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"Saggio sulla quistione napoletana" di autore anonimo, ma bene informato - probabilmente un esule "pentito" - è uno di quei testi che i nostri ragazzi (e anche i nostri cattedratici) dovrebbero leggere. Mi diceva un amico a cui postavo alcune parti via internet "Ma sei sicuro che sia del 1862?" E' impressionante il trovarsi di fronte ai guasti causati in poco più di un anno e mezzo di luogotenenze piemontesi sia a Napoli che in Sicilia.

L'autore non si lascia andare a invettive gratuite ma espone la situazione dell'ex-regno così come essa veniva rappresentata sui giornali dell'epoca.

A proposito di stampa, studiando la pubblicistica di questi anni abbiamo notato che tra il 1860 e il 1863 il dibattito sulla questione napoletana fu aspro e diffuso. Poi, con la Legge Pica e le circolari ai prefetti in cui si invitava ad attenzionare gli organi di informazione che mettevano in pericolo l'unità della patria, il dibattito si attenuò fino a trasformarsi nella lamentazione meridionalistica, rimasta poi immutata fino ai giorni nostri.

Leggiamo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 19 ottobre 2009, a firma di Marisa Ingrosso:

"I nostri ragazzi studiano cosa accadde nel 1864 dall'altra parte dell'Oceano. Conoscono i Sioux e il Generale Custer. Ma, spesso, non sanno cosa è successo quell'anno nel loro Paese, magari proprio nella loro città. Alle volte non trovano una parola, manco una, sulla guerra fratricida che si combattè nel Mezzogiorno. Non sanno «chi» erano i briganti, oppure sanno che erano una manica di criminali depravati. Ai giovani meridionali stiamo insegnando che i loro avi erano i «cattivi», pur sapendo che tutto è dannatamente più complicato."

Zenone di Elea, Ottobre 2009

SAGGIO
SULLA QUISTIONE NAPOLETANA
CONSIDERATA
DALLA STAMPA RIVOLUZIONARIA

1862

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Parte prima

1. Perché possa apprezzarsi nel suo giusto valore questo «Saggio sulla quistione napoletana considerata dalla stampa rivoluzionaria» è d'uopo meditare per un momento su le dolorose condizioni, in cui versa quel regno.

Torino (discreta città inferiore ad uno de' 12 rioni, in cui è divisa la metropoli partenopea) che col suo ex regno di Sardegna aveva solo 4 milioni di abitanti, ha ingoiato il Reame delle due Sicilie, che ne conta dieci milioni.

Napoli è divenuta diffinitivamente unaprovincia di Torino: distrutta la sua autonomia, si è abolita anche la luogotenenza, per tórre di mezzo perfino la memoria di un regno separato; avvenimento inaspettato, e non credibile dallo stesso ristretto partito degliunitarii, meno coloro, che sono venduti anima e corpo alla rivoluzione.

Oggi le illusioni si sono dileguate; le speranze perdute; e la verità confessata da tutti, di essere, cioè, universale l'abborrimento per gli annessionisti piemontesi.

2. Napoli ricorda in questo momento di sventura più che mai, con superbia e dolore insieme, gli otto secoli

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di monarchia scomparsi, in una con l'elette figure storiche di Ruggiero, e di Carlo III innanzi all'usurpatore Savoiardo: ricorda le glorie, i monumenti, la incomparabile legislazione della patria di Vico, e di Genovesi divenuta, più cheancella, schiava di altra provincia: ricorda, che non vi era altro Stato in Italia paragonabile al suo; e che si poteva rinunziare a viste d'ingrandimento, ma alla perdita della sua esistenza non mai: ricorda come ella fosse culla di sapienza, e di civiltà; e come le leggi venissero rafforzate; ristorati i buoni studii; premiate e promosse le arti; le città rabbellite; l'agricoltura, e la pastorizia, i traffici ed i commerci per mille modi incorraggiati; aperte nuove e comode strade da per tutto; fatte liete di ponti, di pubblici edifizi, di porti e di fari le ridenti coste del regno; da pestifere esalazioni sanificate vastissime terre; creato un esercito per disciplina, valor militare, ed arti guerresche a niuno secondo; formata una marina imponente; tolti 45 milioni di debito pubblico, e pel credito superlativo elevato il corso delle sue rendite nelle negoziazioni di Borsa a cifre superiori; la finanza floridissima, ed incomparabile per la sua semplicità, essendole ignote le imposte straniere su le bevande, su le successioni, le tasse personali, su le arti, su i mestieri, su la luce, su i mobili, su i domestici, su gli animali ed altro; raggianti di prosperità e di agiatezza le accresciute popolazioni; benefica, ed accessibile a tutti l'Autorità Reale; l'amministrazione forte, e provvida; migliorata la istruzione popolare; innumerevoli e grandi opere pubbliche compiute; vivificato il culto religioso, e la morale; dato vasto sviluppo ad ogni maniera d'industrie; la miseria quasi sparita; l'ingegno tenuto in onore, e la gioventù non trepidante del suo avvenire;

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infino a che malvagi destini ed intemperanti passioni non si frapposero come di ostacolo al glorioso cammino di tanta e sì bella civiltà! (1).

3. I siciliani specialmente ricordano i benefizii della Casa de' Borboni, massime quelli degli ultimi anni (2); e come la civiltà di quelle contrade si trovasse avvanzata per le cure degli Augusti Predecessori, per quanto lo potevano consentire le speciali condizioni di una isola scarseggiante di abitatori: e per lo passato poco accessibile in taluni punti, e priva d'interne comunicazioni (3), sguarnita di poeti sufficienti, travagliata da' mali della feudalità, se fulminata dalle leggi, non però estinta col fatto; pure men che nulla apparve agli occhi dei due ultimi Sovrani cotal civiltà, se guardisi per poco a' beni, che non si stancavano profondere a larga mano; agli sforzi per ridonare alla Trinacria lo splendore vetusto, ed al desiderio di non farle invidiare la floridezza de' cisfarani dominii (4).

E per la dimostrazione di un vero, cui è difficile opporsi, è rimarchevole, che non s'intendeva essere per la Sicilia civilizzatore men caldo ed operoso di quello che si era per Napoli; che però guardando le due Sicilie come se non fossero divise dal breve mare, si voleva in entrambe comunanza di civiltà, e di leggi; connessione di beneficii e di affetti, sino a non far desiderare all'isola non in tutto provetta nella civile coltura, le delizie in che si beava la più adulta sorella del continente.

Chi ne ha talento venga a negare, se la coscienza gliel consenta, il movimento impresso in Sicilia dal 1837 alle pubbliche opere, le molte strade già messe in comunicazione, quelle prossime a compiersi, e le cominciate;

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dica, se dal 1810 con ispendersi milioni siasi tanto operato come nella seconda epoca? E tutto ciò vincendosi la ritrosia dei proprietari a cedere i terreni da occuparsi, a frenar le gare municipali ed i molti indiretti impedimenti suscitati per paralizzarci lavori. I fatti che feriscono i sensi non possono rivocarsi in dubbio; e il convincimento figlio della verità è tale e siffattamente positivo, che gli stessi oppositori devono mendicar parole per asserire il contrario. Il forte impulso dato alle opere pubbliche spinse ciascun comune ed anche villaggio a domandare traverse per proprio conto: laudevole desiderio eminentemente cittadino; ma per contentare tante brame opposte e diverse non poteva il governo sollecitamente accorrervi; faceva mestieri esaminar prima Futilità dell'inchiesta, studiar la natura e i bisogni delle contrade, e trovar modo da evitare una di quelle confusioni che sogliono fruttare discordie e rancori, anche sotto le sembianze del bene; e quindi di ogni ritardo si dava colpa a volontà negativa, a talento di appesantire sulla popolazione di Sicilia e di opporsi alla prosperità di essa!

Siccome ragion volea, non potevano progettarsi traverse senza l'indicazione dei fondi proprii, perocché essendo Futilità dell'opera d'interesse dei. Comuni richiedenti, vi si dovea accorrere con fondi rispettivi; ma non trovandosi tutti con somme disponibili faceva d'uopo ricorrere ad imposte; al quale espediente il governo del Re non era sì facile a consentire, se non quando i voti decurionalispessamente ripetuti, le più severe indagini e gl'impulsi dei Consigli distrettuali e provinciali, e le tante inchieste, rendevano quasi impossibile il non cedere ed approvare.

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Eppure alcuni fra i feudatarii e possessori di estese proprietà, che certamente vantaggiavano con la costruzione delle strade, mercé un temporaneo e lieve pagamento, rispondevano con sarcasmi ed ingiurie, tacciando di oppressione! Ed in tal guisa il Principe trovavasi nell'un caso o nell'altro in penosa alternativa, perocché se ritardava l'approvazione delle nuove strade proposte, un grido di accusa tosto levavasi di volersi paralizzare il commercio, ammiserir la Sicilia, distruggere la nascente prosperità: se poi si approvava senz'altro elasso di tempo che quello necessario alle consuete liturgie amministrative, si gridava all'oppressione, all'annichilamento dell'agricoltura, alla distruzione della proprietà.

E per tacere di tutti gli altri benefizi che ha ricevuto dai due ultimi suoi Sovrani legittimi, accenneremo brevemente alle cose feudali, le quali a dir vero non erano per lo innanzi state soggette a niuna riforma di fatto! Non mancarono i predecessori de' re Ferdinando II e Francesco II. di andar prescrivendo colà di tempo in tempo la cessazione di ogni abuso ed angaria, e lo scioglimento della promiscuità, ma ostacoli non ordinar! si erano frapposti da parte dei baroni; e basterebbe ricordare soltanto eh'essi nel secolo passato fecero innalzare una statua all'avvocato Carlo di Napoli 'nel palazzo Senatorio per aver egli difeso le loro ragioni, quando il Comune di Sorti no volle riscattarsi e rientrare nel demanio, sostenendo che Ruggiero, conquistato ch'ebbe la Sicilia, la divise in tante Baronie tra i suoi militi, e per ragione di conquista ebbero questi il diritto di condominio, guaranlito poscia dal terzo Federico, e dal parlamento siracusano. Cominciò il viceré Caracciolo a restringere la feudalità, e non ostante le segrete mene

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dei baroni, molti abusi vennero tolti, ed emessi vari provvedimenti, mercé, dei quali la feudalità era richiamata ai veri principi. Eppure gli abusi non cessarono che in parte. Intanto il governo dette fuori altri provvedimenti circa la promiscuità e la censuazione delle terre, ma pochi Comuni soltanto ne sentirono i vantaggi, malgrado la solerzia dei magistrati siciliani nel secondare il governo al conseguimento dello scopo cui mirava.

Per tal guisa le utili riforme dinanzi esposte rimasero stazionarie, e per la guerra che apertamente o in segreto facevano i baroni ed i loro agenti, e per le condizioni politiche dell'Italia, fino al 1812, in cui dal parlamento, col consenso del Re, e di una parte degli stessi baroni, i cui nomi furono consacrati dalla storia, si dichiarò abolita la feudalità. Tale abolizione avvenne però più nel diritto che nel fatto, né i decreti di conferma degli 11 decembre 1816, ed 11 ottobre 1817 produssero più felici risultamenti, né quello altresì degli 11 settembre 1825. Lunga e noiosa sarebbe la narrazione degli ostacoli frapposti. Continuarono dunque, e, ad onor del vero, non totalmente gli abusi feudali, e tante volte senza saputa del feudatario, ma ciò non di meno le popolazioni erano oppresse, pativano tutto il peso degli indebiti aggravi. Le quali cose osservava re Ferdinando II nell'anno 1838. Né si rimase spettatore indifferente, avvegnaché nel 19 dicembre di quell'anno emanava il memorando decreto dello scioglimento della promiscuità, e della divisione delle terre demaniali appartenenti ai già feudatari, o ai corpi morali, sulle quali i cittadini avessero esercitati gli usi civici; ordinando di suddividersi in quote fra' più poveri, la parte che in

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compenso di tali usi spetterebbe ai comuni; e dava Egli stesso il nobile esempio di obbedire alle leggi.

Ed è però che portiamo speranza che quando al bollore delle passioni succederà la calma, quando innanti alla luce della verità spariranno le illusioni, che sono già sparite, ed i fautori di politiche perturbazioni in Sicilia consulteranno tranquilli la storia' dei fatti e scenderanno in fondo delle loro coscienze, le ammende e le ritrattazioni, se non pubbliche, almeno segrete succederanno all'audacia ed alla ostinatezza, e serviranno come di scuola salutare all'avvenire.

4. A fronte di tutte queste glorie patrie, di tanti vantaggi e di tante realità, Napoli in atto sente il frastuono di un accozzaglia di stranieri, che si respingono per ogni verso, e fondano il loro potere sul terrore e su le baionette: in ciò. vede l'opera forzata della conquista, non l'opera sapiente di Dio: vede la iniquità del fatto, e non la giustizia del diritto. Quale riunione può esservi tra popoli, che son refrattari l'uno per 1'altro, attesa la loro configurazione topografica! Dal capo Spartivento a Torino tramezzano cinquecento miglia; e però si rifugge dalla sola idea di sì lunga distanza per le transazioni economiche, di cui ogni città capitale è il naturale emporio.

Napoli, che vede annullati i suoi interessi politici, morali, e religiosi, ricorda le ragioni, che facevano dire al Guicciardini in quanto alla Italia intera «non essere stata mai questa una provincia facile a ridursi sotto un impero; e che una monarchia le sarebbe stata più infelice, che felice». L'assenza della corte, dell'alto ceto aristocratico, della diplomazia, del ministero, de' primi ordini dello Stato, de' tribunali supremi, delle amministrazioni centrali,

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degli uomini i più distinti nelle professioni, nelle arti, nelle industrie, nel commercio, hanno lasciato tale un vuoto, di cui il solo pensiero spaventa.

5. Fin da' suoi tempi deplorava Io storico Vincenzo Coco, che il regno di Napoli aveva la disgrazia «di essere stato vilipeso, perché non conosciuto: gli spagnuoli lo conobbero, e lo temerono: solo il monarca e Federico II. lo conosceva, e lo amava(Saggio Storico, pag.41nota 2. a).

Un chiarissimo scrittore conterraneo di coloro, che ora sgovernano quelle classiche contrade meridionali, scriveva di esse il più lusinghiero elogio quando diceva «la filosofia madre delle idee, nudrice del pensiero, cima dell'ingegno, ed ispiratrice di virtù civili, e tra le idee quelle di plebe, e di nazione, su cui si aggira il nostro incivilimento,nacquero, ecrebbero (nel regno di Napoli) in quel paese privilegiato dalla natura e dal cielo di grandezze e di dolori, a cui gli antichi davano il nome diMagna Grecia, e che gli stranieri de' di nostri chiamanola patria del Vico» (Gioberti, Rinnovamento tom.1.pag,285.)

Enumerando le prische grandezze morali, civili, e politiche di Napoli, di quel centro armonico, cui tutte le circostanti regioni convergono, non si può fare a meno di accennare, che egli già godeva fin dal volgere del decorso secolo XVIII di un progressivo, immegliamento negli ordini civili, altrove non per anco iniziato, e che invano vorrebbesi ora negargli per attribuirne il merito alle leggi importatevi nella decennale occupazione francese. È verità storica incontrastabile, esser quivi stato ne' primordi del citato secolo un movimento notabile nel diritto, nella giurisprudenza, e nelle scienze politiche.

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Il governo sentiva e provvedeva rigorosamente a' bisogni dell'epoca, immegliando l'amministrazione della giustizia penale, (cui preludevano le opere del Filangieri, e del Pagano): ordinava la pubblicità delle ipoteche, la motivazione alle sentenze giudiziarie, la distruzione de' privilegi, lo affrancamento de' comoni, e la restrizione dell'autorità baronale; la riabilitazione delle rovinate condizioni finanziere; determinava ne' giusti limiti le imposizioni ordinarie, mercé nuovoCatasto; aboliva gli straordinari balzelli, compresi nella storia sotto il titolo didonativi; riformava la procedura civile con metodo più semplice e ragionevole; completava la separazione del diritto ecclesiastico dal civile; sanciva le norme su gli acquisti de' Corpi morali(mani morte), e disponeva un nuovo Codice per la unificazione delle varie leggi, statuti, e consuetudini del reame (5). Ma gli eventi sovversivi del 1799 colpirono di paralisi quelle progressive riforme; ed infatti, quando i francesi invasero il regno non lo trovarono impreparato; anzi col pubblicarvi le loro leggi, altro non fecero, che presentare il compimento de' vantaggi già pregustati dal popolo napoletano per cura del suo proprio governo. Né fia da omettersi, che vari de' nuovi provvedimenti introdotti dallo straniero occupatore ripugnavano alle avite tradizioni del reame, come per esempio la distruzione degli antichi parlamenti comunali popolari, e la sostituzione de' decurionati. Così si spiega che la nuova legislazione nel suo complesso, e tutto controbilancialo, riusciva omogenea alla indole, ed a' bisogni del regno, tanto che quello importante e radicale mutamento sembrò attuarsi senza scosse, e il novello regime parve connaturarsegli cosi presto.

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Fra le sapienti misure governative non è da tacersi quella di. aver fatti edificare in quasi tutti i comuni del regno, ed anche ne' più piccoli, i campisanti per la inumazione, e tumulazione de' cadaveri fuori l'abitato. Codesta utile istituzione reclamata dalla civiltà e dalla pubblica igiene, era stata ordinata con leggi, e con reiterati impulsi ma perché osteggiala da' pregiudizi, vani erano riusciti gli sforzi per vederla attuata. Il governo però cogliendo il destro della colerica invasione poté mandarla ad effetto; e con ciò Napoli ebbesi il comodo di una necropoli, che è pure uno de' più decorosi ornamenti, ed una monumentale collezione de' capi d'opera di scultura, e d'architettura..

6. Ora Napoli venendo trattato da paese conquistato intende i deplorabili effetti delloammortizzamento d'ogni moto e di ogni vitalità. Napoli inorridisce e freme nel vedere distrutti i suoi usi, i suoi costumi, le sue pie tradizioni: un popolo frenetico pe' suoi principii religiosi non può soffrire coloro, che irridono a' suoi santi, alle sacre immagini da lui venerale, al suo culto, alle devote sue feste. Napoli maledice l'apostata Gavazzi, (6) che ha la missione di distruggere la religione de' suoi padri per intronizzarvi il protestantesimo, o per dir meglio l'ateismo. Napoli freme nel vedere i suoi Vescovi, i suoi sacerdoti avviliti, e fatti segno delle più crude persecuzioni, freme nel vedere le accademie, le piazze, e fino le Chiese divenute gladiatoria arena, e sacrilega tribuna per imprecare contro il Papato, ed i suoi sacri diritti: nel doloroso elenco de' cardinali degli arcivescovi, e vescovi che trovansi carcerali, esuli, o raminghi, si annoverano, gli Emi Cardinali Arcivescovi di Napoli, e di Benevento: - Gli Arcivescovi di Bari, -

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di Cassano, di Matera, - di Manfredonia, - di Salerno, - di Sorrento, - di Trani: i Vescovi di Andria - di Aquila - di Avellino - di A versa - di Acerra - di Bitonto - di Bovino - di Castellammare - di Castellaneta - di Cajazzo - di Caserta - di Cerreto - di Termoli - di Foggia - d'Ischia - di Lecce '- di Muro - di Noia - di Oria - di Terarao - di Tursi - di Sessa - di Villa Capaccio - l'Abate Ordinario di Montevergine - ed i Vescovi in partibus Spilotros, Salzano, Carbonelli, ed Alanasio.

Eppure Macchiavelli ne' suoiDiscorsi lib.1.cap. XII. aveva avvertito «i principi, e le repubbliche, che vogliono mantenersi incorrotte, hannosopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle sempre nella loro venerazione, perché niuno maggiore indizio si può avere dellarovina di una provincia, che vedere dispregiato il culto divino». Il Vico aveva insegnato, che la religione è laprincipale base delle repubbliche, e che «nazione di fatisti, casisti, ed atei non fu mai al mondo» avendo dileggiato il Bayle, che pretese potersi dare Stati senza religione. I moderni mestatori adunque, che fino alla nausea citano sempre Macchiavelli, e Vico, o non li hanno mai letti, o scherniscono in realtà i loro migliori avvisi.

Napoli inorridisce allo spettacolo di libri, di scritti, e di figure oscene, da ripugnare agli occhi anche di coloro, che sono i più indurili nel vizio. Raccapriccia nel vedere i teatri ridotti una scuola d'immoralità così smodata da scuotersene lo stesso Ricasoli, che da Torino ne faceva rimostranze alla luogotenenza napoletana. È costernalo nel vedere le amministrazioni pubbliche nel più completo abbandono, ghermite da' felici favoriti del nepotismo,

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avidi solo del denaro, che fruttano gl'impieghi, ma incapaci spesso a sostenerli. Inorridisce nel vedere decretate le (istituzioni ed i ritiri d'impiegati probi ed intelligenti, che non potendo certamente ostacolare la unità italica, avrebbero saputo ben dirigere la cosa pubblica: né solo vede gli eminenti impieghi occupati esclusivamente da piemontesi; ma finanche licenziati tutti gli operai napolitani dagli arsenali, dagli opifici nazionali, da' cantieri, e da altri siti di pubblici lavori, e surrogati da que' di Torino; quasicchè vi fosse stato bisogno di questi nella più popolosa ed importante città d'Italia, che ha primeggiato sempre per la perfezione nelle scienze e nelle arti; conseguentemente cresciuta la miseria nelle classi operaie per mancanza di lavoro. Inorridisce nel vedere l'erario esausto e smunto vandalicamente, da non poter essere più riempiuto ad onta del prestito di 500 milioni (pari in realtà a 714 milioni), ad onta de' prestiti parziali di ciascun municipio, e di aver pegnorati i fondi pubblici al 37 per cento, ignominiosa risorsa per vivere alla giornata...

Inorridisce nel vedere i fondi pubblici della rendita del Gran Libro dall'alto corso de' passati anni (120 per ogni 5 ducati di rendita) ora al 69, trovandosi rarissimi compratori, mentre colle confische de' patrimoni privati della Reale Famiglia e di quelli delle Chiese, e de' Luoghi Pii, il rialzamento avrebbe dovuto essere sensibile. Inorridisce pel caro de' viveri, e per la letale incuria de' nuovi funzionari; e nel vedere che niun giovamento ha prodotto, né saprà produrre il primo parlamento italiano.

Inorridisce nel sentire lafusione de' debiti pubblici, con che dieci milioni di abitanti del napoletano,


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che a' tempi della loro autonomia aveano il mite debito pubblico di 550 milioni di lire, vengono ora ad accollarsiY enorme peso di oltre i mille milioni di debito de' 4 milioni d' abitanti subalpini, gl'inesauribili disavanzi dei loro bilanci, le accresciute imposte; pagando pure così i debiti fatti dal Piemonte per corrompere, e comprare la rovina del florido reame delle due Sicilie. Né il Piemonte si sazia delle enormi tasse; ma vuole benanche che sorridano gli oppressi, e faccian plausi, e luminarie, e cantino inni ambrogiani a quel Dio, le cui sante leggi tutto dì calpestano, in quelle Chiese, che profanano, e spogliano de' loro beni; e che si cantino da que' sacerdoti che imprigionano, e perseguitano; da que' claustrali, che discacciano da' loro conventi, e le cui proprietà confiscano; e da quelle caste Vergini consagrate al Signore, che espellono violentemente da' chiostri, riducono alla miseria, e fan morire d' inedia., appropriandosene i poderi, che sono l'aggregato delle rispettive domestiche dotazioni.

Inorridisce per la nefanda guerra civile, che insanguina tuttodì le sue fertili contrade, tolte alle pacifiche colture, mentre armi, che diconsi italiane, compiono negli usurpati paesi una delle più atroci missioni di sangue.; e mentre la menzogna comanda co' pugnali il silenzio degli oppressi. Inorridisce da ultimo nel vedere la stampa fatta libera per aggredire e rovesciare la religione e la morale, non per difenderle, per rapire all'onestà i capitali della stima e del pudore, non per garantirli, e nel vedere l'industria annullata, la miseria crescente, la ricchezza decaduta; esaurite le copiose sorgenti della fortuna pubblica; i tanti milioni dello erario dello Stato divorati o gittati a spreco; il credito annientato;

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la circolazione de' capitali spenta; vuoti i banchi, l'agricoltura languente e deserta; il commercio prostrato; le proprietà insicure dalle mani rapaci del ladro e da quelle avidissime ed inesorabili del governo; una voragine di debiti innanti, un cumulo enorme di avanìe su le spalle de' possessori, de' produttori, de' consumatori; sempre in aumento i bisogni pubblici, e sempre scarsi i mezzi a sopperirvi; i delitti cresciuti d'enormità e di numero; non più le grandi imprese; non più lo slancio dell'ingegno e della speculazione tra il furore delle civiche contese. Ecco in compendio la ipotiposi troppo veridica dello stato attuale di Napoli!

7. A volere svolgere un poco più largamente alcuni dei punti, toccati fin qui di volo soltanto; flagrante è l'abisso delle finanze della nuova Italia sconvolta dal Piemonte. Nel 13 aprile 1861 il ministero presentava al parlamento in Torino un sunto del bilancio del 1860, d'onde emerge undeficit di 400 milioni offìcialmente constatato; conseguenza del progressivo enorme disavanzo de' precedenti anni. Difatti, pagava il Piemonte nel 1848 meno di 80 milioni annui d'imposte; ed in soli dieci anni le vide aumentate a 137 milioni; nell'anno 1859 a 143 milioni, e nel susseguente 1860 a 159 milioni, comunque dal regno (ridotto a 4 milioni di abitanti) fossero state distaccale Savoja e Nizza cedute alla Francia. Vedesi adunque dalle cifre officiali, che in soli dodici anni dilibero governo, il Piemonte ha più che raddoppiate le imposte per la sognatafelicità de' popoli, a' quali vorrebbe far credere di essere stati mal governati da' ministri dell'assolutismo. Ma se l'aspetto di questi ultimi dodici anni è lugubre, molto più lo è l'avvenire: pel 1861 non vi è che la metà appena degl'introitipresuntivi sperati dalle nuove provincia annesse,

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per far fronte alle spese, che si elevano ad un bilione. Il presidente de' ministri Cavour prevedeva nella sessione del 1 luglio, che «continuando di questo passo il Piemonte sarebbe andato difilato al fallimento fra pochissimi anni». L'istesso giornalismo devoto al Piemonte non sa ora occultare gl'imminenti pericoli del fallimento, per cui si sfiata a raccomandare sempre ai nuovi cittadini italiani di pagare e pagare. Però la dilapidazione è malattia ereditaria ne' governi faziosi; ed è scandaloso in quale modo si spendano tanti milioni. Se u» privato si trovasse nello stato di possedere 10, e volesse spenderne 50, i tribunali sarebbero chiamali a provvederlo di un consulente giudiziario per infrenarne la stolta prodigalità. Intanto il governo di Torino non ha credito, i fondi pubblici scapitano alla giornata, ed egli crede riparare ricorrendo allaperequazione delle imposte, con che i paesi testé annessi vengono ad essere gravali delle 5 nuove tasse elevate, la fondiaria, la mobiliare, di registro, di manimorte, e su le bevande; imposte ignote ad essi sotto i governi, da' quali sono stati strappati: e cosi le due Sicilie, dove era mitissima ne' tempi andati la sola prima di dette tasse, ora trovansi quintuplicatamente aggravate. Per avere poi un esempio degli sproporzionati esiti basti osservare, che nella sola Sicilia ilpassivo è pel 1861 di 49 milioni e mezzo di franchi, mentre sotto i Borboni era di 43 milioni. Le spese di amministrazione in Sicilia risultano da cifre officiali come appresso:

Sotto i Borboni

  1. Luogotenente e sua rappresentanza

fr.

76,500

  1. Soldo ai Consiglieri della Luogotenenza

»

51,000

  1. Impiegati ne' dicasteri di Luogotenenza

»

222,513

  1. Spese variabili della Luogotenenza

»

75,505

  1. Intendenze provinciali

»

258,83

Totale

fr.

684,403

Sotto il Piemonte

Importo del N.1

fr.

165,750

detto del N.2

»

0,000

detto del N.3.

»

635,375

detto del N.4

»

153,000

detto del N.5

»

467,976

Totale

fr.

1,584,153

Differenza in più sotto il Piemonte

Al N.1. fr. 89,250-Al N.2. fr. 111,052 Al N.3. fr. 412,862. - Al N.4. fr. 77,435. - AI N.5. fr. 209,151. - Totale in più fr. 899,650.

Coll'aumento adunque di circa 900 mila franchi all'anno (più del doppio di prima) paga la Sicilia le spese di un governo, che permette l'assassinio in pieno meriggio per le vie; di tenersi da' ladri in ostaggio i proprietari finché non paghino un riscatto; ed a' proletari di attuare il comunismo a danno de' possidenti con colpi di fucile. £ questa sicurezza pubblica costa inoltre sei milioni di più, che sotto il passato governo! - Arrogesi, che lo studio comparativo de' bilanci del 1860, e 1861 offre elementi officiali incontrastabili a carico del regime piemontese nel regno di Napoli a confronto del caduto governo autonomico. Nel 1860, essendosi dovuto

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pagare, esercito, marina, lista civile, rappresentanza all'estero, le spese sommarono a ducali 16,202,625; mentre l'introito ascese a ducali 30,135,424. Nel 1861. si sono soppresse dai nuovi governi le cennate spese, e pure non si possono pagare gli altri esiti creati dalla rivoluzione. Per incuria imperdonabile, e per altre improntitudini facili a capirsi, l'introito è ora ridotto a ducati 22,048,659, mentre le spese si sono elevate a ducati 24,540,183, ciò che da un disavanzo enorme derivante dallo sconsigliato aumento d'impiegati, e di soldi; dallo accrescimento del debito pubblico, e dalle pensioni de' pubblici funzionarii messi al ritiro, per cedere ad altri i loro posti. Per la pubblica istruzione si sono elevate le spese a ducati 543,499.61; mentre sotto i Borboni procedendo in piena regola erano di ducati 378,442.92: ed ora malgrado l'aumento di ducati 165,056.69, si vede tuttodì peggiorare e deperire l'insegnamento; e quel ch'è peggio con irreparabile detrimento istillare nella gioventù le più dannate idee di, perdizione. Sicché il bilancio del 1861 è la più fedele, ed evidente espressione della politica, e dello spirito governativo de' reggitori subalpini.

8. Il quale disastroso precipizio delle piemontesi finanze ne' domini delle due Sicilie, porge il destro di ricordare, come i suoi apologisti di un tempo (ora muti a tanta rovina) stigmatizzavano sistematicamente le finanze del Governo napolitano, fino a chiamare il ministero di quel ramo «una grande officina di ladroneria, che avea lasciati a' popoli solo gli occhi per piangere» calunnia che con tutta verità potrebbe ora applicarsi agli attuali dominatori di que' desolati paesi; e come (a chiarimento storico) fia utile tener conto de' seguenti dati statistici:

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1.° Le turbolenze politiche del 1820 nelle due Sicilie aveano fatto ascendere il debito pubblico da un milione e mezzo di annuo interesse, a cinque milioni, centonovantamila ottocento cinquanta ducati; e nell'anno 1830 verificavasi il debito fluttuante di circa 4 milioni e mezzo, con altre deficienze sugli stati discussi de 'vari ministeri: con saggia economia superando pregiudizi, e sapendo vincere le più strane ed opposte accuse, si provvide a tutto non solo, ma si abolirono in parte le imposte, e si scemarono d'assai le altre contribuzioni, in modo da gravitare su le sole classi agiate, liberandone il proletario.

2.° Il positivo immegliamento delle napolitane finanze avveniva, traversandosi le serie crisi di due invasioni del morbocolera, de' ripetuti anni di scarsi ricolti di cereali; de' tremuoti nelle provincie di Calabria, e di Basilicata; ed eseguendosi opere pubbliche colossali, costruzioni di vapori marittimi, vie ferrate, bonificazione di estesi latifondi; eppure tutto ciò non ostante nella Tesoreria generale, e nelle casse erariali de' banchi riponevansi vistose somme di supero, che doveano poscia assorbirsi dal Piemonte. Ciò spiega, come il solo regno di Napoli poté colle proprie risorse far fronte alle serie conseguenze dei disordini del 1848, e fu il solo a far di meno della carta monetata, e de' prestiti rovinosi (7). E spiega altresì, come nella penuria de' ricolti di grano, il re Francesco II avesse potuto spedire i suoi navigli ne' porti esteri a comprar cereali per provvederne copiosamente, ed a prezzi minimi gli amati sudditi in ogni punto del reame; e da dati officiali risulta, che dal 22 luglio 1859 al 16 giugno 1860 entrarono tomola di grano 2,767,827: di grano d'india 244,898: di orzo 34,895: di avena 46,358: di riso cantaja 26,588,36: e cantaia 78,521,77 farine.

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Ma gl'incontentabili collaboratori dellaunificazione italiana, nei tempi della floridezza del reame pretendeano, che la patria era infelice, perché non governata da essi, senza di cui non potea esservi prosperità vera, e senza la loro luce le tenebre non si sarebbero diradate; addebitando come enorme torto del governo di non servirsi delle loro mani. Né queste sono rimaste inoperose nell'esilio; che mediante le cospirazioni, ed i tradimenti hanno compiuto l'esiziale mandato di abbattere i troni, che, come quello di Napoli, mantenevano dignitosa' mente la propria indipendenza, ed hanno afferrato il potere, nello esercizio de' cui atti han dato proove di servilità e d'incapacità massime, mettendo in chiaro tali vizi, da produrre la difesa parlante de' passati governi da essi cotanto minati, e calunniati.

9. Ed è nel mezzo di queste sventure, che Napoli passa a rassegna il lungo treno delle sue vicissitudini; e vede come era necessità negli uomini venduti alla rivoluzione di falsare le cose per negare ogni qualunque autorità governativa, e predicare sopra tutto la distruzione de' troni. Essi erano e sono quelli stessi, che oggi innalzano a cielo Pellegrino Rossi, e domani tinti del suo sangue proclamano Mazzini. Intende le ragioni delle asserzioni le più gratuite per quanto astiose, e le supposizioni le più assurde, che erano quelle di attirare sul governo napoletano le maledizioni de) mondo. Ora intende Io scopo della stampa rivoluzionaria protetta, incoraggiala, e diremo prezzolata da lord Palmerston, che è stato sempre riguardato come il corifeo de' primi rivoltosi di Europa; di quel Palmerston, che vantava d'intervenire dovunque la indipendenza,

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e la libertà de' popoli fossero in pericolo, protestando, promettendo, minacciando, agitandosi, riempiendo gli animi di ardore, alimentando i cuori con la speranza; volendo far valere il sovversivo principio, che ne' popoli sta il diritto dulie congiure, e delle rivolte, ed a' governi il divieto d'impedirle, di punirle, e reprimerle; e chesconvolgimento di società sia l'equipollente dirigenerazione: - perverse teoriche di cui sventuratamente si è fatta l'applicazione nel reame napolitano, per la cui indipendenza e dignità un Sovrano trincerato nellaforza del suo diritto, ed abborrendo daldiritto della forza, aveva saputo resistere ad ogni indecorosa esigenza straniera, ed era perciò odiato dalla fazione. Né questa ha cessato di minare anche il trono del suo successore, benché a togliere ogni malinteso abbia voluto finanche mostrarsi propenso a' consigli della diplomazia britannica. Ma chi valuta per virtù ed eroismo, il delitto, la fellonia, e il tradimento, ed intende fare dell'Italia una vera India europea, non può essere l'amico sincero della libertà e prosperità de' popoli delle due Sicilie. D'onde il lungo studio per denigrarne il governo, e la necessità di far pubblicare le celebri lettere del Gladstone, di lui che vedeva nelle prigioni di Napoli «nuovi tormenti, e nuovi tormentati» e che vantava sapere d'essersi incarcerati uomini a ventine, a centinaia, ed anche a migliaia (come effettivamente si pratica ora colà dalla fazione trionfante) facendone ascendere il numero fino a 30 mila. Forsi ingannato dagl'ipocriti omei de' detenuti politici, giunse finanche ad asserire, che lasetta della unità italiana era una fola, una insussistente fantasticheria. Or che avrà detto il nobile lord nel vedere

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tantiunitarii menar vanto di essere gli stessi detenuti, perciò condannati da' tribunali napolitani, ed allora protestantisi innocenti fino ad infamare il governo come tirannico, i giudici come manigoldi, i testimoni come spergiuri, i soldati come sicarii. Ecco la evidente spiegazione del perché i faziosi appellano sempre tirannide la difesa che ogni governo legittimo è nel dovere di fare contro le loro trame, le quali quando riescono a trionfare, allora essi centuplicano le effettive tirannie, ed insanamente feroci vi aggiungono a migliaja le fucilazioni, gli arresti, gli esilii, ed ogni specie di vendetta, e di persecuzione contro i liberi propugnatori del diritto; cosicché calpestano ogni legge, ed anche le stesse loro leggi; gridano libertà, ed uccidono ogni libertà.

10. Ma i libelli epistolari Gladstoniani furono una fortuna pel governo di Napoli; perciocché nella stessa Inghilterra sorgevano eminenti pubblicisti a combattere le bugiarde accuse ivi contenute, e la stampa periodica di tutta Europa, meno quella venduta al partito ultraradicale, scese in campo per mostrare con documenti (3), che le assertive di quelle tali lettere fondavansi unicamente su la calunnia, e su l'intrigo; la prima arma sistematica del partito che cercava per tutte le vie di commuovere la pubblica opinione; del secondo si valeva per giungere subito allo scopo costante delle sue mire. Né più solenne smentita poteva darglisi, come ora si è verificato, mercé la pubblica dichiarazione di uno della stessa consorteria (il sig. Petruccelli della Gattina), il quale assicura «e che Carlo Poerio, il protagonista del romanzo epistolare Gladstoniano era una invenzione convenzionale della stampa rivoluzionaria, la quale aveva bisogno di presentare ogni mattina a' creduli leggitori

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della libera Europa una vittima vivente, palpitante, visibile, d'onde lo ideale mito di Poerio, trascelto all'uopo, perché barone, d'ingegno, già ministro del Re Ferdinando, e deputato; in somma l'uomo opportuno per farne l'antitesi di Ferdinando ed il miracolo fu fatto»: e dopo altre rivelazioni, il Petruccelli conchiude sghignazzando, da che «il Poerio reale abbia ora preso sul serio il Poerio fabbricato dalla rivoluzione nel corso di dodici anni in articoli a 15 centesimi la linea; avendolo anche preso sul serio coloro che lessero di lui senza conoscerlo d'appresso, e quella parte della stampa, che si era fatta complice della rivoluzione». Che fosse poi pur troppo una commedia quella che allora fu rappresentata, si rende manifesto ogni dì più, avvegnacché né un Palmerston, né un Gladston sorgono in alto a difendere i manomessi diritti della umanità; anzi nella camera de' comuni in Londra ai 2 del passato agosto 1861, su le interpellanze del deputato sir Bowyer, che fattosi organo della pubblica opinione, e de' più accreditati diarii inglesi, non escluso lo stessoTimes, chiedeva conto delle atrocità commesse in Napoli da' piemontesi ivi abborriti in modo «che se si avesse a ripetere quel tale plebiscito universalmente ritenuto come impostura, sarebbe risultato contrarissimo», il prefato lord Palmerston rispondeva unicamente, «operar benissimo Piacili, e Cialdini contraccambiando con colpi di fucile le aspirazioni di un popolo, che da secoli ha un Re, un esistenza propria, un esercito; e che valorosamente con proteste cruente, validissime più di qualunque suffragio universale, si oppone agli invasori». Per fortuna però dell'umanità i sentimenti della generosa razza anglosassone sono


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ben diversi dalle eccentricitàpalmerstoniche, alle quali manca il precipuo fondamento, cioè la pubblica opinione, che possa aggiustargli fede.

11. Napoli, noi dicevamo, è presa da indignazione nel vedere messe allo scoverto tutte le arti della rivoluzione, che ha importata la perdita della sua nobile esistenza. E però richiama al pensiero, come gli uomini della fazione servissero allearmi diplomatiche, onde quel reame si rassegnasse all'onore di divenire una provincia di Torino. Richiama al pensiero la morale, e la probità del ministro sardo marchese Pés di Villamarina, la cui missione presso la Real Corte di Napoli era ben altra, di quella che si conveniva al diplomatico di una potenza asserentesi amica. Oltre alle sue spontanee testimonianze, già appartiene alla storia il documento del reclamo al parlamento di Torino pe' decreti emanati dal ministero di guerra circa la fusione dello esercito napolitano nel piemontese; dal quale documento si desume con quali arti il Villamarina eccitasse i sudditi napoletani a coadiuvare la sua missione, distruggere, cioè, la monarchia delle due Sicilie per infeudarla al Piemonte. Ed era in sua casa, dove si beava delle ovazioni, tributategli da' comitati rivoluzionari, che s'inspiravano le lettere del conte di Siracusa pubblicate ne' giornali molto prima che fossero giunte al loro indirizzo. E se per fatti cotanto notorii abbisognassero ulteriori pruove, se ne avrebbe una massima nella esplicita confessione, che il presidente de' ministri conte Cavour faceva nelle Camere di Torino a' 27 marzo del volgente anno 1861 «di aver egli non solo cospirato nel corso degli ultimi avvenimenti di Napoli; ma di cospirare da ben dodici anni». Significante locuzione,

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che espressa da tale scaltra lingua, fa ritenere essere stato prescelto il Villamarina come il più adatto per secondarlo all'uopo; e del pari giustifica la primiera ritrosia del governo di Napoli ad accordare le tanto decantate riforme che niuno chiedeva, e sotto il cui pretesto si celavano le inqualificabili mene del diplomatico sardo (9).12. Appartengono parimenti alla storia i documenti del gabinetto del conte Cavour, d' onde emerge come egli avesse aiutata in segreto la spedizione del Garibaldi in Sicilia, mentre la ripudiava nella gazzetta officiale e nelle note diplomatiche; e poi dopo pochi altri giorni faceva scrivere nel proclama de' 9 ottobre 1860 al suo sovrano così: «stavasi combattendo in Sicilia per la libertà, quando un prode guerriero devoto all'Italia ed a me, il generale Garibaldi, accorreva in suo soccorso: essi erano italiani; non potevo dunque, non dovevo ritenerlo». E qui cade opportuna la riflessione del Nettement: «Vi sono Sovrani che rendono difficile il rispetto. Quando si vede il re Vittorio Emmanuele far pubblicare in fronte al suo giornale officiale il 18 maggio 1860, la nota nella quale disapprova la partenza di Garibaldi per Sicilia, e dopo pochi mesi appropriarsela colle parole(di sopra trascritte) nel proclama de' 9 ottobre, è impossibile di non sentirsi sollevare la coscienza contro questa audace violazione «della umana parola, la quale dovrebbe essere più sacra nella bocca di un Re, che in qualsiasi altra bocca; contro questa smentita, data dal re Vittorio Emmanuele alle sue proteste al diritto delle genti» (Il Santo Padre, gli Scribi ecc, pag.106.)

Appartengono altresì alla storia i nomi di coloro, che sotto la veste di assolutisti, e che più tardi si smascherarono i traditori della monarchia,

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contrariarono nei domini di oltre faro l'andata del Re, la cui presenza sarebbe bastata ad impedire l'arrisicata impresa del Garibaldi; perocché in Sicilia fu un pretesto la idea di unità: la immensa maggioranza de' siciliani desiderava di conservare la monarchia con qualche modificazione governativa; ma vi era altro partito, che profittando del malcontento prodotto dal ritardo degli aspettati immegliamenti, voleva mettere il paese sotto il giogo piemontese, per lanciarlo poi nelle braccia di Mazzini: infatti, col passo attuale, l'Italia tutta non va né all'Unità, né allaConfederazione, ma alla completa anarchia, e distrazione, al socialismo, o comunismo, che è la cinica negazione di Dio, e della società.

Meritano essere riportate le attendibili considerazioni scritte dall'emigrato Carlo Pisacane nel suotestamento politico in Genova 24 giugno 1857 «Sono convinto, che i rimedi necessari per l'Italia, come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte ecc. ecc. ben lungi dall'avvicinarla al suo risorgimento, ne l'allontanano: per me non farei il menomo sagrifizio per cangiare un ministro, per ottenere una costituzione; né meno per cacciare gli austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno sardo: per me dominio diCasa Savoja, e dominio diCasa d'Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia, che il governo di Ferdinando II.» (Volume 4 dei saggi storici-politici-militari, di Carlo Pisacane. Milano,1860 presso Agnelli, pag.160).

13. Se il Re fosse andato in Sicilia ed avesse attuate le promesse del decreto del 1849,

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secondo il quale dovea colà stabilirsi un sistema separato e distinto di economia, e di amministrazione, con uno de' membri della Real famiglia come viceré, non vi è dubbio, che la popolarità del giovane monarca, immune da ogni taccia, avrebbe fatto accettare con riconoscenza le moderate concessioni, togliendo così alla rivoluzione un'arma potente, di cui più tardi si è servita. Mancava così la impresa di Garibaldi in Sicilia, ed il trono non sarebbe stato scosso. Sono già nel dominio della storia i nomi di coloro, che allarmarono la coscienza di re Francesco II; che il partito dell'annessione contava già nel suo seno molti fra coloro che erano reputatitipo di assolutisti: epperò fu bene osservato da un egregio scrittore, che con la scelta di Liborio Romano, prefetto e poi ministro, la rivoluzione s'incarnò nelle sedi governative dalle quali invece di partire provvedimenti di ordine, e di concordia, si diramarono a tutto agio, e col favore del Potere, le fila della congiura» e divennero suoi coadiutori efficaci ed accaniti proseliti tutti i servi di pena amnistiati, e gli esuli reduci in grazia del sovrano indulto.

É troppo confermato dall'esperienza, che la rivoluzione può essere combattuta e vinta; ma soddisfatta non mai!

14. Altronde re Francesco II saliva al trono, allor che i piani cospirativi cominciavano a manifestarsi, e succedevano avvenimenti politici della massima gravita; senza lasciargli tempo a riflettere su di ciò che avrebbesi dovuto fare; senza dare un istante di tregua per raccogliersi e maturare un provvedimento su l'avvenire.

Emissari sovvertitori con oro copioso, e maligne istruzioni percorreano le contrade del napoletano cercando corrompere ed iniziare lo sconvolgimento:

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le ampollose frasid'Italia una, d'indipendenza, di libertà, servirono ad esaltare taluni spiriti: si fecero ventilare speciose illusioni, fino a dire, che le due grandi Potenze occidentali sostenessero que' turbolenti, conati: il denaro fece il resto. Coll'abituale sistema de' mestatori s'inventarono le più nere calunnie per infamare il governo, che volevasi abbattere; e con le più esagerate iperboliche. promesse di felicità e di grandezza si eccitarono i popoli, che voleansi aggiogare al Piemonte. Intanto lavera nazione era contraria a tali perfidie, e rimanea devota al proprio Sovrano, perché capiva bene essere la rivoluzione dinastica un turbine tempestoso, produttivo di letale perturbazione, e finanche della perdita' della nazionale autonomia, favorendo la conquista straniera, come il fatto ha provato.

Non erano quelli adunque i momenti opportuni per attuare riforme; nulla dimeno il giovane Sovrano credette pel bene del suo popolo, e per salvarlo da mali maggiori, di fare grandi concessioni, alle quali fu risposto sdegnosamente e con rabbia dalla fazione, che. non voleva, né l'attuazione di liberali riforme, né la sincera indipendenza del paese; ma unicamente per sfogo di antiche vendette, voleva il rovesciamento d'un antico trono, e la decadenza di una popolarissima dinastia, vendere la patria, e dar agio al Piemonte d'impinguarsi coll'oro e con le sostanze di lei. Fu così, che la rivoluzione prese il nome digoverno italiano, e Mazzini regnò dalle Alpi a Sciita, obbligando a sedere sul trono del Piemonte da Re, senza autorità senza governo, e senza fede, un Sovrano che divenuto schiavo de' comitati, lacera i fasti de' suoi antenati.

15. Favorevolissimo alle viste di Mazzini è stato, ed

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è il procedere del ministero di Torino, e de' suoi luogotenenti nelleprovincie meridionali, precipuamente dell'ultimo di essi, Cialdini. Messosi costui interamente in balìa delpartito d'azione in Napoli, circondatosi di garibaldini, non ha trasandato mezzo alcuno per iscrollare ogni sentimento monarchico. L'Europa con indignazione udì lo invio di codesto novello proconsole in Napoli, prevedendo, che il bombardatore di Ancona, di Gaeta, di Messina, l'autore de' proclami incendiari (che non hanno altri rivali, che quelli di Pinelli), colui che osava insultare le ceneri d'un nemico estinto, del prode marchese de Pimodan, non poteva essere da meno della reputazione acquistatasi: la Europa pensò subito allo stato d'assedio, alle fucilazioni., è se ne impensierì. Il giornalismo ministeriale volle contestare quella nomina adducendo, che Cialdini vi andava per governare ne'confini della legalità: trista bugia smentita indi a poco dalle esplicite dichiarazioni del suo predecessore Conte Ponza s. Martino. I fatti posteriori tolsero anche la apparenza della verità alla menzogna officiale. Con Cialdini, non più giustizia, non più legalità; ma polvere, e piombo! E di fatti, l'esilio freddamente ordinato del cardinale arcivescovo venerato per le eroiche sue virtù dal popolo napoletano; l'arresto di tanti sacerdoti, di tanti generali, tra cui l'illustre difensore della cittadella di Messina, maresciallo Fergola, hanno ad evidenza comprovato da quale spirito fosse egli animato. Ai molti e veementi reclami per l'arresto del fiore dell'alta aristocrazia del Regno, egli dava la troppo rimarchevole risposta, «quando tutte le classi delle popolazioni sono contro il governo, questo deve scagliare colpi assai forti su i grandi, onde far tremare i, piccoli, e poiché sono

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entrato nelle vie del rigore, non retrocederò certamente». Qual colpo portato al preteso voto universale! Non è perciò da meravigliare, se per fino i liberali napolitani Niutta, e Vacca, senatori, e dignità magistrali della Corte Suprema di giustizia, Pisanelli, Bonghi, ed altri, abbiano fatto circolare una petizione contro le sevizie cialdiniane; ed anche per vendicarsi de' patenti oltraggi sofferti per opera di lui.

I comuni di s. Marco, di Rignano, di Spinelli, di Auletta, di Montefalcione, di Pontelandolfo, di Casalduni, di Cotronei, di Viesti, di Vico di Palma, di Barile, di Campochiaro, di Guardiaregia, di Venosa, di Monteverde, ed altri, tutti messi a sacco, e fuoco, mostrano abbastanza lo spirito del regime piemontese nel napoletano, demoralizzando finanche il soldato col dargli l'abitudine della crudeltà, anzicchè insegnargli la generosità verso i nemici (10). Di oltre 80 mila abitanti di que' miseri paesi, molti furono gli uccisi molte le vittime (11) dello incendio, la superstite popolazione campata dal fuoco e dal ferro ramingando tuttora in questo rigido inverno, va in cerca di soccorso, e di asilo! Colui, che bombardò Ancona, anche dodici ore dopo la resa, e per quarantotto ore Gaeta, mentre capitolava, cannoneggiandone di proposito gli spedali, non potea trattare diversamente i paesi, che aspiravano alla indipendenza patria, e mostravano devozione al loro antico Sovrano.

Un popolo adunque, che non è stato possibile di prostrare ed avvilire fra i due fuochi di Cialdini e di Pinelli, di questi due esecutori carnefici della rivoluzione, il secondo de' quali. ha solennemente proclamato «che la pietà era un delitto (12)» potrà una volta sperare di trovare simpatia presso le nazioni civili, le quali

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non dovrebbero abbandonare dieci milioni di persone create ad immagine di Dio al truculento arbitrio di una fazione di vampiri, maniaci, che sembrano creati a tutt'altra immagine, e che si credono autorizzati ad ogni massacro appena applichino l'epiteto dibriganti.

16. Fu questo un addiettivo usato nell'Europa in mala parte prima dell'anno 1789, allorché furono cambiati i nomi alle cose, alle persone, alle azioni, e perfino alle stagioni, ed alle divinità; epperò chiamati furonobriganti, ereazionari tutti que' che non vollero militare sotto la bandiera della empietà, e della fellonia; tenendosi fedeli alla religione de' padri, alle leggi, ed alla patria indipendenza; come oggi si pretende chiamaregalantuomini in politica coloro, che in nome della libertà spergiurano, incarcerano, esiliano, saccheggiano le chiese, ed i luoghi religiosi, spogliano, rubano, fucilano, e spargono dovunque l'eccidio; e come se ciò non bastasse, impongono anche il tributodella carne di cannone, con leve forzate militari, opprimendo le famiglie de' molti refrattarj, che ripugnano di fare gli sgherri armati della rivoluzione.

Chi mosso da santa indignazione riprova così fatte mostruosità è accoppato dall'epiteto dibrigante; mentre per meritare quello digalantuomo bisogna plaudire, ed encomiare quando si sente, che le fucilazioni (fino a' 20 agosto ultimo) oltrepassavano le diecimila; che le prigioni non bastando più per gì'immensi detenuti sospetti di mantenersi fedeli al Sovrano legittimo, se ne spedivano le torme per mare a Genova, ed altrove. Né perciò scema il sentimento leale delle popolazioni, non bastando 80 mila piemontesi, coadiuvati da prezzolate guardie nazionali.Briganti però non furono denominati da' giornali

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del liberalismo gli avventurieri garibaldini, che aggredirono la Sicilia, e per Napoli, che ne' tempi antichi non avea veduti i Vandali, furono assai peggiori di questi i garibaldini; solo si applica per screzio a coloro, che per salvare la patria dallo straniero servaggio, e per non abbandonare le loro antiche affezioni, ambiscono la morte de' prodi?

Malgrado l'avvilimento della capitale, e di altre città; e malgrado la complicità di taluni uomini pubblici, la resistenza contro gl'invasori si è pronunziata apertamente. La reazione tutta nazionale di un popolo, per male arti di pochi venduto allo straniero, ha molto più del maraviglioso, che l'eroica difesa degli spagnuoli nel 1808. Allora di fatti, contro i francesi, poterono disporre liberamente delle risorse del regno, soldati sotto le bandiere, militari in ritiro, vecchi e giovani uffiziali, grandi proprietari, ecclesiastici, tutti agirono insieme contro Io straniero. AI contrario in Napoli la caduta di Gaeta costrinse il Re ad abbandonare la lotta; la umanità gli fece una legge di consegnare gli ultimi baluardi della monarchia Messina, e Civitella del Tronto; e di far cessare la pugna iniziata ne' monti di Abruzzo.

Senza norme, senza direzione, spinti dagli eccessi tirannici del potere usurpatore, e dalla lagrimevole vista delle sofferenze generali, i soldati dell'antica armata reale anziché violare l'antico giuramento han preferito raccogliersi in bande su le giogaie patrie, con benevolenza accolti dovunque; i contadini senza capi; le popolazioni senza armi, senza denari, e senza piano preordinato, si sono sollevate con ispontaneo slancio, e con un istinto superiore allo stesso terrore ivi predominante. Dimostrazione evidente della insopportabilità del giogo piemontese;

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e della grandezza del sentimento nazionale, cai non manca, che una coordinazione di forze per dirigerlo, onde affrettare la restaurazione dell'autonomia in un paese, che ha reso memorando, e storico il movimento popolare del vespro siciliano, e che tosto o tardi deve trionfare.

17; Intanto i venali diarii del piemontismo perfidiano a calunniare il governo pontificio, accagionandolo di favorire la reazione ne' confini del napoletano. Dovrebbero invece ricordare, che nella primavera del 1860 il governo di Napoli lagnavasi con quello di Torino, perché faceva organizzare a Genova la spedizione di Garibaldi. Ed il Piemonte rispondea (mentre lasciava fare a costui, anzi aiutandolo con denari, uomini, armi, istruzioni, e d'ogni mezzo immaginabile) dicendo «se non volete, che Garibaldi vada in Sicilia, mandate le vostre navi ad incrociare, ed impediteglielo con la forza: io me ne lavo le mani».

Or perché la consorteria giornalistica che applaudì la spedizione di Garibaldi in Sicilia, non dovrebbe applaudire del pari a' pretesi favori per la insurrezione nelle provincie dell'antico reame? Ecco le inconseguenze e le contraddizioni de' nostri politici Alcibiadi! Così laOpinione, noto giornale ministeriale torinese, nel censurare il governatore novello di Cosenza Enrico Guicciardi, per aver reclutata la guardia nazionale fra i semibriganti, diceva «di aver egli fatto uso della teoria di coloro che vogliono creare l'ordine col disordine, servendosi d'individui tristi, da cui non si possono attendere, che tristizie». Essa però dimenticava dire, che con tale teoria il Piemonte spodestò il Sovrano legittimo di Napoli; presedé al voto delle annessioni, fucilò, carcerò,

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manomise a migliaja gli onesti cittadini; ed osò accusare d'immorali là quel governo contro del quale si declamava con estrema violenza se accadeva una sommossa, e per reprimerla adottava qualche giusta misura di rigore, mentre ora che ne accadono innumerevoli, e si affogano nel sangue, e negl'incendi, si vogliono chiamare misure legali, e necessarie,vere beatitudini della fazione imperante.

Dimenticava dire il detto foglio ministeriale, che il governo di Torino avendo dato poteri illimitati accomandanti militari, e questi anche a' soldati, e ad ognuno delle guardie nazionali di imprigionare, di spogliare, di fucilare in massa, senza formalità di giudizi, ha implicitamente fatto tesoro della sudetta censurata teoria; ed autorizzando consimili eccessi inauditi presso ogni governo civile, ha poi avuto ritegno di proclamare Io stato d'assedio per non iscreditarsi presso la diplomazia europea, come se Napoli esistesse al di là dello stretto Magellanico, o nelle estreme regioni polari antartiche.

Dimenticava pure di dire il ripetuto giornale, che per l'anzidetta teoria si sostiene lo spoglio a danno di cinque legittimi Sovrani, (di Napoli, di Roma, di Parma, di Modena, di Toscana) come se si trattasse d'una spropriazione di terrenoa causa di pubblica utilità; e che per l'anzidetta teoria si sono proclamatiuomini grandi i regicidi Orsini (come Io chiamò laGazzetta del Popolo) gli Agesilao Milano, i Becker, i Bosios, e tutta la razza degli assassini politici.

18. E pur troppo vero l'antico adagio che ogni esagerazione di principii meni all'abisso; né potersi arrestare, o retrocedere chi abbia patteggiato una volta con l'estreme dottrine.

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Concessi nel 25 giugno 1860 al reame di Napoli (che lo si accagionava nel gergo settario comechiuso ad ogni affetto italiano) gli ordini costituzionali e rappresentativi tuarmonia coi principi italiani e nazionali, si convocava il parlamento napoletano, s'instituiva la guardia nazionale, e per patto di concordia si amnistiava ogni reato politico, e si spedivano ambasciatori a Torino per trattare di un alleanza rassicurante i destini della nazione. Ma le liete speranze vennero meno ad un tratto precipitando in un abisso già scavato con arti, che non hanno nome negli stessi dizionari dell'umana malizia. Basti solo notare, che quando il governo di Napoli protestava a Torino, come Garibaldi in Sicilia intestando i suoi atti in nome di Vittorio Emmanuele desse indizio di aperta connivenza, si rispondeva, e reiterate volte di seguito «e essere ciò un arbitrio del venturiero, ed affrettarsi il governo Piemontese a far cessare l'abuso» (13). Ma quando maturò la prestabilita opportunità, il Piemonte prese ad un tratto partito di far divenire sua propria l'opera di colui, che finallora aveva chiamato col nome diventuriere e violatore del diritto delle genti; e quel che è peggio agi senza motivo alcuno di querela, senza dichiarazione di guerra, senza congedare da Torino i legati napolitani, e senza né pure officialmente avvertirli. Il re Vittorio Emmanuele penetra improvviso nel regno delle due Sicilie, se ne impossessa, ravviva la guerra civile, fa scorrere a torrenti il sangue italiano, e rincomincia il duello fratricida, di cui quelle desolate terre offrono lagrimevole spettacolo all'Europa impassibile; duello, che per onore della umanità è da augurarsi, che il Piemonte in cuor suo ora vorrebbe non aver mai tentato.

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Tra le rovine ivi arrecale la maggiore, che deve tormentare ogni anima tenera del vero decoro patrio, consiste nella sconsigliata dissoluzione di un fiorito esercito di oltre i centomila combattenti corredati completamente; di quell'esercito invidiato, la cui buona tenuta, faceva mitigare finanche i più accaniti avversar! del governo napolitano, vagheggiandolo come il più valido sostegno dell'italica indipendenza, secondo che si esprimeva Cesare Balbo (14).

19. È da tenersi ragione, che ne' domini napolitani non surse grido, né vi fu tumulto, se non dove apparivano man mano le orde garibaldine; e che la popolosa metropoli garentita dalle nuove milizie cittadine non ischiamazzò, se non all'arrivo del dittatore.

Né ciò spiega tanto lo stato dello spirito pubblico, per quanto Io spiega il raffazzonamento per quel cotale plebiscito, precipitato dopo l'entrata dell'esercito piemontese nel regno. Di 443 collegi elettorali chiamati a votare per una popolazione di 21,428,455 italiani, erano inscritti non più di 490,991 elettori (uno per ogni 51 abitanti), di questi votarono, come si dice, e mercé scandalosi intrighi, e maneggi subdoli, soli 242,581 cioè uno su 90 elettori. Pe' deputati poi al parlamento i voti furono 170,567; cosicché un voto su 130 abitanti constituisce il mandato di rappresentanza della nazione (15), di quella rappresentanza, che votò la decadenza del Papa, e di quattro dinastie, tante leve per 150 mila uomini; tanti prestiti per 800 milioni; tante imposte per 150 milioni, e tante altre leggi serie, e compromissive i vitali interessi de' popoli! Ed è notevole, che di 443 deputali, di cui dovea comporsi il parlamento, soli 224 erano presenti quando Vittorio Emmanuele fu proclamato re d'Italia;


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cosicché in proporzione, i deputati, che lo crearono, rappresentavano appena centomila mandatari, cioè un settantesimo della intera nazione! Per curiosità si osserva, che di 409 deputati finora eletti,57 ottennero meno di 200 voti; 101 meno di 300; 59 meno di 500; 21 meno di 700; 9 meno di 800, e due meno di mille (16). La metà poi di votanti era d'impiegali novelli influenzati da' candidali tutti prescelti a funzionari del nuovo governo; ond'è che de' votanti medesimi almeno un centomila non può dirsi, che non abbiano espressa la volontà nazionale di 22 milioni d'italiani.

Qual meraviglia adunque se deputati di retto sentire, impegnali per i mali della patria, come il conte Ricciardi, e il duca Proto, si veggano costretti a tacere, e soffogati; anzi il secondo nella necessità di dimettersi; e se d'allora il paese si trova in balìa delle passioni le più scompigliale de' partiti cozzanti, senza autorità, che valesse a tutelarlo, senza governo, che potesse manodurlo (se pur di governo volesse usurpare il nome l'iniquo regime di tanti proconsoli sardi, che si succedono con progressiva incapacità); anarchia fra i governanti; disordine per le strade; disorganamento da per tutto; quadro sconfortante non paragonabile nella storia se non a periodi calamitosi di decadenza e di rovina de' regni; vana ogni ideata combinazione; vano ogni rimpasto: l'inquietudine, e il malcontento invadono tutte le classi.20. Si vorrebbe dare ad intendere, che oggidì fossero due diritti in lotta,l'antico, cioè, contro ilnuovo (17). In verità codesto conflitto è apparente; e nel mondo un solo diritto esiste, fondato sull'eterno principio della giustizia. I dettami rigorosi di questa giustizia ha seguito il Re Francesco II,

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esponendosi ad ogni sagrifizio per lo bene de' popoli affidatigli dalla Provvidenza, tenendo alto ed onorato il vessillo della loro autonomia in Capua, ed in Gaeta; mentre essi si accingevano spontanei a far costare caro agl'invasori l'aggressione violenta de' loro pacifici lari. La rivolta, di fatti, sostenuta da' soli volontari garibaldini, e questi un miscuglio di ungheresi, turchi, greci, dalmati, belgi, croati, polacchi, prussi, inglesi, americani, svizzeri, andava a soccombere pel valore delle regie truppe, e per lo slancio delle fide popolazioni, allorché essa fece appello al Re del Piemonte, che vi ravvisò lo scopo della sua ambizione: accorse co' suoi armati sul suolo napoletano; e la Europa assistette attonita allo spettacolo di un re italiano, che senza preliminare intimazione di guerra e senza motivo alcuno, ma soltanto col favore dell'anarchia andava a strappare la corona dal capo di un altro Re italiano suo congiunto, ed amico. Le proteste officiali della Francia, della Russia, della Prussia, dell'Austria, della Spagna, della Raviera, condannarono un tale attentato, che, sanzionando la ribellione e la guerra civile, manometteva la inviolabilità degli Stati, e della Sovranità, e calpestava il diritto pubblico; quel diritto finora riconosciuto come la protezione del debole contro la brutale prepotenza del forte, come la forza morale, che tiene in equilibrio la forza materiale. Quali gravissime riflessioni si offrono dopo ciò ad ogni anima onesta! Il Re del Piemonte, che accetta

il fatto compiuto da un'orda di avventurieri, da lui prima pubblicamente riprovato! Inqualificabile procedimento, che invano vorrebbesi scusare col sofisma, dello invito delle popolazioni, e col costoro voto per l'unità italica in un solo regno.

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A convincere della insussistenza di questa cavillazione basta ricordare le arti adoprate da' piemontesi, e loro complici per istrappare il cosi dettosuffragio universale. Il primo atto adunque della invasione nel regno di Napoli fu una scandalosa violazione; il secondo fu la completa soppressione della libertà del voto. Colpevole da principio, fu di poi illegale e mendace nella continuazione, siccome è ingiustificabile nel suo scopo, la unificazione, cioè, per mezzo della forza brutale, di uno Stato, che gode la sua autonomia da dieci secoli, giustamente fiero della sua indipendenza; e quel ch'è peggio volendoglisi imporre il vergognoso giogo di divenire misera provincia del Piemonte, il meno potente della italica penisola, senza memorie, senza prestigio storico, l'ultimo venuto fra gli altri Stati, perché constituito co' trattati del 1815.

21. Il Piemonte, per consenso de' suoi valenti scrittori, è la provincia, che meno partecipa alla idea, o tipo d'Italia tra i cui stati ha vissuto isolato fino al cader dello scorso secolo, e come un paese quasiché chiuso, sottomesso ad ordini feudali rigidissimi, poco versato nelle lettere e nelle scienze; senza concorrere nel vasto e fecondo movimento della penisola (18). La lingua delle classi colte era la francese; pel volgo un dialetto o gergo aspro, e duro, più d'ogni altro alieno dalla lingua italiana. Ciò dovrebbe bastare per convincere, che il Piemonte ha la tinta più pallida d' italianità: e il Gioberti, suo decantato scrittore, così definisce l'indole de' suoi compatrioti. «La nobiltà del Piemonte rappresenta al vivo il genio dei subalpini, intero, saldo, tenace, schiavo della consuetudine, peritoso al sommo di mettere il piede fuori delle orme consuete, e avvezzo a coonestare la pusillanimità e la lentezza co' nomi di prudenza e di moderazione».(Introduzione. allo studio della filosof. Tom. 1. pag.166. )

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E già prima aveva notato: «Nel moto civile come nello intellettuale, la italianità del Piemonte è egualmente serotina».(Primato tom. 2pag,403.) Di che egli si fa ad esporre le ragioni: «La scarsa italianità nasce dal tardo ingresso alla vita italica, e questo dalla origine alpina del popolo, e de' regnanti, dalla postura colligiana, ed eccentrica del paese, dalla poca, o niuna usanza avuta in addietro colla Italia interiore, dalla feudalità radicata e superstite negli abiti, da che è spenta nelle istituzioni, e sopratutto dalla tarda partecipanza della lingua e delle lettere italiche, stantechè ilpensiero è informatore delle opere, e lanazione s'immedesima con la favella. Laonde l'Alfieri diceva, cheil parlare italiano è un vero contrabbando inTorino città anfibia».(Rinnovam, tom. 2.pag.295.)

Il piemontese adunque essendo poco pieghevole, tenace, consuetudinario, non è nato ad unificare né pel pensiero, né per le opere; ed in questo è il contrapposto più deciso del napolitano, come sentenzia il citato Gioberti che come innanzi abbiamo ricordato ne ha fatto l'elogio. (Primato tom. 2.pag.429.); non deve perciò recar meraviglia se sia cotanto impopolare in Napoli il piemontese, e se dovunque non si crede alla durata della sua egemonia, che ha voluto imporre a quel reame, che è il vero legittimo italiano. Ed al proposito non sarà superfluo aggiungere in conferma altri autorevoli dettati del ripetuto campione del piemontismo: «Le strettezze, e le miserie del genio provinciale albergano in Piemonte più che altrove, eduna gran parte de' Piemontesi non sanno ancora di essere italiani».(Gioberti, introduz. tom. I. pag.168.) E posteriormente scriveva:

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«gl'istintimunicipali hanno radici così forti nel Piemonte, che i nazionali mal ci possono pullulare; tanto che invece di seminarli, e nutrirli altrove,esso ha piuttosto bisogno di riceverli». (Rinnovarti, tom.2.pag.295.) Ed altrove: «tra le sette politiche, che sono nel Piemonte la più folta di aderenti è quella del municipio, e la piùscarsa è la nazionale». (Ivi tom.2.pag.301.).

Dal che evidentemente risulta la incompatibilità del giogo imposto da' piemontesi al reame di Napoli, dove eccetto coloro che gli si sono venduti, niuno ha simpatia, o tendenza per essi.

22. Intanto la esasperazione tuttodì crescente della maggior parte del reame, l'amore del patrio decoro, l'attaccamento ad una Dinastia tradita, la oppressione, la dilapidazione, la miseria, doveano naturalmente concitare odio contro gli usurpatori. Lo stesso parlamento di Torino nelle sue tempestose discussioni ha comprovato lo stato deplorabile di quellenuove provincie, e l'abbominazione, in cui sono tenuti inuovi padroni. Unisono è pure il linguaggio della stampa rivoluzionaria, come si leggerà nel seguito di questo libro.

Dal cui insieme si ha un tremendo, ma veridico quadro: il paese costernato, che sembra arrossire di esser ritenuto complice de' mali che lo hanno inabissato; i più de' faziosi atterriti per le conseguenze di una conquista da essi provocata; il disordine generale e progressivo; scomparso il danaro dalle pubbliche casse, le finanze così dissestate da non bastare a' più urgenti esiti; i fondi pubblici ribassati così da far perdere a' creditori dello Stato i due terzi delle loro fortune, e da far temere come imminente la bancarotta; cessata ogni giustizia nei tribunali;

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le imposte rifiutate; la insurrezione permanente, i delitti, le vendette, gli ammutinamenti, gli eccessi i più inauditi, divenuti lo stato normale; bande di paesani lottanti, anche inermi, co' piemontesi; e per costoro la necessità imperiosa di far accorrere tuttodì da Torino nuovi rinforzi in rimpiazzo de' battaglioni sconfitti, e de' molti feriti negli ospedali, (benché le venali gazzette al loro soldo scaltramente lo dissimulino); gli antichi soldati dispersi, perseguitati, senza pane, senza asilo, ed i pochi per forza incorporati nelle loro file, tenuti in sospetto', e riuniti senz'armi nel campo di S. Maurizio; incredibili sevizie alle famiglie de' soldati refrattart a servire. un potere usurpatore; il clero ferocemente perseguitato, insultato, spogliato; il nome di borbonico applicato a qualunque cittadino bastante per fargli perdere ogni garentia civile; violentata con plateali esorbitanze de' partiti la libertà di quella stampa periodica, che rimasta incorrotta, vuole e sa dire la verità, (19) le spie in numero maggiore degli, spiati, guardie nazionali, e carabinieri (quando colla divisa feroci sgherri, e quando senza, esploratori) camorristi, poliziotti tutti armati direvolver; i tristi nella parolalibertà hanno rinvenuto l'agio di sottrarsi ad ogni legge, come ne lamenta la stessa stampa democratica; ciascun atto, che non senta d'immoralità e di libertinaggio, qualificato di retrivo, clericale, borbonico, austriaco, e come tale soggetto ad ogni nequizia; il giornalismo prezzolato dalla fazione divenuto delatore, e calunniatore a suo talento; gli anonimi accolti come fatti autentici; violate per sistema le lettere negli uffizi postali; le vie mal sicure per grassazioni in tutte le ore, l'orrore pel presente, lo sgomento per l'avvenire;

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la soppressione totale di ogni reminiscenza dello antico splendore, affinché la meschinità del Piemonte non avesse a restare umiliata delle grandezzedella nuova provincia meridionale; migliaia di famiglie condannate alla miseria per la soppressione di tutte le grandi amministrazioni dello Stato; i residuali impieghi più lucrosi occupati da subalpini satelliti del proconsole, e dalla consorteria aderente; ristrettissima la classe de' gaudenti, innumerevole quella de' sofferenti trattati peggio degl'iloti in Sparta, de' parias nelle Indie; in somma con un anno di governo piemontese tante rovine, che non avrebbero mai prodotte due secoli di regno il più dispotico! Riassumeremo col recente epifonema della tribuna parlamentare belgica; «nulla si è mai visto di più infame in paragone di ciò che ora avviene in Napoli: non esiste ne' fasti di Europa un simile ammasso di turpitudini» (20).

23. Le popolazioni docili per indole, testé prosperanti ne' benefici della pace, rette da temperata monarchia nazionale, ora disperatamente insorgono, e benché in sproporzionata lotta, elevano alta la bandiera del loro legittimo Re, e protestangli la loro inconcussa fedeltà, con fiumi di sangue, nella Basilicata, nelle Puglie, nella Campania, nella Calabria, negli Abruzzi, nella Sicilia, e finanche presso le mura della capitale, tuttoché il governo usurpatore cerchi infrenarle col crudele sistema di Pinelli, e compagni, uccidendo, fucilando, incendiando intere città! E pure ne' decorsi tempi i criminosi attentati della rivoluzione a danno del pacifico reame delle due Sicilie, sovente bersagliato dalle sue insidie, sono stati trattati dal governo con quella giustizia, ed equanimità, che i piemontesi non hanno volato ora imitare. Diffidenti, impopolari, pauresi credono col terrore,

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e colle stragi tener soggiogato un regno di dieci milioni di abitanti, dove hanno distrutto quanto vi era di buono e di bello, di onesto e di grande, di virtuoso e d'intelligente, arrivando a farsi abborrire fino da quelli che apertamente, o di nascosto sono stati i loro fautori.

24. Niuno adunque de' sudditi del regno di Napoli (eccello gli emigrati cospiranti nel Piemonte durante l'ultimo decennio) ha mai potuto desiderare il cangiamento di dinastia. Ancorché questa avesse avuti de' torti a rimproverarsi, e chi non ne ha?, aveva però renduti servigi reali al paese come abbiamo notato innanzi.

Le si accagiona di non essere concorsa alla ultima guerra della indipendenza, ma gli uomini assennati e di buona fede del Napoletano sanno, che ciò non si poteva dal defunto re Ferdinando, il quale fece pure per l'Italia molle cose che rigorosamente parlando, non avrebbe potuto; ed una fu di non dare all'Austria un contingente della sua armata, come era obbligato pe' trattati del 1815; e tutti sanno, che siffatta guerra cominciò quando era egli afflitto dalla gravissima infermità, che lo condusse a morte. Ma quand'anche la dinastia avesse commessi de' falli, re Francesco II li riparava lealmente, ampiamente, senza guardare ad un passato, di cui non era che l'erede.

I popoli delle due Sicilie, quelli che avessero desiderato riforme, non ne potevano pretendere di più di quelle accordate dal giovane Sovrano. Egli concesse gli ordini rappresentativi somiglianti a quelli del Piemonte, e più liberali ancora; avea promessa la politica nazionale senza restrizione, aveva offerta l'alleanza, inviando i suoi rappresentanti, tuttoché prevedesse, che

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«col prepotente l'unica possibile alleanza è il cedergli tutto!»

Accennare poi al suffragio universale per Vittorio Emmanuele è insidiare i popoli delle due Sicilie, è insultare tutta intiera l'Europa, che ba già dichiarato per ogni verso essere una solenneimpostura il famoso plebiscito; impostura riconosciuta fin da lord Russell nella nota diplomatica diretta al conte Cavour (21). La impostura della sognata unanimità de' voti, va dichiarata apertamente da' giornali stessi, che propugnano l'annessione, i quali non possono disconvenire di essere insorti i popoli per liberarsi dal giogo loro imposto dalle mene, e dalle violenze del Piemonte la cui presenza in Napoli è un verointervento straniero, ed è il positivo ostacolo senza del quale quel reame sarebbe ricomposto, e rappacificato in un istante.

La impostura è ribadita dai fatti, che si compiono nel reame, dove si arresta, si incarcera, si esilia, si fucila, s'incendiano paesi, e tutto ciò per tenere a freno la reazione divenuta universale; e per quanto più sotto la mitraglia ed i razzi incendiar] cadono distrutte le città, e si accresce il numero de' carcerati, degli esiliali, e de' fucilati, tanto più la reazione diventa fiera, e sin le donne con insolito ardire, bravano gli sgherri catturanti della polizia piemontese sciorinando bianchi lini con le grida divenute oramai ritornello nazionale, VIVA FRANCESCO II! Queste proteste di sangue fanno domandare anche a coloro i più avversi alla causa de' troni, «come va, che si è tanto gridato contro l'oppressione de' Borboni, la prostrazione della nazione sotto il loro governo, e l'odio di tutti; ed ora mentre la patria dicesifelicemente rigenerata,

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e liberata, la gente osa reagire per ritornare sotto la tirannide?»

E pure è una verità) che l'intero regno insorge contro il Piemonte, ed ora glioppressi prendono le armi contro iliberatori, che di rimando scannano e fucilanoper rendere felici i liberati! l'amore tra il Sovrano legittimo, ed i suoi sudditi non è solo istinto di natura, ma eziandio bisogno di società: oggi la repubblica columbiana di S. Domingo, antica colonia filiale di Spagna; dopo aver trascorse le vie di dolorose pruove durante le quali l'anarchia e la guerra civile l'hanno insanguinata, ritorna per ritrovar pace in seno alla madrepatria.

25. Smentite quindi tutte le pretensioni del Piemonte, scrollato ogni titolo della invasione nel regno, dove è generalmente detestato, risulta evidentemente, che la quistione napoletana, di sommo interesse per la solidità di tutti i troni, siasi convertita pel Piemonte da causa di vantata liberazione in causa dinastica; e per Francesco li da causa dinastica in vera causa di liberazione, e diremo meglio incausa di umanità, trattandosi di salvare le misere popolazioni dalla massima sventura, e da disastri peggiori di quelli de' maroniti pe' drusi. Non vi sarà mai accordo tra piemontesi padroni, e napolitani servi. Distrugge la pretesaUnità d'Italia il solenne vero consagrato dalla storia: svariati ed opposti popoli hanno abitato le antiche regioni di Ausonia, Enotria, Etruria, del Lazio, della Lucania, Campania, Irpinia, Apulia, Bruzia, Daunia, Sabinia, Sicania, Ernicia, Sannio, ed altre molte: né le differenze sono soltanto nelle origini, e tradizioni, ma anche nelle attuali favelle: l'un con l'altro non li comprendono nel parlare i vari abitatori!

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Da dieci secoli vi sono in Italia napolitani, lombardi, veneziani, romani, toscani, sardi; ognuno di questi popoli ha una esistenza propria, che non può fondersi, o assorbirsi da un altra; né altro legame può esservi fra loro, che ilfederativo; vincolo omogeneo alla storia, alla natura, alla geografia della penisola italica; vincolo vagheggiato ne' tempi andati da uomini politici devoti alla sua prosperità da Errico IV fino a Napoleone I; vincolo che nel 1848 avrebbero ben attuato tutti i Sovrani legittimi degli Stati italiani, se non ne fossero stati distratti dalla rivoluzione.

Il conflitto fatale, ora è tra questa distruttrice, cui si è alleato sciaguratamente il Piemonte, (e guai se prevalesse!) e il patriotismo liberale, che tende a consolidare ordinatamente le nazionalità col bene de' popoli, e col rispetto a' diritti legittimi, ed è personificato in Francesco II. L'Europa vedendo in questo conflitto compromessi tanti interessi politici, ha il diritto di applicare una soluzione, che è appunto il mantenimento delle singole autonomie, e la loro confederazione.

26. Le insurrezioni, ovvero gli uomini, che le han mosse e guidate, e le sette che essi han formate, e cui si sono uniti, hanno quivi mentito, ed usurpato (come han fatto da per tutto) il nomede popoli. Questi sono rimasti sempre estranei alle mene rivoluzionarie; onde non è da meravigliare se i faziosi abbiano poi smentito da se stessi il nome dipopolo, che avevano assunto, allorché indispettiti per vedersi mancare il concorso delvero popolo, hanno creduto oltraggiarlo proclamandoloimmaturo pe' tempi, che essi avevano inteso di creare; e se nella disperazione abbiano imprecata, come il maggior ostacolo a' loro disegni, la fede che conservano le popolazioni.

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D'onde l'irrompere di queste che perplesse dapprima, ed anche in parte illuse su l'esordire delle politiche agitazioni, reagiscono in seguito per reprimere gli ulteriori attentati, vedendo manomettere il proprio Stato, le pie tradizioni degli avi; e trattata la patria da paese conquistato (22).

Le quali cose tutte sono compruovate non pure dai fatti; ma dalla irrecusabile testimonianza della stampa rivoluzionaria, di cui siegue la rapsodica e brevissima raccolta. Potrà così spiegarsi, come un governo rovesciato dalle arti di quanto v'ha su la terra di più empio e degradante, trincerandosi nella coscienza del suo diritto, e del suo bene oprato, crede rispettare se stesso preferendo un dignitoso silenzio ad una polemica clamorosa contro nemici, che hanno sempre eretta la menzogna e la calunnia per unico loro sistema.

Parte seconda

Appena Vittorio Emmanuele ebbe da Ancona, li 9 ottobre 1860, pubblicato quel suo «Manifesto ai popoli dell'Italia meridionale in cui disse io non vengo ad imporvi la mia volontà; ma a far rispettare la vostra» ilDiritto, giornale torinese, indagava in quante classi, o fazioni (com'egli si esprime) si partissero le volontà degli animi nel regno delle Due Sicilie. Secondo il citato giornale, erano tre in quel momento.

La prima, e la più scarsa, quella dei repubblicani.

La seconda dei liberali, che volevano l'autonomia napolitana.

La terza di coloro, che al Piemonte si erano venduti.

Ognuno sa che queste tre fazioni congiunte insieme (compresavi anche quella degli autonomisti, quantunque avversa alla dominazione piemontese formavano enorme minoranza in mezzo al popolo del Regno siculo, il quale allora, nello stesso modo che oggi, voleva l'antico ordine e la dinastia legittima.

La verità di questo enunciato emerse limpida 6no dai primi giorni di quella rivoluzione Che precorse e preparò la via alla dominazione piemontese. L'una e l'altra condussero con essoloro la depredazione e io squallore, lo scatenamento


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di tutte le passioni e l'impunità di tutti i delitti. L'una e l'altra ebbero immantinente a porre in opera la tirannide ed il terrore per comprimere e soffocare i segni dell'abbonamento, si può dire, generale.

Breve fu il tempo delle illusioni anche per quelli che più avevano desiderato coi loro voti colpevoli il nuov'ordine di cose. L'Omnibus dei 20 settembre, dopo aver ricordate le troppo fuggevoli, per lui e pei suoi, felicità del 21, piangele espoliazioni, appropriazioni e il danaro immenso speso senza renderne conto o preteso senza avere diritto di averlo. Tutta Napoli, per non accennare che ad un solo degli inconvenienti, ha versato robe e danaro per uso di beneficenza specialmente in prò dei feriti; eppure questi soffrono. Sarebbe giusto, onesto e delicato che coloro che ricevono il denaro ne dessero conto. Intanto vediamo un conto assai più lagrimevole nei feriti che mancano di assistenza, di roba indispensabile, e sino di medicamenti.

LaPerseveranza di Milano dipingeva nello stesso mese di settembre l'ansia e la trepidazione del popolo napoletano. Questo popolo così lieto e così loquace era già diventato «mutolo e tristo» come chi ha il cuore oppresso dal dolore. 1messi di provincia ascoltano le nuove dell'ultimo stadio delle cose e scorati ne recano il ragguaglio ai loro committenti. La situazione si va discuoprendo agli occhi di tutti e la disillusione è tanto più dolorosa quanto era più lontana dall'essere sospettata.

Anche ilCittadino a" Asti, foglio officioso del ministero piemontese, mostravasi inorridito al racconto dei fatti che si narravano avvenuti nel regno delle Due Sicilie durante quel mese. Ecco come si esprime:Al mezzodì dell'Italia succedono cose che danno luogo a ben dolorosi pensieri. Nell'isola di Sicilia succedono misfatti così frequenti ed orrendi

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che si direbbe non esservi più né imperio di leggi, né autorità di governo. Vi si compiono atti barbarici, che credevamo la civiltà moderna non potesse più avere vocabolo per qualificarli.

Il periodico fiorentino laNazione, periodico notissimo fra i più caldi e tenaci propugnatori dell'unità, nell'articolo intitolatoNapoli (Nazione, 17 decembre 1860) dice«nessuno aver finora saputo ricostruire l'ordinamento sociale sfasciato e pericolante di quello stato; i giornali dividere ancor più gli animi, anzi che conciliarli; impuniti atroci delitti; i governatori dichiarare di non aver forza di reprimere gli eccessi delle parti opposte; le imposte non pagale; le pubbliche autorità non obbedite; la e guardia nazionale debole e stanca poter pochissimo ed essere essa pure divisa da contrarie passioni, da sentimenti discordi; il governo attuale essere ridotto alla misera condizione di un partito e nulla più; la situazione politica napoletana essere una antitesi perfetta fra il governo e il popolo».

Il popolo non tralasciò occasione per dimostrare la sua avversione ai nuovi dominatori; l'esercito nella maggior parte seguì la fortuna del suo re ed anche la marina, che la rivoluzione più particolarmente fé segno delle sue seduzioni, in quei giorni del settembre sbandavasi piuttosto che continuare nel servizio di una bandiera che non era quella alla quale aveva prestato il giuramento. Dall'Opinione nazionale ci è rivelato questo fatto. Quel giornale (25 settembre 1860) ci fa sapere chela marina napoletana è ormai senza marinari, e su quei pochi che sono restati non si può far disegno, perocché manifestano chiaramente le loro simpatie pel governo di Francesco II.

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Gli uffiziali protestano di non partire laddove non avessero a compagni soldati di linea.

Nello stesso mentre, vale a dire un giorno innanzi al manifesto di Vittorio Emmanuele, Giuseppe Ferrari dichiarando al cospetto del parlamento subalpino che il «partito annessionista delle due Sicilie era composto in gran parte di avventurieri rivelava per opera di chi si aprivano le porte della monarchia sicula all'occupazione piemontese. Gli stessi avventurieri» disporsero il terreno agli alti successivi colla oppressione e colla violenza. Con rapidi, ma pur troppo veri tratti della penna del signor Granguillot, ilConstitutìonnel (4 ottobre 1860) dipinge lo stato degli uomini e delle istituzioni in questo istante delle provincie napoletane:tutto è disorganizzato nel regno delle due Sicilie. Non vi è più annata, più amministrazione, più tesoro, più Chiesa, più governo, più popolo! La dittatura di Garibaldi non è stato che un rapido e terribile dissolvente. Incapace di dominare le divisioni, egli le ha successivamente subite, per cadere infine nelle mani de' nemici più pericolosi d'Italia.

L'abbattimento ed il terrore adunque preparavano il «plebiscito» ed assieme colla frode presiedevano all'urna popolare. LaGazzetta di Genova, della quale ognuno sa le tendenze liberali, confessava ad onore del vero, in mezzo a molti altri esempii di violenze, che un cittadino di Napoli si ebbe «un colpo di coltello fra costola e costola» nell'alto che depose la sua scheda nell'urna, rivelandone ad alta voce il contenuto.

Le conseguenze poi di quest'atto, che col nome di Plebiscito si consumava il 21 ottobre, enumerò a suo modo più tardi ilPopolo d'Italia (n.278). «Il governo, citiamo testualmente, non seppe che sperdere un immenso tesoro d'entusiasmo e di forza.

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Non spese ad armare, sprecò a disarmare. Due eserciti furono in malo modo scomporsi, coll'uno si creò il brigantaggio, e corte se gran sangue; si mosse all'altro indefessa guerra, lo si ridusse al nulla... Non si accrebbe l'esercito regolare. Del pubblico danaro si fece incredibile scialacquo... Non si propose il governo di comporre in «una famiglia le provincie italiane, ma di annettere la penisola ad una provincia; quindi l'egemonia subalpina fu sentita un ostacolo, talvolta un offesa. Essa diede un profluvio di leggi che poco si adattano a tutto il resto d'Italia, quindi il precipitarsi da un provvisorio in un altro provvisorio, quindi l'ineffabile disordine delle amministrazioni, e i danni della pubblica sicurezza e della finanza: derelitta ogni pubblica istruzione: morte le industrie, scorato il commercio, tutti i lavori giacenti, tutti i mali della guerra senza la guerra! Nel corso di un anno non si fece che indietreggiare; e l'azione governativa può essere definita ungomitolo di errori».

Intorno poi l'elezioni dei deputati al parlamento ilNomade ha un rivelazione preziosa, ed è questa che le autorità governative «si brigan poco di quanti vanno allo scrutinio, purché gì'intervenuti dieno i voti al candidato del governo, che essi caldamente raccomandano se non impongono pure» Termina dicendo «noi parliamo cosi dietro esatte informazioni avute su quanto si è praticato nell'elezione poco fa avvenuta in parecchi comuni presso Napoli: vergogna a chi tocca!» Di fatti l'Unita di Napoli afferma che degli inscritti «appena una sesta parte intervenne alle elezioni».

Immediatamente aprivasi più intensa la desolante iliade della pubblica immoralità, delle depredazioni premiate,

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delle vendette immani, delle sanguinose rappresaglie in questa, non ha guari, più tranquilla, più fiorente, più culta parte dell'Italia. Il giornale l'Omnibus, quantunque fattosi zelante difensore dei nuovi dominatori, così se discorre nei primi giorni del novembre: «Assistiamo a tale ostinato lavoro di demolizione da destare negli animi più onesti e più moderati un angoscioso sentimento di dolore, e gravi preoccupazioni sulle conseguenze fatali di questo sistema dissolvente che sgomina ogni ordinamento governativo, immola a centinaia gli uomini senza macchia, getta nella miseria innumerevoli famiglie, e crescendo fuor di misura gli odii ed i rancori, eleva la turpe passione della vendetta a ragion governativa. Quinte di da per ogni dove s'innalzano lamenti e reclami, da per ogni dove si grida contro l'abuso di un potere, che nulla vale ad arrestare sulla via per la quale si è messo. Non possiamo pertanto rimanere silenziosi allo spettacolo che offre il nostro paese, conseguenza inevitabile di quegli eccessi della libertà scompigliata e disonesta, la quale mentisce bugiarde apparenze per ingannar più facilmente. Noi non potevamo ugualmente tacere dinanzi a questa nuova specie di sgoverno, allo sperpero sistematico delle finanze, alla distruzione in massa di tutto un corpo insegnante, al favoritismo che dischiude tutti i pubblici ufficii ad una falange indeterminata ed incontentabile d'uomini, per la più parte ignorati. Ora non si veggono che buffoni per le vie, duplicità di comandi e contradizioni, cento al potere e con cento mila favori e vendette ogni giorno» Tale è l'immagine con cui quel giornale, vissuto per lunghi anni sotto il legittimo governo e scritto da uomini napoletani, nella sua senilità mutatosi in «italianissimo» rappresentava la così

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della dittatura napoletana, fino dagli esordi del suo usurpato potere. Né pia lusinghiera descrizione offriva nello stesso tempo ilNomade, giornale diretto e scritto dai famosi Lazzaro e Sterbini, della dominazione piemontese in Sicilia: esaminandola particolarmente dal lato della pubblica finanza. Quel governo dittatoriale profuse così follemente gl'impieghi, le pensioni, gli assegnamenti ed i sussidii che il loro ammontare soltanto avrebbe assorbita l'entrata generale dell'isola, anche qualora fosse stata rettamente amministrata. Così che conclude ilNomade «non rimarrebhe all'isola se non la rendita di due mesi per concorrere a sostenere i pesi dello stato in generale, e gli altri tutti che sono proprii della località».

Però la profusione con piene le mani dei pubblici danari fu in vista di puntellare colle prodigalità il vacillante governo degl'invasori, specialmente nell'incertezza dei primi tempi. Così fece Garibaldi ed i suoi luogotenenti. «Il popolo dice che Garibaldi è troppo generoso, che è un figliuolo prodigo» scrivevano nel novembre da Napoli alMovimento. Ma cessate le cause cessarono anche gli effetto e gli agenti del governo piemontese, succeduti a Garibaldi, chiusero la fonte della generosità, per cui il medesimo corrispondente li rimprovera «di essere venuti a Napoli per impinguarsi alle spalle del popolo napoletano» e visibilmente indispettito li minaccia colle seguenti parole «se credono di piemontizzarci la sbagliano. Il suffragio universale non si adopera soltanto per celiare. Il nostro liberatore è Garibaldi: egli e non altri pensa seriamente a noi, e fece.»

Il futuro storico delle vicende italiane, delle quali noi siamo testimonii, se vorrà essere imparziale, avrà a consultare per certo ancora le collezioni delDiritto e delMovimento, due fogli liberali, allorché vorrà descrivere con veri colori l'ingresso del re Vittorio Emmanuele a Napoli.

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I fatti in que' periodici narrati ritroverà più vicini al vero, che non in molti altri giornali adulatori per mestiere o menzogneri per calcolo. Il primo di essi (Diritto num.314.) adunque paragona alle «forche» quelle costruzioni che altri chiamava «archi, di trionfo»; ed il corrispondente del secondo (Movimento n.316.) descrive «e quella pompa trionfale che a certi giornali sembrò così magnifica e tale da essere paragonala alla maestà degli antichi trionfi, nel modo seguente: Tra i carabinieri reali e la carrozza del re una frotta di lazzaroni e con ramo d'olivo e bandiere, che smodatamente saltavano, gridandoviva il re. E dalle finestre e dalla strada istupidita una folla, non saprebbesi dire se mal desta o briaca, guatava passare il corteggio, lasciando sfuggire qualche raroviva, o lasciando cadere qualche rarissimo fiore»: E le luminarie ordinate dal Municipio di Napoli per festeggiare I'avvenimento sono dalla stessa ministerialeNazione giudicale «pessime». Lo conferma laGazzetta di Genova col dire che furono «scarsi e poveri lumi» ed in gran parie spenti.

Non si vorrà niegar fede aiDèbats, i quali nella dispensa dei 23 novembre riferivano, per lettere da Napoli ricevute, che fin da quel tempo «le casse pubbliche erano vuote e che si viveva di pessimi espedienti. Si sono messi fuori, continua il citato giornale, buoni del tesoro, titoli di rendita ed i depositi della banca. Insomma si campò di carta. Il contrabbando è diventato uno dei diritti dell'uomo del popolo napoletano. I contrabbandieri avevano fatto lega difensiva ed offensiva coi camorristici, che sono una specie di briganti civili, capi

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per lo più delle prigioni e delle galere, ai quali gli abitanti di questi luoghi pagavano una specie di tributo per aver sicura la vita dagli assassini. La polizia aveva tratto dalle galere questi malfattori per iscovare con l'ajuto loro i ladri, e ne aveva fatto birri e spie. E questi spartivano coi ladri e prendevano il salario della polizia. Così mangiavano a doppio tagliere. I consiglieri di Luogotenenza si sono chiusi nei loro uffizi; il pubblico ne è disperso e respinto colle baionette dai carabinieri. Bisogna confessare che questi signori non ispirano veruna confidenza». Perlocchè stampava in questi medesimi giorni laGazzetta di Genova. «Napoli non gode ancora della desiderata tranquillità, non è ancora in quelle condizioni normali che inspirano la pace e la fiducia. I partiti non cessano di agitarsi». È corso un anno ed oltre dacché il corrispondente dellaGazzetta esprimeva quel desiderio; e le condizioni normali sono tuttora ben lungi dallo effettuarsi!

Giacché in questo luogo per la prima volta abbiamo menzionata la turpe genia deicamorristi, legione di carnefici settarii, che il succitato corrispondente deiDébats descrive con molta evidenza, citeremo ancora le parole di altri periodici che varranno a farli conoscere pienamente. IlNomade, che con maggior coraggio di qualsiasi altro giornate rivoluzionario ne ha sempre disvelate le turpitudini (e se ne potrebbe formare un ben ampio volume delle sue sole rivelazioni) pochi mesi dopo riferiva le loro macchinazioni per fomentare la guerra civile nella città di Napoli. Ecco adunque quello che egli pubblicava col titolo «Le prodezze dei camorristi(Nomade 23 luglio).Gl'industriosi camorristi hanno inventato un novo mezzo per estorquere danaro dagli uomini dabbene.

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Nel corso della notte, sulle porte delle botteghe scrivono a grossi caratteri: Viva l'Italia, Viva Vittorio Emmanuele. La mattina si presentano dai proprietarii di quelle botteghe e domandano la mercede dell'opera loro (la domanda è giustissima). Chi volete che neghi due o tre carlini ad un onesto camorrista, che vi ha scritto sì belle parole sulla porta? Chi osa negarli è un borbonico puro sangue. Ed allora? è trattato da borbonico e ne subisce le conseguenze.

E più oltre nella medesima dispensa lamenta che gli omicidii perpetrati durante il mese di giugno, nella sola città di Napoli, ammontassero all'enorme somma di cinquantasette. Termina invocando Io sterminio dei camorristi: Ilpotere provegga energicamente ai mezzi di far sparire queste continue scene di sangue, e si convinca una volta per sempre che tutte le provvidenze saranno vane se non si tenta un colpo deciso sull'esosa classe dei camorristi

Dal seno di costoro diramavasi una nuova società che coll'eloquenza delle percosse si studiava acquistare proseliti al governo piemontese. Questa società governata da speciali capi, ed avente peculiari statuti teneva la sua sede principale in torre Annunziata e domandavasi la «Società dei virgolatori»(Nomade 4 luglio)Secondo gli Statuti della sullodata società tutti coloro che non ne dividono le opinioni, o che non vadano a sangue a qualcuno degli onorevoli sodi sono bastonati(nel gergo. sociale virgolali)senza misericordia..

Da cotale tirannia perfino ilPopolo d'Italia, periodico del Nicotera e del Colucci, implorava che il governo piemontese liberasse la città di Napoli (Popolo d'Italia 24. luglio).Quando sarà libera Napoli da questa peste di nemici (i cammorristi)?

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Quando potremo essere sicuri di entrare a casa senza imbatterci nella presenza e ne pugnali di questi assassini?

Dopo che avvenne l'uccisione del Mele, ilNazionale ne attribuiva l'omicidio «alla profonda immoralità del popolo napoletano». LaDemocrazia, e ci basterà in questo proposito citare lei sola, risponde alNazionale, che si fa «eco dell'impudente Minghetti» sostiene risolutamente che l'assassinio del Mele debbesi attribuire alla «profonda immoralità degli amici e protetti» del ministero piemontese «L'immoralità, soggiunge, non è del popolo, ma della consorteria che ha retto il paese per nove mesi. I vostri amici, o signori del Nazionale,hanno invocato il braccio dei camorristi per salire, ed anche oggi si fanno circondare dai camorristi di alto bordo. I poveri della masnada andarono sulle isole. I forti, i ricchi stanno a corona dello Spaventa; negatelo se potete. Non calunniate il nostro popolo che per causa de vostri amici trovasi spogliato, oppresso e deriso!

Fra le grazie, che di frequenti ilPopolo d'Italia va implorando dai luogotenenti di Vittorio Emmanuele, è l'estirpazione della camorra, che definisce «piaga fatta cancrena ed associazione per commettere, assicurare e perpetuare il delitto».

In breve quest'associazione di malviventi, tutelata da quelli stessi che dovevano punirla, si è estesa per tutte e singole le provincie del regno; e se non ci portasse troppo in lungo l'argomento potremmo riferire le testimonianze delle lettere inviate ai giornali della capitale da ogni angolo del regno, ed i racconti della maggior parie dei giornali che si stampano nelle principali città.

Nel numero successivo, il medesimo giornate delDébats confessa che i prigionieri napoletani erano di grave

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imbarazzo pel governo piemontese, imperocché «è difficile incorporarli nell'esercito, in parte perché si dimostrano renitenti, in parte per le qualità che loro si oppongono ad un amalgama».

Il malcontento generale andava ogni giorno aumentando tanto nel popolo quanto nell'esercito, e del pari cresceva la confusione. «e Regna sempre l'anarchia nel più ampio significato e le pattuglie di birri e compagnie sono sempre in giro» pubblicava il (Diritto n.337.), come un saggio delle beatitudini del governo piemontese nel Regno delle Due Sicilie. Pochi giorni dopo narra, testimonio oculare, alcune di quelle scene di disordine e di ferocia dalle quali erano continuamente funestate le vie(Diritto a.343.) «La prima volta che percorsi le strade di Napoli credetti di trasognare. Una turba di popolo e guidata da alcuni soldati borbonici mi attraversò il cammino e mi voleva obbligare a gridareviva Francesco II. Mi era appena tolto dalle loro mani, quando vidi trasportare da una barella un bersagliere piemontese, che non dava più segni di vita per colpi e ferite ricevute, e chi diceva da un soldato borbonico, chi da un garibaldino. Altrove vidi un individuo in mezzo a due carabinieri sardi, e chi lo diceva un ladro, e chi un borbonico colto sul punto che gridava:morte a Vittorio Emmanuele. Insomma, disordine, anarchia completa; niuna sicurezza né della roba, né delle persone, assassinii e furti di pieno giorno. Tale è lo stato a cui ridusse Napoli in così breve tempo il Fariniano governo». Anche laPerseveranza, giornale ministeriale, conveniva che le turbolenze ed i disordini andavano crescendo, el'Unione, in quel medesimo tempo, affermava anzi prediceva come imminente una insurrezione; imperocché «il malessere è dapertutto, il malcontento dovunque».

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Da queste testimonianze non discorda il foglio officioso del governo francese laPatrie, che costretto dall'evidenza asseriva «L'alta società è scontenta del fare freddo e sopraffattore dei piemontesi; i lazzaroni insorgono da tutte le parti e gridanoviva Francesco II» Si perdoni allaPatrie la denominazione di lazzaroni, quando in vece era il popolo di tutte le classi, dall'infima condizione del pescatore alla più eccelsa del principe. E ciò è si vero che molti, tenerissimi del presente ordine di cose e trepidanti che non avesse cessare troppo sollecitamente, recavansi a Torino per illuminare di viva voce il ministero. Fra questi possiamo citare il professore Mandoj-Albanese il quale, secondo il(Diritto del 10 decembre) persuadeva il Ministeroa cambiare persone e modi di governo nell'Italia meridionale perovviare al pericolo ormai urgente di veder trionfare i partiti a lui ostili i quali in questi ultimi giorni avevano, secondo lui, presa ansa incredibiledall'irritazione popolare contro il governo.

Anche ilMovimento, avendo pregato qualche suo corrispondente di Napoli a trasmettergli notizie esatte sulla situazione di quel regno, ecco ciò che pubblica in data dei 3 decembre «Io vi dico che qui continua sempre più vasto e profondo il malcontento. Non ci è verso; coi piemontesi questi popoli non si acconciano in nessuna guisa. E i piemontesi, duri ed inflessibili come le montagne di Cuneo, da parte loro non vogliono adattarsi alle speciali abitudini, tendenze e bisogni di queste popolazioni, per cui l'urto è ad ogni passo, l'antagonismo in ogni questione. Ho letto nellaGazzetta del Popolo enell'Opinione delle amare recriminazioni contro coloro che cusano i loro padroni di voler impiemontesare tutte le rimanenti parti d'Italia.

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Ma l'accusa è fondata e ci vuol coraggio a tutta prova per respingerla senza esame. Dicono quei signori che Farini non è piemontese, né piemontesi sono gli uomini che li circondano, né Fanti, né altri che hanno alti posti. Ma sono piemontesi per servilità, per adozione, per sistema. La Farina, Siciliano, che nelle elezioni politiche, col mezzo delle sue società nazionali perseguitò Brofferio piemontese con una rabbia da satiro, è piemontese più di Cavour, più realista del re, più devoto all'ordine che un carabiniere nativo di Moncalieri. lo che fui per lunghi anni ospitato in Piemonte so quello che scrivo e veggo i miei cornee patrioti, già fin d'allora devoti a Cavour, oggi obbedienti agli ordini di Torino con abnegazione spartana. Ma «questa abnegazione non è cara al paese. E i ministri «del sig. Farini sono cordialmente odiati o sprezzati a.

Non solo i lazzaroni di Napoli, come si esprime laPàtrie, insorgevano a quel grido: ma secondo il quadro che ne presentaval'Unione 9 la commozione era maggiore per le provincie. «Nelle provincie, dice quel giornale, la reazione di qua, di là si fa largo dapertutto. Spontaneamente gli armati del borgo vicino, rimasto fedele, si precipitano su quello insorto, e la repressione diventa violenza, e la giustizia si cangia in vendetta. Porta le armi chi vuole: assassini, ladri, soldati sbandati sono i primi ad adottare la coccarda tricolore o la camicia rossa, e guai all'onesta gente!» Raccomandiamo alla riflessione dei nostri lettori le ultime espressioni «assassini, ladri, soldati sbandati sono i primi ad adottare la coccarda tricolore o la camicia rossa e guai all'onesta gente!»

Alle provocazioni ed alle violenze di costoro, la maggior parte garibaldini o guardie nazionali, si deve ripetere


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le prime mosse degli uomini del contado, i cui animi erano inoltre esacerbati per la perdita della dinastia legittima che sinceramente e calorosamente amavano. Uno dei primi fra questi moli è descritto dallaPerseueranza «A Cervinara, un duemila contadini armati assalirono la guardia nazionale, la disarmarono e la dispersero, abbatterono il busto di Vittorio Emmanuele, lacerarono le bandiere tricolori, e sostituirono l'immagine di Francesco II e le bandiere borboniche. Una colonna di garibaldini venne spedila colà e odo che abbiano molto infierito.»

Nel mentre che le fucilazioni e gli arresti, in meno di un mese, desolavano sessantadue tra borgate e città, per tuffare nella desolazione e nel sangue i sentimenti di nazionalità che incominciavano a manifestarsi contro lo «straniero piemontese» come fra i primi usò chiamarlo ilDiritto, questo giornale ne presagiva prossima la caduta colle minacciose parole che qui trascriviamo. «Un mese ancora dell'amministrazione che ci governa dalla venula del re in qua, e noi saremo a rincominciare contro Vittorio ciò che facemmo contro Francesco. Noi non abbiamo fatto che cangiar padrone e ministri. L'idea generale nelle pubbliche officine è che la babilonia attuale è supremamente passeggera; che gli stranieri, i piemontesi, non resteranno qui che alcune settimane». A queste espressioni delDiritto (quantunque per parte del partito, di cui quel giornale è organo, non seguite dal minaccialo effetto) faceva eco da lungi laNazione, periodico (come già per l'innanzi siè detto) ligio al ministero torinese e suo banditore per le terre toscane. Niuno ha giammai avuto il coraggio di smentire che laNazione, fondata e governata da alcuni ebrei, non viva del danaro tolto al pubblico erario in Torino. Abbiamo voluto premettere tutto questo, perché

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si attribuisca allaNazione l'autorità che merita. In un articolo principale (Nazione, n.352) confessa «che a giudicare da quello che stampasi a Napoli ognuno direbbe essere impossibile ogni conciliazione fra ogni governo ed il popolo, né restare altra via ai consiglieri, se non quella di abbandonare il portafoglio e lasciare il paese a se stesso.» E qui interroga laNazione se il torto sia del governo piemontese che non sa fare il compito suo, oppure «dei napoletani che di nulla sanno appagarsi?.» Risponde a se stessa «che i popoli delle provincie dell'antico regno partenopeo lamentano gli atti arbitrarii de' governatori, la lentezza o meglio la timidezza dei giudici, i quali lasciano impuniti atroci delitti, la esorbitanza dei radicali, le conventicole dei reazionarii.» E dopo questo tributo pagato allo spirito di parte, col chiamare in colpa anche i «reazionarii» (vale a dire gli affezionati alla dinastia legittima) conclude «Il male cresce smisuratameute, e se oggi è possibile un rimedio, domani sarà inefficace, perché tardivo. Le imposte non si pagano: alle pubbliche autorità non si obbedisce.» Né qui per miracolo si fermò questa volta la sincerità dellaNazione «Bisogna dire, continua, che governo e popoli hanno grandi torti. L'idea dell'autorità è affatto alterata nei napoletani; ed ogni governo, sol perché governo, è da essi avversata e combattuta!» Ora poi trasparisce chiara, attraverso la parafrasi del giornalista, la celebre sentenza del Minghetti intorno la«ingovernabilità dei napoletani.» Ma ci sia lecito osservare: alcuni mesi innanzi i popoli del regno delle Due Sicilie erano al mondo un documento di saggezza civile e di obbedienza. La loro sommissione, guidata da speciale intelligenza e da edificante zelo al benevole regime dei suoi antichi Signori, era

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soggetto di ammirazione a tutti gli onesti di Europa. A noi non conviene ricercare in questo luogo le cagioni che mutarono le abitudini, anzi l'indole del popolo delle Due Sicilie e lo fecero così rubello alla nuova autorità. Richiederemo soltanto: non è egli questo popolo il popolo dell'«unanime plebiscito, manifestato in mezzo a spontanea ed universale allegrezza?» E se egli è; come in così breve tempo cangiò volontà? E contemporaneamente ilPopolo d'Italia, mentre impreca con inaudita violenza alla reazione, fa sapere che le masse s'inebbriarono di speranze, anelano ad ogni momento la restaurazione. Il «malcontento è al colmo.» E rispetto alla difficoltà di trarre soldati dall'esercito borbonico soggiunge: «Essi se non vogliono essere dei nostri, si gloriano di essere militi di Francesco II, per cui solo intendono spargere il sangue: opporranno forza alla forza, e già incominciano a minacciare colle loro famiglie e coi loro attinenti.»

Verso la fine del 1860 il giornale deiDébats aveva pubblicata altra sua corrispondenza da Napoli, nella quale si leggeva che, secondo il parere dei giornali della opposizione «il regno è in preda alla reazione, e che in Napoli il malcontento contro il Farini e i suoi ministri è al colmo.» Quel corrispondente volle indagare se la colpa fosse del governo, del popolo o dell'opposizione, e scrisse di avere scoperto che l'opposizione era più oculata dei partigiani della luogotenenza, che si trovava perciò più presso al vero, che il torto era del governo, e che sacrificato era il popolo «L'impopolarità dei consiglieri, soggiungevano poco dopo iDébats, è in parte la vera cagione delle turbolenze. Essi pubblicano leggi che a un di presso sono leggi piemontesi. E tanto basta perché si trovino cattive!»

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Aggiunge in seguito un saporito aneddoto, relativo alla nuova legislazione, che non vogliamo ommettere. «Cosa veramente strana! Ogni qualvolta la Consulta discute una legge, riesce sempre a conchiudere che le leggi del precedente regno borbonico valgono meglio, ma finisce poi col l'accettare le piemontesi, benché con mala grazia e con palese rincrescimento.» Eppure questeleggi piemontesi non erano reputate né ancheleggi italiane dallaNuova Italia (anno primo n.108) e giudicato non delitto il violarle: «In quanto poi al rispetto alle leggi, scrive il citato periodico, che il ministro Cavour vorrebbe trovare e non trova fra noi; noi potremmo dimandare al ministero di quali leggi intende parlare, quali sono le leggi che questo popolo deve rispettare e contro cui è in manifesta ribellione?...

Le leggi del Piemonte, a cominciar dallo statuto, non sono leggi italiane perché non sono il prodotto e la emanazione del diritto pubblico nazionale italiano, e però non è delitto il riprovare quelle leggi ed il protestarvi contro.» DaiDébats ritorniamo allaNazione, e da questa passeremo a diarii ancor più francamente rivoluzionarii per udire da essi la condizione in cui era questo nostro regno sullo scorcio dell'anno 1860. LaNazione adunque, nella sua dispensa 362, dice: «Se tristo è lo stato della capitale, tristissimo è quello delle provincie. Le condizioni in cui versano le provincie sono deplorabili. Interrotti i commerci, abbandonato il lavoro, frequenti i delitti. L'autorità del governo non può altrimenti ristaurarsi nelle provincie, in cui se n'è smarrita fino l'idea, che con la forza, ed è appunto la forza che gli manca. Ora l'opera sua è quella di trovar rimedii e rattoppature, e non già quella di governare.» Ed inoltre «Il male, e male gravissimo, risiede nella debolezza dell'autorità governativa, ed uno è il rimedio a quel male,

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coprire di milizie tutte queste provincie meridionali.» II consiglio poi di«ristaurare l'autorità colla forza» era mandato questa volta dalConstitutionnel. Ecco le sue parole (Constitutionnel, 24 Decembre). «Mi si fa sapere che il Farini avrebbe risoluto di mettere mano ad un sistema di severa repressione. Il governo ha già potuto accertarsi dei felici risultati ottenuti coi mezzi di rigore attuati questa settimana, e vi assicuro d'un pieno riuscimento se non esita a spingersi risolutamente innanzi su questa via, che è la sola possibile, per condurre a quiete gli animi e ristabilire l'ordine.» Anche di questi suggerimenti fecero lor prode i Gialdini, i Pinelli, i Virgilii e tutta la brigata dei conquistatori. Per ciò ilPopolo d'Italia (29 Decembre 1860) stampava in Napoli «che il paese è malcontento: cercava fratelli e trova dominatori.» E dopo aver gridato contro le istituzioni, le idee, i pregiudizii e le ambizioni piemontesi lamentava che «il rincarire degli affitti, del sale, dei cereali, degli oggetti di prima necessità, la mancanza di lavoro e la scarsa circolazione del numerario hanno sconfortati, disgustati lutti gli animi. Il popolo ogni dì sente i bisogni ed ogni di vede scemare i mezzi di far fronte alla crisi. Gli arresti arbitrarii di ottimi cittadini e la penuria crescente in tutto il paese dimostrano ad evidenza che l'inettezza, se non peggio, presiede ai consigli del governo.» Ed ilLampo predice ai Napoletani la fame e la peste per giunta. «La squallida fame, con minacciami e concitali passi, si avanza in queste nostre meridionali provincie, come ognun vede e lamenta. Da essa possono nascere turbate menti popolari deplorabilissimi, come ne fan fede a pieno e i fatti di Milano descritti al vivo dall'erudita penna

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dell'illustre Manzoni, e quei del Masaniello avvenuti in Napoli appunto or fan due secoli e tredici anni.» Anche ilNomade dice apertamente «Le condizioni in che volge la macchina governativa del paese, lungi dall'essere migliorate volgono sempre più al peggio.» In tali frangenti il governo spingeva la comune di Napoli a contrarre un prestito per dar pane e lavoro al popolo affamato «e non riuscì finora a trovare un soldo in una città così popolata e ricca» attesta ilCorriere Mercantile di Genova. Daremo l'ultima pennellala a questo non consolante quadro colle iraconde parole delLampo che volgendosi ai governanti così li rampogna e sfolgora: «Ritiratevi - il popolo minuto vi maledice, la borghesia vi sprezza - Sgombrate!» E nel giorno 26 di novembre ripete: «le moltitudini deluse, scontente, affamate, ripete tono con disperazione: le nostre sorti sono le medesime: pensateci, avvisate, o ritiratevi.» E quelli sgombrarono cedendo le curuli ad altri proconsoli non più fortunati.

E, se dal continente passeremo nell'isola della Sicilia, ancor più lagrimevole spettacolo, se può esser possibile, ci si presenterà allo sguardo. Noi, seguendo l'intrapreso istituto, lascieremo chel'Unità italiana, ilDiritto e laNazione cel descrivano. Quest'ultimo foglio dice che dopo i proclami del Montezemolo e del Lafarina si accrebbe ogni dì più il fermento popolare, che le dimostrazioni divennero più frequenti e violente, che l'inno a Garibaldi era ripetutamente cantato in tutti i pubblici luoghi, come inno di guerra contro Cavour e che il «povero Montezemolo non può mostrarsi in pubblico senz'essere salutato da quella musa diabolica che gli fa digrignare i denti.» In una parola, è l'Unità Italiana che parla «tanta è l'avversione del popolo contro questi Signori che assolutamente

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bisogna che si ritirino dal potere e presto. In «compenso dell'odio popolare i ladri e gli assassini salutarono con gioia e riconoscenza l'arrivo al potere del Lafarina. Le crassazioni e gli omicidii son divenuti così frequenti nelle vie di Palermo che pochi son quelli che si attentano a sortire di casa ad una certa ora di notte nell'interno della città; nei subborghi e fuori le porte e si vive in un vero stato d'assedio; sino dall'imbrunire ognuno si chiude in casa e si asserraglia meglio che può. Peggio poi nelle vicine campagne ove i furti e gli assassinii si commettono più numerosi che mai di giorno e di notte.» Qui passa a citare i fatti a corroborazione delle sue assertive, indicando i luoghi ed i giorni e la quantità dei misfatti che si andavano perpetrando. Conclude: «Simile è in complesso la storia contemporanea di tutte le parti di questa estrema terra italiana.» IIDiritto infine, dopo avere addotti molti particolari di uccisioni, di rapine e di assassinamenti, commessi fin sulle porte di Palermo, confessando ignorare i disordini che avvengono dentro l'isola, stante la difficoltà delle comunicazioni, ripete quasi parola a parolal'Unità italiana. «I furti e gli omicidii sono sempre all'ordine del giorno, e di notte non si esce impunemente senza timore ed ansietà. Dopo due ore di sera, lutti sono ritirati: i ladri sono scatenati.» E ciò ad onta della militare vigilanza, come accerta il corrispondente del citato diario, vigilanza, che fa intravedere nei conquistatori il sospetto abbia a divampare un altra volta quell'immenso incendio di popolare vendetta chemosse Palermo a gridar mora,mora: «I capi dei varii corpi militari qui residenti sono stati prevenuti che si tenessero pronti con istabilito ordine al tocco della generale.» LaNazione poi di Firenze confessa che verso

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gli uomini dal Piemonte inviati a governare l'isola di Sicilia «non vi è ingiuria od imprecazione che si stimi almeno esagerata.» Per ciò scrivevano alMovimento che nell'una e nell'altra Sicilia «il governo, abbandonato dalla pubblica opinione, ripudiato da quelli stessi, che ciecamente si erano dati in braccio agli uomini venuti a rappresentarlo, oscilla, tentenna, non sa a quale partito appigliarsi; non trova, o difficilmente e male trova uomini che vogliano sobbarcarsi a dividere la responsabilità, o meglio la complicità di un cattivo sistema.»

In questo mezzo il principe di Carignano era mandato nel regno delle Due Sicilie ad esercitarvi il regio potere, e vi andava caldamente raccomandato a quelle popolazioni da Vittorio Emmanuele nel suo bando dei 7 gennaio. Ma, anzi che scemare per questo i segui dell'universale abborrimento contro i nuovi dominatori, ingagliardirono in vece e si estesero mirabilmente in tutte le provincie della Sicula monarchia. A nulla valsero gli ordini delle «fucilazioni immediate.» di chiunque fosse preso colle armi alla mano. A Foggia ed a Lanciano si mandarono truppe regolari a spalleggiare le nazionali e le mobili che soccombevano. Gli Abbruzzi con unanime volontà accorsero alle armi. Nelle Calabrie, nella Terra di Lavoro, nella Provincia di Sora; in Avellino, in Ariano, in Foggia le popolazioni dimostrarono immediatamente colle armi alla mano la loro affezione alla indipendenza nazionale, ed alla prediletta monarchia. Lo stesso attuale presidente del consiglio dei Ministri di Torino ora l'ha confessato, cogliendo l'opportunità di correggere in qualche modo le inesatte espressioni dell'ultimo suo «memorandum» intorno ciò che con espressione appresa ne' giornali del partilo chiamò «brigantaggio delle provincie meridionali» dicendo nella prima sessione

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del secondo periodo della camera piemontese che «Uomini ci vogliono, e questi non si hanno che colle leve, e con delle leve successive; e non si fauno gli uomini, quando un brigantaggio feroce affligge le provincie su cui sono sparsi sei milioni di uomini.» (Rendiconto officiale, pag.1251 col.1.).

Si raccoglie nelle corrispondenze dellaNazione di questi giorni, che nelle sole città d'Isernia, Teramo, Lanciano e Vasto avevano i piemontesi imprigionati, per dimostrate tendenze di avversione al loro governo, non meno di due mila e cento persone. A Napoli poi sostennero in carcere sei generali e moltissimi officiali dell'esercito borbonico per semplice sospetto e per timore non si mettessero alla testa delle popolazioni insorte. Con simili disposizioni negli animi non fa maraviglia conoscere come da Torino si ponevano in opera tutte le arti della seduzione governativa per ottenere l'elezioni dei deputati napoletani e siculi al parlamento subalpino, mandando a Napoli ed a Palermo, come più d'una volta ripete ilDiritto «buoni argomenti elettorali, cioè molta moneta sonante; secondo il noto adagio che l'oro fa miracoli.» Asserirono inoltre diversi giornali che, per assicurare il riuscimento di questa bisogna, fu spedito con tutta diligenza a Napoli uno dei più rinomati scrittori dellaGazzetta del Popolo di Torino, uomo che aveva stretti legami con tulle le società secrete d'Italia e di Francia.

Ora che, nei primordii del presente anno 1861, la immane ferocia dei soldati piemontesi e la ribalda vigliaccheria di quelle ciurme armate che si cuoprono col nome di «nazionali mobili» desolano di eccidii e di devastazioni ogni provincia del regno siculo, e le funestano colla più scandalosa guerra fraterna che l'Europa abbia giammai

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veduto in nessun periodo delle sue dissensioni civili, talmente sovrabbondano le narrazioni dei miserandi casi, sempre desumendoli dai giornali liberaleschi che soli andiamo spogliando, e sì fieramente commovono l'animo a pietà ed a sdegno, che tutta quella lunga serie di fatti non possiamo con altro nome chiamare se non con quello di tirannica oppressione da niun secolo mai veduta né tanto immane, né tanto a lungo protratta. Non pochi furono i giornali che osarono alzare la voce per denunziare alla civile Europa, ohe tanto mostrò di gemere agli immaginarii racconti di Gladstone, le barbarie vere, ond'erano infestate le sue più belle e più culte provincie. E fra tutti questi giornali valga ripetere il soloMovimento di Genova, il quale così narra: (dispensadei 17gennaio 1861) «A Barletta nelle Puglie la guerra civile è scoppiata, e da tre giorni il vicino si balte a fucilate col vicino, i parenti fucilano i parenti. Di qual cosa sia capace la guerra civile non lo domandate alle antiche storie, domandatelo al villaggio di Carbonara, i quali hanno visto cinquanta dei loro migliori conterrazzani presi e tradotti sul ciglio d'un burrone, ivi ad uno ad uno decapitati a colpi di scure in mezzo alle briacbe grida dei carnefici, che si compiacete vano di vedere rotolare le mozze leste io fondo al burrone, e poi rividero quei cadaveri mozzati di nuovo trascinati sulla piazza del paese ed ivi posti a fila come maiali posti in vendita ed offerti a chi volesse comprarli. Questa è la sicurezza che ha fatto il governo del Farini nel reame napoletano! La penna rifugge dal descrivere altri orrori che non mancano. Annunziate con quanti mezzi avete che le provincie napoletane versano nei più gravi pericoli e che, se il governo non sappia o non voglia prontamente riparare, non gli resterà più che a

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ritirarsi davanti alle barricate di cadaveri ed alle ondate di sangue.»

Quis talia fando

Tempera a lacrymis?

Contemporaneamente scrivevano alDiritto: Per terribile castigo di Dio veggonsi rinati i tempi di Robespierre e di Marat, e lungi le mille miglia dall'avere la libertà, è divenuto schiavo financo il pensiero,e s'ignora perfettamente la condotta che si deve tenere da chi non vuole ingerirsi che dell'adempimento esclusivo dei proprii doveri. Non un giudizio, non un consiglio di guerra, non la volontà unita, o per maggioranza di più persone, ma per volere di un solo si fucila, e si fucila anche senza gli estremi conforti della religione; si fucila perché un generale, un maggiore, un caporale l'ha ordinato... Le barbarie che si sono commesse a Nesti farebbero orrore agli stessi cannibali; a queste succederanno le fucilazioni, e sì per un verso che per l'altro un immensa ecatombe di umano e fraterno sangue compie l'opera di quella rivoluzione che doveva portare la rigenerazione d'Italia.

Ed ilNomade dice di avere il tavolo pieno di lettere che tutte quante contengono racconti di «furti, tasse, incendii, rapine, assassini!». Dice ancora di essere per quelle scongiuratoa levar su la voce ed a reclamare energici provvedimenti dal governo. Ciò abbiam fatto, risponde, efaremmo ancora se avessimo speranza almeno, che si desse ascolto alle nostre parole.

Gl'inesorabili strumenti della tirannide piemontese, quelli che in maggior numero allo straniero dominatore provavansi di soggiogare a furia di stragi, di rapine e d'incendii le patrie terre, dilapidarne i tesori, falsarne

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lo spirito pubblico erano e sono per l'appunto coloro che camuffati della veste di esuli dal regno napoletano per delitti politici a Londra, a Parigi, a Losanna e per ultimo a Torino erano andati imparando l'economia ed il meccanismo di una tirannide, che le terre del regno siculo non avevano mai provata. Contro costoro, pretesi martiri di ieri persecutori spietati l'indomani, non hanno bastanti parole di spregio, che bastino, ilNomade ed ilPopolo d'Italia, giornali (come ognuno sa) compilati anch'essi da emigrali politici. Di essi diceva ilPopolo d'Italia num. dei 25 settembre 1861.La consorteria di Napoli, schiera di martirii,satolli, si è data la posta a Firenze, quindi =un ite e venite di genti infinite =Essa non agogna l'esposizione di Firenze, ma il potere. Vedendo sfuggirgliesi a Napoli, corre in riva all'Arno per riafferrarlo. Qui i Conforti circuiscono il re e il ministero, con foschi colori dipingono la situazione di quest'Italia meridionale, la dicono in preda alla rivoluzione, e quindi sull'orlo del precipizio. Poveretti. Avrebbero invano sprecati dieci mesi a corrompere questo popolo, a suscitare il brigantaggio, a scindere gli animi, a rovinar la finanza e disarmare i cittadini per iscongiurare questo terribile spettro che lor fa tremare le vene e i polsi, la rivoluzione! Dormano pure i loro sonni tranquilli i faccendieri di Torino. In fondo, in fondo alla quistione, non vi è che il privilegio delle pagnotte per la consorteria. E se l'abbiano!

Ad uno ad uno, soggiunge ilNomade «tutti vennero al potere, ebbero la gioia di ricevere da semidei le suppliche di quelli che avevano schiuse le porte della patria; ad uno ad uno fecero esperimentare col fatto il loro valore nominale sicché il paese scontò l'errore di averli creduti grandi e lo scontò con durissimi disinganni,

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non si contentarono del rispetto e del potere, ma divennero terribile setta, per cui era nemico chiunque non scendeva ad inchinarsi e ribelle chiunque osava contradirli. Posti, onori, ricompense, tutto fu dato agli amici dei loro amici, a servi dei loro servi, a cagnotti dei loro cagnotti». IlPopolo d'Italia è ancor più esplicito «Il governo è un partito, da un capo all'altro della penisola una pioggia di feroci calunnie, di basse infamie, di codarde menzogne ottenebrò l'aria» Raffaele Colucci soggiungeva «Si volle precipitar tutto, far vedere il paese perduto, profittar della buona fede dei gonzi, della inesperienza di un popolo nuovo: la magagna riuscì, chi trionfò fu l'intrigo che già si aveva accaparrati i primi posti, ed il povero paese abbracciò come suoi salvatori coloro che invece ne erano gli assassini».

E chi erano costoro? Vel dica lo stesso Raffaele Colucci: «Gente venuta da Torino a pigliarsi le spoglie opime di Napoli, figli degeneri e snaturati, che avevano già avuto il tempo di succhiare altro latte, in quella che li rodeva la propria ambizione, famelici sul pasto anche pria che fosse imbandito, esperimento di cuccagna cui si afte frettarono di accorrer quanti non avevan com'essi né merito, né onore, né amor di patria, né dignità».

Ed ancor più tardi, dopo passali di molti mesi, ilNomade ritrova motivo di adirarsi contro gli emigrati napoletani che il governo piemontese spediva a tiranneggiare la loro patria: «Egli è tempo ornai che la razza emigrata si disperda, e se il governo piemontese senti bisogno di valersene, la compensi, se pure la rea consorteria non si compensò da se medesima, e ci privi pure di sì care gemme che non son punto necessarie alla nostra corona. Noi rinunciamo di buon grado a tali uomini.


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Il governo piemontese li trovò buoni cittadini, volle crederli grandi e probi; se li tenga dunque per se».

Fecesi in questi giorni passare per le mani di molti, perché la validassero di loro firma, una petizione colla quale sipregava il luogotenente di licenziare gli attuali consiglieri e circondarsi di altri.

Ignoriamo comel'Omnibus, a cagione di questa petizione, cogliesse il destro di esaminare i partiti nei quali si classifica la stampa napoletana, secondo lui. Dei cinque partiti, che nomina, quattro sono reprobi, ed uno soltanto (ed anche quest'uno composto di pochi) lodevole perchécol vero, col giusto e con l'imparziale bada a vivere del suo fondo, a crescere così gli associati, ed allargare il reddito senza insultare, né corteggiare il governo. Del bel numero uno si ritiene senza fallo l'Omnibus stesso, per cui con maggiore sicurezza faremo nostro utile delle sue riflessioni. Siccome nella petizione succitata si diceva che i nuovi signori del regno delle Due Siciliemostrano di aver dimenticato non solo, ma di sconoscere interamente le vere piaghe che angustiano il paese, così l'Omnibus con pia intenzione si studia di richiamarle alla loro memoria. E prima di tutto dice con maestrevole gravità:

«Circa i rimedii, il governo non senta né gli scrittori repubblicani, né gli affamati, né quelli non ancora adagiati, ma gl'indifferenti, onesti ed imparziali.»

Che tradotto in linguaggio volgare suonail governo senta noi.

I rimedii adunque proposti dall'Omnibus sono i seguenti. Noi li citiamo per sommi capi, quali testimonianza del disorganamento colà recato dal governo piemontese.

«Riorganizzare l'amministrazione civile, giudiziaria e militare. - I buoni militari, gli ottimi amministratori,

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i magistrati integerrimi, sono scacciati ed avviliti per un pelo politico. Allontanare e punire gli assassini è giustizia; ma i buoni e probi è ingiustizia. I capi di ripartimento sono quasi tutti nuovi ed ignari, quali martiri, ma incapaci; quali cattivi, ma degni d'essere martirizzati; e quali, infine, e sono i più, che vantano il sommo merito di essere stati gli amici di d. Liborio o di d. Raffaele. - Raffermare la sicurezza pubblica, donde la tranquillità e la pace dei cittadini. - Mettere il merito a suo posto e non il partito. - Riordinare il commercio, l'industria, il libero scambio. Soccorrere col buon mercato dei viveri il popolo, il quale si lagna giustamente perché credesi ora più che mai burlato, essendosi tolti i dazi sui cereali, i legumi, le paste etc. ed intanto i prezzi minuti, sulla farina, sul pane etc. sono gli stessi e carissimi; termina dicendo: «Ma nulla di peggio che farla da dottori. Noi compatiamo di vero cuore il governo. Il conquasso pasce salo avvilirebbe qualunque più acuto amministratore, se il sig. Farini non si regge, Iddio solo può riparare a questa rovina passala e presente. Ma di tutti questi guasti accagionatequegli assassini....quelli maledetti.... che vorrebbero vedere subissato il mondo purché avessero il loro impiego sia da Tito sia da Nerone Ma si avranno l'abbominio, il disprezzo, e la fame».

«Intanto il vuoto sempre più si aumenta» continua ilDiritto in questo medesimo proposito «illegalità negli arresti politici d'ogni colore, violazione di domicilio, basse insidie nell'assicurare i colpevoli, giudicabili non esaminati. La plebe in armi disobbedisce le ordinanze, ed una consorteria di bravi esigge un premio dalla forza bruta» Tali furono a confessioni degli stessi rivoluzionarii le opere dei loro commilitoni e per lunghi anni fratelli nel congiurare.

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Diamo per ultimo il ritratto die dei nuovi governanti delinea ilPopolo d'Italia (Disp. dei 18 luglio).Uomini di spedienti, non dì principii, privi di concetto proprio, vivono foggi per l'oggi; e quando dopo essersi lungamente arrovellati a mutare o creare una posizione, questa loro sfugge dalle, inabili mani, tu li vedi nell'astio sa impotenza sopravvenire dopo un fatto compiuto, a guisa di chi chiama il medico quando il morbo volge a cancrena. Uomini di tal fatta, in linguaggio scenico,diconsi nullità.

Li paragona ilLampo «a colui che, piena l'esca in «sino al gozzo, non aggiusta fede al misero che casca di fame». E continua «Vorrem sapere che pensereste voi se, cambiando i profumati appartamenti coll'affumigato casolare, le sontuose mense con uno scarso e muffito tozzo, foste condannati a trascinare una miserabile esistenza, amareggiata dalla ingratitudine degli uomini e dalla sevizia della fortuna? Qual cuore sarebbe il vostro; che direste all'Italia; che giudichereste della libertà? Oh! sì, voi disprezzaste il popolo, ed il popolo si alienò da voi; anzi in odio vostro si ebbe la patria come una burla, come una macchina di pochi per mercare onori e fortuna»(Lampo 16 luglio).

Queste furono le principali cagioni per le quali, secondo laDemocrazia (n.102.) le provincie del Napoletano in cambio di concorrere all'aumento dell'esercito, all'aumento delle pubbliche finanze, colle agitazioni delbrigantaggio consumano una buona parte dell'esercito, ed inaridiscono le fonti della ricchezza coll'inaridire il commercio ed ogni sorta di traffichi. Di chi la colpa? interroga laDemocrazia, del governo. Ora caduti i Borboni «che cosa han fatto i governanti per collegare l'Italia

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meridionale all'Italia del settentrione? Han mutate alcune leggi, ne hanno modificate. altre, ne hanno pubblicate molte senza eseguirle, ma non hanno saputo creare niun grande e possente interesse che avesse virtù di legare i popoli del mezzogiorno a quelli del nord, ed a fonderli in un solo e profondo sentimento»,

Tante si furono le nefandezze consumate da questo sciame di esseri malefici, dalDiritto chiamato «consorteria di bravi», che ilPopolo d'Italia non teme di assicurare essere «la misura veramente al di là del colmo» Tanti gli assassini! perpetrati che lo stessoDiritto, dopo una ben copiosa serie che reca in mezzo, conclude: «Rifugge l'amino e la mano a continuare». Basta questo, ed è anche troppo a riempire di mestizia ogni cuore umano: «Tante sono le offese, le ferite, le aggressioni, e sino le uccisioni qua e là, che noi dobbiamo altamente protestare contro la pubblica noncuranza verso la sicurezza dei cittadini».

Ovunque si è inoltrato per le terre italiane il sedicente governo, «moralizzatone», suo corteggio si dimostra l'immoralità dei costumi e l'inserimento dei delitti. Non havvi città in cui non sieno state mosse lagnanze anche dai meno scrupolosi in simil genere di cose. N'è testimonianza ilPopolo d'Italia; che s'indigna alle pubbliche mostre di malcostume, frutti dei perversi ordinamenti civili e delle depravate persone, che dal Piemonte si spediscono a governare le provincie del regno delle Due Sicilie. Inseriamo per intero la testimonianza di questo liberalìssimo periodico. «Abbiamo notata la moltitudine dei libri osceni venduti da giovanetti e da ragazze pubblicamente per le vie e pei caffè, tali che Londra, la terra classica della e libera stampa, non lo sopporterebbe.

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Ci pesa il dirlo, ma lo diremo. A Napoli, vi sono stampatori che specolano sulla più bassa depravazione della gioventù. Lo straniero che giunge a Napoli, ingannato sui nostri costumi, avrà ad esclamare fuggendo: questa non è terra di libertà, ma cloaca». Ma queste denunzie delPopolo d'Italia e di altri periodici rimasero del tutto sterili presso le autorità governative se ilNazionale stesso, negli ultimi mesi dell'anno accoglieva nelle sue colonne la sensata ed elegante lettera col titolo diun centeilino di morale che qui riportiamo. Anche ilNazionale conviene dello sconcio rivelato dallo scrittore della lettera e ne raccomanda caldamente la repressione. Ma noi abbiamo fondamento di asserire che il governo piemontese non vi ha posto fino quest'oggi nessun riparo. Ecco la lettera per intero:

«Da più d'un anno, si grida da tutti, che la libertà non può metter salde radici e durare, se non è provveduto severamente al buon costume.Moralizzate il popolo, moralizzate, si grida, con vocabolo nuovo, la più vecchia cosa da tutte le gazzette della penisola; e nessuno ci trova a ridire, perché l'è una verità sì trista e chiara, che non ha bisogno di esser dimostrala e detta due volte per esser creduta. Ma e' son gridi sprecati, mi pare, essendo lì un fascio di leggi, e saviissime, mettete, che proteggono la sicurezza dello stato, la religione, i costumi, la libertà, la proprietà e tutte quelle altre cose che han diritto alla protezione delle leggi. Invece di dire, come si usa, ai ministri:fate il bene; io vorrei che si dicesse:impedite il male. Per fare il bene, non ho bisogno che il governo mi sostenga le braccia, e m'aliti dentro. Mi dia libertà, libertà piena e intera di far tutto quello che è lecito di fare, senza offendere gli altrui diritti:

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non s'impacci d'altro, insomma, che di spazzar la strada, come s'usa di fare, p. e., in Inghilterra: ma il male, il male dee impedirlo, perché la forza sta nelle sue mani; e se io, sudato che avrò un giorno intero per far masserizia di pochi soldi, m'addormento nel mio letticciuolo, e il ladro viene, e mi toglie il frutto delle mie fatiche, la colpa è del governo, il quale dee vegliare, quando io dormo, e usar della forza per proteggere i miei sonni, mi pare. E per dirne un'altra, pogniamo che io mi strugga dell'educare un giovinetto mio figlio, e gli dica:figlio mio:sii casto, sii modesto, e non far niente che offenda il pudore tuo e d'altrui; ho forse bisogno del governo, che m'ajuti a insegnargli questo bricciol di morale? Ma se mio figlio esce di casa, e trova chi gli dica per via:tuo padre ha voluto la baja del fatto tuo; e poi, per giunta, mettendogli in mano un non so che dipinto di donna ignuda, gli dica:guarda qua, quelle poma, que' fianchi, quel seno....; sta egli bene? o non dee il governo impedire siffatte lezioni di corruttela?

«Signore, è questo proprio il caso. Voi perderete il fiato nell'insegnare ai vostri figli e alle figliuole vostre la castità, la continenza, il pudore; perché, quando usciranno fuori del santuario della vostra casa, troveranno che le cantonate di Toledo e di Chiaja son lì per darvi una smentita a ogni passo. Signorsì, e tutti lo sanno: si trova ognora capannelli di persone in sugli usci delle botteghe che se ne vanno in succiole nel guardare estatici, che cosa? Di graziose donnine, ritraile per fotografia, che fanno pompa chi di gambe, chi di mammelle, chi dell'une e dell'altre, e chi anche di spalle, di seno e del resto, atteggiate con cura e studio infinito per muovere appetiti pur troppo vivi e desii.

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Dite signore; o non credete che la sia una bella, succosa e assai giovevole appendice alle povere e incompiute lezioni che un onesto padre fa nel secreto della casa ai giovinetti figli?

«La legge trova che ciò sia mal fatto; e nel già codice penale di Napoli sta scritto nell'articolo 315 qualche cosa su di questo proposito; e nel codice sardo, ora italiano, ce n'è ancora negli articoli 185 e 420. Onde vedendo, signor mio, che la legge dice una cosa, e i suoi ministri se ne stanno, che cosa ne deggio concludere? O che io abbia le traveggole, o che essi han torlo di far la gatta di Massina, quando non solo non han da dormire, ma neppure han da fingere di dormire. Se chi ruba l'altrui, chi uccide, chi offende, è preso e chiuso in carcere, e tutti fan plauso; perché mai chi ruba l'innocenza di un garzone o di una fanciulla, chi gli uccide e gli offende in cuore la castità e il pudore facendo di oscene mostre in' sulle vie, merita poi che sia lasciato vivere in pace? e che traffichi anzi d'immoralità, e ne tiri schifoso guadagno? E a che siam venuti? O si crede che non sia di gravissimo danno eziandio alle altre parti della morale, della civiltà e della libertà, il tollerare che sia fatto un cotale scempio delle più delicate e sante cose? o che si può infettarne una parte, senza che si macchi ed avveleni anche il resto, e se ne turbi l'armonia? E pure quegli stessi che abusano sì tristamente della libertà, avrebbero in aborrimento l'esporre in mostra e vendere i ritratti delle madri, delle mogli, delle suore e delle figlio loro, non dico già cosi denudate e in quegli atti vili ed infami, ma eziandio vestile più onestamente.

«Se trovate per queste cose che il pubblico pudore è offeso, perché non impedite, signore, che in questa città, pur tanto savia, onesta e gentile, si dica di non essere chi apertamente gridi:

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Signori giudici, voi punite chi fa oltraggio alle nostre sudate libertà, voi punite l'omicida, voi punite il ladro e il frodolento, voi punite gli altri offensori delle leggi, bene sta; ma perché lasciate di punire ehi ci vuoi persuadere nelle vie che è cosa bella, piacevole, innocente lo ammirare le composte e artifiziose nudità delle pubbliche meretrici? Che se pure è impossibile che non avvenga il male, perché non si provvede, almeno, che sia sottratto alla luce piena del giorno? Quel che non è lecito, anzi è abominevole, in Turchia, nella Cina, nella Groenlandia, sarà ben fatto e sopportato in quell'Italia, dove già fu privato degli onori di cavaliere romano chi si permise di baciare la propria moglie in presenza de' figli?»

Lasciamo queste sconcezze che muovono a schifo, il cui frutto contristerà le generazioni avvenire.

Perfino nella magistratura comunale si è innestata l'inettezza e l'incuria dei nuovi dominatori; e spesso i giornali rimproverano quel municipio di non avere «abbastanza coscienza della dignità propria» IlPopolo d'Italia scrive:Napoli mostra in ogni luogo e in ogni cosa l'incuria municipale. Questa città, per cielo e natura la bellissima delle gemme che formano l'italo serto mette schifo pel sudiciume e pel pauperismo che la deturpa» Le vie sono ingombre; ne' mercati è disordine; le cure dell'igiene non appaiono in verun luogo; manchiamo d'acqua; non si parli nemmeno di tutto quello che spetta all'abbellimento. Non dimandiamo per ora che il necessario.

E, dopo avere così rivolti i suoi rimproveri al municipio napolitano, il suddetto giornale studiasi diminuirne la colpa, perché di formazione recente, perché legato dal «provvisorio» e della sua inettezza ne accagiona il governo.

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Voi, che dite inerte ed incapace il Municipio nato da un mese, a voi che titolo dobbiamo concedere, a voi che da dieci mesi non avete composto nulla, riordinato nulla, quasi mettendo in dubbio, quando non fosse la volontà e la pazienza della Nazione, la stessa esistenza della Nazione?

Conseguenza certa ed inevitabile della pubblica immoralità e della inerzia delle autorità sono gli assassini e gl'incessanti e sfacciati ladrocini! che riempiono ogni mattina le colonne dei giornali ed i referti della questura. LaNuova Italia, esaminate le condizioni miserevolissime in cui versa il regno, dice: «La proprietà è manomessa; la sicurezza pubblica è una idea negativa; la giustizia è un nome vano; tutto infine procede alla peggio e lo scontento è generale». IlNazionale, foglio del ministero, corrobora questa volta le proposizioni dellaNuova Italia annoverando gli assassinii commessi a mano armata, i posti di guardia aggrediti, la resistenza che ovunque incontra la forza pubblica destinata a reprimere i delitti. Perciò l'Espero lamenta che «nulla si faccia pel miglioramento di questa sventurata terra, dove pare che tutto vada anzi corra a precipizio. La giustizia vilipesa, la finanza dilapidata, la sicurezza pubblica compromessa. Uomini inetti collocati alla somma degli affari».

«Si poteva studiar notte e giorno, conclude laDemocrazia (n.132.) per preparare lo scontento e la reazione nel regno di Napoli, ma non si poteva riuscir meglio di quello che sono essi riusciti, abbandonandosi alle burocratiche aspirazioni del loro cuore. Napoli nobile, ricca e florida, capitale di 500 mila anime, che aveva una corte che spendeva e mille famiglie ne godevano; il reame di Napoli di 9 milioni d'abitanti,

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con un'autonomia ed una esistenza politica dovette tutto perdere e capitale e corte e privilegi e autonomia dovette tutto perdere pelPiemonte, che lo assorbiva e lo umiliava, mandando le sue piccole individualità affatto nulle ed improprie e innestando le né leggi niente adatte ai bisogni ed alle esigenze del paese».

Era allora posto di fatti alla somma delle cose quel Liborio Romano, i cui artificii di governo sono descritti finanche dai corrispondente napoletano deiDèbats «Il nome di quest'uomo», stampa quel giornale è più che sufficiente a qualificare il governo che gli commette si alto ufficio, e le condizioni nelle quali deve trovarsi il regno, ed a spiegare la libertà di cui gode qualche migliaio di assassini, tratti fuori dalle galere per valersene a mantenere l'ordine, e sotto la loro parola d'onore che si condurrebbero da galantuomini». E laMonarchia Nazionale così dipinge lamoralità di Liborio Romano «Egli ha tradito la causa del Borbone; ma condusse la trama in modo che se le sorti ci si volgevano sinistre, forse egli approssimandosi di più a Francesco II, si sarebbe dichiarato a noi contrario. La sua condotta equivoca autorizza ogni supposizione tanto pel passato quanto per l'avvenire, perché quando si venne meno alle prime norme, che devono guidare un uomo franco e retto, manca ogni criterio per giudicare gli uomini tanto nelle cose politiche quanto nelle private faccende». Più sopra di questi «galantuomini» abbiamo già fatto parola, e ne registrano le gloriose gesta i giornali nostrani e forastieri; che anzi uno di essi descrive la loro organizzazione regolala per quartieri, con ufficiali e sovra intendenti, codice di leggi da spartire la preda e il resto che vuoisi ad una bene ordinata società... di ladri.

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Alle citazioni che abbiamo fatte su questo capitolo ne aduneremo delle altre, perché là cosa in se stessa è così mostruosa che potrebbe ritrovare increduli. Udiamo frattanto ilPopolo d'Italia: «Ciò che il governo fa e ciò che non fa contrista i buoni, scompone ogni ordine d'interessi e incoraggia soltanto le passioni nemiche alla civiltà. Riassumiamo la situazione generale. Alla testa delle cose, anarchia. I capi dei dicasteri discordi tra se: i più senza principii, senza fede politica, senza concetto della missione italiana, senza fiducia pubblica che li sostenga. La seconda luogotenenza tentennante, ignara della via, inefficace più della prima. Il governo in crisi perpetua. I suoi ufficiali delle provincie, non d'altro ministri che della nullità del potere da cui dipendono. Onde ogni funzione dell'amministrazione pubblica è inoperosa, od operante a sproposito. Il paese è travagliato dalle cospirazioni retrive, dal brigantaggio, dai ladri, dagli assassmii; ed i tanto vantati provvedimenti di pubblica sicurezza non valsero sinora a prevenire un furto, a scuoprire le braccia di un aggressore. Nei luoghi più frequentati della capitale si ruba, si ferisce impunemente. Nelle provincie, nelle campagne, le persone e le proprietà sono in preda ai briganti. I cittadini onesti chiedono indarno di tutela, offrono indarno di prestar l'opera loro a difendere la società. Una suprema incuria li lascia sforniti de' mezzi opportuni all'uopo. Le due istituzioni più importanti, più valide a fondare ordinata libertà, ad assicurare i privati e lo stato dagli attentati de' tristi, le amministrazioni municipali, cioè, e la guardia nazionale, sono abbandonate al caso. Il disordine delle prime e la difettosa organizzazione della seconda, nella più parte delle provincie,

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sono argomento di continue rimostranze ed istanze. Parole al vento. In sei mesi non s'è fatto un passo a costituire e dar forza a questi massimi fondamenti di ben composta società. E non è a dire che manchino le tradizioni, le abitudini, la buona disposizione nel paese: ma languono per difetto di cooperazione governativa. La vecchia legge municipale è cattiva, e la nuova non esiste ancora. L'arbitrio domina nei Comuni. E la istituzione della guardia nazionale, sì intimamente connessa colla vitalità di quelli, e patisce gli effetti del disordine municipale e della negligenza governativa, ad un tempo. Qual maravigliache ai primi non riesca, per mancanza di credito, il trovar danaro a prestito; e la seconda, malgrado i suoi sforzi generosi e talora fortunati contro la reazione e il brigantaggio, non possa dappertutto bastar sola a mantener l'ordine? Non ripeteremo la sciagurata storia dei lavori pubblici. È una favola che farebbe ridere, se non fosse argomento di pianto per l'invadente miseria. E la finanza, fonte principalissima d'ogni operosità di buon governo, come si sovviene della solerzia dei reggitori'? Come si nutre il credito nazionale. Come si animano le intraprese che ne dipendono? Sfruttando le provincie meridionali di dieci milioni di rendita per affondarli nel baratro coperto della irresponsabilità del ministro Cavour nella sede del governo centrale. È vera storia, e ne lasciamo i commenti al paese.»

I detti delPopolo d'Italia conferma, il famoso La Cecilia nelLampo (6 febbraio) «Il credito pubblico invilito, il commercio nullo; un rincaro di viveri senz'esempio; lavori pomposamente annunziati e non incominciati, né vicini ad iniziarsi; l'istruzione pubblica negletta e trasandata, non più orma di esercito; la flotta senza ciurma;

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i ricchi magazzini d'una grossa armata vuotati; le armi dissipate, gli arsenali manomessi; una lotta di preeminenze, due opposti principii nel seno stesso dell'attuale consiglio; in una parola le nostre. condizioni sono così triste, cosi aggravale, che se un supremo sforzo del governo e dei cittadini non salva il paese, si può a ragione esclamare: Povera Italia, sventurata patria».

E la pubblica istruzione? Oh questa, risponde ilNomade (num. 254.) «precipita dal male al peggio!.... Vero è che tutto è in disordine, che vi hanno ispettori e laboriosi e intelligenti che non possono essere pagati, che v'hanno scuole chiuse e pessimamente iniziate, che tutto è confusione, che tutto è disordine, che hanno provato una inettitudine ed una albagia illimitata, che il pubblico è irritato, ma con tutto questo si ritireranno i settembrini (1) con tutti gli onori del grado, con una o più croci al petto, perché in fin de' conti essi han ragione di dire: l'Italia siamo noi, i capaci siamo noi, chi non è con noi ha torto, perché non ha ragione di essere membro della onnipossente consorteria italiana».

Né punto dissimili erano le cose nell'isola di Sicilia, e ne abbiamo le prove nei medesimi giornali assoldati dal ministero piemontese, e nelle parole di un deputato ministro. Diamo la preferenza innanzi tutti alPopolo d'Italia, che in una corrispondenza sua da Palermo stampa quanto segue: «Se qualcuno vi domanda quale è il governo della Sicilia? rispondete pure: l'anarchia! Il resoconto delle stragi di Santa Margherita porta otto morti ed altrettanti feriti.

(1) Con questa parola designa ilNomade le parentele e gli amici del sig. Settembrini, consigliere della luogotenenza per la pubblica istruzione.


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Perché quelle stragi si sono consumate? perché in quel comune non eravi né questura, né forza, né guardia nazionale organizzata, né armi. A Trapani il giorno 8 di marzo disbarcano sei individui dell'ex- polizia borbonica; il popolo li assale, ne uccide cinque, e barbaramente ne trascina i cadaveri mutilati e san guinosi: né questura, né guardia nazionale, né soldati accorsero ad impedire! A Realmuto i partiti vengono alle armi, disfogano private vendette, gittano nel paese il terrore e il disordine; la forza pubblica arriva sempre tardi. Raro passa un giorno o una notte che non si abbiano a deplorare uccisioni ed assassini! Dalle provincie di Messina, di Catania, di Girgenti, di Siracusa, ci giungono sempre le medesime tristissime nuove. Le campagne piene di ladri e di comitive armate, le carrozze aggredite, i passeggeri derubati. Non si può più viaggiare; non camminare per le strade senza il continuo timore di essere spogliati od uccisi. Monteze molo ed il suo consiglio tutto questo conoscono, ma non si danno pensiero: essi dormono tutti, mangiano a lauti pranzi, vanno a farsi festeggiare in teatro e lasciate no due milioni di abitanti abbandonati a se stessi, senza governo, senza tutela, senza giustizia» Dopo questa descrizione esclama il medesimoPopolo d'Italia. « Qui si vuole sicurezza delle vite e delle sostanze, giacché siam ridotti ai più semplici primordii della vita ci vile. Non si sa forse a Torino che le provincie sono in completo disordine? L'Italia meridionale è boccheggiante te. Andiamo sempre di male in peggio. Aumenta il caro dei viveri, scarseggia il numerario per modo troppo manifesto, di tal che pare che mani ingorde e rapaci ci sottraggano ogni giorno di soppiatto l'oro nostro, e l'argento, lasciandoci appena il rame.

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Non si agitano di sorta affari, né presso i tribunali, né nella borsa». A questo periodo sono relative le rivelazioni che intorno lo stato della Sicilia fece il ministro Cordova nella camera piemontese. Le produciamo per sommi capi desumendole dagliAtti Ufficiali della medesima assemblea (num. 241, pag.918 e seg.) Ommettiamo la curiosa rivelazione di un bambino di soli anni che venne nominato, non sappiamo da Crispi o da Mordini «segretario di prima classe» e passiamo alle altre.

1.

Nei primi uffizii delle dogane di Sicilia furono nominate persone che non sapevano né leggere né scrivere.

2.

In Palermo i doganieri rubano e in Messina gl'impiegati si uccidono per pigliare il loro posto.

3.

In Siracusa gl'impiegati sanitarii dell'ospedale erano il quadruplo degli ammalati.

4.

Gì'impiegati in Sicilia furono enormemente moltiplicati, e sotto questo rispetto era molto migliore il governo dei Borboni.

5.

Si diedero tristissimi esempii al popolo, e il popolo impara dai governanti.

6.

Come, per far danari, gl'impiegati ai lotti di Sicilia inventassero unagiuocata ideale.

7.

Come non potendosi riscuotere le imposte in Sicilia, si ricorresse ad unapercezione ideale.

Molto più del deputato ministro d'agricoltura e commercio rivela la seguente lettera da Palermo scritta alNomade, ove sono posti a nudo i vizii reali e veri del governo in Sicilia, e le malaugurate fonti di tanti disordini e della eterna precarietà».

«È doloroso il dirlo, si esprime cosi lo scrittore di quella lettera, ma il nasconderlo sarebbe tradimento:

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le cose della Sicilia non migliorano: esse vanno sempre sossopra. Il disordine ci ha così stanchi e prostrati, che appena il nostro governo fa una buona risoluzione, ci abbandoniamo alla speranza dei miglioramenti, e con tutto il cuore e con tutta la forza diciamo al governo: avanti per questa via: camminate che noi vi assistiamo; salvateci una volta dall'anarchia! Ma le nostre voci si perdono, il governo si ferma ai primi passi, e noi torniamo a disperare. È un duro fatto questo che condanna ad ogni specie di mali la nostra sventurata Sicilia.

Questa che chiamano pubblica sicurezza non l'è affatto: io vi son dentro mani e piedi, e parlo e scrivo con cognizione di causa. La non è sicurezza; è piuttosto una pressione che produce snervamento ed inerzia. Un istante che questa pressione cessa, il disordine vi scappa fuori un altra volta ed infuria. E la pressione è una immoralità; le immoralità non possono durar sempre. Quindi la sicurezza non ha durata, essa è sempre un caldo vuoto, una forte aspirazione.

Il paese è giustamente indegnato. Esso vede e comprende che il governo centrale ci crede qualche cosa al disotto degli Iloti. Ad ogni poco si sente che Torino spedisce qui degli organizzatori, degli ispettori ecc. Questo sistema è falso per due potentissime ragioni

1.° Le istituzioni che vogliono innestarci o sono al di sotto delle nostre, o al pari delle nostre viziose. Nel primo caso il paese ci perde; nel secondo non ci guadagna. Si vede semplicemente mutare un vizio con un altro, una moneta falsa con altra moneta falsissima.

2.° Perché spendendoci non solo le novelle istituzioni ma anche le persone che debbono porle in atto,

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i ministri di Torino ci voglion dare ad intendere che noi poveri ignoranti della Sicilia non sappiamo né possiamo comprendere l'alta sapienza governativa manipolata alle falde del Cenisio.

«Or posso assicurarvi che cotesti arrivati fra noi nulla ancora ci hanno appreso di buono, perciocché essi siano perfettamente creati ad immagine e similitudine del tipo stesso burocratico, al quale noi fummo informati. Di nuovo non abbiamo finora esperimentato altro che una sempre crescente confusione, nessuno incominciamento per rimetterci in via, ed una completa e lagrimevole disorganizzazone».

In questo punto potremo rapidamente toccare di quel fatto che tutto il mondo confessa; la dilapidazione, cioè, delle pubbliche casse nel regno delle Due Sicilie. Moltissimi giornali avevano già pubblicata una nota officiale del danaro giacente nelle casse del governo al momento in cui Garibaldi giunse a Napoli. Erano circa ottantacinque milioni di franchi, ai quali in pochi mesi venne dato fondo. Ecco, secondo gli stessi giornali, chi se li biscazzò. Quarantasette milioni i garibaldini: quattordici le truppe piemontesi: mezzo milione la marina: otto milioni la dittatura per comprare armi: la polizia, quarantasette mila franchi: nove milioni la segreteria della dittatura, altrettanti le feste a Vittorio Emmanuele. «Di qui si capisce, riflette uno di quei giornali come mai sotto il governo dei Borboni non si parlasse di crescere le imposte, ed ora si vede inevitabile il caricare sovr'esse la mano, e perché i fondi pubblici, che prima si quotavano fino a 120, ora scendano fino al 70. Conseguenze del furto amministrativo.» E questa qualificazione non è nostra, è dellaNazione, alla quale scrivevano (26 marzo)

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In Napoli il furto amministrativo è organizzato completamente su vasta scala, cominciando dall'ultimo impiegato sino a colui che sta in cima.» Secondo ilMovimento, le pubbliche rendite servivano a nudrire i malfattori. «Noi siamo, scrivevano nei medesimi giorni alMovimento di Genova, alla lettera coperti di ladri. Qui bisogna, come in Costantinopoli, appena comincia ad imbrunire, unirci a brigate per difenderci dai mariuoli. Le provincie sono infestate dai malfattori.Le pubbliche rendite servono a nutrirli. Non dico le immoralità che si commettono nei pubblici officii. Ora si aggiungono gli abusi dei consiglieri. E poi si domanda dove sieno andati i milioni dello stato.» Così deplorabile è la riputazione che i pubblici officiali si sono procacciata, che è creduta dal pubblico qualunque voce corra sul loro conto, per assurda che sia. Citiamo un esempio. Allorché si venne a sapere che un misterioso ordine dava facoltà allo Scialoia di prendersi dalla tesoreria napoletana cento dieci mila lire, ilMovimento giungeva a dire che tutti i governanti erano caduti in tale discredito ed in tale cattiva fama in questo paese che se un matto, dice: che qualche membro della famigerata congrega ha rubato la corona a Vittorio Emmanuele, ritenete che su cento, novantanove crederanno ad un simile assurdo.»

Gli ultimi mesi del principe luogotenente passarono «senza infamia e senza lode» non somministrando ai giornali, che ci siamo proposti di svolgere, se non le narrazioni dei moti popolari, che in quel tempo si estesero su tutta la superficie del regno, spontanei, irresistibili, continuati, e fors'anche troppo sanguinosi per la soverchia esacerbazione dei popoli contro la tirannide piemontese. Questo governo in vece di ricercarne le vere cagioni, e

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bene ad esso era facile trovarle purché si fosse risovvenuto di quelle enormità di ogni fatta che l'opinione pubblica gli aveva tante volte e denunziate e condannate con isdegnose e commosse espressioni, si diede prima a negarne la gravita, poscia ad investigare le suddette cagioni, ove realmente non erano.

Abbi a m detto che s'incominciò col niegare l'importanza dei movimenti popolari, e si dissero invenzioni dei parmigiani della legittima monarchia, dalNomade chiamati «i nemici del paese.» Questo giornale (num. dei 4luglio) stampava che j realisti per imbarazzareil governo e paralizzarne l'azione ne aumentano l'importanza con favolosi errori di cifre,che ingrossano in ragione dei quadri della distanza. Noi non vogliamo che il governo dorma, ma sì bene che la pubblica fiducia non s'ingannasse sulle fantastiche relazioni di quei tali novellieri che a quest'ora avrebbero dovuto già cadere nel discredito. Laonde perdoniamo volentieri a qualche clericale, che pizzicando una notizia qua, una là pensò chiamare (forse in buona fede) corpi di armalacinque o sei bande di sfaccendati che scorrono ne' boschi di queste provincie.

Simili erano ancora le opinioni del ministro Minghetti per quanta si esprime Giuseppe Lazzaro in un suo scritto intorno questo ministro «e il suo giudicio sulle provincie meridionali.» Gli rimprovera di non aver voluto dar fede alle relazioni dei deputali delle provincie meridionali ed alle lettere degli elettori napoletani. «Sembrava che esse non lo toccassero: la sicurezza pubblica distrutta, il commercio interno perduto, gì'incendii, i saccheggi, le devaslazioni del brigantaggio per lui erano cose normali e conseguenze ordinarie dei pubblici mutamenti.» Bastarono due giorni alNomade per disingannarsi e disdire ciò che aveva affermalo intorno ai moli reazionarii.

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Un articola di Pietro Sterbiui (Nomade 6 luglio) intitolalo «Ricasoli e le sue promesse» enumera gli errori politici del ministro, e fra questi tiene principale luogo lo stato delle provincie napoletane.

Quello che non è fantasmagoria, ma terribile certezza si è il disordine crescente ogni giorno nelle provincie e specialmente nelle meridionali, si è il brigantaggio fatto signore delle vite e delle sostanze di chi con cuore lieto salutò il giorno in cui l'Italia si costituì una sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele. Una turba di vili assassini scorazza impunemente, saccheggia i paesi, brucia le raccolte,commette ogni sorte di delitti, si spande per le provincie e giunge fino alle porte di Napoli. Voi,ministri,non potete accorrere con le armi in tanti diversi luoghi, lo sappiamo. Voi siete paralizzati e perché? Perché tarmata è debole, perché ciechi alla luce del vero, sordi alla voce del popolo non volete volontarii.

Riassumendo le cagioni e gli effetti replicava Io stessoNomade pochi giorni dopo (num. dei 31luglio) queste parole colla penna del medesimo Pietro Sterbini:La reazione ed il brigantaggio ammorbano e devastano le provincie napoletane. Gli assassini, le rapine, le nefande violenze ti ripetono ogni giorno e crescono con una spaventosa progressione. Avvilita l'industria,annientato il commercio, abbandonate le campagne, la miseria si mostra irreparabile e spaventosa in mille parti. Non si pensa che a salvare la vita propria e della famiglia; tutti gli odii inveterati, tutte le vendette non soddisfatte si mostrano a viso scoperto, bramose di saziare l'antica sete di sangue. Non si rispetta il magistrato, il prete,la vergine, il fanciullo, il vecchio.

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Più particolarmente insistendo sulle cagioni, che secondo il suo modo di vedere, avevano contribuito ad aggravare e porre in pericolo il dominio dei piemontesi nel regno napoletano, ilDiritto ne attribuisce la maggior somma al ministero torinese. «Non passa giorno, scriveva nel giugno quel giornale, che non sia dal governo centrale contrassegnato da qualche ingiustizia. Il motivo n'è chiaro. Difettando colà di tutti i lumi per poter giudice care, né dando ascolto che ai parziali e insufficienti schiarimenti che vengogli d'altre bande, sempre per l'organo imparzialissimo ed illuminalo dei suoi agenti, procede di errore in errore.» La potissima poi delle cagioni pronunziava francamente il deputato Ricciardi nella sua lettera dei 20 agosto, fatta di pubblica ragione sui giornali; cioè, che Napoli non chinerà mai il capo a Torino. Eccone le parole:Fatto innegabile è questo, e tradisce l'Italia chi studiasi dissimularlo facendo credere l'opposto a chi siede al timone dello stato nella lontana Torino. Alla quale, voglio dirlo e ridirlo,Napoli non s'inchinerà mai e poi mai.

Dopo i suggerimenti delConstitutionnel, organo officioso del governo francese, vengono i consigli delMorning Post, che ognuno ritiene quale organo e diario ispirato da lord Palmerston «Schiacciare con mano di ferro le resistenze napoletane, consigliava ilMorning, impiegando senza pietà le fucilate e il bastone, soli argomenti di cui siano capaci cotesti popoli.» L'immane natura dei rivoluzionarii non abbisognava di questi incitamenti a trucidare chi ardisce resisterle, a mandarne le abitazioni e le proprietà a ferro, a fuoco ed a ruba. Tutti ne rimasero colpiti di sdegno e d'orrore: e dopo le stragi di Pontelandolfo esclamava perfino ilPopolo d'Italia esecrando tali ingiustizie

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«che ravvolgono nel medesimo fato innocenti e colpevoli. Rei di quel sangue e di quelle vendette non sono i nostri soldati e le nostre guardie nazionali, ma i gran politicanti a Torino, Cavour ed i compagni suoi. Sappiamo che più di Cavour e de' compagni suoi ne sono sindacabili al tribunale della storia e di Dio i loro consiglieri di Napoli.»

Ma la pubblica amministrazione andò sempre al peggio, muovendo inutilmente le più acerbe critiche e la maledizione comune. Scrivevano nel maggio da Napolial Diritto. «Qui i bisogni sono gravi ed innumerevoli, ed il malcontento è spaventevole, e se non s'impiegano rimedii radicali, non si potrà ottenere alcun risultato.» Cosa intendesse per «rimedii radicali» non dice il giornale mazziniano, né a noi sta indagarlo.L'Unità italiana aggiunge che regna nella Sicilia un malumore ed una grande agitazione contro «gl'impiegati piemontesi che piovono come nubi di cavallette, senza che quegli isolani abbiano sfogo e posti uguali nelle provincie del continente. In Alcamo poi gravi conflitti e guerra civile; la pubblica sicurezza, un desiderio; i sequestri di persone assai frequenti. Di più langue l'industria, muore l'agricoltura, manca il lavoro e tutte le fonti di ricchezze isteriliscono in questo regno di ladri.» Anche una lunga corrispondenza di Palermo, pubblicata dallaGazzetta del Popolo del 23 maggio, continua la descrizione di quelle provincie. «Qua lo stato della pubblica sicurezza è veramente deplorevole, e desta le più gravi inquietudini per l'avvenire. È enorme la massa dei malviventi disseminati nell'isola. Battono la campagna e si organizzano nelle città in modo da sfidare la più svegliata oculatezza dei tribunali. A Palermo incutono vero terrore nelle vicinanze; niuno osa più andare nell'aperta campagna per affari e per diporto.

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Nei villaggi alle sette di sera non trovereste un pacifico abitante fuori della sua casa. I pericoli dell'ordine pubblico nella provincia di Catania hanno determinato quel governo. Datore a dimettersi perché non avea, secondo lui, forza e facoltà sufficiente a mantenerlo. Bande armate di ladri sono nei dintorni di Corleone, Caltanissetta e di Trapani.» Altra corrispondenza contemporanea alDiritto da Palermo si estende a dimostrare i motivi dello sdegno e dell'odio crescente nell'animo dei Siciliani contro i Piemontesi. «Il popolo, dice quel corrispondente, si solleva come un sol uomo a gridare contro il governo di Torino, e perfino le donne lo maledicono; un governo così generalmente male accetto deve per necessità cader nel discredito: da ciò nasce che né esso, né i funzionarii che da lui derivano sono rispettati. nell'interno dell'isola né si riconosce, né si sente la mano del governo centrale; i municipii abbandonati a se stessi; niente sicurezza pubblica; intendenti che amministrano senz'alcuna responsabilità, e spesso ancora si servono del potere per soddisfare private vendette. Nelle grandi città ogni governatore è un pascià; per lo più sono emanazioni di Lafarina e non governano nell'interesse del paese, ma agiscono nell'interesse di una setta. L'ordine giudiziario è in completo sfacelo; le magistrature, composte di elementi eterogenei, mancano di quello spirito di corpo che infonde energia nell'esercizio della giustizia; per la più parte i giudici non pensano che a guardarsi la propria pelle, e quindi i ladri e gli assassini, lungi di trovare una severa sentenza, trovano una carta di passaggio per rientrare in società. La sicurezza pubblica è nello stato il più deplorabile.» Riassumeva poco dopo ilPopolo d'Italia i pubblici lamenti

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in uno scritto ove la condizione delle provincie di qua e di là del Faro era descritta coi seguenti tratti: «Non sono discorsi, non sono apprensioni di tale o tale altra fazione. Li abbiamo uditi, li udiamo tutto dì da gente pacifica, desiderosa di ordine, di tranquillità, di sicurezza per le sue industrie, pei suoi commerci; si lamenta il difetto d'ogni efficace tutela alla proprietà ed alle persone, il credito pubblico, anima della prosperità mercantile caduto in fondo, le finanze distrutte, la dogana sterile di profitto allo stato, perché fatta nido di prevaricazioni e di frodi, il commercio nudo, la povertà crescente, nessun provvedimento di lavori pubblici atti a riparare almeno in parte il male. Un agitarsi e latente erra nelle più basse regioni della plebe: e cosi scoraggiamento, malumore, offesi interessi nelle classi civili, le forze tutrici dello stato scomposte o inceppate, l'amministrazione inerte e disonesta. Troppo lungo sarebbe poi noverare tutto quello che si riferisce alle provincie, in cui la situazione dei proprietari e dei coloni onesti è divenuta intollerabile.» E a dispetto di tutto questo malcontento ognora più irritalo ed ognora più intenso, il magistrato cui incombeva l'ufficio di vegliare alla sicurezza pubblica non peritava di assicurare essere le reazioni tranquillizzale, la sicurezza ed il contento ritornati nell'animo di tutti. «Per nostra sventura, è in questa opportunità che disse laDemocrazia, dobbiamo dire che Spaventa mentisce con conoscenza di mentire, o che tenta illudere per proprio conto!»

Dopootto mesi della dominazione piemontese, premute le popolazioni colle arbitrarie e feroci leggi dei proconsoli civili e militari, né la tranquillità è riacquistata, né i recalcitranti domati, né stabiliti regolari rapporti fra gli amministratori e gli amministrati.

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Le vie stesse della capitale sono infestate notte e giorno da ladroni, che l'impunità del delitto rende ardili ad ogni maggiore nequizia: i dicasteri offrono l'immagine d'inestricabile disordine: nelle provincia saccheggi, uccisioni, vendette, reazioni, abusi governativi e persecuzioni del clero. A queste miserie altre ancora ne manda il governo di Torino. «Mentre in Napoli, dicel'Italia, tanto si deplora la mancanza di lavoro e tanto spaventa la minacciata miseria, il governo di Torino ha ordinato la soppressione del segretariato dei lavori pubblici in Napoli dal che si argomenta quanto sia poco disposto ad attivare que' lavori di cui si sente così urgente il bisogno. Il numeroso personale di quel ministero è poi nelle maggiori angustie, non conoscendo la propria sorte.» Ed un altro periodo le cui affezioni politiche facevano in certo modo inclinare piuttosto alle nuove idee di liberalismo che ai cessati metodi governativi soggiungeva in questi medesimi giorni. «Mentre si distrugge con una cecità, che i tristi potrebbero chiamar provvidenziale, il disordine s'insinua sempre più nelle regioni governative, ed i migliori impiegati o si dimettono volontariamente, o sono dimessi, o vengono traslocati. Da Torino viene direttamente ordinato un movimento generale nella magistratura, senza che il governo locale ne sia interrogato, e questo strano modo di governare irrita fino il segretario generale che regge il dicastero della giustizia, e lo decide a dimettersi dal suo officio. La sicurezza pubblica è scomparsa, e di pieno giorno nelle vie più popolate si commettono i più audaci furti, mentre che lo andare da uno in altro paese dite viene sempre più pericoloso, perché le vetture corriere sono assalite dai briganti, i procacci derubati, e fino chi

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non ha nulla da perdere e chi va per cercare il lavoro nei campi, si arresta pauroso per tema che nei conflitti continui fra le bande e la forza pubblica, che spesso è battuta, una palla indiscreta non venga ad incontrarlo. Non crediamo che a riparare questo generale disordine di cose, questo caos governativo, questa distruzione sistematica di tutto ciò che costituiva la grandezza e la prosperità delle nostre contrade, vogliano ripetersi le strane giustificazioni del commendato!' Nigra il quale scrisse nel suo rapporto - Non bisogna dimenticare che non si compie un'opera smisurata come quella dell'unità italiana, senza incontrare difficoltà, inconvenienti ed ostacoli - Che una grande idea, un grande concetto nazionale abbia a trionfare colla distruzione di quanto esistesse di utile, di grande, e di prospero, ci sembra tale pazzo sistema da perdere il tempo a combatterlo. Immiserire un paese per rigenerarlo, può essere una teoria novella dei nostri governanti, ma non sarà giammai una teoria ragionevole. E quei che più soffre da questa universale distruzione è quella porzione del popolo che vive di lavoro. Migliaia di donne traevano il sostentamento della loro misera famigliuola dalle grandi officine che fornivano gli abbigliamenti a cento mila soldati. Ora è da Torino che le forniture del vestiario delle milizie vengono mandate: ed intanto che si è fatto per sollevare migliaia di famiglie, che mancato il lavoro gettò nella miseria? La fabbrica dei tabacchi è angusta al lavoro, e già si pensava di costruire alle porte di Napoli un edificio più adatto, quando che ora si divisa trasportarla a molte miglia di distanza dalla città. Così le cento e cento donne che per una meschinissima mercede vi lavorano, rimarranno prive del giornaliero sostentamento.


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«Ma si dirà che rimpiccioliamo troppo una quistione, la quale vuol essere considerata nei suoi larghi sviluppi; ma chi non vede che anco nei piccoli e minuti particolari v'ha sempre idrofobia distruggitrice di quanto qui esistesse, prima che la luce del nuovo governo fosse venuta a rischiarar le tenebre nelle quali eravamo immersi? Dove sono i nostri arsenali? Dove i nostri grandi opificii militari? L'ex ministro Fanti disse di non aver ritratto dai nostri arsenali e dalle nostre armerie che pochi cannoni inservibili, e qualche centinaio di fucili. Anche il ministro Minghetti dichiarava contemporaneamente in parlamento, che i disordini dell'Italia meridionale erano o sogni od esagerazione. Quei due uomini di stato si davano la mano a vicenda, ed a vicenda nascondevano la verità. Brofferio ha ragione allorquando afte fermava essere massima di stato dei ministri piemontesi che colla verità non si governa!!» La diceva però questa verità ilNomade, testimonio oculare, e pronunziava la triste sentenza che lamiseria era la sola cosa vera e stabile del regno delle due Sicilie sotto l'imperio piemontese «Nelle finanze, nell'amministrazione, nella formazione dell'esercito la stessa incertezza, la stessa alternativa di speranze e di timori. La sola cosa stabile e vera si è la miseria, la sfiducia, il disprezzo per le leggi e legislatori, lo sciopero del pubblico tesoro, il trionfo dei tristi, la discordia soffiata dai nostri nemici. E' come se i nostri nemici non bastassero, si associano ad essi i falsi amici, i sedicenti sostenitori del governo. Nelle loro parole, nei loro giornali si declama ogni giorno contro coloro che iniziarono il moto italiano e lo sostennero con ogni sacrificio, mentre i moderni predicatori di libertà è d'indipendenza stavano oziando nelle loro case, o salivano le scale dei potenti del giorno

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per domandare un impiego all'insolente orgoglio dei sostenitori della tirannide.»

Non abbiamo più fatto alcun cenno dei movimenti armati delle popolazioni. Lasciando in disparte quei giornali che in qualche modo professano massime ed opinioni monarchiche, quantunque ogni loro colonna sia gremita delle notizie di resistenze armate, di scontri e di manifestazioni in favore del diritto legittimo, uniremo diverse notizie in questo luogo, quali le da e quali le lascia capire la stessaGazzetta officiale. Si possono adunque compilare nel modo seguente: Agitazioni e disordini in tutte le provincie. Non passa giorno che non giunge qualche battaglione dall'Italia settentrionale. Questi battaglioni sono quindi diramati nelle provincie coll'incarico di portare il ferro ed il fuoco ovunque non si simpatizza colla rivoluzione.

Però, le truppe non bastando ali' enorme bisogno, si sono organizzati sotto nome di Guardie Nazionali delle bande di affigliati alle sette rivoluzionarie, sul gusto della ben nota guardia nazionale di Napoli. Queste guardie nazionali corrono ovunque si suppone che si vogliano fare dimostrazioni antirivoluzionarie, molte volte accorrono nei paesi anche più pacifici, ad uno scopo che a tutti sarà facile indovinare, quando si riflette che nella stessa Napoli la casa del Ministro Spaventa fu saccheggiata dalla guardia nazionale. Ogni semplice denunzia basta ad autorizzare visite e perquisizioni. Esse sono ordinariamente fatte a persone denarose. Se il perquisito si rassegna, bene, se strilla: è ammanettato e Io si manda a Napoli, come sospetto di sensi borbonici.

Numerose colonne di persone arrestate, in cui figurano anche donne e ragazzi e preti, traversano il paese

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scortate dalla truppa e dirette alle carceri dei capo luoghi di provincia. Il popolo, già avvezzo a questi spettacoli, dice che costoro vanno a dare il loro voto all'Italia una! IlPopolo d'Italia è come il poeta epico delle grandi gesta della guardia nazionale. Racconta come nelle bellissime notti del maggio questa prode e benemerita guardia percorresse le vie tutte della capitale e dei suburbii fermando ed investigando sulla persona quanti incontrava per la via, tenendo desti e sospettosi i pacifici cittadini del suo accesso alla loro dimora «perché erano corse vaghe notizie di reazioni scoppiate nei dintorni di Napoli. In Portici poi, continua il citato giornale, vi fu la chiamata generale. Notizie d'imminenti tentativi reazionarii giungevano al governo, che quindi spedì a quella volta un battaglione di bersaglieri. Sì temeva qualche taglio nella strada ferrata e gl'impiegati locali han vegliato per tale prevenzione. Anche in Torre del Greco, Castellamare e Sorrento vi sono stati allarmi d'imminenti reazioni. Nelle montagne circostanti si son vedute delle grandi bandiere bianche». Niuno questa volta potrà accusare il governo piemontese d'imprevidenza e d'irresolutezza. Quanto agitarsi e correre alle armi per avere vedute delle «grandi bandiere bianche!»

Circa questo medesimo tempo l'Opinione pubblicava una sua corrispondenza calabrese, nella quale a lungo si trattiene sulle turbolenze e suite sollevazioni frequenti di quelle contrade. La corrispondenza suddetta termina con queste linee: «Ora per far fronte alle difficoltà portale da questa poco soddisfacente situazione, la pubblica autorità non ha nemmeno 600 uomini di forza pubblica, avendo per soprassello 600 prigionieri sparsi in varie carceri da custodire in Cosenza.

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Che cosa fece l'autorità per riparare a tali difficoltà? Essa credette opportuno di organizzare una specie di guardia nazionale reclutata in gran parte fra i semi-briganti, i quali costarono moltissimo e peggiorarono le cose. Ma dopoché fu insediato il nuovo governatore, questa guardia fu quasi del lutto disciolta. Restava un altro corpo di carabinieri indigeni, e messi insieme anche questi colla teoria di coloro che vogliono creare l'ordine col disordine. Sono infatti individui per la maggior parte tristi, e da cui non potevasi attendere altro che tristizia». Il lettore non si dimentichi che è un giornale semiofficiale che in tal modo parla; ed avuto riguardo alla riservatezza ed anche alle reticenze delle quali sono costretti fare uso siffatti periodici, nel fine di cuoprire il vero, non molla diversità si ravvisadall'Opinione, che descrive le Calabrie, alPopolo d'Italia che si estende a tutte le altre provincie del regno. «Le sciagure e i disordini, che flagellano queste provincie, se non ricevono qui rimedio, in parlamento non trovano nemmeno ascolto» esclamava ilPopolo suddetto, quando seppe l'infelice esito che sortirono le interpellanze del Romano. Indi ritornando per la centesima volta ad enumerare i capi delle lagnanze che dal Regno delle Due Sicilie dovevano essere esposte al parlamento di Torino, soggiunge cheuna trista politica seppe tutto sconfondere, e che unaschiera d'uomini, non sa se più nemici del bene o più ciechi, furibondi, accanitisfrutta tutti i posti e tutte le situazioni. Essi pongono il dito nell'amministrazione politica per iscontentare tutte le classi; essi respingono gli elementi più virili traendo dal falso ed esclusivo sistema tutte le lagrimevoli conseguenze, ch'esso in germe racchiudeva, e contro le quali ora si dibatte l'intiera nazione. E continua svelando partitamente queste conseguenze.

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Abbiamo dilapidazioni che turbano il senso morale, e di cui non si vuole rendere conto: abbiamo assoluto difetto di pubblica sicurezza nella capitale e nelle provincie: abbiamo le stragi di Montemileto, le vendette di Napoli, l'angoscia di tutti.

A Ponza di San Martino succedeva il generale Gialdini. Nel salire i gradi del soglio luogotenenziale invocava l'assistenza di «tutte le frazioni del partito liberale» per «l'incarico speciale» che diceva avere ricevuto dal re «di purgare il vostro bel paese dalle bande di briganti che l'infestano». Dopo il suo allontanamento dalla luogotenenza il conte di San Martino pubblicava quella sua celebre lettera al senatore Gallina, che tanto fu discussa dal giornalismo. IlPopolo d' Italia nella lettera del conte di San Martino che «partiva scontento più del governo centrale che di Napoli» vede quest'unica conclusione che «il male di Napoli non ha rimedii a Napoli e che «l'origine degli errori è a Torino» e questa conclusione emerge per lui dai «documenti del gran processo sullo sgoverno fatto a Napoli» raccolti dal medesimo conte luogotenente. I suoi predecessori fecero anche di peggio, dice ilPopolo d'Italia. Imperocché se «Farini cadde senza nulla dire» Fanti però «coronava l'opera del Farini seminando pel regno la guerra civile» e Nigra «ci fu sempre un enigma e lo è ancora». I giornali congedarono il conte Ponza con poco graziose espressioni, ma ilNomade ci si mostra questa volta più degli altri giusto ed avveduto nel suo giudizio. Così egli si esprime: Ilconte di San Martino, a parte i suoi lodevoli intendimenti, pe quali bisognerebbe fare un atto di fede, non ci ha offerto, durante il periodo della sua amministrazione, argomento alcuno né per lodarlo, né per biasimarlo.

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È passato come un fantasma senza lasciare alcun orma, ed oggi il paese trovasi nelle medesime condizioni in che trovavasi alla venuta di lui, tenuto conto però de progressi inevitabili in que' mali, a' quali non si è curato punto di rimediare. La colpa è tutta del governo centrale... Grave compito assume il generale Cialdini... Ma potrà egli riuscire nell'ardita intrapresa, se troverà sempre il governo di Torino barriera insormontabile tra lui ed il bene delle provincie affidategli,e se a consigli della stampa onesta ed al concorso degli uomini indipendenti preferirà le inette insinuazioni di una consorteria piaggiatrice?.

Come riescisse Cialdini nel suo proposito è noto al mondo intero: e quale «appoggio» avesse dalle frazioni del partito liberale» lo rivela ilNomade quando annunzia che il Cialdini fu costretto «a richiedere, e il Ricasoli a dare ciò che insipientemente erasi negato al San Martino, cioè un rinforzo di diciotto battaglioni». E ciò perché quelle che Cialdini chiama «frazioni del partito liberale» ricusarono di comprimere con macelli e con devastazioni le vite e le proprietà di quei loro concittadini che un generoso sentimento di fedeltà e di patrio amore e di riconoscenza congiungeva alla monarchia legittima». Intanto, afferma il succitato giornale, è certo che le reazioni anzi che scemare, crebbero e tornarono a farsi sentire fin sulle porte di Napoli. Ed alPopolo d'Italia scrivevano da Catanzaro:Il mal contento è generale: si sparla pubblicamente del governo, si affiggono proclami che annunciano la prossima venuta di Francesco II, si tengono riunioni nelle case particolari e si sono pure formati de' comitati borbonici, ed intanto l'autorità dorme. Il brigantaggio è oltremodo aumentato e non si è giammai rapportato sul vero stato della provincia.

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Altro flagello davvero sono i camorristi cresciuti per la città, e Dio solo sa cosa commettono. «Ei sembra talvolta, esclama altrove il medesimo (n.277) che il governo di Torino obbedisca ad un ordine che gli comanda di farsi odioso, e di allontanarsi mezza Italia».

Nei primi dei luglio aveva ilMovimento da Napoli che «l'anarchia governativa faceva passi da gigante. I ladri per le vie di Napoli vanno di conserva colla confusione governativa». Il medesimoMovimento inseriva un altra lettera nella quale era detto che «molto avrebbesi a temere per l'unità nazionale se stragrande non fosse l'amore di patria nei napoletani». E lutto questo perché? Per le speranze deluse intorno al governo del conte di San Martino, il quale a detta dello stesso corrispondente distrusse tutto quello che v'era di buono, mantenne tutto quello che v'era di tristo, anzi l'aumentò! Le speranze adunque erano riposte nel Cialdini, che nella sera dei 24 luglio dichiarava a parecchi deputati napoletani essere programma del suo governo «che nessuna deferenza sarà d'oggi innanzi usata ai borbonici. Il governo è fermamente risoluto a combatterli cosi nelle fila del brigantaggio, come nel personale delle amministrazioni». A ciò lo consigliava lo Sterbini dicendogli:(Nomade 20 luglio)Una triste esperienza ci ha assuefatti ad andare adagio nello accogliere le splendide promesse di chi sale al potere... Il governo esca dalle reti di una malaugurata consorteria, provveda energicamente a' bisogni delle popolazioni, non si lasci abbindolare dalle male arti de' partiti avversi, oggi camuffati in cento guise, tolga dalle varie branche dell'amministrazione civile gli elementi retrivi,ed inutili, non si mostri debole ed arrendevole coi nemici d'Italia,

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tragga profitto dalle forze vive del paese, e le difficoltà scompariranno; né più si dirà da certa gente che le nostre provincie sieno d'inciampo all'unità nazionale.

Con tutto questo, a sentenza delNomade stesso «dopo 'c del Garibaldi niuno altro uomo non venne accetto al «e paese che il Gialdini» Ebbene, nella freschezza del suo giungere laPatrie riferiva che «un viaggiatore or ora tornato dalle Due Sicilie diceva che ivi non esiste alcuna simpatia in favore dei piemontesi e che gli esordi della loro amministrazione hanno loro molto nociuto. D'altronde la partita è dura, scriveva poco più oltre la stessaPatrie, e i realisti non sono i soli nemici che abbiano. I partigiani di Francesco II, i muratisti, i garibaldini, i mazziniani, tutti sono uniti in un sentimento di odio contro il Piemonte», e poscia durante il governo provvidenziale di un uomo così accetto, e nello stesso giorno che ne cantava le lodi, ilNomade implorava che «per prevenire guai maggiori e le cui conseguenze sarebbero incalcolabili» Cialdini ordinasse la proroga del pagamento degli effetti commerciali, giacché «la piazza di Napoli volge in generale in tristissime condizioni. La causa n'è il ristagno della vendita, derivato in gran parte dallo stato anormale delle provincie del napoletano». E questo già sotto il felicissimo regime dell'uomo indispensabile delNomade, il quale due giorni dopo, dimentico delle a lui profuse lodi, esponeva i bisogni del popolo napoletano dicendo: «Il nostro popolo domanda oggi fatti molti e poche parole. Egli domanda al primo ministro di Vittorio Emmanuele che senza ritegno o personali considerazioni liberi le pubbliche amministrazioni dagli uomini corrotti, venduti all'idolo d'oro, capaci d'ogni viltà per restare al potere ed arricchirsi».

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Con questi uomini volle Gialdini dividere il reggimento della cosa pubblica che in luogo del diritto ponevano il loro beneplacito, come si esprime in uno scritto intitolato «Arbitrio» G. Lazzaro:II diritto, signori segretarii generali del Napolitano, non vuoi dire capriccio, non vuoi dire arbitrii, e la differenza tra un ministro di Governo assoluto, e quello d'un Governo rappresentativo è che il primo ha per norma l'arbitrio individuale e l'interesse del suo signore, e il secondo la legge morale e il bene dello stato.

La distribuzione degli officii nella magistratura, especialmente in quella criminale, e le violenze della polizia continuavano tali, ad onta delle pubbliche rampogne degli uomini e dei giornali indipendenti, che ilPopolo d'Italia minacciava il Cialdini dicendogli a viso aperto «Pensi il generale Cialdini che noi non starno a Napoli per soffrir più a lungo simili aggravii di polizia». E nello stesso mentre richiede quando sarà e sotto quali condizioni sociali potrà vedere affidato qualsiasi incarico della pubblica amministrazione alla «capacita, al merito, all'onestà, e veder finito il turpe mercato nella distribuzione delle cariche, il quale se torna funesto al generale benessere praticato nella magistratura, mena a più tristi e sempre irreparabili rovine di disgraziate famiglie». In conclusione, laMonarchia giornale devoto al ministero ed a Gialdini, confessa nella sua dispensa dei 7 di agosto che «la luogotenenza è una vera torre di Babele, dove la maggior parte delle carte vanno disperse... Povero paese, non so come usciremo da questo caos!»

DagliAtti Ufficiali della Camera, pag. 1313, leviamo per ora la descrizione

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fatta dal deputato Brofferio dell'amministrazione della giustizia. «Che dirò dell'amininistrazione della giustizia? Sempre la stessa Babilonia, sempre la stessa contraddizione di giudicali, di codici, di leggi, di consuetudini, di tribunali, di provvedimenti. Chi ormai vede la luce in questa intricata selva dove tutto è confusione e tenebre? È fino a quando durerà questa miserabile condizione di cose? Signori, una delle più grandi cause, per cui le cose a Napoli e nelle Romagne vanno così alla peggio è, dopo il disordine delle leggi, la nessuna confidenza che ispirano i tribunali!

«Perché questi ladri, questi omicidi, questi malfattori?... Perché i tribunali vengono meno al dover loro... Come volete voi che a Napoli non regni il brigantaggio, non ci siano ogni giorno ladri sulle piazze, non vi siano dei nostri amici pugnalati, se la polizia non sa mai nulla, se quando si traduce qualche colpevole dinanzi ai tribunali, questi non ne sanno più di quel che ne sa la polizia? Io bramerei di sapere, qual fine abbiano fatto dinanzi ai tribunali tutti questi arrestati, di cui vedemmo piene le colonne dei nostri fogli. Tutti i giorni si arresta quantità di persone a Napoli, a Palermo, e non abbiamo mai notizia alcuna dei processi, né delle sentenze. La sola cosa che sappiamo è il rilascio a Napoli del duca di Caianello dopo sei mesi di detenzione. Ora, se quest'uomo era innocente, come si è potuto sei mesi custodire in carcere sotto i dolori di una istruzione processuale? Se era colpevole, perché venne rilasciato senza giudizio e per semplice forma di provvedimento?»

«Da queste parole nessuno argomenti ch'io voglia biasimare le leggi penali di Napoli.

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No, i Codici Napoletani non sono secondi a nessun altro in Italia: io vorrei soltanto che vi fossero onorati applicatori».

Preziosa confessione nella bocca di questo veterano della rivoluzione italiana!

NellaNazione troviamo descritti i cooperatori del Cialdini; e fra mille giornali scegliamo a bello studio questo perché apertamente dedito al ministero Ricasoli: «Attorno Gialdini stanno ad una parte gli uomini politici napoletani, uomini per lo più intelligenti ed astuti, ma non sempre di buona fede, passionati e partigiani all'uopo. A Napoli nonvi sono che consorterie, sia quella degli emigrati, sia quella di don Liborio, sia altre più o meno indigene ed esotiche: qui la politica non si fa che dalle consorterie e il favoritismo regna sempre sovrano assoluto». A ben comprendere cosa valgano e chi sieno quelli che laNazione ha la benignità di chiamare «uomini politici napoletani» è necessario ripetere ciò che ilNomade pubblicava allorquando, in questi medesimi giorni, erasi sparso rumore che il Massari sarebbe stato mandato a surrogare d'Afflitto nella carica di governatore di Napoli. «Qualche volta vorremmo non vedere e non udire, sono parole delNomade, per non iscoppiar dalla bile o dirompere nelle più volgari esclamazioni; vorremmo non esistere, perché il peso di un tristo avvenire ci grava o ci potrebbe gravar la coscienza. Si è osato dire e pubblicare che un Massari sarebbe stato mandato a governare la voluta provincia napoletana. AI solo pensarlo è sorto un fremito di sdegno, sendo giudicato costui quasi l'ultimo degli emigrati. Ed ora per porre il suggello al tradimento degli emigrati,

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alla vendita che essi hanno fatta del loro paese si oserebbe proporre a governatore, chi? Oh si lasci tal gente a rodersi le unghie e i peli della barba, e lor si conceda solo, per commiserazione, di servire, servir sempre, la peggiore delle umane condizioni allorché servasi un ministro o l'altro».

Ritorniamo a raccogliere i testimonii del governo che Cialdini e i suoi facevano in questo mezzo delle provincie ad essi affidate. «Lasciando stare il brigantaggio e la nessuna pubblica sicurezza di queste infelici provincie, scrive ilNomade, muoverò fiero lamento sulle violazioni frequenti del gran principio della libertà individuale, manomesso a ogni passo, per ogni dove e sotto i più leggeri pretesti. V'aggiungi alcuni fra gli arrestati essere trattenuti in prigione e senza essere interrogati, né posti, giusta la legge, e sotto l'azione della potestà giudiziaria. Altri, arrestati senza un perché, venivano bensì liberati alcun giorno dopo, ma con grave discapito de' loro interessi, e previe indicibili angustie delle loro famiglie». Udiamo ilPopolo d'Italia. Non tutto procede lietamente, secondo l'aspettazione e il desiderio de' buoni. Le reazioni salgono ne' loro principii al conte di Cavour pel sistema, al Farini ed al Fanti, come esecutori fedeli di quel sistema. Spegnere le reazioni non basta, bisogna abbandonare la via che le ingenera. Non torneremo a ripetere quello che abbiamo ripetuto le tante volte, a trascrivere le grida di angoscia, che ci vengono dalle provincie. Solo notiamo la nostra impotenza a giovare. Nulla si vuole a Torino imprendere di quello che salta agli occhi necessarissimo.

Ebbene il potere onnipossente della luogotenenza

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venne abolito e ciò anche fu giudicato un errore del governo piemontese ed un danno di più alle provincie del regno siculo. Ci basti una sola citazione, quella delLampo (num.266) «Per la millesima ed una volta il Governo di Torino ha operato in controsenso della pubblica opinione, essendo che i giornali tutti del Napotetano (ad eccezione di qualcuno che parla siccome gli viene indettato) con nerbo di ragionamenti e sagacia d'investigazioni avessero protestato contro l'immediata abolizione della Luogotenenza in queste provincie meridionali. Pertanto il fatale decreto ha ottenuto di già la sua esecuzione: al Cialdini è subentrato Lamarmora, o per meglio dire al luogotenente del re sedici prefetti; e noi neppure apparteniamo a quelle le fraterie, che allora salmeggiano a voce più alta quando l'agonizzante è già divenuto cadavere».

IlLampo che aveva poste tutte le sue speranze nelle discussioni del parlamento torinese, vedutele alla perfine frustate ad onta delle copiose interpellanze che aveva subile il ministero, manifesta il suo scoraggiamento con queste parole:Già chiusa è la prima sessione del parlamento, che per nulla rispose all'aspettazione; i nostri rappresentanti non seppero rimediar alle piaghe, le esacerbarono. Il governo centrale non fece che sciogliere senza nulla comporre; c'invia luogotenenti sopra luogotenenti, che ci fissano con occhi di sgomento; levano le mani al cielo, e se ne vanno accusandoci d'impenitenza finale... i contadini si gettano per i monti, ammazzano, saccheggiano, tagliano le comunicazioni, e spargono dappertutto l'incertezza dell'avvenire. Non vi sono strade, e non se ne fanno, il commercio è spento... lo straniero deride i nostri sogni d'unità e di potenza, vorrebbe gli si pagasse il fitto di quello ch'è nostro.


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Onde molti crolla' no il capo e fanno un segno di croce sui nostri fatti.

AnchePatria, la non può astenersi di unire fa sua voce agli altri giornali indipendenti. Essa dice:Siamo sospinti da dieci mesi per vie ruinose. Le parole contradicono ali' opera; tutti esprimono il desiderio del bene; e non si raccoglie altro che male. La meta ci splende innanzi bellissima, distinta, come il sole nel cielo; e i sentieri che battiamo, angusti, difficili, tortuosi, talvolta bagnati di sangue ci allontanano visibilmente dalla meta.

In questo tempo il sig. Ricciardi pubblicò le sue interpellanze in iscritto, sperando che volgersi al popolo avrebbe procurato maggiore utilità che non ai ministri. Sarebbe interessante riprodurle per esteso; e non concedendocelo la brevità che ci siamo prefissi riproduciamo un solo passaggio:In qualunque lato si rivolga il nostro pensiero, non troviamo altro che motivi il di dolore e di sdegno. In quale stato si trova il nostro commercio? Interrogate le dogane, uomini di stato, che ci governate e lo saprete. In quale condizione versano le nostre finanze? A quanto ammonta la nostra armata? Indicateci i grandi lavori pubblici tante volte promessi e non cominciati giammai. Perché il contratto Thalabot fu sciolto con danno gravissimo del popolo, che da quei lavori sperava, un sollievo alla sua miseria! In quale stato si trova l'amministrazione della giustizia? Se si guardano le leggi si troverà una mistura informe di antico e di nuovo. Di un antico, che non è più in rapporto col nuovo ordine costituzionale e coll'unita italiana, di un nuovo mal digerito. Se ci si domandano notizie sulla tranquillità e la sicurezza interna, siamo forzati di rispondere, abbassando il ciglio per vergogna.»

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Guardate lo stato miserando in cui si trovano le provincie meridionali, leggete i giornali e maledite con noi gli autori primi di tanti mali,

E riassumendo in brevi linee una lettera che il medesimo sig. Ricciardi pubblicò nell'agosto col titolo di «Quello che bisognerebbe fare» ecco quanto dopo un anno di reggimento restava a compiere al governo piemontese nelle usurpate provincie napoletane:

1.° Estendere le facoltà del luogotenente.

2.° Far buona scelta degli uomini preposti al governo delle provincie.

3.° Che i governatori non sieno né piemontesi o lombardi, toscani o romagnuoli, modenesi ovver parmigiani, ma del paese.

4.° Porre gran cura nella scelta dei procuratori regii, dei giudici Estrattori etc.

5.° Miglior composizione dei municipii delle milizie civili e dei volontarii.

Nelle Calabrie poi afferma lo stesso Ricciardi cheil governo non seppe o non volle adottare una legge, sia provvisoria, sia definitiva, da fargli benevoli tutte le classi, ma sopra tutto le moltitudini. Il popolo vuol fatti e non teorie. Qui ci è forza udire fin dalle donnicciole: che cosa ci fruttò Vittorio Emmanuele più di Francesco II? Almeno quest'ultimo l'anno scorso ci mandò il grano, ma Vittorie Emmanuele niente, e gl'impiegati rubano come prima!

Per ultimo raccogliamo la confessione contenuta in un carteggio che sulla metà dell'Agosto era spedito da Napoli alla semiofficialeOpinione. L'intiera lettera è ripiena del racconto delle discordie a tutti note e sempre crescenti fra il luogotenente ed i suoi dipendenti.

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Si deve notare la temperanza del linguaggio che il ministeriale corrispondente adopera per velare la gravita del fatto. «I governanti, così si esprime, qui non procedono in quell'accordo necessario in questi momenti, in cui bisogna dar forza ed autorità al governo». Né punto più lieta è la sorte della Sicilia se il conte Tholosano, fratello del governatore di Catania, disse il vero (e niuno sorse a confutarlo) in una lettera che stampòl'Unità Italiana dei 25 di Agosto, e quasi tutti i giornali riprodussero: «Le private vendette, vi si legge, sono il vero flagello di questa come di altre provincie Sicule, e l'impunità in cui si lasciano, per soverchio timore di morire, dimenticando chestultitia est ne moriare mori. In otto mesi e più che mi trovo in Sicilia, ho veduto compiersi centinaia di assassinii di ogni genere, isolati ed in comitiva, in rissa e premeditati. Case minate, altre abbruciate, famiglie intere scannate, omicidii compiuti di pieno giorno e di notte nelle case, nelle vie le più frequentate; e in questa sola provincia, che è delle più miti, se ne sono commessi ottanta e più; ma un reo punito esemplarmente dalla giustizia non l'ho visto ancora, e i solo puniti, orribile a dirsi, la furono da arbitrarii spari della guardia nazionale o dal furore del popolo, che, stanco dell'inerzia dei magistrati, fece giustizia, o credette farla, sgozzando i rei in carcere. La sera stessa del mio arrivo a Catania un ufficiale della guardia nazionale fu ucciso con un colpo di schioppo, in una delle strade più frequentate, alle ore dieci di sera; il ferito indicò prima di morire su chi cadevano i suoi sospetti, v'erano indizii positivi che confermavano questi sospetti,

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ma il giudice istruttore non credette fosse il caso di far arrestare il sospettato, si sperderono le prove, ed oggi pende pro forma il processo contro ignoti».

Pervenuti a questo punto sospendiamo le nostre ricerche; e soltanto una volta ci sia lecito citare laPietra infernale, quantunque non poche sue invettive contro il governo piemontese avrebbero potuto corroborare le citazioni desunte dagli altri giornali liberali. Ma noi abbiamo fatta a noi stessi la legge di schivare le irruenze di passioni evidentemente abbiette, e di non dar peso a vili testimonianze. Le linee peraltro dellaPietra infernale, che abbiamo accettate, riassumono l'opinione ed il sentimento di un popolo intero, manifestati da una voce che sorte dai suoi più infimi strati. Eccole: «Non scrivo per avere giustizia: dove sta la consorteria che oggi infesta l'Italia non vi sarà giustizia mai; io scrivo per protestare in nome del paese che è minacciato dalla guerra civile, in nome dell'umanità, in nome delle famiglie che sono state orbate dei loro capi, in nome del nostro diritto, in nome del sangue che allaga le nostre provincie, in nome dei gemiti che echeggiano sulle nostre montagne. Io non ti temo, governo piemontese, dacché non ti stimo.... Eppure io ti amavo, o governo piemontese. Tutti ti amavamo un giorno! Un anno addietro, quando non peranco ti si conosceva, bastava in Napoli parlar del Piemonte per veder la speranza irradiare tutte le fronti, il patriottismo riscaldar tutti i petti, la fratellanza stringere le mani: ed oggi?... oh oggi! Ma guardatela dunque l'opera vostra, o governanti. Venite, percorrete le vie, girate per le case, penetrate negli ufficii. Che cosa vedete? Squallore, miseria, scoramento!!»

NOTE

(1) Sapienti antiche provvidenze furono:

1.

La ordinanza di Carlo III del 1749 per la pubblicità nei dibattimenti giudiziarj penali, e civili;

2.

Il concordato colla S. Sede di 2 giugno 1741;

3.

La unità di direzione ne' giudizi -Prammatica del 1745;

4.

L'obbligo a' magistrati di corredare le sentenze di ragionamenti in diritto ed in fatto - Prammatica 27 settembre 1774;

5.

La totale separazione del potere giudiziario dall'amministrativo; la indipendenza de' municipi, e la libera elezione popolare dei costoro rappresentanti - Dispaccio de' 5 febbraio 1774;

6.

Il sistema ipotecario; la divisione delle terre demaniali; il freno alla feudalità, e la iniziativa per la sua abolizione - Regio Editto de' 23 febbraio 1792;

7.

Scioglimento de' vincoli fedecommessarj - Prammatica 4 agosto 1805.

Importanti e colossali opere pubbliche furono attuate in detta epoca; come le celebrate Reggie di Caserta, di Portici, di Capodimonte; il real albergo de' poveri; i ponti della Valle; i granili; il teatro S. Carlo; la darsena; i più magnifici tempj; disotterrate le antiche città di Pompei, Erodano, Pesto; incoati altri scavi a Cuma, Baja, nello Anfiteatro Campano, ecc. ecc.

Sarebbe opera ardua, e quasi impossibile di enunciare in un rapido e fugacissimo cenno la immensa serie de' sovrani provvedimenti dettati con vera sapienza civile e carità di patria nell'ultimo periodo trentennale. Non fia però superfluo riandare ne' più cospicui rami governativi le date di talune disposizioni di maggior interesse: Finanze - Per la pronta estinzione de' gravosi debiti dello Stato si rinunziano dal Sovrano annui ducati 370 mila su laLista civile, con altri risparmi si forma il pieno di 1,241667, e con ciò si disgrava la finanza - Real Decreto de' 9 Novembre 1830'

Franca esposizione dello stato della finanza, e saggi propositi per riordinarla, come effettivamente si riuscì - Idem Il gennaio 1831.

Riduzione dello stipendio de' Ministri di Stato - Idem 4 febbraio 1831.

Abolizione del dazio di portolania, gravoso pel minuto traffico - Idem 10 gennaio 1832.

Abolizione del dazio su la carne - Idem 27 marzo 1832. Abolizione del dazio sul vino - Idem 26 agosto 1833.

Idem della tassa su i' soldi, e pensioni degl'impiegati - Idem 16 gennaio 1836.

II

Abolizione graduale del dazio su' cereali macinati - Dal 1831 fino al 13 agosto 1847.

Riunione delle due amministrazioni del registro e bollo, e lotteria per economia e maggiore speditezza -Real Decreto 6 agosto 1839.

Riforma organica della gran dogana - Idem 26 novembre 1841, e 21 agosto 1842.

Riordinamento del servizio postale di terra, e di mare - Idem 3,8 febbraio 1842,25 febbraio 1843,2 giugno 1844, e 9 luglio 1857.

Per rendere più speditivo il servizio della tesoreria generale - Idem 29 ottobre 1842.

Istituzione di nuove Regie Casse di Banchi, ed anche Casse di Sconto, e Borse di Cambio in Palermo, Messina, nelle Puglie, in Abruzzo, col massimo vantaggio delle popolazioni, ed agevolazioni al commercio - Reali Decreti 7 aprile 1843,18 e 30 maggio 1857,20 dicembre 1858, e 3 ottobre 1859.

Sensibile riduzione di imposte, e dazi in Sicilia -Real Decreto 27 febbraio 1860.

Aumento delle rendite patrimoniali de' comuni, che nel 1831 aveano un milione e 795 mila ducati annui, e nel 1853 la si era elevata a cinque milioni e 732 mila ducati,

Sagge precauzioni governative qualora per urgenza avessero ad imporsi dazi provvisoriamente - Decreto 10 decembre 1853.

Esercito - Suo primivo ordinamento era: in tempo di pace, fanteria 29,700, cavalleria 4463; ed in tempo di guerra, fanteria 61,834, e cavalleria 7684; gendarmeria 7859, e 850 cavalli. Aumentato di poi a 22 reggimenti di fanteria, 16 battaglioni di cacciatori,50 squadroni di cavalleria, 20 batterie di artiglieria, 150 mila fucili, due numerosi parchi di artiglierie nelle piazze e negli arsenali; ed in tutto ciò massima economia, e cure incessanti.

Organizzazione dell'esercito secondo i principj dell'arte della guerra; ed ordinanze di piazza, di difesa de' forti, e castelli - Reali Decreti 17 dicembre 1830,26 1831' 6 giugno 1832,21 giugno 1833.

Studi preliminari per un esatto reclutamento, onde avere un esercito degno dello spirito dell'epoca - Idem 31 dicembre 1832.

Organico per la Leva militare, ed ulteriori provvedimenti - Legge 19 marzo 1834, e Decreti 26 settembre 1834, ed altri.

Riordinamento scientifico del Genio militare idraulico, e di terra - Decreti Il marzo 1838, e 1 maggio 1841.

Idem del reale officio topografico militare-Idem 21 giugno 1833 e 27 gennaio e 31 dicembre 1838.

Idem della Gendarmeria a Cavallo - Idem 14 ottobre 1847.

Idem degli Artiglieri Littorali per la difesa delle costiere - Idem 26 gennaio 1831, e 26 novembre 1837.

Idem delle razze di cavalli per la rimonta dell'esercito - Idem 23 marzo 1843.

III

Idem per gli esercizi, ed evoluzioni della cavalleria - Idem

3 febbraio 1844.

Formazione» istruzione, e disciplina della riserva dell'esercito -

4 dicembre 1839.

Creazione della fonderia di cannoni, secondo i nuovi sistemi - Idem 1 settembre 1841.

Idem nuovi stabilimenti di armerie, fonderie, montatura d'armi, e di meccanica militare e pirotecnica - Idem 30 settembre 1842.

Idem di altri stabilimenti di polveriere, artifizierie, fabbriche di capsule - Idem 18 marzo 1851.

Ampio miglioramento nel servizio della telegrafia - Idem 14 agosto 1838, e 9 maggio' 1839.

Regole per la disciplina ed istruzione del Corpo de' Pompieri - 13 novembre 1833.

Creazione di 9 squadroni di Guardie d'onore, scelte tra i più agiati proprietarj del regno - Idem 30 maggio 1833.

Istituzione del battaglioneallievi militari Gaeta, composto di giovanetti figli di sottouffiziali, ed uffiziali, per educarsi alle armi - Idem 15 novembre 1849.

Regole per lo esame degli aspiranti a' posti di officiali - Idem 30 gennaio 1833.

Nuove istruzioni pel perfetto andamento della reclutazione militare - Idem 21 settembre 1859.

Marina - Organico della real marina. Creazione dell'accademia di manna, e di due collegi, l'uno di guardie marine, e l'altro di alunni marinari, e piloti. Ampliazione sussecutiva de' detti collegi - Beali Decreti 12 marzo 1835, e 9 aprile 1838; 2 febbraio 1843, e 28 agosto 1844.

Fondazione di scuole nautiche nell'isola di Procida, ed in Gaeta- Idem 29 giugno 1833, e 30 maggio 1856.

Regolamento pel servizio materiale, e commessariato di marina - Idem 10 dicembre 1839.

Organico per gli ospedali di marina - Idem 25 gennaio 1840.

Idem per l'ascrizione marittima; pe' cannonieri marinari; pel pilotaggio; pe9 macchinisti nautici - Idem 19 ottobre 1837,3 giugno 1838,27 giugno 1840,14 giugno 1842,13 maggio 1844, e 15 luglio 1845.

Istruzioni su le artiglierie de1 legni da guerra, e loro evoluzioni - Idem 10 agosto 1838.

Creazione del consiglio dell'ammiragliato - Idem 3 agosto 1850.

Ampliazione, ed immegliamento de' cantieri, darsene per costruire bastimenti, e regia corderia navale; formazione del porto militare in Napoli; ed ivibacino da raddobbo - Idem 2 gennaio 1836,25 agosto 1853,15 luglio 1853.

Costruzione d'un porto militare in Pozzuoli, comunicando i laghi Lucrino, e d'Averno col mare - Idem 2 gennaio 1856.

Acquisti di nuovi legni da guerra, a vapore, per la maggior

IV

parte costruiti ne' cantieri del regno, cioè, 1. il Ruggiero; 2. il Peloro; 3. il Guiscardo; 4. il Roberto; 5. lo Sfromboli; 6. l'Archimede; 7. il Carloterzo; 8. il Sannita; 9. il Lilibeo; 10. la Maria Teresa; - 11. il Veloce; 12. Ettorefieramosca; 13. il Fulminante; 14. il Palinuro; 15. il' Mirano; 16. Ercole; 17. il Monarca e 18. il Torquato Tasso. Il 1. costruito nel 18 febbraio 1843; il 2. a' 22 agosto 1843; il 3. a' 6 settembre detto; il 4. e 5. a' 22 gennaio, e 3 ottobre 1844; il 6. e 7. a' 23 marzo, e 7 agosto 1846; 1'8. e 9. a' 10 febbraio, e 10 aprile 1847; ii 10. a' 10 luglio 1849; TU. a' 13 novembre 1850; il 12. al 1 maggio 1853; il 13. e 14. al 1 maggio, e 6 agosto 1844; ii 15. a' 21 ottobre 1843; il 16. a' 5 giugno 1850; il 17. e 18. a' 28 maggio 1856. - Nel 1856 così si componea la flotta napolitana:

Legni a vela 2 vascelli da 80

-

2 fregate da 60

-

3 fregate da 44

-

1 corvetta

-

5 brigantini

-

1 cutter

-

1 bombardiera

-

Legni a vapore 12 fregate

-

4 brigantini

-

4 corvette

- 4 golette

- 79 barche cannoniere, e bombardiere; ed altro numeroso naviglio inferiore per gli usi di marina.

Istruzione Pubblica - Dono sovrano della R. Pinacoteca di proprietà della Real Famiglia alla università degli studj di Palermo - Real Decreto de' 29 maggio 1832.

Ampliazione dell'osservatorio astronomico fornito de' migliori istrumenti - Nel 1831.

Fondazione del gabinetto anatomico nella università degli studj di Napoli - Nel 1833.

Idem delle scuole cliniche medica, cerusica, ed oftalmiatrìca - Nel 1837.

Idem del gabinetto di litotomia - Nel 1841.

Idem museo zoologico, arricchito da una collezione di uccelli donati dalla R. Famiglia - Nel 1850.

Idem di anatomia descrittiva e patologia - Nel 1845.

Idem di sale ortopediche ne' due più interessanti punti della capitale - Nel 1852.

Idem dell'osservatorio fisico vesuviano - Real Decreto 28 settembre 1845.

Istituzione degli annali civili del regno - Nel 1833.

Onorevole, e reale accoglienza in Napoli agli scienziati del VII congresso - 20 settembre 1845.

V

Scuola veterinaria, e privilegi accordati a' suoi alunni - Nel 1835, e 9 maggio 1842.

Novelle accademie scientifiche, incoraggiamento di pubblicazioni periodiche - Idem 30 maggio 1845.

Biblioteche corredate de' migliori libri nelle province, oltre le ricchezze di Napoli - Idem 27 giugno 1833.

Destinazione di novello edifizio ampio per uso del grande archivio del regno - Idem 30 maggio 1845'

Scuola de' sordomuti, e di mutuo insegnamento- Idem 31 gennaio 1835.

Ampliazione della scuola medicochirurgica; suoi privilegi, e sua accademia - Idem Il agosto 1858.

Miglioramento del reale orto botanico; riordinamento dell'istituto d'incoraggiamento - Tre Decreti 13 ottobre 1856.

Creazione di nuova università di studj in Messina - Real Decreto 29 luglio 1838.

Cambio di libri scientifici coll'estero, e diminuzione di dazi su' libri stranieri - Idem 12 settembre 1839, 18 giugno 1842'

Aumenti di scuole per far estendere l'istruzione; educandati sotto il reale patrocinio - Idem 8 luglio, e 2 novembre 1850.

Creazione della commissione di statistica, e sua diramazione nelle provincie (21 agosto, e 20 dicembre 1852) essendo cresciuta la popolazione di quasi due milioni, cioè 9,117,050 - Idem 17 novembre 1851, e 25 maggio 1856.

Istruzione primaria sotto la direzione de' Vescovi - Idem 10 gennaio 1843.

Istituzione d'una cattedra d'idrometria nell'officio de' ponti, e strade - Idem 27 dicembre 1854,

Provvista di cattedre scientifiche, non altrimenti, che per concorso, e per distinto merito - Idem 27 marzo 1858.

Facilitazioni per compiere gli esami pe' gradi dottorali ne' licei di provincia - Idem 6 aprile 1857.

Aumento di cattedre nella università di Napoli, ed impulso a' Comuni per estendere il numero delle scuole primarie - Idem 22 luglio 1859.

Affari Ecclesiastici - Splendide restaurazioni di tempj; accrescimento del numero delle Chiese, e delle nuove Sedi Vescovili; provvidenze su la capacità civile del Clero regolare; norme per la severa amministrazione de' beni delle Chiese. Convenzioni di ecclesiastiche discipline colla S. Sede, in aggiunta al Concordato - Idem 10 settembre 1839.

Risoluzione sovrana sopra 42 articoli proposti dall'Adunanza Episcopale per materie disciplinari della ecclesiastica dottrina - Idem 25 luglio 1851.

Preeminenza delle Suore di Carità in tutti i pubblici stabilimenti penitenziarii, e di mendicità - Idem 21 ottobre 1843,25 aprile 1845.

VI

Notevoli per sapienza civile, e cattolica sono le 18 disposizioni legislative pel maggior decoro, e libertà della Chiesa - Reali Decreti di 18 a 27 maggio 1857.

Grazia, e Giustizia - Amplissima amnistia, e riabilitazione ne" pubblici uffizi di tutti i compromessi politici - Idem 8 novembre 1830.

Indulti per tutti i condannati politici - Idem 18 dicembre 1830, Il gennaio, e 17 giugno 1831.

Invio di sei visitatori nelle provincie per provvedere all'ìmmegliamento delle prigioni, e su la sorte de' detenuti - Real Decreto il giugno 1831.

Decisivo miglioramento del sistema carcerario, sotto tutti gli aspetti. Vi si introducono salutari riforme, e finanche le casse di risparmio pe' detenuti - Idem 21 aprile 1845,29 dicembre 1857, 29 maggio 1858, e novembre 1859.

Creazione dell'istituto artistico per la buona educazione de' giovanetti orfani abilitati dalle prigioni per reati di furto, vagabondaggio, e mendicità - Il settembre 1858.

Legge su i duelli - Idem 21 luglio 1838.

Abolizione delle commessioni militari permanenti, ed altri tribunali eccezionali - Idem 6 marzo 1834, e 10 luglio 1846.

Idem della pena militare de' lavori forzati perpetui, ridotti a mite pena temporanea - Idem 25 febbraio 1836.

Utili riforme nel rito correzionale, e contravvenzionale - Idem 21 giugno 1838.

Importanti riforme sur una parte del sistema ipotecario, adottate poi dalla Francia colla legge del 23 gennaio 1855, e da altre nazioni - Idem 31 gennaio 1843.

Tra le più frequenti grazie impartite dalla sovrana clemenza si annoverano nel solo biennio 1851, 1852, n° 6207 condannati aggraziati, un terzo de' quali per reati politici. Estesissima indulgenza per tutti i condannati, altri compromessi politici, e comuni in dicembre 1858, e giugno 1859.

Norme per la servitù legale di acquedotto per migliorare il sistema irrigatorio - Legge 1 marzo 1860.

Idem per la confinazione del Lago Fucino in Abruzzo - Decreto 5 maggio 1860.

Aumento del soldo a' magistrati circondariali, che sono in con' tatto prossimo coi popolo - Idem 1 gennaio 1860.

Le statistiche penali rese di pubblica ragione comprovano il progresso morale delle popolazioni del reame delle due Sicilie, a paragone degli altri popoli. - I reati di sangue non eccedevano gli 800; ed ora da rapporti officiali de' reggitori piemontesi si ha che per la sola provincia di Napoli si sono elevati e 4300!

Idoneità pe' pubblici impieghi - Organico per l'alunnato dei relatori presso le Reali Consulte di Stato, onde riuscire buoni magistrati, ed abili amministratori - Real Decreto 1 giugno 1832.


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VII

Pe' rigorosi esami degli aspiranti a cariche di magistratura - Idem 6 agosto 1832, e 25 agosto 1838.

Organico per gli alunni di giurisprudenza - Idem 24 giù' gno 1833, e 2 gennaio 1843.

Idem degli alunni tecnicopratici della scuola di materie ani' ministrati ve e legislative - Idem 4 marzo 1839.

Condizioni per l'ammessione degli architetti presso i tribunali, e G. C. civili - Idem 2 novembre 1835,26 settembre 1836,22 settembre 1840.

Per le promozioni, giubilazioni, e ritiro de' pubblici impiegati - Idem 1 e 18 giugno 1842.

Prospetto energico di tutti i bisogni dello Stato, dopo il giro fatto dal Sovrano per le provincie, ed ordini pressanti a' funzionali d'ogni ramo per provvedervi - Idem 22 maggio 1844.

Riordinamento dell'organico di tutti gl'impiegati d'intendenze provinciali - Idem 7 aprile 1851.

Efficace impulso a' funzionali per vigilare attentamente in servizio dello Stato - Idem 20 ottobre 1859.

Norme per ben secondare i voti de' consigli provinciali pel bene de' popoli - Idem 24 luglio 1859.

Debito Pubblico - ne' primi anni dell'ultimo trentennio, benché vi fossero stati esiti ingenti ad utilità dello Stato, pure furono estinti 36 milioni di vari debiti contratti collo straniero. Dal 1852 al 1855 sono stati spesi quattordici milioni 692,182 ducati in opere vantaggiose pel regno; e ciò non ostante vi erano vistosi superi depositati nella tesoreria generale. Il debito pubblico aveva un corso cotanto alto, da superare di venti punti la pari, e da essere il più accreditato nelle borse di Europa. Gli annui interessi di cotale debito erano di cinque milioni 198,850 ducati.

Nobiltà - S'istituisce una speciale commessione pe' titoli di nobiltà - Real Decreto 23 Marzo 1832, e 21 maggio 1833.

Istituzione di medaglie onorifiche per premiare artisti pittori, scultori, manifatturieri, inventori di cose utili ecc - Idem 9 marzo 1835.

Idem pe' servizi militari - Idem 23 dicembre 1834.

Ripristinazione dell'ordine de' cavalieri di Malta, e fondazione d'ospedale da essi servito - Idem 7 dicembre 1839.

Riforme degli ordini cavallereschi di S. Giorgio, e di Francesco I - Idem 1 maggio 1850, e 21 dicembre 1858.

Corpo diplomatico - Riordinamento di tutto il servizio diplomatico, e consolare - Idem 10 ottobre,4 e 29 dicembre 1833,21 luglio 1838,27 febbraio 1845.

Molteplici trattati colle potenze estere per la reciproca abolizione del diritto d', per le successioni ereditarie, per le corrispondenze postali, e per altri molti oggetti di diritto internazionale; precipuamente per l'abolizione della tratta de' negri - Idem 14 ottobre 1839.

VIII

Belle Arti - Ordini per la pubblica esposizione biennale a favore delle opere di pittura, scultura, architettura ecc. per concorrere a' premj da distribuirsi - Idem 27 luglio 1842.

Aumento del numero, e degli anni di studio degli alunni artisti pensionati per stare in Roma; aumento di un altro per la incisione in acciaio - Idem IO agosto 1846, e 26 giugno 1853.

Intrapresa di scavi negli Orti Farnesiani a Roma per incremento di belle arti - 6 aprile 1835.

Provvida direzione data agli scavi di Pompei, d'Ercolano, officine di papiri - Idem 17 settembre 1839, e 17 gennaio 1852'

Fondazione dell'accademia di musica e ballo - Idem 2 gennaio 1834.

Riordinamento, e privilegi del collegio di musica di S. Pietro a Majella - Ivi.

Nomina d'un professore di scenografia pel maggior decoro dei teatri - Idem 15 novembre 1858.

Salute pubblica - Riordinamento, ed ampliazione dell'istituto medicovaccinico -Idem 27 gennaio 1831, ed Il settembre 1838.

Norme per ovviare alla insalubrità delle risaje - Idem 13 agosto 1839.

Costruzione di un monumentale Camposanto fuori l'abitato, per preservare la capitale dalle esalazioni miasmatiche de' cadaveri - Idem 9 marzo 1836.

Simile provvedimento si adotta per tutto il regno con grande utilità igienica delle popolazioni, e superando antichi pregiudizi.

Organico del protomedicato di Napoli, e Palermo - Idem 10 febbraio, e 25 giugno 1844.

Formazione di grandi Lazzaretti per cautelarsi dalla importazione di morbi contagiosi - Diverse disposizioni dal 1852 al 1857.

Accurati, ed energici provvedimenti nelle pubbliche calamità de' tremuoti, delle epidemie coleriche; e del caro de' viveri, sopratutto per la vendita a buon mercato di pane, e farine, venire di Regio Conto immense provigioni di grano da' porti esteri- Dal 1831 al 1860.

Opere pubbliche - Non vi è stata epoca più preziosa per esse come negli ultimi sei lustri: città intere rimodernate; creati nuovi centri di popolazione (la quale è prodigiosamente aumentata); nuove e più comode strade pubbliche; ferrovie per varie direzioni; telegrafia perfetta; porti; canali; bonificati 12 milioni di moggia di terreni paludosi (equivalenti al quinto di tutte le terre piane del regno); e per raggiungere questo umanitario scopo creata all'uopo una Amministrazione generale, che ha felicemente espletate importanti opere in questo ramo - Legge Il maggio 1855.

Creazione de' consigli edilizi nelle città de' reali dominj - Idem 22 marzo 1839, 29 maggio 1842.

Organizzate con rettitudine, e speditezza le opere pubbliche provinciali- Idem 30 agosto 1840, Il febbraio 1841,25 gennaio 1842.

IX

Innumerevoli costruzioni di ponti su' fiumi, tra gli altri quelli sul fiume Aventino, e due sull'Alento in Abruzzo citra; sul Casoli da Atri al regio camino; su la Pescara, sul Vomano, sul Fossone, sul Manoppello, su l'Ofanto, Urta, Fregella, Fortore, Biferno, Angitola. I primi ponti sospesi a filo di ferro furono quelli sul fiume Garigliano, e sul Calore (10 maggio, e 26 luglio 1832); siccome le prime strade ferrate sono state quelle da Napoli, Castellamare, a Nocera (19 giugno 1836) j e l'altra per Capua (nel 1843) da estendersi a' confini romani, essendosi approvata la terza per congiungere il mare Adriatico e Tirreno (nel 1854). La organizzazione della telegrafia elettrica (31 luglio 1852).

Pel significante abbellimento della incantevole capitale, fu compiuta la Basilica di S. Francesco di Paola davanti la Reggia (25 decembre 1836); fatto ampio e decoroso spianato ad uno de' lati di questa (6 gennaio 1838); abbellito il ponte di Chiaja; prolungata la real villa pel pubblico passeggio (4 maggio 1834); e restaurate le fontane, allargate, rese piane, e ben selciate con marciapiedi le principali strade di Toledo, S. Lucia, Chiaja, Molo, Piliero (dal 1834 al 1852); aperta la romantica via montuosa all'occidente delle colline, denominata M. Teresa (28 maggio 1853); fatte nuove piazze decorose, e mercato de' comestibili; costruiti i grandi edifizi delle dogane, e corrispettive amministrazioni (15 giugno 1835); come pure pel grande archivio del regno (a' 25 detto) e per l'amministrazione generale delle poste (20 maggio 1849); oltre le rilevanti restaurazioni del palazzo di giustizia; da ultimo si provvedeva per l'allungamento della capitale, designandosi gli opportuni siti pe' nuovi fabbricati, con una commessione creata all'oggetto (Real Decreto de' 25 febbraio 1860) e simile per Palermo.. Soprammodo, importante è la disposizione per una estesa rete di ferrovie ad utile delle più lontane provincie del regno - Beali Decreti degli Il febbraio, e 28 aprile 1860.

Aumento di fari, e fanali lungo le coste; formazione di nuovi porti in Pozzuoli, Nisita, Tarante (ove fu pure testé approvato. un vasto orfanotrofio), Gallipoli, Brindisi, Barletta, Molfetta, Trani, Salerno, Tropea, Cotrone, ma sopratutto interessante è quello di Brindisi colla concessione dellascala franca - Idem 29 ottobre 1844, 30 noverato 1845,29 maggio 1846,28 luglio 1847, 12 marzo 1859.

Rilevante è il numero delle strade costruite di nuovo, o restaurate, dal 1852 al 1855 (nel quale periodo di tempo furono erogati 14 milioni 692,182 ducati per opere pubbliche!) si contano 78 novelli camini pubblici. In.27 anni si sono avute 3082 miglia di strade nuove di aumento, essendo esse nel 1828 sole miglia 1505, e nel 1855 sommavano a 4587 miglia; non comprese quelle di Sicilia.

Sapienti norme si davano per far invigilare, e spingere tutte. le opere pubbliche dalle maggiori autorità provinciali (Real Decreto

X

24 luglio 1859); e per promuoverne altre (Rescritto 25 agosto 1859) colle massime facilitazioni per attuarle (12 settembre detto).

Beneficenza - Istituzione delle commessioni di beneficenza per gl'indigenti - Real Decreto 4 gennaio 1831.

Fondazione delle casse di soccorso nelle provincie - Idem 3 agosto 1831, e 2 novembre 1833.

Provvedimenti pe' soccorsi a domicilio degl'infermi poveri - Idem 13 febbraio 1831.

Fondazione di 5 grandi ospizi pe1 mendici in Napoli, e nelle provincie - Idem 18,27 giugno, e 23 settembre 1840; 4 ottobre 1851.

Positivi immegliamenti su' fabbricati, e sul trattamento nei manicomj - Idem 1 giugno 1836.

Idem pel real albergo de' poveri, e sue dipendenze in Napoli - Idem 21 settembre 1843.

Ingenti acquisti di grani, farine, civaie dall'estero per sovvenire nelle carestie de' generi di prima necessità i sudditi bisognosi a spese del real erario; e per frenare la ingordigia del monopolio; adottando la franchigia dell'immessione, e vietando la esportazione (Notabilmente negli anni 1854, e 1859).

Nell'ultimo trentennio, i conservatori, orfanotrofi, ritiri, asili di carità, e di educazione sono cresciuti di altri 35, collo aumento di 3308 individui ivi sopraggiunti; e colla elevazione delle rendite di altri ducati 153 mila, oltre de' loro già vistosi introiti.

Le casse di prestito, e monti di pegni aumentati ad altri 80, col capitale di ducati 179 mila.

Gli ospedali (sopratutto nella capitale, ove ve n'ha uno interessante pe' soli ciechi) hanno avuto un accrescimento di altri 27, coll'aumento di rendita di altri venti mila ducati.

Nel totale le rendite de' pii luoghi di beneficenza da 1,370,820 di ducati sono salite a 2 milioni.

Agricoltura - Abolizione delle reali cacce di Venafro, e Persano per favorire l'agricoltura in que' vastissimi terreni - Real Decreto Il novembre 1830'

Abolizione de' pascoli eccezionali pe' regi armenti, e delle terre riservate - Idem 16 detto.

Incoraggiamento per favorire le colonizzazioni, e creare nuovi centri di popolazioni - Nel 1843.

Provvedimenti di bonificazione per restituire alla fertilità, ed alla salubrità degli abitanti 12 milioni di moggia di terre paludose lungo il Volturno, e le adjacenze di Brindisi, ed altrove - Beali Decreti 17 agosto 1832,13 agosto 1839, 27 luglio 1842, e Il settembre 1843.

Censuazione obbligatoria de' latifondi di regio patronato per migliorarne la coltura - Idem 10 decembre 1838.

Scioglimento di promiscuità de' terreni, e compiuta abolizione delle residuali feudalità-Idem 19 decembre 1838, Il decembre 1841.

XI

Importante istituzione di 1200 monti frumentarj in tutto il regno, colle dotazioni di circa un milione di tomoli di grano, a soccorso de' coloni bisognosi - Dal 1831 al 1860.

Fondazione di scuole agrarie, società, e giornali economici, e di agricoltura; casse agrarie, e di prestanza pe' coloni - Dal 1831 al 1860.

Nuovo organico per l'amministrazione di acque e foreste - Idem 10 marzo 1860.

Industrie - Per l'affinità della pastorizia coll'agricoltura sono state eminentemente vantaggiate le industrie di animali vaccini, equini, pecorini, caprini, suini; e ben riordinate le provvidenze pei pascoli vastissimi del Tavoliere di Puglia, e della Sila in Calabria; come pure vietata la introduzione di cavalli esteri per l'incoraggiamento delle razze locali - Beali Decreti 2 maggio 1831,1 luglio 1832,8 agosto 1832,2 giugno 1833,7 maggio 1839,3 novembre 1841,15 aprile 1858.

Conservazione de' boschi, e rinsaldimento delle terre in pendio in pro della pastorizia - Idem 14 settembre 1857,26 gennaio 1858,28 aprile 1859.

Cassa di prestanza a prò de' locati di Puglia - Idem 14 decembre 1858.

Manifatture - Tutti i possibili incoraggiamenti governativi sono stati attuati per favorire le fonderie metallurgiche; gli scavi delle miniere; le fabbriche di maioliche, di vetri, di porcellane, cristalli; la distillazione degli spiriti, e la perfezione de' vini; gli stabilimenti di tipografie, calcografie, litografie, e xilografie; di orificerie, biscotterie; industrie cotonifere, corallifere; fabbriche di tessuti in cotone, filo, lana, seta, tappeti ecc. ebanisteria eco. - Reali Decreti 17 gennaio 1837, 16 settembre 1838, 14 settembre 1842, 18 marzo 1844, 13 aprile 1845, 9 marzo 1846, 26 marzo 1847.

Splendidi sono i successi, essendo pervenuti i manifatturieri del reame ad emulare, ed in taluni articoli anche a superare le produzioni straniere; indi premiati con distinzioni, munificepze, elargizioni pecuniarie, patenti di privative eco. come pure diminuite le tariffe doganali per la immissione delle materie occorrenti a manifatture.

Commercio - Legge per la uniformità del sistema metrico, ed analogo regolamento (6aprile 1840, e 5 gennaio 1841): per studiare gl'importanti teoremi su tal materia creavasi una commessione speciale fin da126 ottobre 1831.

Miglioramento delle antiche scuole nautiche-mercantili, e creazione delle nuove; progressivo incremento del commercio d'importazione, e d'esportazione; riduzione delle tariffe doganali per evitare monopoli, e favorire il commercio patrio; abolizione di dazi su l'uscita de' prodotti indigeni - Beali Decreti 17 aprile, e 28 ottobre 1831; 17 gennaio 1842; 18 e 25 aprile, e 21 novembre 1845; 9 e 26 marzo 1846; 5 giugno 1846; 1 e 15 marzo,1 maggio 1860»

XII

Facilitazioni per la garanzia, e mitezza di percezioni fiscali su i trasporti commerciali de' cammini di ferro - Idem 13 gennaio 1841,9 dicembre 1843.

Vistosi premj d'incoraggiamento alla marina mercantile nei viaggi di lungo corso - Idem 29 novembre 1835.

Idem per le costruzioni navali, e pel traffico di cabotaggio - Idem 15 giugno 1838, e20 1845.

Idem per promuovere la navigazione a vapore - Idem 13 maggio 1836, e 15 maggio 1839.

Concessioni di porti-franchi, ed altri privilegi, per richiamare il commercio in luoghi opportuni, e sopratutto nel restaurato famoso porto di Brindisi - Idem 29 ottobre 1844, 17 gennaio 1845, 29 maggio 1846, 28 luglio 1847.

Riforma pel miglior sistema di pegnorazione ne' Monti di Pietà, riducendosi l'interesse dal 9 al 6 percento - Idem 14 aprile 1832.

Idem per la cassa di sconto, riducendo l'interesse de' prestiti;. e facultando estese operazioni ad incoraggiare il commercio - Idem 24 aprile 1857, e 3 febbraio 1858.

Provvedimenti importanti su le borse di cambio - Idem 6 dicembre 1842.

Idem per le negoziazioni di grani, ed oli -Idem 12 dicembre 1844,21 novembre 1846.

Regolamento per ristabilire, e favorire la pesca di coralli su le coste di Affrica - Idem 29 gennaio 1856.

Fondazioni di compagnie commerciali, e società di traffico, sotto svariate denominazioni; ammontando le principali a 25 nell'anno 1856, con capitali complessivi di 21 milioni di ducati.

Trattati internazionali per la maggior facilita delle commerciali transazioni, e per rimuovere ogni ostacolo. Si notano i principali, cioè, colla Francia a' 14 giugno 1845, e 12 maggio 1848; coll'Inghilterra a' 29 aprile 1845; colla Russia a' 13 settembre 1845; cogli Stati Uniti d'America al 1 dicembre 1845, e.17 novembre 1846;. col Marocco a' 25 giugno 1834, e con Tunisi a' 17 novembre 1833; colla Sardegna a' 7 febbraio 1846; colla Danimarca a' 13 febbraio 1846; con Austria, Prussia, ed altri paesi della Germania a' 27 gennaio 1847; col Belgio a' 15 aprile 1847; Olanda a' 17 novembre 1847; Toscana a' 16 marzo 1853; Turchia a' 5 marzo 1851; Confederazione Argentina a' 12 gennaio 1857; cogli Stati Pontificj a' 27 giugno, e 19 luglio 1854; e convenzione per la telegrafia elettrica coll'Impero Ottomano a' 19 aprile 1860.

(2)

«Non vi ha cosa, che utile e nobile sia (scriveva un dotto siciliano) la quale proposta all'Augusto Sovrano che ne governa, non venga da lui immantinenti accolta e favoreggiata. Lunga sarebbe la serie de' beneficj prodigati per opere, per esperimenti, per viaggi ecc. ecc.».

(3)

Paolo Balsamo, nome carissimo a' siciliani, eloquente scrittore e dotto nelle più utili discipline sociali, scrivendo della sua

XIII

patria lamentava fortemente «non esservi a'suoi tempi Siciliaun palmo di comunicazione fra luna e l'altra terra; le popolazioni sconoscevansi i proprietari lontani sempre da' loro fondi, e que' medesimi, che avrebbero voluto visitarli ne rimanevano spaventati per gl'immensi disagi, e dispendi, a' quali si esponevano. Né alberi dunque, né uomini, né vita alcuna vedevasi nella Terra del Sole, le produzioni languivano, incolti rimanevano i campi ecc.».

(4)

Ferdinando Malvica, siciliano anche egli, e letterato chiarissimo, in un'opera che pubblicava nel 1845 (Della Civiltà d'Italia, e della sua letteratura nel secolo XIX) riportando le parole del Balsamo da noi trascritte nella precedente nota soggiungeva: «Or questo santissimo lamento è oggidì cessato, e se il Balsamo dalla sua tomba' sorgesse e potesse volgere uno sguardo a ciò che si è già fatto in Sicilia, verserebbe lagrime di riconoscenza, vedendo che suoi magnanimi voti si compirono. Conciossiaché è tale il movimento, che ivi osservasi per la formazione di novelle comunicazioni, che può dirsi meraviglioso' ed è veramente di somma consolazione per coloro che si ricordano l'isola alpestre e non tragittarle in niun punto, vederla oggi ricca di novelle vie' che le granai città tra loro uniscono,. e queste co' comuni interni, e i comuni fra loro congiungono». E quindi toccando il progresso, che col favore del real governo andavano facendo gli studi in generale, e la civiltà in questa parte del regno, dice «che se in questa continentale i fondi accresciuti per la conservazione ed il rinvenimento di oggetti. di antichità rendevano sempre più importanti Pesto, Pozzuoli, e Pompei, colà poi Siracusa, Agrigento, Segesta, e Selinunte risentivano gli effetti di quel generoso real comando ecc. ecc. ».

(5)

Coco,Saggi storici, .39,45' - Capone,Discor. sula stor. del leg. pai. . I, pag' 321» - Colletta,Stor. Del reame di Nap. % 2. - Vivenzio,Stor. di Nap. . XIV.

(6)

Gavazzi, l'apostata, che si spaccia promulgatore della vera religione, suda, trafela, e si arrovella, a raccogliere presso i protestanti ampie oblazioni per fondare una chiesaeterodossa Napoli. Povera Napoli! che insorse nel decorso secolo al sospetto di stabilirsi la Inquisizione, perché la riteneva come onta alla purità della sua fede, ora fra le pubbliche, e le private calamità che la straziano, dovrà patire lo scorno di vedere fra i prodigiosi san tu ari, ed i religiosi monumenti innalzati dagli avi, torreggiare il ricettacolo della incredulità officiato da un apostata (II giornale napoletano l'Araldo ... luglio 1861). Non è da trasandarsi però» che a' 31 ottobre 1860 alle 6 pomeridiane nel vico Carrozzieri a Monteliveto, presso la casa del medico Ant Altomare, il Gavazzi fu in procinto di pagare il fio de' suoi eccessi d'empietà. Il popolo napoletano, devoto alla fede, colla guardia nazionale lo arrestarono, e l'obbligarono a rendere omaggio alla prossima statua di Maria SS. Immacolata. Sarebbe stato massacrato senza il concorso del comandante della guardia nazionale.

XIV

(7)

Gli stati discussi del reame di Napoli dal 1831 al 1846 offrono le seguenti cifre officiali, eloquentissime più di qualunque apoditico ragionamento

1831

(

Introito

ducati

26522695 71


(

Esito

»

26450549 95

Supera


l'introito

»

72141 80

1832


(

Introito

»

26451835 03

1833

(

Esito

»

27676396 89


(

Deficit

»

1224565 86

1834

(

Esito

»

26150725 03


(

Introito

»

26150725 03


(


»

Pareggia

1835

(

Introito

»

26500107

1836

(

Esito

»

26500107


(


»

Pareggia

1837

(

Introito

»

26050735


(

Esito

»

26070731


(

Deficit

»

60000

1838

(

Introito

»

26067840

1839

(

Esito

»

26375308 99


(

Deficit

»

307468 99

1840

(

Introito

»

26846505


(

Esito

»

26849941


(

Deficit

»

436

1841

(

Introito

»

26992396


(

Esito

»

26992396

1842

(

Introito

»

26874968


(

Esito

»

27254968


(

Deficit

»

380000 22

XV


1843

(

Introito

»

27409241


(

Esito

»

28779712 68


(

Deficit

»

1370445 68

1844

(

Introito

»

27468458


(

Esito

»

28780048


(

Deficit

»

1311530

1845

(

Introito

»

27970715


(

Esito

»

28113542


(

Deficit

»

142828

1846

(

Introito

»

27993474


(

Esito

»

28184105


(

Deficit

»

190628


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(8)STATO NUMERICO degl'imputati politici presenti in giudizio,in carcere,o con modo di custodia esteriore presso le Gran Corti speciali delle diverse Provincie de' domini continentali del Regno delle due Sicilie.

Napoli,in carcere ,con modo di custodia esteriore - Terra di lavoro 80 - 6 - Principato Citra 80 - 6 - Principato Ultra 4 - - Molise 43 - - Basilicata 156 - Il -

Abruzzo Citra 6 Abruzzo Ultra 2.° - 94 - - Abruzzo

Ultra 1.° 1 - - Calabria Citra 293 - 7 - Calabria Ultra

2. a 54 Calabria Ultra 1.a 344 - - Capitanata 112 -

15 - Terra di Bari 20- - Terra d'Otranto 8 Totalein carcere .Con modo di custodia esteriore . -Osservazioni - Le suddescritte cifre, desunte dagli ultimi stati rimessi al real ministero di Grazia e Giustizia, hanno già subito una diminuzione; perciocché varie cause, dopo lo invio degli stati medesimi, sono state esaurite, e la Sovrana Indulgenza de' 19 scorso maggio a favore di una determinata classe d'imputati politici relativi a 212 cause, ne ha ridotti molti in libertà.

Non pochi giudizii vanno poi ad espletarsi nel volgere del corrente mese di giugno, e nei principii dell'entrante luglio. Napoli 18 giugno 1851.

L'uffiziale capo del 3.° ripartimento del ministero di Grazia e Giustizia.

Firmato -Cav. Gio. Pasqualoni

Nota - Alla indicata cifra di detenuti politici presso le Gran Corti speciali ascendente a 1819, se si aggiunga quella de' detenuti per conto della Polizia, giusta lo stato N.2 che segue, cioè

XVI

206, si ha la somma di detenuti politici di N.2024. Dal qual numero debbonsi diffalcare quei che sono stati ammessi alle Sovrane Indulgenze del 30 aprile e 19 maggio 1851 giusta lo stato N. |3, non che coloro che sono stati giudicati dalle Gran Corti speciali dal mese di giugno, epoca della compilazione del premesso stato, sino al cader di agosto di questo medesimo anno 1851.

STATO NUMERICO degli individui che trovansi in carcere a disposizione della Polizia per reati politici nelle diverse provincie de' dominii continentali del Regno delle due Sicilie.

Napoli 77 - Pozzuoli e Castellammare 2 - Caserta 2 - Salerno 19 - Avellino 17 - Potenza 6 - Foggia 9 - Bari 4 - Lecce 10 - Cosenza 6 -• Catanzaro 2 - Reggio IO - Campobasso 7 - Chieti 12 - Aquila 19 - Teramo 3 - Totale N. 205.

L'arresto de' suddescritti detenuti è stato sempre eseguito per gravi ed imperiose considerazioni d'ordine e di sicurezza pubblica, non a capriccio e senza forme legali, ma in virtù di mandati emanati dalle autorità rivestite della Polizia ordinaria, le quali per espressa disposizione di legge hanno la facoltà di arrestare per vedute di alta polizia, e possono anche compilare processi, quando trattasi di reati di Stato, giusta le istruzioni del 22 gennaio 1817 (a) solennemente rifermate con altre posteriori disposizioni legislative'

(a) «Art.10. - Oltre le facoltà espresse nei due articoli precedenti 9 la Polizia ordinaria nei fatti di alta polizia, indicati nell'art. 3, è rivestila ancora delle attribuzioni di Polizia giudiziaria. In questa qualità può procedere all'arresto delle persone ci prevenute de' suddetti misfatti, anche fuori il caso della. flagranza e quasi, può ritenere gli arrestati a sua disposizione oltre le 24 ore, a e può compilare essa medesima le istruzioni su tali reati. Ciò però non impedisce agli altri agenti della Polizia giudiziaria di ocouparsi anch'essi allo scovamento de' reati medesimi, e perseguitarne gli autori.»

N. B. Secondo che pervengono le dimandate informazioni sul conto de' detenuti compresi negli elenchi, se ne dispone l'abilitazione di giorno in giorno, come si è costantemente praticato.

L'uffiziale capo di riparti mento del ministero dell'Interno ramo di Polizia.

Firmato -Giuseppe Barlolomucci.

STATO NUMERICO degl'imputati di reati politici nelle Provincie dei Reali dominii continentali presenti al giudizio, ed ammessi al beneficio delle Sovrane Indulgenze de' 30 aprile e 19 maggio 1851.

Napoli -Condannati a cui è rimasta condonata la pena 14-Giudicabili pei quali si è abolita Fazione penale -

XVII

Terra di Lavoro 6 - li - Principato Citra 6 - 29 - Principato Ultra 9 - 16 - Molise 6 - 22 Basilicata 4 - 13 -Calabria Citra 1 Calabria Ultra 2/ 3 - 6 - Calabria Ultra 1.a 7 - 6 - Abruzzo Citra 2 - 8 - Abruzzo Ultra 2. 5 - 27 - Abruzzo Ultra 1.° 3 - 1 - Capitanata 5 - 47 -Terra di Bari 4 - IO - Terra d'Otranto 4 - Il - Totale dei Condannati 79, dei Giudicabili 229 - In tutto 308. Napoli 24 luglio 1851.

L'uffiziale capo del 3.° ripartimento del real ministero di stato di Grazia e Giustizia.

Firmato -Cav. Gio. Pasqualoni.

Quadro delle condanne capitali in materia politica dopo l'infausto anno 1848, commutate da S. M. il Re delle due Sicilie per grazia spontanea in altre pene, ne' suoi dominii continentali.

Gennaro Placco e Giovanni PoIIaro, convinti di attentato contro la sicurezza interna dello stato, consumando atti di esecuzione per distruggere il governo ed eccitare i sudditi ad armarsi contro l'autorità reale. Condannati alla pena di morte dalla Gran Corte speciale di Cosenza. Con Real Decreto 22 febbraio 1850 la pena fu loro commutata in quella dello ergastolo.

Tobia Gentile convinto di aggregazione a milizia estera e nemica, portando le armi contro il proprio Sovrano e lo Stato. Con. dannato alla pena di morte dalla Gran Corte speciale di Aquila. Con Real Decreto del 24 settembre 1850 la pena gli fu commutata in quella di anni 18 di ferri.

Filippo Agresti, Luigi Settembrini e Salvatore Faucitano, convinti di associazione illecita organizzata in corpo con vincolo di se' greto costituente setta, l'Unità Italiana, cui il primo anche come capo. Convinti altresì l'Agresti ed il Settembrini di cospirazione contro la sicurezza interna dello stato ad oggetto di distruggere e cambiare il governo, ed il Faucitano di eccitamento alla guerra civile ed a portar la strage tra gli abitanti della Capitale. Condannati alla pena di morte dalla Gran Corte speciale» di Napoli. Con Real Decreto del 3 febbraio 1851 la pena venne loro commutata in quella dell'ergastolo.

P. Girolamo da Cardinale, nel secolo Domenico Lombardo, convinto di cospirazione ed attentato contro la sicurezza interna dello Stato ad oggetto di distruggere e cambiare il governo, eccitando i sudditi ad armarsi contro l'autorità reale con discorsi in luoghi pubblici diretti a provocare direttamente gli abitanti del regno a commettere i suddetti reati. Condannato alla pena di morte dalla Gran Corte speciale di Reggio. Con Real Decreto del 7 marzo 1851 la pena gli fu commutata in quella dell'ergastolo.

Girolamo Zerbi convinto di attentato avente per oggetto di distruggere e cambiare il governo, e di eccitare i sudditi e gli abitanti del regno ad armarsi contro l'autorità reale. Condannato alla

XVIII

pena di morte dalla Gran Corte speciale di Reggio. Con Real de' creta de' 14 maggio 1851 la pena gli fu commutata in quella di anni 24 di ferri.

Giovan Francesco Griffo convinto di attentati contro la sicurezza interna dello Stato per oggetto di distruggere e cambiare il governo, con aver fatto parte di banda armata organizzata per lo stesso fine, esercitando comando e resistendo alle reali milizie. Condannato alla pena di morte dalla Gran Corte speciale di Catanzaro. Con Real Decreto del 2 giugno 1851 la pena gli fu commutata in quella di 24 anni di ferri.

Nicola Palermo convinto di cospirazione ed attentato per distruggere e cambiare il governo. Condannato alla pena di morte dalla Gran Corte speciale di Reggio. Con Real Decreto del 7 giugno 1851 la pena gli fu commutata in quella di anni 30 di ferri.

(9) Lettera di 20 maggio 1861 del barone Winspeare ministro di S. M. Siciliana a Torino nel 1860, diretta al marchese Villamarina ministro di S. M. Sarda presso la Real Corte di Napoli, riportata in vari giornali.

(10)

Si ha un esempio recentissimo del modo come si educa il soldato alla ferocia. Troppo rumore e scandalo avèa fatto nel mondo civile la immediata fucilazione di sei innocenti nel comune di Somma presso Napoli, (tra cui un vecchio ottuagenario, un giovanetto di 14 anni, un sacerdote) al semplice arrivo dell'uffiziale piemontese Bosco dì Ruffino. Bisognò dare un apparenza di giustizia, e fu questi tradotto innanzi al tribunale militare di Torino, che lo ha assoluto in tutto, considerando, che i sei sagrificati sono statiposteriormente alla loro morte, come istigatori delbrigantaggio. dunque la reità de sei fucilati si è versificatadopo la morte, si vede bene che l'uffiziale li massacrò prima esenza forma alcuna di processo!!! giornale l'Espero de' 30 Novembre 1861 riporta la sentenza.

(11)

"

Tre fanciulle dell'incendiato comune di Pontelandolfo (grossa borgata, in amena postura, capoluogo di circondario) che da loro abiti, e dalla casa che occupavano, si rilevava essere di ci' vile condizione, si erano serrate in una stanza, ed accesi alcuni lumi al crocifisso, cantavano delle preci. Un caporale, avvedutosene, con l'ajuto di alcuni bersaglieri, atterrò la porta, e corse per salvare quelle infelici dall'incendio: ma le fanciulle strettesi insieme rifiutarono di uscire, non ostante tutti i mezzi adoprati, finché le fiamme incalzando, avvisarono i bersaglieri non esservi tempo da perdere: ed appena fuori, che la casa crollò, e le fiamme fecero scomparire ogni traccia di fabbricato. Le tre fanciulle ivi miseramente perirono" (Corrispondenza del giornale laMonarchia de' agosto 1861.)

(12) Fra i decreti di sangue, che in pochi dì hanno immolate più vittime, che non ne abbiano uccise le più esecrate tirannie, basti citare il seguente del Generale Pinelli, comandante la brigata Sarda negli Abruzzi; né la simulata abrogazione fattane dal medico Luogotenente Farini può cancellarne la mostruosità-,,1.° Chiunque sarà colto

XIX

con armi da fuoco o da taglio,sarà fucilato immediatamente. 2.° verrà riconosciuto di avere con parole, con denari, o con altri mezzi eccitati i villici ad insorgere,sarà fucilato immediatamente. 3.° Chiunque con parole, o con atti insultasse lo stemma di Savoja, il ritratto del Re, o la bandiera nazionalesarà fucilato immediatamente."

(13) Si notano come bizzarre antitesi in politica i seguenti estratti di giornali. Si legge nellaPatrie de' maggio 1860 "Le gouverne" ment de Victor Emmanuel vient de donner une preuve non seulement de loyauté, mais de sagesse, en prenant toutes les mesures nécessaires pour faire échouer l'expédition de Garibaldi en Sicile. Il a noblement dégagé sa responsabilité devant l'Europe, et les électeurs de Turin se sont associés par leur dernier vote à la politique d'honneur, et de modération qu'il a adopté.... Quoique il arrive, le gouvernement du roi Victor Emmanuel par sa résistance énergiquea des projets insensés, aura mérité les félicitations et les encouragements de l'Europe"

E nello stesso giornale laPatrie de' settembre dell'anno stesso si legge "L'Europe se trouve en présence de questions qui éveillent de grands souvenirs et de généreuses sollicitudes L'Italie s'est engagée dans une entreprise de laquelle dépendent l'avenir de sa liberté civile et sa nationalité... Par une suite di circonstances qui sont l'honneur et la fortune de notre temps, notre époque voit se préparer ou s'accomplir des résultats durables, qui....

Enell'Opinione semiufficiale di Torino, de' 24 agosto detto anno, si legge "Il Governo ha potuto consentire alle spedizioni precedenti, perché aveva egli confidenza nella lealtà di Garibaldi, e perché il vessillo da lui alzato è quello di Vittorio Emmanuele. Egli non ha esitato a prendere la grave responsabilità di questi fatti davanti la diplomazia, comprendendo bene che l'Europa apprezza l'impero della pubblica opinione.

Tra i più importanti documenti la storia consagrerà i seguenti:

L Lettera del re Vittorio Emmanuele a Garibaldi in Sicilia.

"Generale! Voi sapete, che allorquando partiste per Sicilia non aveste la mia approvazione. Oggi nelle gravi circostanze presenti io voglio darvi un consiglio, conoscendo la sincerità de' sentimenti vostri per me. A fine di far cessare la guerra fra italiani, ed italiani io vi consiglio di rinunciare all'idea di passare colle vostre valorose truppe sul continente napolitano;purché il re di Napoli a sgombrare da tutta l'isola, e lasci i Siciliani liberi di decidere e disporre delle sorti loro. Io mi riservo piena libertà d'azione relativamente alle Sicilie. Generale! Seguite il mio consiglio, e vedrete che esso è utile all'Italia, cui renderete più agevole poter accrescere i ineriti suoi, mostrando all'Europa, che essa sa vincere, e ben usare della vittoria ".

XX

2. Risposta di Garibaldi al re Vittorio Emmanuele.

"Sire. La M; V. sa il profondo rispetto, che ho per essa; ma lo stato attuale degli affari d'Italia non mi permette obbedirla. Chiamato dalle popolazioni, io le contenni fino a quando mi fu possibile; ma se esitassi ora, mancherei al mio dovere, e compro" metterei la sacra causa d'Italia. Permettetemi dunque questa volta di disubbidirvi: allorché avrò adempiuto il mio compito, deporrò la mia spada a' vostri piedi, e vi obbedirò pel reato della vita. - Milazzo 27 Luglio 1860.

3. Nota del conte Cavour di agosto 1860 a' legati napolitani Manna, e Winspeare per trattare dell'alleanza tra le 2 corti di Napoli e Torino.

Il conte Cavour dopo avere scaltramente riandato su' due trascritti documenti conchiude cosi "Ma per doloroso, che riesca vedere la inefficacia dell'opera di riconciliazione iniziata, il governo del re sardodeve avantutto astenersi dal prender parte ad una guerra fra italiani ed italiani da lui altamente deplorata. si vede costretto ad aspettare che nuove circostanze esibiscano al governo stesso una occasione più favorevole di esercitare con miglior successo la di lui azione moderatrice e conciliante; ed è a questo fine, che egli continua a calcolare su la cooperazione degl'inviati napolitani ecc."

In Europa è risaputo il tenore delle congrue risposte date da questi ultimi; ed è pure risaputo il seguito degli avvenimenti, che sono nella più aperta contraddizione co' premessi atti.

Dopo ciò anche il più freddo osservatore è costretto a dire, come diceva testé il presidente del consiglio nazionale Svizzero nell'apertura della sessione federale (gennajo 1862) "non si può oramai oggi contare né su i trattati,ne su la parola data:l'unica garanzia è la confidenza nelle proprie forze pel mantenimento dei propri diritti" - Corrispondenza Bureau di Vienna,13 gennajo da Berna.

(14) "L'esercito napolitano è nella condizione di que' reggimenti, talora i più prodi, a cui mancò la fortuna in qualche occasione; e che chiedendo poi esser posti in testa di colonna al primo incontro, aprono poi la via a' più vecchi e più sperimentati guerrieri, plaudenti e precipitar!tisi dietro di essi. Ma perciò è necessario non rifare gli errori fatti; non quello massimo principalmente di mescolare colla guerra straniera niuna guerra intestina, l'ambizione della compiuta indipendenza, con l'ambizione di conquiste d'uno stato sugli altri. Il quale sarebbe errore massimo a qualunque stato italiano, o straniero,massimo empio a qualunque stato italiano" (C. Balbo, Pensieri su la Storia d'Italia, pag.162.

XXI

(15)

Per semplice nozione biografica sul personale de' grandi rigeneratori della prima Legislatura italiana accenniamo, che l'Unità italiana, Milano, giornale non sospetto di parzialità pe' governi legittimi, pubblica una lettera di Gio. Nicotera, calabrese, socio del famoso Pisacane, morto nello sbarco di Sapri nel 1857,,colla quale lettera accusa Cavour, Conforti, Ciccone, Leopardi, i fratelli Mezzacapo, Massari, Mazziotti, Pisanelli, Romeo, Stocco, Tommaseo, Trincherà, ed altri di aver cospirato fino al 1857 nelle Due Sicilie a favore di Luciano Murat, e solo dopo allora, vedendo di poter cospirare per conto proprio, que' Signori abbandonarono la candidatura di Murat, per sostituirvi la propria! "

(16)

Lo stesso giornalismo rivoluzionario riconosce la nullità del voluto plebiscito, e dichiara un mero intrigo di partito la elezione de' deputati (ilPungolo, l'Indipendente ultimi mesi del 1860»)Il giornale "ilPopolo d'Italia alle tristi pressioni, alle mille promesse, venalicarezze, a tuttele arti adoprate impunemente da un Governo; conchiude così" ilpopolo havotato, perché non potutovotare.

(17)

Sorge al presente una nuova potenza, larivoluzione;col privilegio unico fra tutte le altre, quello cioè delnuovo diritto, il quale nome pretende di avere diritti senza doveri, di non riconoscere trattati, né obblighi preesistenti, e di assumere sol perse la privativa di chiamarsipopolo, società;solo essa poter darelibertà, indipendenza, eguaglianza; - e poter far patti tutti a suo profitto, e tutti a peso altrui, da violarsi o mantenersi a suo arbitrio; - eccetto il suo ferreo giogo, ogni altra dominazione doversi chiamaretirannide, servitù, ingiustizia; somma da lei unicamente poter derivare la felicità, e chi osasse esser felice senza di lei, doversi sagrificare. - Benché il dizionario di codesto strano gergo della setta fosse noto, non sarà mai abbastanza ripetuto per avvertenza delle nazioni. -

(18) "Per tante età non si vede, che il Piemonte abbia mai prò" dotto all'Italia alcun lodato scrittore,,(P. Giordani).

"Lagrime di dolore, e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte, ove niuna cosa si poteva fare ne dire, ed inutilmente" appena forse si potea sentire, o pensare(Alfieri, t. III pag.7.)

,,Nessuna vita nuova, nessun impulso, nessuna scintilla di estro fecondatore: un aere grave pesava sul Piemonte, e i liberi respiri impediva"(Botta, d'Italia cont. del Guicc. Lib. 48.)

"

I subalpini erano quasi esclusi dal novero de' popoli dotti, e civili" (Gioberti, . t.2. p.319.

(19) Sembra esser morbo endemico della piemontese fazione far violenza alle opinioni, od alla libera stampa, che osasse avversarne le mire. Il Gioberti medesimo, riportando un luogo del Carutti su gl'intrighi delle prevalenti consorterie politiche si esprime cosi: "Le arti adoperate dagli avversarii furono, e prima e dopo il voto, indegnissimi libelli inverecondi, urli osceni, scellerate minacce agli uomini,

XXII

»che sostennero onoratamente la propria opinione nel parlare " (Rivista ital. 1giugno 1849, presso ilRinnovamento, . I. pag.32.)

Ed altrove il citato scrittore dice; "Che importa, a cagione di esempio, la immunità della stampa, se non può bandire il vero e il giusto, senza incorrere ne' vituperi? Potrei io scrivere queste cose se fossi in Piemonte?"(Rinnovam. .2. ' 299.)

Nelle ultime sessioni parlamentari trattandosi laquistione romana, deputati che arringarono in difformità delle opinioni in voga, ebbero a sperimentare quanto sia più d'ogni altra oppressiva, la tirannia deliberali faziosi!

(20) Sessione del parlamento belgico de' 23 novembre 1861, discorso del deputato Dumortier.

(21) Dispaccio di Lord Russel de' 24 gennaro 1861. "I voti, che ebbero luogo pel suffragio universale né varii regni,e provincie dell'Italia non hanno grande valore agli occhi del governo di S. M. la Regina. Questi voti mera formalità dopo una insurrezione, o unainvasione;néimplicano in se l'esercizio indipendente della volontà della nazione, nel cui nome si son dati."

Su l'assurdità del vantato plebiscito sonovi documenti autentici ed officiali: un rapporto del governatore rivoluzionario di Capitanata, così si esprimeva "Foggia ottobre .Il giorno del plebiscito è stato per questa provincia un giorno d'insurrezione, ed i comizii in più comuni non si sono raccolti: si son/atti, e si FAN" NO SFORZI STRAORDINARII, perché a movimento non fosse generale.,, - L'altro governatore rivoluzionario di Teramo dava fuori quasi contemporaneamente la famosa ordinanza: -Tutti i "comuni detta provincia dove si sono manifestati, o si manifesteranno moti reazionarj sono dichiarati in istato d'assedio,evi sarà eseguito un rigoroso generai disarmo... I cittadini, che mancheranno alla esibizione dell'arma di qualunque natura,. saran puniti con tutto il rigore delle leggi militari da un consiglio di guerra subitaneo. Gli attruppamenti saran dispersi colla forza. I reazionarj presi colle armi SARANNO FUCILATI. Gli spargitori di voci allarmanti saran considerati reazionarj, e puniti militarmente con rito sommario. - P. De Virgili.

Consimili rapporti vi sono stati dalle altre provincie - E del modo con che si regolavano i generali, ufficiali, e soldati piemontesi per la ironicaunanimità del suffragio popolare ha un saggio nell'ordine del giorno del pascià PineIli a' 3 febbraio 1861 a' suoi soldati "...Siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali "(i reazionarii!)la pietà è delitto. Noi annichileremo e schiaccererno il Vicario non di Cristo, ma di Satana; purificheremo col FERRO, e col FUOCO le regioni infestate etc. - Ed il Cialdini sorpassa in ferocia gli Attila, Alarico, Barbarossa quando in un telegramma al governatore di Molise diceva così: - "faccia pubblicare che io fucilo tutti i paesani armati,che piglio, oggi giàcominciato." - Bel principio da carnefice!


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XXIII

Protestano contro il bugiardo plebiscito, gli eroici sforzi delle popolazioni, le centinaia di proscritti, gl'innumerevoli sagrificati, ed arrestati: i diplomatici del regno rimasti al loro posto, e senza emolumenti; P aristocrazia emigrata, ed esule, che in omaggio di fedeltà e gratitudine offre a re Francesco II, ed alla Regina sua sposa una spada ed una corona di gran valore.

(22) Peggio di paese conquistato viene trattato il regno di Napoli dagl'invasori subalpini. La profonda politica de' conquistatori romani era di rispettare le leggi, ed il culto de' popoli vinti, anzi farne tesoro per conto proprio. La legislazione, che il governo piemontese, capitanando la rivoluzione, ha importata nellenuove provincie meridionali,è un musaico esotico, che invece di presentare l'armonicaunità, la chimera mostruosa: unica mira è stata di atterrare gli aviti monumenti di sapienza civile, e di genio patrio, e sperderne fin la memoria. Sciagurata impresa è questa d'impiantare i codici sardi nella sede delle prime scuole italiche di giurisprudenza, nel sacro asilo dell'unico esemplare delCorpo di diritto de' del mondo; presso que' giureconsulti napolitani, che con prodigiosa erudizione han saputo svolgere da' carbonizzati' papiri dissepolti da classiche città le più riposte dottrine archeologiche, e di ragion civile; in somma là dove esistevano leggi sapientissime ed ammirate dalla colta Europa, abolire l'ottimo per sostituirvi il pessimo è una eccentricità che non ha nome nella logica.

La stranezza poi dellanuova mercé , sia per locuzione, sia per anomalie irreconciliabili, richiederebbe lungo e minuto esame. Ci contenteremo intanto di accennare fra le innumerevoli incoerenze, di cui un sagace critico è occupato ora a fare la rassegna in. una speciale opera, che fra poco vedrà la luce, alcune gravi mende rilevate fugacemente nellanovella legge dell'amministrazione provinciale, e comunale, pel Piemonte a 23 ottobre 1859, ed impostaatte provincie meridionali decreto de' 2 gennaio 1861.

1. Le modifiche, le spiegazioni, e le limitazioni stabilite con tale decreto formano un intreccio confuso da rendere malagevole alla generalità de' cittadini farsene un'idea chiara.

Questa legge, troppo interessante, perché destinata a diffondere la benefica azione governativa praticamente su' governati, presenta difetti, inesattezze, ed argomenti di crassa ignoranza de' principi di diritto pubblico.

2.

I comuni sono definiti «corpi morali che hanno una propria amministrazione», vale a dire che mentre la origine politica potestà virtualmente emana da' medesimi; mentre i sindaci, loro capi, si definisconouffìziali del governo, i comuni che sono i loro mandanti, non sono (secondo la citata legge) cheenti morali capaci appena della propria amministrazione. una definizione troppo degradante ed imperfetta!

3.

Il governatore (ora prefetto) è quivi definito «il rappresentante del potere esecutivo in tutta la provincia»ciò che importa

XXIV

disconoscere la essenza del potere esecutivo negli ordinamenti rappresentativi democratici, che sta nellaunità di persona sovrana; di obliare la distinzione tra sovranità che rappresenta il potere e gli agenti organi delegati della sovranità, sia nel centro, che nella periferia territoriale per la esecuzione delle leggi' Inoltre esso governatore (prefetto) che si afferma rappresentante nella provincia il potere esecutivo, investito della facoltà di invigilare tutte le amministrazioni pubbliche, ed in caso d'urgenza provvedere ad ogni ramo di servizio,deve dipendere dal solo ministro dell'interno. altri termini, eserciterà atti nel ramo di guerra, di finanza, di marina, di agricoltura, commercio, lavori pubblici, istruzione, culto, giustizia; madovrà dipendere dal solo dicastero dell'interno. quindi, ed inceppamento massimo! - Nello poi de' singoli amministrati niuna facoltà si concede a' prefetti; né pure quella di far giustizia a' reclami, ove per avventura i loro provvedimenti potessero riverberare a scapito di uno, o più privati.

4.

Altro campo di confusione in detta legge è l'abuso di vocaboli equivoci, o amfibologici, e per lo meno non ricevuti nell'uso dellenuove provincie del sud, essendo registrati in verun dizionario italiano. Per esempio nelle corti, e ne9 tribunali napolitani non si riconosce l'uffizio de'procuratori: è ignota la distinzione dicausidico;avvocato; ragioniere, liquidatore; geometra, architetto;affitto, masserizia . per cui non si possono applicare gli articoli 15.21.37.

5.

La lira, come si legge in una nota, corrisponde a grana 23 napolitane; mentre nella legge che fissa i ragguagli monetari la si dice equivalente a grana 23 e mezza.

6.

I reclami contro le decisioni delle deputazioni provinciali per quistioni di collegi elettorali si portano, per l'art.36, alleCorti di appello, si spiega nella nota corrispondentetribunali civili,mentre la G. C. civile di Napoli a' 12 giugno 1861 definìarbitraria sudetta nota.

7.

A quali funzionari adunque compete la sorveglianza delle provincie? a' soli governatori (prefetti), a' suoi agenti negli svariati rami, a' magistrati, a' giurati?

8.

E si domanda inoltre, quali sono gliedifizi diocesani, quali lespese da farsi attorno a' termini 'art. 165? - Quali leopere attorno a costruzioni, di cui le leggi pongono eventualmente il ristabilimento o la riparazione a carico del corpo, che rappresentano, quando tali opere rappresentino la sicurezza e la solidità delle costruzioni stesse (art 216)? - Come si deve intendere ilvalore giustificato di una locazione prima di procedersi all'asta pubblica (art.123)? - Quale sarà latrattativa privata, cui parla lo stesso articolo? - Quale lostabilimento pubblico di ugual natura de' caffè, alberghi, e trattorie (art.99 n.3)? - Quali le stradeconsortili (art.168)? - Quali lecapitolazioni (art.84)? -»

XXV

Quali iconti consuntivi (art.129)? - II confronto analitico di tutti i neologismi del l'ami detta legge riesce nojoso.

8.

Non sono emancipate dal centralismo le amministrazioni comunali, ma immerse nel caos, e nel laberinto, sempre più in aumento per la instabilità delle ibride nomenclature delle autorità loro preposte. Agl'intendenti furono sostituiti i prodittatori; a questi i governatori, e poi i prefetti; a' decurioni i consiglieri; a' cancellieri i segretari; a' segretari generali i vicegovernatori; e gli uni e gli altri aboliti con legge posteriore; ed in loro vece un consigliere di prefettura nominando con decreto, all'impedimento prolungato d'un prefetto si sostituì unReggente, come se si trattasse della minore età d'un monarca. In meno d'un anno istallati e rimossi nella stessa provincia meglio che sette volte i governatori, ed i prefetti. I circondari divennero mandamenti, ed i distretti circondari. In somma la instabilità, la leggerezza, la inopportunità sono i caratteri di tali leggi; siccome lo sperpero finanzierò, il maltalento, la smania d'innovare per odio, e lo scontento ne sono in un tempo causa ed effetto.








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