a detta dei maligni, il Bertani parla così, perché gli rivedono le buccic, e l'obbligano a rendere i conti, che secondo l'Espero non sono guari in regola. Però il Bertani ha girato all'Espero un processo per calunnia, e aspetteremo la sentenza de’  tribunali. I deputali Chiaves, Minghetti, Galeotti, Carutti, La Farina, Parete, Turati, parlarono in favore dell'annessione. La Farina descrisse le miserande condizioni della Sicilia dove fu disciolto tutto l’ordine giudiziario; dove regna il comunismo, e s'uccide a mau salva e nelle quotidiane dimostrazioni contansi da 30 a 10 morti; dove nessun vuoi pagare, nessuno obbedire, e regna anarchia perfetta. Pareto si dolse di queste rivelazioni dicendo «non isveliamo ai forastieri le nostre vergogne». Dopo molti altri discorsi e rumori e ciance, finalmente l’11 di Ottobre si venne alla votazione, la quale riuscì favorevolissima al Conte di Cavour ch'ebbe soli sei voti contro, e ben 299 in favore.

6.Ma voi domanderete: cotesti deputati, che danno così facilmente al Conte di Cavour la facoltà d'impossessarsi delle terre altrui, rappresentano davvero l'Italia? Rispondo alla domanda con un cenno sulla tornata del 4 di Ottobre, nella quale si convalidarono 33 elezioni nuove. Da questa tornata e dai processi verbali delle elezioni apparve chiarissimamente che i deputati non rappresentano i loro Collegi, ma una minima parte di questi. Difatto il Collegio d'Ales conta 11325 elettori; l'eletto signor cavalier Grixoni raccolse voti 282. Il Collegio di Scnorbi comprende 1060 votanti; 80 suffragi elessero il signor cavalier Cugia Effisio. Ivrea conta 705 elettori; il signor cavalier Brida, sindaco locale, fu eletto cou voti 278. Montechiaro di Broscia ha 496 elettori inscritti sulle liste; il signor Avvocato Botturi fu eletto con voti 68. Il 4° Collegio di Milano conta 722 elettori; alla seconda votazione il signor Garibaldi ottenne voti 239, e quest'elezione sebbene non riunisca il terzo degl’iscritti, venne vivamente applaudita dalla Camera. Al Collegio di Brqui il signor Avvocato Conforti fu eletto deputato, raccogliendo 159 voti in i73 elettori. A Crescentino il professore Lignana ebbe 189 voti in 690 iscritti. Antonio Gallenga raccolse a Castellamonte, Collegio di 812 elettori, voti 302. Il signor Pellosi venne eletto a Castelnuoyo di Garfagnana da 199 votanti in 583 elettori. 80 voti in 268 elettori inscritti elessero, al 2° Collegio di Arezzo, il signor Avvocato Falconcini. Sopra 780 elettori appartenenti al Collegio di Adro, il signor Biancoli raccolse 161 voti.


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Giuseppe Garibaldi sortì eletto con voti 130 a Corniglio che conta 699 elettori. Il signor ingegnere Cavalletto conseguì, Collegio di Chiari, 107 voti sopra 701 iscritti. Sortì eletto al 4* Collegio di Firenze composto di 1018 elettori, il Generale Medici, con voti 128. Il cavalier Frutlani Emilio con voti 278 al 1° Collegio di Firenze, in cui gli elettori ascendono a 1348. Finalmente il Generate Gerbaix de Sonnaz al 2° Collegio di Chiari, con voti 67 sopra 468 elettori e l'Avvocato Cariili in quello di Piacenza, in cui raccolse voti 68 sopra 1213 elettori iscritti sulle liste. Dopo tutto ciò fate ragione se i nostri deputati rappresentino l'Italia.

7. Il Senato del regno discusse la proposta di legge per le prossime annessioni degli Stati Pontificii e del regno delle Due Sicilie, nella tornata del 16 Ottobre. E qui finalmente si udì una voce in difesa del diritto, della società e del Cattolicismo, e fu la voce del marchese Brignole Sale, il solo che avesse il coraggio di dire pubblicamente ciò che i più sentono nel loro cuore. Voi troverete il discorso del senatore Brignole riferito per intero nell’Armonia. È un documento storico che merita d' essere trasmesso alla posterità. I ministri Cassinis e Cavour risposero che il marchese Brignole avea idee antiche sul diritto, sul lecito, e sull'onesto, come se la giustizia non fosse di tutti i tempi. Molti Senatori parlarono in favore della legge, Gioja, Montanari, Marzuechi, Gori, Massimo d' Azeglio; ma le ragioni trionfanti arrecate dal marchese Brignole restarono affatto senza risposta. In ultimo il Senato approvò la legge con 84 voti contro 12. E qui domanderete nuovamente, come mai un corpo così rispettabile può sancire con tanta maggioranza di voti una proposta sacrilega, e così empiamente rivoluzionaria? Ed io vi risponderò, che se i deputati sono eletti da una minima frazione del paese, i Senatori vengono nominati dal conte di Cavour, il quale ne fa la cerna tra i suoi amicissimi. Nel 1848 Carlo Alberto nominava Senatori gli uomini più ragguardevoli dello Stato, senza badare alle loro opinioni politiche, e a questa lodevole imparzialità noi dobbiamo la nomina a Senatori dei Collegno, dei Latour, degli Arcivescovi di Ciamberi e di Vercelli, e dello stesso marchese Brignole. Ma il conte di Cavour procede altrimenti, e non entra in Senato chi prima non gli diè prova della più servile obbedienza.

8. Il nostro Re è partito da Torino, e dove sia non sappiamo. Ciò che sappiamo si è che prima di partire ha detto e ridetto in dialetto piemontese: a forza di chiamarmi Re galantuomo m'obbligano a fare cose da Re b... Volendosi incorporare nel nostro esercito i prigionieri di guerra Napoletani che stavano in Genova, questi si ammutinarono, e convenne ridurli alla ragione colle baionette. Essi dicevano di non voler servire il Piemonte, protestando fedeltà fino alla morte al loro legittimo Re Francesco II. L'Armonia ha ripigliato con sempre maggiore alacrità il danaro di S. Pietro, e raccoglie quotidianamente importantissime somme.







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