Eleaml

Almanacco istorico d'Italia 

di Mauro Macchi

Non è trascorso manco un decennio dalla proclamazione del Regno d'Italia e il bilancio è assolutamente fallimentare. Qui non si tratta di reazionario né di borbonico ma di persona di buon senso che si interroga su come stanno andando le cose nel paese, in merito alla libertà di stampa, alla inviolabilità del domicilio, alla certezza del diritto, a “certi affari” legati agli appalti milionari.

Mentre però l'autore si pone delle sacrosante domande su alcune violazioni statutarie in alcune città del centronord – col solito alibi della “sicurezza dello stato”  – noi dobbiamo ricordare agli amici della rete che nelle regioni meridionali grazie alla legge Pica vi erano stati molto probabilmente oltre CENTOMILA morti, gran parte dei quali passati per le armi senza processo alcuno o condannati da giudici compiacenti o asseviti.

Zenone di Elea, 17 Giugno 2009

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ALMANACCO
ISTORICO D'ITALIA
DI
MAURO MACCHI
(1815-1867)

A RESTAURAZIONE DEL 1815 - LA RIVOLUZIONE DEL 1815 — LA CATASTROFE DI NOVARA —LA GUERRA DI CRIMEA —LA GUERRA D'ITALIA DEL 1839 — ULTIMI TEMPI.

ANNO PRIMO

1868



MILANO

Brigola Editore

1867.

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Cominciamo dalla stampa.

Le persecuzioni esercitate dal fisco contro la stampa andarono facendosi sempre più frequenti e più illegali. E non è per interesse di partito che noi ce ne lamentiamo, ma per doverosa solidarietà nella difesa dei liberali principii. Non andiamo a cercare se i giornali fatti bersaglio delle ire fiscali siano fautori od avversarii delle nostre idee. La libertà deve essere per tutti, non soltanto per noi e per li amici nostri. Certo che la stampa non dovrebbe riguardarsi che come un apostolato di verità, di moralità, e di civiltà. E, purtroppo, non si può disconoscere che molti scrittori non sono, o non si mostrano, abbastanza compresi dell'importanza e della serietà della loro missione sociale. Sappiamo, pur troppo, che anco della libertà della stampa, come di ogni più sacra cosa, si può abusare: e questi abusi sinceramente deploriamo. Ma essi non devono dare pretesto a chi comanda di violare le leggi o di manomettere i principii. Se no, il governo si rende colpevole di un eccesso ben più grave e più funesto di quel che si lamenti nelli scrittori. È sempre col pretesto delli abusi che il despotismo contrastò ai popoli l'esercizio dei più inviolabili diritti.

Contro i mali che l’abuso della stampa può produrre alla società, non valgono che questi due rimedii: o impedirli colla censura preventiva, o renderli pressoché innocui colla libertà vera ed intera. Ora vedono tutti che ristabilire ai dì nostri la censura preventiva, per tanto tempo esecrata, ed abolita ormai da per tutto, sarebbe cosa assurda e impossibile.


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Colla conquista della libertà, non è più compatibile quel sistema di prevenzione, che era vanto e sgomento dei governi assoluti. Ora ogni cittadino ha diritto di pensare, e di scrivere, e di fare quanto più gli talenta: salva la responsabilità personale eh' egli ha dinanzi alla legge, la quale non può prevenire, ma soltanto reprimere quando la si offenda. L'intera libertà, invece, se può essere causa anch'essa di non lievi inconvenienti, ne porta seco il rimedio; simile a quella spada che nel tempo stesso ferisce e risana, come dice il paragone già tanto usato da uomini non solo di aspirazioni superlative, ma anche delle più moderate opinioni. No, non è col despotismo né colle preventive repressioni che si possono evitare li abusi della stampa, né qualsiasi delitto, e neppur provedere alla pubblica tranquillità. Si volle combattere il brigantaggio col ferro e col foco, anziché colle buone leggi e con provvide riforme: e si è sacrificato quasi intero un esercito; e, dopo tanti anni, il brigantaggio non è spento. Così, nessun governo è più dispotico e più pronto alla repressione di quello del papa: e le provincie dove più numerosi si hanno a deplorare i delitti di sangue, sono quelle appunto che furono per più lungo tempo soggette al dominio pontificio.

Ma l'attuale ministero non la pensa in questo modo. Sono note le acerbe parole con cui più volte nel Parlamento subalpino il conte Cavour ebbe a redarguire il Menabrea per l'importuna insistenza con cui facevasi a raccommandare odiose restrizioni della legge sulla stampa. E di cotesta sua ubbìa contro la libertà dello scrivere, non è per anco guarito, l'attuale presidente dei ministri, ad onta dei rabbuffi cavouriani.


PERSECUZIONI CONTRO LA STAMPA 37


Per il che, quand'egli la prima volta si presentò alla camera il 5 Decembre 1867, in compagnia del suo Gualterio, dopo avere spiegato in qual modo e per quale ragione era giunto al potere, annunciando quale sarebbe stato il suo programma di governo, fe' noto che si sarebbe occupato anche di cercare un rimedio per quelli che sono, od a lui sembrano, eccessi della stampa. E ripetutamente venne fuori con questo suo proposito di ritoccarne in tal senso la legge. E se finora non è riuscito, fu solo per l'aperta, e decisa, e quasi direi minacciosa opposizione che trovò nei rappresentanti della nazione, e nella nazione medesima.

Però, se non è riuscito a far modificare la legge, il ministero non mancò di perseguitare la stampa col mezzo de’  suoi agenti fiscali. Curiosa sarebbe la statistica dei giornali che furono sequestrati nel corso dell'anno in questo beato regno d'Italia, e non già per oltraggio al costume, od all'onore altrui: ma quasi tutti per censura stimata esorbitante delle gesta ministeriali; o per offesa alla persona del re e de’  suoi figli; o per voto mal dissimulato contro la monarchia. Sì, tale statistica sarebbe curiosa, ed istruttiva. Ma ci è impossibile darla; imperocché riuscirebbe sterminata. Basti il dire che venne giorno in cui fu sequestrata persine la grave e constituzionalissima Riforma, per un articolo tradutto dal Siede di Parigi; mostrando così come li attuali governanti dell'Italia abbiano della stampa maggior paura delli stessi ministri napoleonici. E poiché d'ordinario i sequestri non hanno per conseguenza che di procurare maggiore pubblicità allo scritto incriminato,


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ed al giornale un maggior numero di abbonati, il ministero tentò dapprima di combattere la stampa più invisa con illegali impacci: poi andò per la più spiccia, ed arbitrariamente cacciò in prigione gerenti e scrittori. Un giornale di Milano che, al primo apparire, faceva fin paura per la sua spietata maldicenza, e che certo non avrebbe potuto far vita cotanto prospera se le persecuzioni fiscali non lo avessero reso in breve popolarissimo, stampava nel settembre di quest'anno un articolo in cui trovasi compendiata la «Via Crucis della libera stampa in Italia».

In esso si legge: — «A Milano giace ancora in carcere il nostro gerente Vismara, ed il gerente Buri della Gazzetta di Milano attende la restituzione delle due mila lire, carpitegli a titolo di cauzione per la scarcerazione provvisoria, in seguito ad un arresto dei più inqualificabili ed illegali. A Bergamo furono carcerati i redattori del giornale il Democratico. A Lodi, furono arrestati, un dopo l'altro, due gerenti della Plebe, e più tardi anche il suo direttore. A Bologna fu condannato l'Amico del Popolo a carcere e multa, ad istanza del comandante delle guardie di Pubblica Sicurezza. A Genova, sono incarcerati due gerenti e il direttore del Dovere. A Lucca fu arrestato il direttore del giornale il Serchio. A Modena, fu arrestato il gerente del giornale il Menotti. A Livorno, fu arrestato il direttore del giornale lo Scoglio. A Mantova, fu condannato a carcere e multa di L. 1500 il direttore del giornale la Favilla. Ad Ancona, fu condannato a carcere e multa il gerente del giornale la Plebe. A Napoli fu condannato a carcere e multa il gerente del giornale la Libertà. E perché nessun altro giornale sfugga più d'ora inanzi alla condanna,


GIORNALISTI AMMANETTATI 39


il signor Pironti, infischiandosi della legge sulla stampa e dello Statuto, ordinò che d'ora in poi i reati di stampa vengano sottratti ai loro giudici naturali, i giurati, e rubricati in modo da essere deferiti ai giudici del correzionale. Questo sì che si chiama saper fare le cose a dovere!»

Eppure cotanta repressione non basta a soddisfare le insane smanie del signor Pironti, il quale scrisse una Circolare ai magistrati da lui dipendenti in cui afferma che la stampa tra noi «si è fatta talmente violenta e provocante da oltrepassare ogni limite»; e vuole che essa sia «energicamente repressa». Poi, per tema che nel core de’   suoi procuratori batta ancora qualche sentimento d'indipendenza e di dignità, sicché di mala voglia si prestino a' suoi comandi, minaccioso dichiara che «non mancherà di chiedere loro stretto conto» della pronta osservanza delle stolte sue prescrizioni. Ed aggiunge che «analoghe istruzioni saranno diramate anche ai prefetti e sotto prefetti» da quello tra i suoi colleghi che, soli pochi mesi addietro, quando non era per anco ministro, tuonava con tutta l'enfasi, dal suo stallo di deputato, perché né direttamente né indirettamente i diritti della stampa fossero menomati.

Insomma, l'odio o lo sprezzo contro la stampa è, nell'attuale ministero, giunto a tal segno, da trattare chi la rappresenta al pari dei più abietti malfattori, facendo onta a quelle civili consuetudini che liberalmente si osservano in tutti i paesi. Non senza raccapriccio si legge in un supplemento del Movimento di Genova del 28 agosto:

«Questa mane una straordinaria folla, come quando un condannato a morte era condutto al patibolo,

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attendeva che uscisse dalle carceri giudiziarie di Sant'Andrea qualche gran reo. Ed ecco, infatti, sulle 9 e 1/2 venirne fuori colla solita scorta dei carabinieri due individui, un vecchio ed un giovane, ammanettati assieme, e tirar dritto verso piazza Ponticello. La folla, sempre nell'idea che si trattasse di omicidiarii per lo meno, ravvisava sopra i loro volti tutti i segni caratteristici del delitto, (ed erano quelli invece di poveri cristi, condutti innocentemente al Calvario); né si ristava dall'esprimerlo sul passaggio con parole irose, ed insultanti. Patita simile berlina lungo quel non breve tratto di via, i due ammanettati furono fatti entrare in un omnibus a finestre chiuse, che li condusse alla Corte d'Assise. Sapete chi erano? Maicher, della Carinzia, e Ponti, di Domodossola, cascati a Genova per campare la vita, ed acconciatisi per lo meglio a prestar la loro opera di gerenti alla Giovine Italia, ed al Genova. Il loro delitto tuttavia l'ignorano e l'ignoreranno ancora dopo la sentenza, non essendo la loro intelligenza all'altezza di comprendere ciò che hanno materialmente firmato; la causa a delinquere fu il prepotente bisogno di trascinare, comecché sia, la vita. Parrebbe dunque che dovesse bastare la pena che loro può esser più o meno equamente inflitta, senza l'aggiunta di quell'obbrobriosa esposizione al pubblico; che, se è ingiusta per tutti, lo è tanto più per due onesti cittadini tratti dinanzi ai tribunali per semplici delitti di stampa».


IL DIRITTO DI RIUNIONE 41


VII.


Né più della stampa è rispettato il diritto di riunione; né la santità del domicilio; né l'inviolabilità delle persone.

Quanto al diritto di riunione basti un "solo esempio.

Le provincie della Venezia, venute ultime nel consorzio nazionale, e rappresentate in Parlamento da deputati pressoché tutti ministeriali, volendo un giorno manifestare la loro disapprovazione nel modo più pacifico e più legale contro quella famosa Convenzione Lagrand Dumonceau proposta dal barone Ricasoli, pensarono valersi per la prima volta del diritto di riunione garantito dallo Statuto; e il Ricasoli, che indebitamente proibì quelle pubbliche adunanze, fu dal Parlamento condannato con insolito, ma troppo meritato voto di biasimo. A più forte ragione, per tanto, quelle medesime provincie pensarono potersi valere del diritto di riunione per far palese alli attuali ministri la loro avversione alla tassa del macinato. Ma, ad onta del biasimo inflitto al Ricasoli, li attuali ministri osarono impedire a quella brava gente, l'esercizio di un tanto diritto. I fatti accaddero in Pordenone; dove sedici dei più distinti cittadini presero l'iniziativa di un popolare Comizio «onde offrire un modo tranquillo e legale di manifestare le proprie opinioni, e così evitare la possibilità di fatti deplorevoli che, pur troppo, accaddero in altri luoghi, e serbare inconcusso l'ossequio alla legge». Invece di ricorrere alla violenza, i cittadini di Pordenone volevano soltanto compilare una petizione al Parlamento per eccitarlo


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a sostituire a quella del macinato «altra imposta equivalente»; come, ad esempio, quella di una «capitazione proporzionata all'età»; dichiarando, peraltro, esplicitamente che avrebbero pagato anche la tassa sul macino, flnquando non fosse stata abrogata e sostituita.

Era impossibile procedere con maggiore prudenza e legalità. Eppure i ministri, anche questa seconda volta, si arbitrarono di vietare la già annunciata riunione, dichiarando essere «disposti di adoperare anche la forza per impedirla».

A tanta tracotanza, il signor Galvani, consigliere provinciale, dopo aver dimostrato che i cittadini di Pordenone volevano usare dei diritti costituzionali «per amore di ordine e di pace, e per evitare quelli atti di sangue che funestano la penisola», non mancò di soggiungere: «La minaccia di adoperare la forza desta in me un senso di disprezzo e di compassione». Né poteva essere altrimenti, essendo egli uomo che lunghi anni aveva vissuto impavido colla mannaia del carnefice austriaco sospesa sul capo. La prudenza ed il patriottismo dei promotori dell'adunanza la vinsero sulla provocazione ministeriale. La pubblica adunanza fu disdetta da quelli onesti cittadini; colla dichiarazione, per altro, che essi cedevano soltanto alla violenza; e non per riguardo alle loro persone, «ma per evitare collisioni sanguinose».

Ora, una parola sulla inviolabilità del domicilio.


VIII.


Uno dei più importanti diritti, anzi il diritto più importante di tutti, che colla moderna civiltà


VIOLAZIONI DI DOMICILIO 43


conquistarono i popoli, è quello per cui le nuove leggi garantiscono a tutti, ed a ciascuno, la santità e l'inviolabilità del proprio domicilio. Persino la libertà della stampa, che è una delle più belle vittorie dei tempi nostri sulli antichi despotismi, e che è pur sì feconda di benefica sociali, appare meno preziosa in confronto della inviolabilità domiciliare. La censura preventiva imposta sulle opere dell’ingegno, per quanto fosse perniciosa e molesta, si poteva in qualche modo deludere con arguti apologhi e con sagaci allusioni; e poi, in caso di necessità, si poteva far stampare il libro in paesi più liberi; e, finalmente, non è in grado di riconoscere i vantaggi della libera stampa l'ancor sterminata moltitudine delli analfabeti.

Ma l'inviolabilità della propria casa è tale un diritto di cui tutti sentono la necessità, tutti possono apprezzarne i beneficii. Ed è per ciò che in tutte le costituzioni del mondo cotesto essenziale diritto dei cittadini si trova esplicitamente proclamato.

No, non potrà mai dirsi paese libero né civile quello in cui tutti i galantuomini non sieno sicuri, quando alla sera vanno a dormire, che nessun agente governativo, per nessun pretesto, potrà nella notte intervenire a rompere i suoi sonni, a spaventare la sua famiglia, ad oltraggiare il pudore della sua sposa e delle sue figlie, ed a violare il secreto delle sue carte.

Il sentimento di cotesto diritto che hanno tutti li uomini di veder rispettata e sacra la propria abitazione, è così naturale, che li stessi governi più dispotici ben si guardano dal violarlo se non in alcune troppo urgenti ed eccezionali occasioni. Le rarissime volte che la polizia austriaca, pur tanto esosa, si è permessa di fare una perquisizione

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domiciliare a taluni de’  suoi più notorii nemici, ne veniva una tale e tanta irritazione nel pubblico, che valse, forse più d'ogni altra cosa, a rendere irreconciliabile la lotta tra noi e il dominatore straniero.

E dacché il paese nostro è governato a libertà, se abbiamo dovuto rimpiangere molti errori dei governanti e dei governati, il domicilio dei cittadini almeno fu sempre rispettato.

Toccava alli attuali ministri l'offendere anche cotesto così sacro diritto, e far cadere l'Italia in condizioni peggiori dei paesi meno inciviliti.

Vi fu stagione, in cui non passava quasi un giorno senza che la triste novella ci giungesse di qualche sfacciata violazione del domicilio dell’uno o dell'altro tra i più distinti patrioti.

Una notte sono i poliziotti di Pavia che penetrano nella casa del dottore Antonio Griziotti, e vi mettono tutto a soqquadro, e vi leggono le carte più secrete. Un'altra notte sono i birri di Firenze che invadono la casa del cav. Francesco Pais, e lo fanno uscire sgarbatamente dal letto, e poi vanno con odiosa audacia rovistandone i più secreti ripostigli, «nulla rispettando; neppur ciò che evidente portava l'impronta della domestica intimità». Una terza notte sono i questurini di Parma che violano e manomettono il domicilio del maggiore Paolo Fadigati. Altrettanto si fa a Lodovico Pontiroli, in Modena, e al popolare publicista Tironi in Venezia: ed al valoroso veterano Tolazzi in Udine; e ad Aurelio Bellisomi, a Milano; ad Alberto Mario in Lendinara; e, per finirla, a quel fiore e modello di galantuomo che è Gaspare Stampa, l'amico delli operai e ricco proprietario di Abbiategrasso.


PROCESSI E PRIGIONIERI POLITICI 45

IX.


Rispetto alla sicurezza ed alla inviolabilità delle persone, siamo costretti registrare che, ormai, si hanno a deplorare processi e prigionieri politici anche in Italia.

Tutte le istorie, antiche e moderne, ci ammaestrano che già presso a ruina o quel governo, il quale, per reggersi più a lungo, è costretto ricorrere alla corruzione od alla violenza. In uno stato che sia retto secondo i principii di libertà e di moralità, le carceri politiche naturalmente restano deserte. Una volta era l'Austria che maltrattava i patrioti, perché si adoperavano onde sottrarre l'Italia alla straniera sua dominazione; e sentivamo, più che raccapriccio o disdegno, una specie di orgoglio, vedendo quell'insensato governo, costretto a tormentarci colle sue persecuzioni. E furono appunto le torture inflitte per ragioni politiche ad onesti cittadini, che valsero a farci spezzare più presto le catene della servitù straniera. Ma, poiché l'Italia era riuscita a comporsi con governo nazionale, si credeva che il tempo delle sevizie politiche fosse trascorso per sempre. E così fu, infatti, finché non riuscirono a metter mano nelli affari di stato uomini, i quali, nelle matte loro allucinazioni, non sanno veder altro che congiure e pugnali. E cotesti furiosi esercitano, pur troppo, grande ed immeritata influenza sopra taluno di cui, a furia di fanatici sospetti, contristano la vita, e sopra i ministri, che, per ciò, sono spinti ad irragionevoli repressioni.

Come ai tempi più tristi della dominazione austriaca

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ci toccò dunque di vedere ancora una volta in Italia li agenti della polizia violare il domicilio e penetrare di notte nelle case di molti distinti cittadini di Milano, di Genova, di Firenze, di Napoli, i quali, colti così per sorpresa, vennero tradutti li uni nella cittadella di Alessandria, li altri alle carceri delle Murate di Firenze o della Concordia di Napoli, come si farebbe coi più ribaldi malfattori. Cotesto di sorprendere tra il sonno alcuni dei più influenti patrioti, e trasportarli lontani dalle loro famiglie, e così sottrarli anche ai loro giudici naturali, fu una brutta contraffazione di quanto s'era compiuto in Francia per il colpo di Stato, la notte del 2 decembre. Ben a ragione la generosa cittadinanza di Alessandria si adirò per tanta enormità, e quasi se ne vergognava; temendo che tali sevizie dei signori ministri non riuscissero a procacciare alla fortezza di Alessandria «che fu sempre l'antimurale della libertà» la triste rinomanza che ha la fortezza dello Spielberg nell'istoria Austriaca.

Parecchi di cotesti prigionieri, al momento in cui scriviamo, dopo molti mesi di dura detenzione, vennero posti in libertà, senza giudizio di sorta, tanto apparve manifesta la loro innocenza. E così non hanno che a lamentare il crudele arbitrio dei ministri, che inflisse loro senza ragione i non pochi tormenti e fisici e morali di una immeritata prigionia. Bisogna riconoscere, per altro, che ne furono compensati ad usura dalle clamorose ovazioni con cui il popolo IL accolse quando fecero ritorno alle loro case. E queste dimostrazioni, ancor più che ad onor loro, erano dirette a far onta e dispetto al governo; massime che assi avevano fatto solenne ed assai sdegnosa protesta che non avrebbero accettato mai alcuna amnistia.


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Fucilati Per Equivoco 47

X.


Ma non è solo il diritto di riunione che si contende nel nostro paese, e l'inviolabilità del domicilio che si oltraggia, e la libertà delle persone che arbitrariamente si toglie. Ve. qualche cosa di peggio. In questa Italia, che è pur vantata come terra di civiltà antica, e che, certo, si offenderebbe se non avesse a reputarsi degna di civiltà anche nei tempi moderni, si afferma siano avvenute cose, che appena sarebbero credibili nei paesi più barbari, e che pure il governo non ha saputo smentire.

Un giornale di Torino pubblicò un documento, dal quale risulta che nel settembre del 1866, si è fucilato in Palermo, per equivoco, un cittadino innocente. Il documento consiste in una lettera scritta dal direttore compartimentale delle poste al sindaco di quella città. Quivi sono citati anche il prefetto ed il questore; onde quattro sarebbero le autorità governative che si possono invocare a testimonianza dell’orrido fatto. È bene che la lettera sia conosciuta nella sua integrità. Eccola: «Amministrazione delle Poste italiane — Direzione compartimentale di Palermo—N. di protocollo 8892 — Risposta al foglio del sindaco di Palermo del dì 24 settembre — N. 607.

«Palermo, 26 settembre 1867.

«Corrispondendo al pregiatissimo foglio della S. V. Ill. ma, al margine segnato ho l'onore di trascrivere qui appresso la nota-del questore del 24 giugno di quest'anno (gabinetto N. 687), dalla quale Tiene constatata la morte di Salvatore Ardizzone.


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«Sul conto del controscritto individuo Ardizzone Salvatore, per equivoco fucilato dalle regie truppe immediatamente ai fatti di settembre, furono apprestate da quest'officio le informazioni richieste da questo signor prefetto, che qui appresso si trascrivono per soddisfare l'incarico della S. V. , contenuto nella lettera contro indicata.

«In esecuzione della nota della S. V. Ill. ma al margine segnato, mi pregio manifestare che, assunte informazioni sulla compassionevole catastrofe dell'innocente Salvatore Ardizzone, si è venuto a conoscere ch'egli era un uomo pacifico e di regolare condotta sì morale che politica; di sua natura pusillanime; nei giorni di anarchia andò a ricoverarsi in casa del luogotenente Costantino Accardi; di esser vero che li oggetti rinvenuti in sua casa appartenevano ai garibaldini e a' suoi parenti militari e impiegati; che le regie truppe, credendolo un reazionario, lo arrestarono e sventuratamente lo fucilarono nel quartiere San Giacomo.

«Per la morte dell’infelice Ardizzone rimasero orbati due ragazzi, i quali non hanno parenti che possano dar loro la conveniente educazione ed i necessarii mezzi di sussistenza.

«Il direttore compartimentale

«P. DUDER.»

Il fatto è narrato con tanti nomi, e con sì dettagliate circostanze, che mal si saprebbe come revocarlo in dubbio, malgrado che esso sia stato rivelato da un giornale che, per solito, non è troppo attendibile.

Ad ogni modo, nessun uomo, per poco onesto e delicato che sia, può arrestarsi neppure al semplice sospetto, quando si tratti non solo della vita,


CINQUANT'OTTO FUCILATI SENZA GIUDIZIO 49


ma anche dell'onore, tolti per equivoco ad un innocente.

Appena il giornale di Torino ebbe rivelato questo orribile fatto, la stampa invitò i ministri a dichiarare in modo perentorio sulla Gazzetta Officiale, se pure il potevano, che esso era falso; onde il foglio denunciatore avesse tosto la meritata smentita. Che se, invece, esso fosse vero, si desse almeno una postuma riabilitazione alla vittima sventurata, poiché, pur troppo, non era più possibile restituirle la vita. E il governo non si degnò di rispondere!

Ma v' ha ancora di peggio. Nella tornata parlamentare del 10 giugno il deputato Ricciardi interpellò il ministro di giustizia intorno a certi atti nefandi che impunemente si sarebbero commessi nelle Calabrie. E poiché molti parvero sorridere d'incrudelita, l'interpellante avvalorò le sue asserzioni, porgendo la nota chiaramente dettagliata, col rispettivo nome di ben cinquantotto individui che sarebbero stati brutalmente fucilati nelle Calabrie, senza giudizio di sorta.

Questi sventurati sono:

1. Orlando Giuseppe, fu Gregorio, di 25 anni, contadino 2. Calarata Alfonso, fu Gaetano, di 25 anni, cuoco 3. Calio, Natale, fu Giuseppe, di 21 anni, contadino Greme Giovanni, detto Capo di lupo, fu Domenico, pecoraio 5. Parise Abele, fu Gaetano, di 47 anni, bracciante; in Rossano 6. Fambrosi Luigi, fu Domenico, di 28 anni, contadino 7. Salatino Giovanni fu Giuseppe, di 54 anni, contadino. 8. Salatino Francesco, fu Luigi, di 20 anni mandriano 9. Russo Clemente, detto Arzillo, di 25 anni, contadino -10. Diacono Pasquale, fu Giuseppe, di 31 anni, proprietario; in Paludi  11. Capatto Michele, fu Giuseppe, di 45 anni, massaro

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12. Sapio Pasquale, fu Santo, di 28 anni, vaccaio 13. Cianci Leonardo, contadino 14. Palmieri Vincenzo, contadino 15. Reale Giovanni, fu Angelo, di 50 anni, proprietario 16. Oriolo Pasquale, fu Francesco di 36 anni, contadino. 17 Carlucci Angelo, fa Leonardo, di 29 anni, contadino 18. Serra Antonio, di 40 anni, contadino; in Coriglìano 19. Campana Giuseppe, fu Luigi, di 25 anni, forese 20. Bernardo Francesco, di anni 35, guardiano 21. Gagliardi Serafino, fu Francesco, di 31 anni, contadino 22. Berardi Francesco, fu Giuseppe, di anni 50, contadino 23. Pizzuti Bruno, fu Fortunato, di 51 anni, contadino 24. Chiarello Angelo, fu Giuseppe, di 31 anni, contadino 25. Codino Gennaro, detto Faccione, fu Antonio, di 20 anni, contadino 26. Beraldi Tomaso, detto Bribba, fu Giuseppe, di 55 anni, contadino 27. Imperiale Carmino, di 24 anni, contadino 28. Sapio Giuseppe, fu Pasquale, di 30 anni, bracciante 29. De Luca Vincenzo, fu Giuseppe, di 66 anni, massaro 30. Gagliardi Luigi, fu Giuseppe, di 37 anni, bovaro; in Lungobucco 31. Pignorelli Francesco, di 43 anni, sacerdote 32. Pignorelli Luigi, di 29 anni, di condizione civile; in S. Giovanni in Fiore 33. Bongiorno Francesco, fu Giuseppe, in Oriolo 34. Viteritti Pietrangelo, fu Nicola, di 25 anni, contadino 35. Ferrara Natale, fu Vincenzo di 48 anni, contadino 36. Gadino Francesco, fu Pietro, di 50 anni, bovaro 37. Mangano Giuseppe, di 55 anni, contadino 38. Falco Giovanni, di 39 anni, contadino 39. Feraco Giuseppe, detto Griluzzo, fu Francesco, di 74 anni, guardaboschi; in Acri 41. Savelli Gennaro, di Salvatore, di50 anni 42. Bacenti Leonardo, contadino 45. Mazzei Catalto, fu Ferdinando, contadino


QUERELE DELLA STAMPA MODERATA 51


44. Rovitti Carmino, fu Catalto, di 31 anni, contadino; in Rovio 45. Santero Giovanni, di Domenico, di 38 anni, contadino 46. Giudo Biagio fu Giuseppe, di 40 anni, contadino 47. Filipelli Attanasio, di Savino, di 33 anni, contadino 48. Do Sanctis Natale, di Pietro, di 32 anni calzolaio 49. Passavanti Pasquale, fu Giuseppe di 38 anni, notaio 50. Passavanti Giuseppe, di Pasquale, di 25 anni, modico 51. Accetta Michele, fu Gennaro, di 48 anni, muratore; in Caloveto 52. Urso Saverio, fu Giuseppe Antonio, di 51 anni, contadino 53. Filippelli Gabriele, fu Rosario, di 35 anni, mandriano 54. Sorrentino Antonio, contadino 55. Volpe Vincenzo, contadino 56. Saraceno Carlo Maria, contadino 57. De Luca Tomaso, fu Antonio, bracciante 58. Vespimacci Antonio, fu Michele, di 37 anni; in Bocchigliero.

Per onore dell'Italia e dell'umanità, il Ricciardi insisté dapprima in Parlamento; e, poiché il Parlamento fu chiuso, per mezzo dei giornali, affinché il ministero smentisse, se pure il poteva, fatti sì orrendi.

Incredibile a dirsi! Il ministero, finora, non ha saputo, o non ha voluto rispondere.

XI.


Sia dunque per la minacciosa condizione delle finanze, sia per la pessima amministrazione politica, sempre più vivo si fa il malcontento in Italia; e non solo nelli uomini di più arditi propositi, ma in ogni classe di cittadini. E, buono o mal grado, è costretta di quando in quando a farne fede anche la stampa più moderata, o ministeriale. Siamo ai primi di settembre di quest'anno, e prendo a caso tra i cento,


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un paio di giornali, che nessuno vorrà sospettare animati da sentimenti ostili al governo, né capaci di propositi sovversivi.

Nella Gazzetta di Venezia si legge: — «Poco a poco s'è andata creando una situazione così difficile e così intralciata, che nessuno vede più come se ne possa uscire convenientemente». E il dotto Corriere Cremonese dice: — «Ogni illusione, non solo inutile, ma sarebbe perniciosa, nella presente situazione: essa, pur troppo, è delle più sciagurate che abbiamo attraversato dal 59 in poi, se anche non è la più bieca e minacciosa fra tutte... Da per tutto troviamo segni manifesti di un fatale rilasciamento di principii e di idee, una sfiducia pressoché generale, una stanchezza profonda». Ma ancor più desolanti sono le parole della Perseveranza, la quale certo non è pagata per esagerare le cose, quando possano far torto alli attuali ministri. Eccole: — «Un sentimento domina in tutto e su tutti: la stanchezza. Siamo stanchi di indovinare, stanchi di attendere, stanchi di prevedere. Da qualunque parte ci si volga, nessun raggio viene a schiarare la via. Camminiamo sfiduciati come chi non abbia uno scopo e una direzione, e ci ripetiamo malinconicamente l'un l'altro tutti i giorni quella solita antifona: che cosa c'è di nuovo? Che cosa c'è di nuovo è presto detto. C'è che mentre il ministero, come chi è caduto in una pozzanghera, tenta di rialzarsene, vi sono li amici della ventura che, presolo per i capelli, si sforzano a configgerlo sempre più nella mota. C'è di nuovo che, mentre da un lato lo spirito e il desiderio di novità ci farebbe desiderare che il governo tentasse qualche colpo ardito, e,


PROTESTA DELLA LEGA DELLA PACE 53


sciolta la Camera, domandasse alle urne elettorali una risposta al fatale problema di Amleto, che si ripete per noi, dall’altro lato viviamo paurosi dell'attitudine che in tanta pervicacia delle sètte, e in uno straripamento così generale dei guasti umori, possono assumere li elettori di Italia. C'è di nuovo che la fiducia di tutte le cose va scemando ogni giorno, che un'irritazione a' indefinibile e indeterminato malcontento occupa li animi, che lo avvenire prossimo si presenta minaccioso sempre di più».

Così il Secolo di Milano, il quale dopo aver creduto per troppo tempo «fosse atto di patriottismo non frapporre ostacolo» all’opera dei ministri, benché fossero «uomini delle più disparate idee, senza aver fede in alcuna», dichiarò un bel giorno che le tante delusioni lo hanno costretto a ricredersi; avendo dovuto convincersi che «il paese non può più ritrovare la sua salute col partito che ci governa», e che «la cancrena ond'è presa la povera Italia e la minaccia di morte, reclamano rimedii pronti ed eroici.»

Se così parlano i moderati e li amici dei ministri, è facile immaginare quale debba essere il linguaggio della opposizione, democratica o costituzionale che sia. Non c'è quindi bisogno di alcuna citazione. Bensì diremo che con molto dolore, ma senza alcuna sorpresa, ci toccò leggere in un documento solenne, ampiamente diffuso dai promotori della Lega della pace e della libertà, il seguente giudizio sulle coso nostre:

«L'Italia da pochi anni appena si è rivendicata a libertà, e già l'Europa liberale, mirando con sorpresa quanto accade nella nostra Contrada, dimanda se questa sarà sempre


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la terra delli arbitrii e delli abusi, e l'italiano meritamente schiavo. Ampie libertà ci sono guarentite dal patto nazionale, e lo Statuto proclama la prima e la più preziosa di tutte — la libertà personale insieme coll'inviolabilità del domicilio. Se ogni società investe il potere del diritto di punire, la legge circonda pure il cittadino e l'accusato di guarentigie contro li arbitrii. L'arresto non deve essere arbitrario, né inutilmente prolungato, i giudici d'istruzione devono andare a rilento nel rilasciare mandati di cattura, e l'arrestato deve essere protetto contro ogni violenza e vessazione. Sono queste le norme elementari di ogni governo civile. La violazione dei diritti personali fu il segno della grande rivoluzione d'Inghilterra; e tutte le rivoluzioni successive sanzionarono questo primo dei diritti. Esso è pure guarentito dall'art. 26 del nostro Statuto; ma in che modo viene egli rispettato nell'applicazione e nella vita sociale?

«Noi vedemmo in questi anni a Torino, a Bologna, a Parma, a Milano, nelle Sicilie centinaia di cittadini sostenuti per mesi e per anni in carcere e poi rilasciati in libertà con un non consta, senza il minimo risarcimento per le pene ingiustamente sofferte. Noi vedemmo truppe ed agenti di pubblica sicurezza inveire contro cittadini inermi, senza le intimazioni preventive. Noi vediamo tentati assassinii e veneficii perpetrati passar quasi impuniti per ispirito di parte; e per ispirito di parte sospendersi, rimoversi magistrati che vollero penetrarne il mistero e colpire il reo. Vediamo giornali interessati a sviarne le traccie, accarezzati, protetti; quelli che con indomito coraggio stigmatizzano il delitto e vogliono smascherare


IL MINISTERO FUORI DELLA LEGGE 55


siffatte turpitudini, sequestrati, perseguitati e i gerenti imprigionati. In Calabria cinquanta cittadini cadono arbitrariamente fucilati e nessun giudizio s'intenta contro li omicida. A Milano si percuotono con ferite mortali pacifici cittadini, e li agenti dalla questura non solo vanno impuniti, ma sono anco rimunerati, mentre intemerati cittadini, che hanno consacrata la vita all'indipendenza della patria, scampati dai perigli delle battaglie, sono dalla fazione avversa strappati alle loro famiglie, sostenuti da più settimane in carcere sotto il pretesto di una cospirazione che non esiste fuorché nella paura e nelle irose passioni di chi è interessato al loro silenzio, che spera di ottenere coll'incusso terrore.

«Siccome è conculcata la libertà individuale, è divenuta una derisione quella della stampa. Al partito che domina, dianzi bastava il sequestro del giornale; ora non è più sufficiente; si vuole inveire contro i gerenti, i redattori gettati arbitrariamente in carcere. E questi soprusi da chi sono consumati? Da un potere esecutivo che per più volte fu condannato dal voto del Parlamento; da un ministero che, raccogliticcio di tutte le defezioni, usurpa quel seggio anziché averlo ottenuto dalla sanzione legislativa; un ministero condannato nella sua politica, nella sua amministrazione, nelle sue convenzioni finanziarie: da un ministero fuor della legge.

«Avviene quindi che il paese offre questo strano spettacolo, nuovo nelli annali costituzionali. Da un lato il popolo calmo, sicuro nel suo diritto, paziente sino all'oblio; dall'altro un potere iroso, agitato da furenti passioni di setta e provocatore. Da un lato il popolo nella legge, servo alla legge; dall'altro un potere che, uscito dalla legge,


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non sa e non può arrestarsi sulla china in cui è sospinto.

«Tale è lo spettacolo che l'Italia, dopo pochi anni di libertà, presenta ali' Europa. All'Europa che non cessava di far voti per la nostra libertà; perché la libertà dei popoli è solidale, ed essa si fortifica estendendosi ai popoli diversi.»

Con frasi più succinte, ma più roventi, il medesimo giudizio ha formolato la Società dei Reduci di Torino in quell'Indirizzo del 31 Agosto che mandò a Garibaldi per eccitarlo a venire sul continente, dicendo che ormai «solo la sua presenza in questi frangenti può scuotere l'inerzia delli italiani.» L'Indirizzo comincia così:

«Patrioti integerrimi gettati nelle carceri, altri costretti, come ai tempi dell'assolutismo, a battere la via dell'esilio; giudici, per aver fatto giustizia, puniti — impuniti i sicarii e li avvelenatori — l'immoralità eretta a sistema: eccovi, o Generale, lo stato di questa terra, alla quale avete sacrati e mente e braccio, e per la cui libertà siamo gloriosi di aver combattuto sotto di Voi.»

A questo Indirizzo, che fu stampato colla firma di illustri patrioti, a gara fecero pubblica adesione buon numero di cittadini.

Il ministero si trovò in dissenso col Parlamento, e l'ha chiuso, mandando ad epoca indeterminata la nuova convocazione; si trovò in ostilità coll'opinione pubblica, e «se ne vendicò con processi inqualificabili, con detenzioni impossibili, con persecuzioni alla libertà della stampa, di associazione, di riunione.» Ed, in mezzo a tanto fremito di malcontento, e a tanto pericolo di ruina, il capo dei ministri ebbe


NUOVO ORDINE CAVALLERESCO 57


ancora la presenza di spirito di divertirsi a creare un nuovo ordine cavalleresco; a determinare la precedenza nei così detti dignitarii del regno, ed a rivendicare di bel nuovo per sé e po' suoi colleghi il titolo Eccellenza, che, non foss'altro, per senso di dignità, il Gioberti aveva abolito, appena fu eletto ministro nel 1848. Così si pensa a salvare l'Italia. Oh quam parva sapientia regitur mundus!

Intanto, per tastare il terreno, taluni tra i più audaci fautori dei ministri, cominciarono col suggerirgli di promulgare, con forma di decreti, parecchi provvedimenti che, per l’opposizione o per la chiusura della Camera, non potrebbero avere sanzione di legge. Poi, gettata la maschera, si fecero a parlare addiritura della necessità di un colpo di stato. L’Italia, a dir vero, non è paese per ciò: e, fra l'altre cose, le mancano anche li uomini da tanto. Ma la buona intenzione, questi signori, non risparmiarono di manifestarla; onde la stampa fu per qualche tempo costretta di occuparsene; e fu uno scandalo che fra noi non s'era ancor visto. E non è male sapere che, per giudizio delli onesti suggeritori del colpo di stato, uno delli articoli dello Statuto che più sarebbe urgente di sopprimere, è il 31: quello, cioè, che garantisce il debito pubblico, e solennemente dichiara che «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile». Certo che in questo modo, cessando di pagare i debiti, si farebbe presto, e senza grande fatica, a pareggiare le partite del pubblico bilancio.


XII.


Tra i varii modi con cui si palesa oramai il publico malcontento contro l'attuale [amministrazione, uno fu scelto in questi ultimi tempi che, ove prendesse più vaste proporzioni, basterebbe solo a rovesciare qualsiasi governo. Intendiamo parlare delle manifestazioni popolari fatte in onore di chi venne colpito da sentenze giuridiche, come già notammo or dianzi, e delle proteste dei rappresentanti municipali contro i decreti dei ministri.

Per esempio, quando a Milano, esclusi i giurati, il tribunale condannò il Gazzettino Rosa a grossa multa, subito venne aperta in di lui favore una soscrizione che, in pochi giorni, ha dato una somma dieci volte maggiore di quella imposta dalla condanna. Altrettanto si fece per la Favilla di Modena. Un'altra volta in Genova si tenne apposita accademia musicale per darne i proventi in favore del Dovere, sempre bersagliato dal fisco. In odio del Presente di Parma, il ministero aveva fatto incarcerare, oltre il gerente, anche l'avvocato Arisi, e i dottori Caprara e Ostacolimi, direttori. Dopo tre mesi di carcere preventiva, e quindi arbitraria, si venne al dibattimento; il quale, anzicché una condanna, procurò un vero trionfo alii imputati. Il presidente del tribunale fece vent'otto dimande ai signori giurati, nella speranza di ottenere almeno un pajo di risposte affermative, e così avere un appiglio di pronunciare severa sentenza. Ma a tutte le ventotto dimande i giurati unanimi risposero no. Lo stesso giornale che era in causa narra trionfalmente l'ottenuta assoluzione,


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OVAZIONI AI PERSEGUITATI DAL FISCO 59


e le ovazioni popolari che si ebbero in seguito li imputati ed il loro difensore, colle seguenti parole: — «L'unanime negativa risposta data dai giurati ai vent'otto quesiti sulla pretesa multilatere reità del gerente e dei tre Direttori del nostro giornale, li strepitosi e reiterati applausi coi quali fu accolta dall'affollato uditorio, che da due giorni assisteva con insolito interessamento al dibattimento, le spontanee ovazioni fatte all'illustre avv. Ceneri, furono maggiori delle nostre previsioni. Non solo la sua arringa venne fragorosamente applaudita, ma quando alle nove di sera uscì dal palazzo della Corte d' appello, la straordinaria moltitudine di persone che stavalo da tempo aspettando nel piazzale di S. Caterina proruppe in frenetiche acclamazioni e lo accompagnò al grido di W. l'avv. Ceneri, evviva Mazzini e Garibaldi, evviva la libera stampa, evviva Roma, fino all'albergo della Croce Bianca; ove stette fermata per ben più di un' ora, né si volle ritirare se prima non ebbe udita la voce di lui e dei tre direttori Ostacchini, Caprara e Arisi, i quali tutti parlarono acconcie parole, accolte con reiterati evviva. Le case poste di fronte all'albergo della Croce Bianca furono illuminate, e una banda cittadina suonò sotto le finestre l'inno di Garibaldi. Terminato il banchetto, offerto all'illustre professore dal partito democratico parmense, al quale sedevano da oltre sessanta persone, e varie tra queste in rappresentanza di associazioni popolari, egli rispose con nobili ed affettuose parole ai molti brindisi ed augurii a lui rivolti dai commensali».

Quando, in un parapiglia accaduto in Milano, rimasero feriti alcuni cittadini ed anche qualche agente di polizia, vennero aperte due soscrizioni, con manifeste intento di farne una dimostrazione politica.

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Li uni, in omaggio del principio di autorità, volevano venire in soccorso dei poliziotti feriti, essi dicevano, nell’adempimento del loro dovere; li altri, come protesta contro le violenze governative e rivendicazione dei popolari diritti, ambivano venire in aiuto dei cittadini colpiti dai birri. Or bene, la prima soscrizione, benché naturalmente alimentata dalla classe più ricca, riuscì così stentata da fare vergogna: e 1' altra, invece, che fu aperta manifestamente per far dispetto al governo, prese d'un tratto così formidabili proporzioni, che le autorità si sentirono costrette di proibirla. E quando alcuni dei colpiti dalli agenti governativi ne morirono, furono fatte esequie e lapide a spese pubbliche, ed ebbero onori funebri così clamorosi come se fossero caduti combattendo centra nemici stranieri per la libertà della patria.

Fece gran chiasso anche il processo tenutosi a Milano nello scorso aprile per l'affare del Tómbolo. Il deputato Toscanelli aveva asserito in presenza di molte e serie persone che i guarda caccia del re avevano ferito od ucciso ben ventitré persone in quel possedimento, che appartiene alla lista civile. Sulla fede di quelli onorevoli testimonii, il corrispondente fiorentino dell’Unità Italiana pubblicò la cosa. Il giornale, il quale non aveva fatto che ripetere ciò che fu provato altri avere asserito, fu processato e condannato; e al Toscanelli, che era l’autore della odiosa diceria, non si diede molestia di sorta. Convien dire, per altro, che il deputato pisano, lungi dal negare il fatto, lo ripeté e lo confermò dinanzi 1 tribunale, dando persino i nomi delle ventitre persone che, a detta sua, sarebbero state ferite.


I MUNICIPI DI BOLOGNA E DI MILANO 61


Poco stante si doveva fare in Pisa la rielezione dei consiglieri provinciali; ed il Toscanelli fu subito messo inanzi dal partito democratico, cui egli non appartiene, colla seguente raccomandazione:— «Non possiamo astenerci dall’attribuire un significato politico alla nostra lista di candidati, quando vi leggiamo il nome di Toscanelli e delli altri testimonii avversi ali' amministrazione della casa reale, al processo di Tómbolo. Le elezioni attuali varranno a protestare contro il sistema amministrativo praticato sino ad oggi nel nostro Commune, contro il deliberato della Giunta municipale riguardo ai fatti asseriti a carico dell’amministrazione della real casa ed a conferma delli abusi da essa praticati. L'onorevole Toscanelli ed i suoi amici, confortati da un voto di fiducia dell’intera cittadinanza e della campagna pisana, anderanno al processo d'appello dell’Unità Italiana, e con prove irrefragabili dimostreranno la verità di quanto affermarono. Giudici incorruttibili faranno loro giustizia, proclamando atto di somma immoralità il togliere la vita o mutilare tanti cittadini per due o tre fagiani o per un pugno di ghiande».

E tale raccommandazione bastò perché su 1691 votanti al Toscanelli ne siano toccati ben 1224; ond'egli fu il primo eletto.

Altre più serie dimostrazioni. Il Consiglio dei ministri si arbitrò di destituire un impiegato delle poste di Bologna, perché aveva firmato un manifesto elettorale, in cui raccommandavasi il Ceneri contro Minghetti. E la Giunta Municipale di quella città immediatamente protestò contro la puerile vendetta dei ministri,

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impiegando ne' suoi offlcii la vittima della soperchieria governativa. E quando, quasi a provocazione, il ministro di giustizia, con nuovo esempio, osò sbalestrare qua e là nelle più lontane provincie i magistrati che non avevano avuto la fortuna di procedere o di sentenziare a seconda de’   suoi capricci, ecco pronunciarsi minacciosa l'opinione pubblica, non solo per mezzo dei giornali di ogni partito, per poco che fossero indipendenti, ma eziandio per mezzo delle Società patriottiche, e del corpo delli avvocati, e persino delle rappresentanze municipali; cominciando da quella di Milano, che è pure tanto ponderata e governativa.

La deliberazione della Giunta milanese venne formulata nei seguenti termini:

«La Giunta municipale non si perita di affermare che, raccoltasi in seduta, ebbe con voto unanime a deliberare di far conoscere al ministero, per mezzo del suo capo, come officiale del governo, la grave e dolorosa impressione produtta nella nostra città dalla traslocazione dei tre magistrati giudiziarii Usuelli, Comolli e Pogliani. La ragione di tale deliberazione sta nel punto 6 dell’articolo 103 della legge comunale e provinciale, che incarica il sindaco, quale officiale del governo, di informare le autorità superiori di qualunque evento interessante l'ordine publico. Ora la Giunta, che provò abbastanza di non cedere a pressioni che intendano a trarla in campo non suo, nella presente circostanza stimò suo debito, non già di formulare un giudizio, sì bene d'informare il potere esecutivo dell’impressione surta dal1' atto ministeriale in discorso».

Non potendo, per brevità, riprodurre le testuali


PRESSIONE MINISTERIALE SUI GIUDICI 63


proteste di tutti i corpi politici e morali, ci basti citare, ad esempio, quella che venne deliberata dalla Società patriottica di Crema il 29 Agosto. Eccola: «Considerato che uno dei principii organici della nostra costituzione politica, come di qualunque governo civile, si è la completa indipendenza dell'amministrazione della giustizia da ogni ingerenza e pressione dell'autorità governativa;

«Che essendo l'amministrazione della giustizia il cardine principale su cui appoggia lo sviluppo della vita sociale, è imperiosa necessità che il paese riponga nella medesima piena ed illimitata fiducia; locché non si può ottenere se non siavi fondata sicurezza che. nelle deliberazioni dell’autorità giudiziaria altro non si riscontri se non il risultato di una libera convinzione manifestata alla stregua delle leggi immutabili del vero e del giusto;

«Che ove fosse lecito all’autorità governativa di portare il proprio sindacato nelli atti dell’amministrazione della giustizia, mercé misure di rigore contro i membri che la rappresentano, quando compiono un atto di autorità che è loro imposto dalla natura del loro officio; tolta ogni guarentigia all’esercizio dei diritti, ogni fede nella libertà dei giudizii, ogni sicurezza nella applicazione delle leggi, vi sarebbe micidiale anarchia nei poteri dello Stato, grave e rinascente scompiglio nelli interessi dei cittadini, immenso ed irreparabile sovvertimento nell'organismo sociale;

«Che non a torto il recente tramutamento da varie sedi di magistrati dell’ordine giudiziario, destò seria e dolorosa impressione, come quello che per imponente concorso di circostanze che vi si rannodano,


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fu dalla pubblica opinione appreso siccome indiretta censura dell’autorità governativa alle deliberazioni di quei magistrati emanate in oggetti di loro esclusiva competenza;

«La società patriottica di Crema deplora l'improvvido traslocamento dei membri dell’autorità giudiziaria delle sedi di Firenze, Napoli, Milano e Bergamo, e fa voti perché, nell’interesse della pubblica cosa e delle costituzionali franchigie, non si rinnovi simile minaccia alla libera manifestazione della convinzione dei giudici, e non si attenti più oltre all'indipendenza dell'amministrazione della giustizia».

In verità, neppur l'Austria, né Bonaparte, né i Borboni osarono mai fare così sfacciata pressione sulla coscienza e sulla indipendenza dei giudici. E non è questo un fatto meramente amministrativo, ma che assume un carattere politico della più alta gravita. Quando un governo non si perita di metter mano nel santuario della giustizia, chi potrà più far rispettare l'imparziale autorità della legge? Qual valore avranno le sentenze dei giudici? Quale fiducia potranno inspirare i magistrati?

XIII.


Troppo, sventuratamente, ci sarebbe a ridire sull'amministrazione della giustizia in Italia, anche senza parlare del carcere preventivo, che il più delle volte si prolunga in modo vergognoso ed intollerabile, per insufficienza di numero o di zelo nei magistrati. Accade spesso che, dopo un arresto preventivo di più anni, come si venne al pubblico dibattimento, li imputati furono tutti assolti. Ciò si vide nei famosi


IL CARCERE PREVENTIVO 65


processi di Ravenna, di Termi, di Pesaro, ed in altri molti, massime quando ci fosse imputazione di rivolta contro le autorità o di assassinio politico. Il più scandaloso di tutti fu quello fattosi a Bologna nell’autunno del 1868. Trattavasi di una trentina di individui, operai e signori, guardie nazionali e borghesi, che da ben tre anni il fisco teneva in prigione, stimandoli colpevoli di tre o quattro assassinii, di qualche rapina, ed insomma dei più gravi disordini, onde erano da qualche tempo tormentate le Romagne. L'atto d'accusa era voluminoso e formidabile. Ma come si venne al pubblico dibattimento, neppur uno dei 200 testimonii, chiamati dal fisco, seppe, o volle, fare testimonianza contro li imputati. Allora il pubblico accusatore si lasciò imporre dalli applausi che li accorsi a quella scena si permisero in favore delli imputati, e, dopo averli tenuti in carcere sì lungo tempo, più non gli bastò l'animo di provarne la reità; e passando, d'un colpo, dal tragico al comico; così si espresse: — «So anch'io manovrare di spada e di pugnale, e non mi credo per questo un malfattore. Nella mia gioventù, ed in compagnia d'uomini che ora siedono sui più alti gradi della pubblica amministrazione, mi sono divertito anch'io alla spada ed al pugnale.» Alli spettatori piacquero queste parole. Accusati ed accusatori si abbracciarono, e così ebbe fine quel triste dramma.

Altri processi si videro tra noi, pei quali il fisco stimò necessario mettere in carcere centinaia di persone, che, dopo aver subito due o tre anni di preventiva detenzione, furono proclamati innocenti. Intanto, oltre alli spasimi ch'essi ebbero immeritamente a soffrire, le loro famiglie andarono in ruina,


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e lo stato ebbe a mantenerli oziosi, a spese dei poveri contribuenti.

Questa del carcero preventivo è una delle piaghe che contrista tuttavia la moderna civiltà: ed alla quale sarebbe ormai tempo di opporre efficace rimedio. E più delle altre nazioni ne ha urgente bisogno l'Italia, dove le carceri sono pur troppo assai più popolate che altrove. Si fe' il conto che ogni anno il numero dei carcerati aumenta nel felice nostro regno di circa 2000; e fatta, or sono pochi mesi, la somma, si trovò che, tra i già condannati ed i prevenuti, nelle carceri italiane infracidiscono oltre 71,000 individui, mentre in Francia, con tanta maggiore popolazione, se ne contano soli 50,000. Nella tornata parlamentare del 27 febrajo 1869, rispondendo al deputato Trevisani, che si lamentava della soverchia agglomerazione di detenuti nelle carceri della sua Fermo, con danno enorme della salute e della morale, il ministro dell’interno Cantelli ebbe a fare questa terribile confessione:

«Si è detto che le carceri di Fermo sono soverchiamente ingombre. Mi duole confermarlo, e sventuratamente non è a Fermo soltanto che si verifica questo doloroso stato di cose. Non si ha che a visitare qualunque carcere si voglia, e si constaterà lo stesso inconveniente. A Firenze, dove vi è un carcere giudiziario benissimo costrutto, che potrebbe servire di modello a tutti li altri del regno, ho visto io stesso cinque o sei carcerati in una cella, che dovrebbe servire per un detenuto solo».

Se ciò accade nelle carceri modello della capitale, è facile imaginare in quale stato si trovino li immondi antri delle provincia più lontane. Chi lesse la


STATO DEPLORABILE DELLE PRIGIONI 67


descrizione fatta delle carceri di Sardegna da lord Vernén può credere che, in quell'isola, coloro che hanno la sventura di essere posti in prigione, quand'anche non ancora riconosciuti colpevoli, siano trattati piuttosto come bestie che come uomini. E molti si videro che, tratti in carcere per lievi colpe, non potendo stare più a lungo in quelle orribili bolge, pensarono a bello studio di commettere delitti più gravi, per poter essere mandati nelle galere, che sono considerate da quella misera gente come una vera risorsa.

Così l'Italia, se ora non ha più altro vanto, può dire almeno d' aver piene le sacristie, piene le caserme, piene le prigioni di gente tutta atta al lavoro e condannata ad ozio forzato. E poi ci lamentiamo della nostra povertà! E taluni mostrano di non sapere comprendere come con tanto sorriso di cielo, e con tanta ricchezza di suolo, questa Italia, celebrata per classica tradizione di fecondità, sul mercato delle nazioni si trovi che produce tanto meno delli altri paesi civili.


XIV.


Dacché, poc'anzi, ci occorse far cenno dei delitti di sangue, non ci è lecito andar oltre, senza dirne una parola di riprovazione e di protesta.

Ogni qual volta la stampa denuncia qualche proditorio assassinio commesso nell'una o nell'altra delle nostre provincie, noi ci sentiamo profondamente contristati, non solo per l’orribile offesa recata alla morale ed alla ragione pubblica, ma eziandio per il danno che ne deriva alla riputazione della patria nostra;


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della quale ogni onesto cittadino deve esser sollecito e geloso, come della riputazione della propria madre. L'Italia ebbe, per lungo tempo, la fama di essere il paese, non che dei frati e dei preti, delli assassini e dei briganti. Per il che, li scrittori stranieri, appena avessero bisogno di introdurre un sicario nei loro romanzi o nei loro drammi, non esitavano a mettere in scena un italiano. Naturalmente, noi ce ne mostravamo offesi e sdegnati; e la nostra letteratura, di qualche tempo fa, è piena di eloquenti, proteste contro cotesto, che reputavamo ingiusto oltraggio al nostro onore nazionale.

A dir vero, dopo li sforzi che abbiamo fatto per conquistarci l'indipendenza e per guadagnarci anche noi un po' di libertà, il mondo modifico alquanto i i suoi giudizii a nostro riguardo; e molte genti ci manifestarono una speciale stima e simpatia, in ragione dei nuovi nostri meriti, od almeno della nostra fortuna. O non si parlò più del nostro vizio antico di essere troppo facili al sangue; od insieme ali' accusa, adducevasi subito la scusa; ed è che, se di quando in quando fra noi si ha la sventura diveder dar mano al coltello, la colpa non è tanto del maligno temperamento quanto della secolare educazione, che sventuratamente ci toccò subire da un partito, -il quale, per introdurre qualche variante nelli immani supplicii della Inquisizione, affilò il pugnale di Ravaillac contro un re, e ordinò la strage di S. Bartolomeo contro un popolo.

Ebbene: ora che l'opinione delli stranieri si è resa più indulgente e più amica, par che facciasi a bella posta per provare che le antiche accuse erano giuste e meritate.


DELITTI DI SANGUE 69


Troppi delitti di sangue si hanno a deplorare ancora in Italia. Sì, troppi. Né ci basta l’animo di darne la statistica.

Anche senza parlare dell'assassinio tentato nelle vie di Livorno contro quel generale straniero, che parve avesse proposito di provocare sanguinosa vendetta da un popolo che, conquiso colla violenza, altre volte egli aveva sfidato con imperdonabili oltraggi; né di quell'altro che impunemente si tentò nelle vie di Firenze contro un deputato; si può dire che non passi mese, oramai, senza che nell'una o nell'altra delle terre italiane si compia qualche delitto di sangue. Il maggior contingente ce lo da la misera Sardegna. Poi vengono le Romagne. A Ravenna, ad lmola, a Forlì, a Faenza, anche in questi ultimi mesi distinti cittadini ebbero a morire di coltello. Soltanto in questa ultima città? ben 647 reati dì sangue si commisero dal 1845 in poi.

Dalle note officiali risulta che, nel solo corso dell’anno 1867, si compirono nel regno d'Italia nientemeno che 2826 omicidj: dei quali appena 264 giudicati involontarii. Nei delitti di sangue, la nostra appare la prima nazione del mondo civile. Per il che, uno dei più diffusi e dei più serii giornali stranieri, il Times di Londra, alludendo al primato morale e civile superbamente pronosticatoci dal Gioberti, ebbe a dire: — «Li italiani, dopo avere ottenuto la piena signoria di sé medesimi, prima d'ogni alta cosa raggiunsero un vergognoso primato nel delitto». E pur troppo è vero: e bisogna finirla.

Non basta che il governo reprima e che la stampa protesti. Bisogna che i cittadini tutti, i quali hanno senso di moralità e di civiltà, mandino un grido di riprovazione e di orrore;

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mostrando così che le popolazioni respingono ogni ombra di solidarietà coi pochi forsennati, che coi loro delitti le contristano e tentano disonorarle.

Fino ad un certo punto, si può anche comprendere un atto di sanguinosa rappresaglia fra gente oppressa e pervertita dalla schiavitù; ma in un popolo libero esso riesce veramente inesplicabile ed imperdonabile. Il farsi ragione col sangue è proprio delle fiere, e tutt'alpiù dei selvaggi. Ma è cosa indegna del secolo e di noi. I fautori di libertà e di democrazia aborrono, e devono aborrire sempre più, dalla violenza e dal sangue. Li assassinii, siano pure perpetrati per vendetta domestica o per intolleranza politica, basterebbero a disonorare la civiltà di un paese, se la maggioranza dei cittadini non si facesse un dovere di pubblicamente protestare e imprecarli.

Con somma compiacenza, per tanto, abbiamo letto la risposta data dal Consiglio direttivo della Società del Progresso di Faenza al Decreto del generale Escoffler, il quale, valendosi delli straordinarii poteri illegalmente conferitigli, aveva creduto bene di scioglierla; quasi accusandola di ordire essa stessa, o fomentare, i troppo deplorati assassinii.

Anche Ravenna protestò contro i troppo frequenti assassinii; in un pubblico documento, del 23 settembre 1868, stampato per cura di centinaia di cittadini e di tutte le Associazioni che in quella città hanno sede, comprese quelle di Mutuo soccorso dell'operai, della Unione Democratica, della Nuova Italia, e del Fratellevole Soccorso, fecero la seguente dichiarazione:— «I sottoscritti, in nome della civiltà, della morale e della dignità umana, energicamente


PROTESTE CONTRO LI ASSASSINII 71


protestano di nuovo contro i delitti di sangue che funestarono la città nostra, e contro queste malvagio macchinazioni. Respingono indignati ogni solidarietà di cui la calunnia e l'intrigo volevano incolpato il paese, e si dichiarano risoluti e pronti a cooperare con chiunque si proponga di scoprire questi veri malfattori che denunciano alla esecrazione universale».

Gioachino Rasponi, egregio uomo, che fu deputato e sindaco di Ravenna, cercò dare la massima diffusione-alla protesta de’  suoi compaesani, raccommandandola all'attenzione pubblica con un scritto suo, in cui diceva: — «Era tempo che i cittadini Ravennati manifestassero l'onestà dei loro propositi. Io confido che l'era dei misfatti sia chiusa, e che l'esempio di una gioventù operosa nel progresso e nel bene, varrà a soffocare le malvagio passioni di quei pochi illusi che, educati alla scuola di un passato d'infausta memoria, fossero per avventura tuttor proclivi a recare, con turpi attentati, nuovo disdoro alla città nativa».

Ma torniamo alla nostra istoria.


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XV.


Poiché il governo inaugurò un sistema di resistenza, come uno dei ministri dichiarò in Parimente, non è a stupire se vi fu chi tentò lo scoppio violento.

Nell'aprile di quest'anno si vedeva la polizia in all'armi, e tutta intenta, nelle principali città d'Italia, a scoprire congiure e rivolte. L'attenzione pubblica era di preferenza rivolta a Napoli, per l'arresto improvviso di alcuni patrioti, e, fra li altri, della contessa


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Giulia Cicala Caracciolo, d'un signor Concetto Procaccini, e, più tardi, dell'avvocato Marziale Capo e del suo giovine di studio, accusati di «mene» o di «complotto» mazziniano. L'Opinione, parlando di cotesto arresto, e di cotesto complotto misterioso, pubblicò una lettera di Napoli, in cui si dice:. — Li arresti eseguiti nelli scorsi giorni hanno produtto un panico fra i cospiratori capi e fra li agenti secondarii del complotto, i quali si aspettavano di vedersi arrestati tutti quanti; tanto i colpi della questura furono bene assestati, andando al giusto nel segno. Tutti li arrestati erano già sotto il mandato di cattura della autorità giudiziaria da parecchi giorni, ed il loro arresto si fece solo quando si credette impossibile di procrastinarlo più a lungo nello interesse dell'ordine e della tranquillità pubblica. Mi si dice che non manchino le prove della reità di tutti li arrestati. Il Procaccini fu preso mentre stava al Municipio, ove era impiegato al corso pubblico, distribuendo permessi aj padroni di carrozze o dando multe ai cocchieri di carrozzelle. Fu fatta una perquisizione nel suo tavolo, ove venne trovato un testamento politico a suo figlio, in senso tutto repubblicano. Del resto le prove, a quanto dicono, della sua complicità nel complotto, si avevano già da molto tempo e per deposizione di alcuni delli arrestati che confessavano ogni cosa. L'autorità era, del resto, sulle traccie della associazione repubblicana da qualche settimana; ora fra li affigliati all'alleanza circola la voce di essere stati traditi da qualcuno dei militari, che aveva fatto la mostra di accettare le proposte, per poi svelarle alle autorità. Insomma: diffidenza e confusione dappertutto nelle fila dell'associazione.


ARRESTI PER CONSPIRAZIONE 73


Il segnale di questo moto mazziniano doveva esser dato dal Comitato centrale residente in Milano. È voce pubblica che l'avviso dovesse giungere in questi giorni, ma pare che Napoli non dovesse insurgere che dopo Milano, Genova, Torino, Brescia, Bologna, ecc., vale a dire appoggiare il movimento che doveva scoppiare con forza in quelle città! Il Concetto Procaccini fu condutto al castello dell'Uovo; li altri in altre prigioni, ma tutti al secreto. Di militari non si arrestò, oltre il bandista del 72o, che un officiale del 52o, il quale trovavasi a Napoli in congedo. Egli chiamasi Fiorentino. Pare che fosse un agente del Comitato».

Pareva che tutto fosse finito, quand'ecco i giornali di Milano del 19 aprile ci recarono, con circospette parole, la notizia che in quella città si erano fatti perquisizioni domiciliari ed arresti, con cui pretendevasi avere sventata una pericolosa cospirazione. La grave notizia ci venne poi confermata dalla stessa Gazzetta Officiale del 20; la quale, con apposita nota, narrò che nella capitale lombarda le autorità erano riuscite a scoprire una congiura ordita «contro la sicurezza dello Stato»; ed aggiunse che s' erano fatti parecchi arresti, e sequestrate armi, e bombe fulminanti, e carte assai compromettenti. Dopo due giorni, altre perquisizioni, ed arresti, e sequestri di piccole bombe, si sono fatti anche a Firenze.

Or dicasi: cotesta congiura, che sì pretese avere in tal modo sventata, sussisteva davvero; o non fu che uno dei soliti sogni delle polizie, stipendiate da governi illiberali? E se un'insurrezione sul serio voleva tentarsi, quali ne erano i mezzi, quali li eccitatori, quale il programma?

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In altri paesi, od in altri tempi, non sarebbe stato, confessiamo, né ragionevole, né equo, l'ammettere la ipotesi che pubblici funzionarii potessero inventare cospirazioni e congiure, per arte di governo e per agonia di potere. Ma li attuali ministri, tenuti sempre in all'arme dal sognatore Gualterio, hanno dato così ripetute prove di prendere per realtà i fantasmi del loro sgomento, che non può parere assurdo il sospetto di chi vorrebbe far credere la temuta insurrezione ridursi, infine dei conti, ad una esagerazione o ad un sogno. Che se, invece, dovesse proprio ritenersi che la congiura «contro la sicurezza dello stato» fosse cosa vera, ci sia lecito chiedere; da chi era dessa ordita e capitanata? E con quali intendimenti? E con quanta probabilità di successo?

La Gazzetta Officiale, usurpando li offlcii e i diritti che spettano esclusivamente all'autorità giudiziaria, senza alcun esame di imputati o di testimonii, con nuovo esempio di non comportabile indelicatezza denunciò sin dal primo momento Giuseppe Mazzini, che era a Lugano, come quegli che avrebbe «ordinata e diretta la cospirazione».

Diciamo il vero; per quanto siano note le dottrine di Mazzini sul dovere di accompagnare l'azione al pensiero; per quanto lo si voglia ritenere cieco sulle condizioni attuali del suo paese e dell'Europa; per quanto lo si accusi di essere facile a credere buona ogni arma per il trionfo della sua idea, è difficile supporre egli possa nutrire la persuasione che basti, ai tempi in cui viviamo, gettare qualche «bomba fulminante» in una delle cento città italiane, perché il mal governo cessi, e la repubblica trionfi in tutta Italia. Per conto nostro attendiamo che


IL DIRITTO DI DIFESA MANOMESSO 75


il processo, il quale, al solito, dopo tanti mesi, mentre scriviamo non è ancora compiuto, ci chiarisca in proposito. In ogni caso, ne giudicheremo dalli ulteriori eventi.

Intanto, crediamo debito di giustizia avvertire che Giuseppe Mazzini ha sentito il bisogno di respingere l'enorme accusa, e pubblicò nei giornali a lui devoti uno scritto eloquente intitolato a' suoi nemici; ed il ministero, invece di farlo confutare, se lo credeva necessario, lo ha fatto brutalmente confiscare. Ma che giustizia è mai questa, e quale metodo di governo? Non è questo il modo di far credere che Mazzini abbia tutte le ragioni, quand'anche egli avesse tutti i torti?

Lo scritto indebitamente confiscato noi abbiamo potuto procurarcelo, ed assicuriamo che nulla in esso abbiamo trovato che sia contrario alle nostre libere leggi. Per il che, dopo sì grave e solenne accusa, il sequestro della difesa, oltre ad essere odioso, è anche illegale ed assurdo.

Li avversarii di Mazzini sapranno scorgere in lui tutte le colpe del mondo, ma nessuno può dire che, eg-li abbia mai smentite le opere sue anche le più temerarie; che anzi, egli usa farsene vanto.

Eppure stavolta dichiara di avere «avversato deliberatamente, coi migliori amici, l'immaturo tentativo», che il ministero della paura non esitò ad attribuire a lui stesso. Ma il sequestro non è una giustificazione, né una risposta.

E poiché noi non mancammo di disapprovare chi si attentasse di affrettare il trionfo delle sue idee colle bombe ali' Orsini, ben possiamo altamente disapprovare anche quei ministri che, dimentichi di ogni principio d'equità e d'ogni norma di giustizia,


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dopo aver lanciato dalla tribuna accuse cotanto gravi, con violenti sequestri impedirono alli accusati il sacro diritto della difesa.

La stampa ministeriale, poi, fece di peggio. Dopo aver portato a ciclo la vigilanza e l’acume della polizia, si permise mille odiose insinuazioni contro la vicina Svizzera, le cui virtù par che facciano paura e vergogna ai fautori delli attuali amministratori italiani. I più intolleranti e i più fanatici tra i diarii officiosi eccitarono dunque il governo nostro, come già troppe altre volte, a fare assurde rimostranze e pericolose rappresaglie contro la Svizzera.

Avrebbero voluto che il governo italiano attaccasse briga colla repubblica Elvetica, per l'ospitalità accordata a Mazzini. Avrebbero voluto, insomma, che il governo italiano intimasse allo svizzero di fare la spia per conto nostro, e di dare lo sfratto al vecchio patriota; gli intimasse, cioè, di venir meno alle leggi imperscrittibili della libertà ed alle. antiche tradizioni di ospitalità, per cui la repubblica vicina fu sempre così stimata e lodata.

Stavolta, però, il governo federale ha ceduto; ed invocando un antico decreto, ordinò a Mazzini di allontanarsi dal Cantone Ticino. Ma quel popolo repubblicano altamente protestò contro la condotta de’   suoi uomini di stato; e perché le odiose persecuzioni non potessero altra volta ripetersi, uno di quei Communi accordò all'esule nostro compatriota i diritti di cittadinanza. Quando poi, nel luglio successivo, si tenne a Zugo la festa per il tiro federale, i tiratori svizzeri fecero ai nostri un invito veramente cordiale e fraterno; mostrando, così, come i figli della libera


ECCITAMENTI CONTRO LA SVIZZERA 77


Elvezia sappiano rispondere in modo veramente legno di loro alle triviali ingiurie ed ai tristi eccitamenti della retrograda nostra stampa. Pregandoci di intervenire alla più importante delle sue feste, quel libero popolo, con squisita cortesia e con schietta cordialità, ci disse di aver-sempre seguito col più vivo interesse tutti i sacrificii da noi sofferti e tutti i prodigi che abbiamo fatto per conseguire l’unità, e l'indipendenza d'Italia, augurandoci «con tutto il core il fortunato compimento della nostra gigantesca opera nazionale». Quindi aggiunse coteste affettuose parole: — «Noi vi amiamo e stimiamo come fratelli vicini! Abbiamo piena fiducia in voi, essendo persuasi che la libera ed unita Italia amerà e stimerà sempre la Svizzera libera ed una».

Così fossero accorsi numerosi i tiratori italiani al fraterno invito delli Svizzeri; avvegnaché, fra li altri vantaggi, ne avrebbero conseguito anche questo: di vedere coi proprii occhi come possa un popolo mantenersi libero e forte soltanto col domestico esercizio delle armi, senza bisogno di profundere tutte le risorse della nazione per mantenere la più bella gioventù nell’ozio forzoso e nelle infeconde fatiche della caserma.

Del resto, è prezzo dell’opera notare quanta differenza corra fra il linguaggio tenuto a nostro riguardo dai liberi figli dell’Elvezia e quello adoperato in odio loro dalla stampa di quelli fra i nostri che sembrano nati a servire sotto qualsiasi dominazione. I primi si studiano di alimentare i sentimenti di concordia e di fratellanza tra i due popoli vicini, che hanno tutto il dovere e tutto l'interesse di amarsi e di rispettarsi a vicenda: li altri, invece, con maligno proposito,


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mirano a suscitare diffidenze e rancori, che tornano poi a danno commune.

XVI.


Intorno alla «congiura politica stata scoperta nella città di Milano», venne fatta il 22 Aprile apposita interpellanza in Parlamento. Il ministro dell'interno rispondendo disse «deplorare che uomini fuorviati e perversi possano avere tentato di far campo la città di Milano di tentativi, che se fossero stati seguiti da effetto, non si potrebbero qualificare che per assassinii. Le scoperte fatte a Milano di revolvera, di stili, di bombe, dimostrano, infatti, di qual natura fossero i disegni di coloro che volevano funestare con pazzi tentativi di rivolta quella tranquillissima città. Vi è però da rallegrarsi, che se tali scoperte hanno provato che al di fuori di Milano, anzi al di fuori d'Italia, vi sono uomini i quali tentano di turbare l'interna tranquillità del regno, non abbia preso parte ai loro conati nessun partito fra quelli che legalmente operano nei limiti della Costituzione. L'opera di coloro che sono stati arrestati si è limitata sinora a preparativi d'insurrezione, dei quali si hanno le prove e nelle armi raccolte e nei piani d' attacco alle truppe nazionali ed ai pubblici officii.»

E fin qui pazienza. Ma il peggio si è che il ministro, parlando delli arrestati, si permise un linguaggio che è contrario ad ogni consuetudine, e ad ogni senso di convenienza e di delicatezza. Quando un uomo è in carcere e sotto processo, è costume di civiltà riguardarlo come cosa sacra.


INGIURIE CONTRO PRIGIONIERI 79


Il ministro, invece, osò parlarne dinanzi al Parlamento, che vuoi dire dinanzi al mondo, nei seguenti termini:

«Le persone che finora sono cadute nelle mani della giustizia sono di fama assai dubbia e sono o forestieri o persone ricercate per precedenti infrazioni alle leggi del paese. Alcune corrispondenze di giornali hanno data una estensione assai più grande del vero alle scoperte fattesi in Milano; li arresti non sono in numero così rilevante come da qualcuno è stato detto. Non ostante, l'importanza di questi fatti non si può mettere in dubbio, dappoiché essi si collegano con altre scoperte precedentemente fatte in altre parti del regno. Il Governo è sulla traccia di tutti coloro che prendono parte a quei deplorabili attentati, ed ha la fiducia di averli completamente sventati.»

E si noti che li arrestati erano persone che potevano essere innocenti o colpevoli, di idee repubblicane o conservative, di propositi arrischiati o timidi, come si vedrà se, e quando, verrassi al pubblico dibattimento; ma, certo, erano uomini di distinte ed onorate famiglie, come risulta dal racconto che di quella sciagurata faconda ne fece la stessa Lombardia, che è organo governativo.

Eccolo: — «Le notizie che ci venne dato di raccogliere intorno alle macchinazioni mazziniane, scoperte in questi giorni dalle autorità politiche e militari, ci pongono in grado di giudicare che un colpo audacissimo (per quanto insensato) era stato dai settarii con molta arte apparecchiato; il quale se, come pare indubitato, ha relazione con trame ordite in altre città, avrebbe potuto turbare gravemente l'ordine pubblico, e costare molto sangue.


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Già da qualche tempo l'autorità vegliava certi andirivieni sospetti, e aveva in mano prove sicure di complotti, le cui fila mettevano capo a Lugano; la cospirazione, disturbata a Napoli, pareva volesse affrettare le sue manifestazioni a Milano.

«Mentre l’autorità politica indugiava per meglio conoscere fin dove si estendevano le trame, il comandante la divisione militare della nostra città ebbe sicuri indizii che il moto doveva scoppiare la mattina del 18 aprile e che dai depositi di bombe e di armi se ne doveva fare la distribuzione la sera inanzi alii affigliati; alcuni dei quali, pur troppo, dai congiurati eransi potuti reclutare tra il presidio, specialmente nel 21. "reggimento e nelli ussari Piacenza. «La questura allora si accinse ali' opera e con molte precauzioni e rara sagacia, scoperse uno dei principali depositi, in una casa in via dell’Ambrosiana, n. 18 appartenente alla Biblioteca, ed appigionata a un cuoco, Bianchi Onorato, il quale affitta camere mobiliate. Una di esse era stata infatti due settimane prima data a pigione a un tale che si qualificò per A. Ghisalberti, bergamasco proveniente da Brescia, ma che poi si giunse a identificare per certo P. Brazzoduro, Veneto. In quella camera si rinvennero e si sequestrarono revolvers di manifattura inglese, e bombe a mano, conosciute col nome di Orsini, già cariche, e cui non mancava che di apporvi il capsule. Ma la scoperta più importante furono i piani di attacco, le disposizioni dei congiurati, il loro cifrario, ed altri documenti che daranno molta luce nel processo. Il locatario della stanza non era rientrato la notte; dal che s'inferisce o tenesse conciliabolo altrove, o avesse sospettata la visita che doveva ricevere.


LI ARRESTATI DI MILANO 81

«Un altro centro di cospiratori fu sorpreso in una casa al Verziere, ove si poterono fare alcuni arresti di persone gravemente compromesse, tra cui due individui delle provincie meridionali, giunti da poco nella nostra città, sotto finto nome, uno dei quali sfuggito alle ricerche delle autorità giudiziarie di Napoli; cui era stato denunciato come macchinatore di complotti repubblicani. Presso costoro specialmente si rinvennero grosse somme di denaro, non giustificabili colla loro apparente condizione; anzi, uno di essi offrì un biglietto da lire mille a ciascuna delle due guardie che lo custodivano alli arresti, pregandole a concedergli di poter saltare dalla finestra e mettersi in salvo; l'altro tentò d'impaurire i suoi custodi, assicurandoli che la rivoluzione sarebbe egualmente scoppiata formidabile, e allora guai per loro! Altre persone furono pure arrestate, oltre il Nathan e i fratelli Carlo ed Angelo Bettini, (uno dei quali commesso di studio della dita P. M. Loria) certo Marazzi e Castiglioni Giuseppe di Ermenegildo.»

Or giova sapere che il Castiglioni, per consenso di tutta la stampa, è reputato un onesto e ricco negoziante, e che il Nathan è giovine di 22 anni, e figlio di ricchissima e stimatissima famiglia inglese. La Lombardia continua poi la sua narrazione dicendo: — «Nessun capo. garibaldino apparirebbe finora compromesso, come vorrebbe far credere un corrispondente dell’Opinione, il quale pure sembra essere stato erroneamente informato circa i duecento accoltellatori di Palermo, scoperti ed arrestati. Intorno poi alli arresti nel militare, e a qualche altro particolare da cui emergerebbe che il complotto di Milano è una delle ramificazioni


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che si estendano anche ad altre città, dobbiamo per ora usare uno scrupoloso riserbo, che di leggieri i lettori possono comprendere».

Il più importante, in tutta questa faccenda, si è che apparvero compromessi anche parecchi tra i militari, onde il ministro della guerra stimò necessario dirigere, in data del 24 aprile, una Circolare ai comandanti generali, in cui diceva: — «Già ebbi a chiamare l'attenzione della S. V. sui tentativi subornatori della setta mazziniana o repubblicana sulla bassa forza dell'esercito, e segnatamente sulla categoria dei sott'officiali. Devo, in ora, rinnovare quelle mie raccomandazioni e richiedere tutta la di lei sollecitudine su questo soggetto; e ciò per i motivi seguenti.

«Mercé la solerzia delle autorità, scoprivasi, non è guari, in Napoli un Comitato repubblicano, e da quella scoperta veniva disvelato come alcuni militari di bassa forza, di quel presidio e di quelle adiacenze, se ne fossero lasciati abbindolare, affigliandosi a quel partito, che, nascosto nell’ombra e mascherato di perfidi colori, da niun mezzo abborre per intendere al suo fine.

«I militari riconosciuti colpevoli furono trattati con il giusto rigore; quelli la cui reità cadeva sotto il dominio della legge penale, furono deferiti al potere giudiziario; li altri vennero tutti quanti transitati alle compagnie di disciplina, e sarà proveduto onde abbiano quivi a terminare la loro ferma; attesoché chi si macchia di simili colpe è indegno di rientrare nel suo corpo, e di riportare l'assisa del buon soldato. Ma non tardò a riconoscersi che le feti di questa setta si estendevano ad altre città;


I REPUBBLICANI NELL'ESERCITO 83


o di filo in filo l'autorità governativa riusciva a sapere di un moto che doveva imminentemente scoppiare in Milano. Parecchi dei colpevoli furono arrestati; furono trovate le armi, bombe a mano, revolvers e pugnali, colle quali dovevano agire: la congiura fu sventata prima che il divisato attentato potesse allarmare la pubblica sicurezza.

«Ma a Milano, come a Napoli, si ebbe il dolore di trovare indiziati di complicità alcuni pochi sott'officiali e soldati del presidio. Costoro saranno trattati con eguale rigore che i primi; sarà adoperata contro di essi tutta la severità della legge e della militare disciplina.


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«Anche in talun altro luogo fu segnalato qualche militare di bassa-forza quale affigliato al partito mazziniano; ond'è dimostrato che il lavoro del republicanismo cerca di estendersi, e che i suoi tentativi di corruzione si portano specialmente sulla classe dei sott'officiali, come quella che, a parer loro, è più suscettibile di lasciarsi accalappiare da bugiarde promesse di avanzamento o d'altro».

Il ministro Bertele concludeva la sua Circolare dicendo essere «strettissimo dovere dell’offlcialità tutta» di raddoppiare di vigilanza sui soldati, anche quando siano fuori di caserma. Poi, aggiungeva, «li officiali rischiarino i loro subordinati intorno alla abominevole fine cui la setta mira; cioè all'assassinio, all'anarchia, alla dissoluzione di ogni elemento di ordine sociale e di sicurezza pubblica; allo sconvolgimento di tutte le patrie istituzioni; dove infallantemente deriverebbe lo smembramento della nazione, la cui unificazione costò tanto sangue e tanti sacrificii al paese».


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Che la sètta mazziniana, come la chiama il ministro, si proponga davvero, per abominevole fine, di riuscire «all'assassinio, all'anarchia, alla dissoluzione di ogni elemento di ordine sociale», è cosa cui, certo, non potranno prestar fede neanco i pii deliberati avversarii, per poco che la passione politica non abbia spento in essi ogni lucidità od imparzialità di giudizio. Si può credere, dunque, che il governo si esponga al pericolo di giungere ad un intento affatto diverso da quello che si propone, tenendo un linguaggio così stravagante ed esagerato. Ma il peggio è di vederlo offendere ogni principio di moralità ed ogni sentimento di onore per l'esercito stesso, quand'esso, per metterne a triste prova la fedeltà, non esita corrompere i poveri soldati, circondandoli da miserabili spie ed agenti provocatori, com'ebbe a confessare, con meraviglia e scandalo universale, il veridico Ribotty, nella tornata parlamentare del 10 giugno, quando disse: — «Interpellato dall'onorevole Nicotera se è vero che sia stato provocato qualche militare da un agente della questura, io debbo francamente rispondere che il fatto è vero.»

E poiché il caso ci portò a parlare dell’esercito, diremo anche questa che i ministri, quasi più non sapessero trovare altro modo per renderlo inviso alle popolazioni, aspettarono proprio il più bel tempo delle vendemmie per mandare i soldati intorno per le campagne a fare delle finte battaglie. Così, mentre altrove si studiano tutti i mezzi per diminuir le pubbliche spese ed aumentare la produzione nazionale, in Italia si sprecano i denari per mandar i soldati a sciupare le messi.


LE FINTE BATTAGLIE 85


Contro cotanta insania protestò la stampa anche più moderata e fecero ricorso parecchi consigli communali e provinciali. Ma il ministero tenne duro: soltanto promise che se si avranno guasti, verranno compensati. Il che, se fossero meno impudenti, i nostri padroni avrebbero avuto il diritto di rispondere soltanto nel caso in cui la dovuta indennità fossero pronti a pagarla colla loro borsa, non con quella dei poveri contribuenti.

XVII.


Li arresti, di cui abbiamo discorso, avvennero in aprile. -Per qualche settimana il fisco pareva un po' quetato. Quand'ecco alla metà di giugno, proprio nei giorni in cui l’opinione pubblica era più esacerbata per lo scandalo dell’inchiesta sulla Regìa cointeressata, a Milano vien sciolta bruscamente la Società dei Reduci; fatta chiudere la birreria nazionale sulla piazza del Duomo; poi arrestati e tradotti nella solita fortezza di Alessandria parecchi cittadini, fra i quali Bizzoni, Billia, Tivaroni, Raimondi, Erba, Longoni, Milesi, Enea Crivelli, Ghinosi. Il giovine poeta e giornalista Felice Cavallotti, più fortunato delli altri, seppe trovar modo di mettersi in salvo.

Dopo Milano, Genova: dove pure per decreto prefettizio fu sciolta la Società dei Reduci, e nella notte del 21 giugno vennero arrestati e tradutti ad Alessandria i cittadini Canzio, genero di Garibaldi, Antonio Mosto, Gattorno, Luigi Stallo, Razeto, Stragliati, Schiaffino, e più tardi Vivaldi Pasqua con Ernesto Pozzi. Come a Milano il Cavalotti, a Genova riuscì a mettersi in salvo il Canessa, il quale, volendo spiegare la sua condotta,


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mandò al direttore del Movimento la seguente lettera:

«Stanotte la benemerita arma accompagnata dalli agenti di questura venne a visitare la casa di mio padre per rintracciarvi la repubblica che vi teneva nascosta il figlio. La prudenza mi consigliò di allontanarmi colla repubblica fitta in cuore, e lasciare libero campo ai vittoriosi, che, pieni di bottino, s'allontanarono dopo aver frugato e rovistato in ogni angolo, disturbando un'intera famiglia, introducendosi nelle camere ove placidamente dormivano i miei, per cercare che so io. Se m'ecclissai dinanzi a tanto apparato di forza, non si fu perché temessi, ma per tranquillizzare una intera famiglia, violentata dai rappresentanti dello Statuto costituzionale».

Per amore di esattezza isterica, è bene qui riprodurre alcuni documenti.

Appena giunse in Genova la notizia dell'assassinio tentatosi contro il Lobbia, la Società dei Reduci mandò a questo deputato un indirizzo, in cui si leggeva: — «Davanti al vilissimo attentato contro di Voi, l'accusatore inflessibile dei Cointeressati, la Società dei Reduci Genovesi, vostri commilitoni, non si sente solo mossa dallo sdegno commune ai più, ma entra animosa nella lizza, e con franca parola esprime la convinzione che, per sodisfare pienamente la giustizia offesa in Voi, non v'ha altro mezzo che drizzarsi in alto luogo e troncare quella mano che, non vista, guidò il pugnale del sicario che vi aggredì. È in alto che le Assisie della coscienza popolare devono cercare il reo e punirlo, lavando l'Italia dalle sozzure che la deturpano. Tale è il voto che a Voi esprimono, o coraggioso cittadino, i Reduci Genovesi, ed in pari tempo affermano che, occorrendo,


LA SOCIETÀ DEI REDUCI 87


sapranno dare nuovamente il loro braccio per attuare questo sospirato voto, assieme al popolo».

L'avvocato Mayer prefetto di Genova, per giustificare lo scioglimento della Società dei Reduci, pubblicò un decreto, nel quale cercò additarne le ragioni dicendo: — «Visto l'indirizzo della Società dei Reduci dalle patrie battaglie al deputato Lobbia inserito nei giornali il Dovere, il Movimento, il Popolo Italiano del 19 corrente mese;

«Visti li Statuti, Regolamenti ed altri atti ed indirizzi dell'Associazione, stessa;

«Ritenuto che tale Associazione, benché apparentemente instituita per oggetto di reciproca assistenza e mutuo soccorso, ha intendimenti e fini politici diretti a variare la forma di governo ed a minacciare la sicurezza interna dello Stato;

«Ritenute le disposizioni date in proposito dal Ministero dell'Interno co’   suoi telegrammi 20, 21 corrente, ecc.»

Contro il decreto prefettizio, la Società dei Reduci pubblicò la seguente protesta:

«I sottoscritti, appartenenti alla Società dei Reduci, visto il decreto di scioglimento della Società stessa, e,

«Considerando che il governo le ha attribuito intendimenti e fini che urtano evidentissimamente coi propositi che sono scritti nello Statuto;

«Considerando che, per colorire l'atto illegale, ha dovuto vedere, leggere ed attribuire ad essa Società intendimenti affatto diversi, il che dimostra ognora più l'illegalità del Decreto di scioglimento;

«Considerando che il diritto di riunione e di associazione, oltre all'essere garantito dalla legge, è un diritto naturale, epperciò inviolabile;

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«I sottoscritti, in nome della Libertà, protestano altamente contro l'illegalità del Decreto governativo che viola la legge e il diritto naturale».

Altrettanto fece la Società dei Reduci di Milano, la quale, seguendo l'esempio di quella di Genova, protestò a sua volta dicendo:

«I sottoscritti, appartenenti alla Società dei Reduci residente in Milano, visto l'ordine di scioglimento di detta Associazione;

«Considerando che li Statuti dell'Associazione sono consentanei ai diritti sanciti dalle leggi dello Stato;

«Considerando che la condotta dell'Associazione, costantemente legale, non giustifica, né meno legittima, qualunque misura repressiva a suo riguardo;

«Considerando, infine, che l'arbitrio prefettizio o ministeriale non può soppiantare il dominio delle leggi;

«I sottoscritti in nome della Libertà, della Giustizia e del Diritto, protestano dinanzi alla nazione contro l'arbitrio governativo».

A Genova si fece anche di più. Per cura di alcuni fra i più notevoli cittadini si die' quivi la massima pubblicità ad un manifesto del tenore seguente:

«Mentre a Firenze ministri e governanti calpestano tutte le leggi, sfuggono con decreti di proroga il controllo dei rappresentanti della nazione, compromettono li interessi più vitali del paese; mentre inchieste parlamentari stanno constatando prevaricazioni di ogni genere, malversazioni, e furti, cointeressati; mentre il ferro dell'assassino va cercando il core del coraggioso deputato che surse,


PROTESTE CITTADINE 89


in nome dei principii più sacrosanti di moralità e di giustizia, a svelare alcuna parte delle turpitudini commesse, è a Milano, a Napoli, a Torino, e nella stessa nostra Genova che si strappano alle loro famiglie cittadini intemerati, provati patrioti, coraggiosi soldati delle italiane battaglie, per gettarli nel carcere, ed istruire a loro carico processi impossibili, da cui la coscienza cittadina li ha già preventivamente assoluti. ,

«I nostri concittadini Canzio, Mosto, Gattorno, Stallo, Razeto, Stragliati, si trovano già in arresto e mandati oggi stesso nella cittadella d'Alessandria; molti altri sono ricercati, e chi sa dove andranno ad arrestarsi le ire cointeressate se li onesti di tutti i partiti non si raccolgono a legittima difesa contro li arbitrii e le prepotenze governative e alta non fanno sentire la loro voce, perché ormai si cambi sistema.

«Ma perché questa voce possa essere ascoltata e divisa da tutti li italiani non deve servir di pretesto ai governanti di comprimerla e strozzarla con repressioni sanguinose e violente, a cui le provocazioni di questi giorni mostrano esser eglino preparati.

«È per ciò che i sottoscritti, a nome di una assemblea di cittadini, fanno istanza ai loro amici, perché non lascino traboccare il loro giusto disdegno in dimostrazioni di piazza, su cui forse il governo ha fatto assegnamento, e che precisamente per questo debbono essere evitate. Il redde rationem deve venire per tutti; e mentre i sottoscritti confidano che non si farà molto aspettare, per ora Ti invitano ad attenderlo con quella dignità e coscienza del proprio diritto che assicurano il trionfo di ogni più giusta causa».

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A tali proteste fece eco la stampa di tutte le opinioni, ad eccezione, bene inteso, di quella sistematicamente ministeriale. Un giornale, fra li altri che nella Liguria è il più diffuso e il più autorevole, e punto esagerato, vituperò la condotta dei magistrati ed esaltò la virtù dei cittadini cacciati in prigione, con queste parole: — «II prefetto obbedisce, e giù giù tutti quanti i subalterni chinano il capo ed obbediscono. Sanno che le persone arrestate 0 minacciate d'arresto, sono il flore della odierna generazione genovese, sono i capi di coloro che hanno meritato a Genova il vanto delle grandi iniziative, che hanno sempre e dovunque contribuito col loro braccio a fare, non a disfare, l'Italia; ad onorarla, non a metterla in gogna; laddove essi, alti e bassi, comandanti e comandati, non sono che 1 capi dell'azione negativa, i rappresentanti del caos, i sopraintendenti dello sfacelo, li umilissimi agenti dei dilapidatori, dei broglioni, e... dicano il resto le ferite del Lobbia. E cotesto li fa arrossire; cotesto scema la baldanza dei loro atti; sono giudici, e paiono condannati».

Neppur Garibaldi poté contenersi; e con amaro accento disse che i nostri figli mal sapranno comprendere, come l’Italia abbia potuto sopportare che «i valorosi liberatori dell’Italia meridionale siano stati costretti a coricarsi sul giacilio dei ladri, mentre dei ladri e clelli omicida bisogna parlare col cappello alla mano».


UN FAMOSO ATTO DI ACCUSA 91

XVIII.


Incredibile a dirsi ma vero. L'indirizzo della Società dei Reduci di Genova da noi riferito, diè materia al fisco per architettare nientemeno che un processo di alto tradimento! Sventurato paese è quello cui tocchi di sopportare un governo che osò compromettere quanto v'ha di più importante in ogni consorzio civile; la fiducia e il rispetto che sono dovuti a chi amministra la pubblica giustizia.

Dopo che il Pironti cacciò a confine nelle più remote provincie i procuratori ed i giudici che non vollero sacrificare la coscienza propria ai capricci di lui, si videro tali enormità, che non hanno riscontro neppure nei tempi più luttuosi dei governi despotici. Li agenti fiscali evidentemente or si trovano sotto lo sgomento delle vendette ministeriali, che cominciarono coli' insulto al procuratore Nelli, e non sembra siano finite per anco.

In data del 3 settembre, l'avvocato generale del fisco in Genova pubblicò un Atto dì accusa, con cui annunciò alla stupita Europa che in Italia si tentò fare un processo politico per minaccia contro la monarchia e contro la vita stessa del monarca. Davvero ci par di sognare e di dibatterci sotto il peso di un incubo spaventoso. In pochi mesi l'arte medicea delli attuali ministri ci sospinse indietro sino ai tempi borgiani!

È strano che li agenti fiscali abbiano osato aprire un processo di alto tradimento, e così evocare le tristi memorie dei tempi in cui la Polonia fremeva sotto la fanatica oppressione dei cosacchi, e la Lombardia


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sotto la verga brutale delli Austriaci, proprio ora che, in tutte le altre parti del mondo, si vede inaugurarsi, per amore o per forza, un'epoca novella di di pace e di libertà.

Però, chi lesse l'atto d'accusa ha provato, certo, un senso profondo di pietà, ma non verso li egregi patrioti contro cui esso era rivolto, sibbene contro l'agente fiscale che l'ha scritto e li insensati ministri che l'hanno inspirato.

L'accusa di conspirazione per abbattere la monarchia ed uccidere il re esclusivamente si fondava, come abbiamo detto, sopra l'indirizzo che la Società dei Reduci di Genova, mandò al Lobbia l'indimani del tentato assassinio. In questo indirizzo si legge bensì che per soddisfare pienamente la giustizia, bisogna rivolgersi in alto, e troncare quella mano, che non vista guidò il pugnale. Ma, è possibile, su questa semplice frase, fondare tutto un processo per alto tradimento e per attentato contro la vita del principe, come fa il fisco nel suo inqualificabile atto di accusa? Li imputati non lo dissimulano, anzi si recano ad onore di dichiararlo apertamente, che essi professano opinioni repubblicane; le quali, naturalmente, si fanno in loro tanto più vive e più salde, quanto il mal governo si fa più vergognoso e intollerando. Così la pensano, d'altronde, altre parecchie milliaia di cittadini ora mai, come abbiamo provato nelle pagine precedenti. Ma che per ciò? Non si ha forse il diritto, ai tempi nostri, di pensare come si vuole, e di manifestare come si deve i proprii pensieri? A che varrebbe dunque la tanto vantata libertà se non fosse concessa che per magnificare li ordini attuali, e ci fosse interdetto di aspirare ad instituzioni migliori?


NON SI FA LUOGO A PROCEDERE 93


Forse che in Italia le cose procedono ora come dovrebbero nel migliore dei mondi possibili?

Le leggi vigenti in oggi tra noi proibiscono di esprimere, colla stampa, voto o minaccia per la distruzione della monarchia costituzionale (Legge sulla stampa, art. 20 e 21); ma non proibiscono a nessuno di dir chiaro come la pensi. Ora, nello scritto su cui il fisco fondò tutta la mostruosa opera sua, noi troviamo espresso bensì il desiderio che giustizia sia fatta contro l'assassino; e, se mai, anche contro li, alti suoi inspiratori; ma non troviamo alcun voto perché venga distrutta la monarchia. E quando pure questo voto ci fosse, il fisco avrebbe avuto bensì diritto di procedere per violazione della legge sulla stampa, ma non quello di turbare l'Italia con un processo di alto tradimento. Il dire che bisogna soddisfare la giustizia non è conspirare contro li ordini monarchici; e l'affermare che bisogna punire non solo chi maneggiò il pugnale, ma anche chi lo guidò, non può tradursi, davvero, come un attentato contro la vita del sovrano.

Tristi tempi e tristissimo paese, ripetiamo, sono quelli in cui i ministri riuscirono a togliere ogni fiducia anco nella retta amministrazione della giustizia che è patrimonio indispensabile per tutti i popoli, siano pure i più sventurati. A screditare e scalzare la monarchia certo valgono più coteste enormità dei cortigiani che quarant'anni di propaganda mazziniana.

Pochi giorni appena dopo la pubblicazione di così scempio atto di accusa, i tribunali di Milano e di Genova sentenziarono non farsi luogo a procedere contro li imputati; per cui bisognò bene lasciarli andar liberi,


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con non lieve scorno dell'autorità governativa e con grande esultanza delle popolazioni.

XIX.


Vorremmo ora fare qualche cenno dei lavori parlamentari dell'ultima sessione; ma lo spazio qui assolutamente ci manca. Solo, per dare un esempio del quanto sia regolare ed esatta l'amministrazione delle cose nostre, noteremo il fatto di una ventina di millioni, i quali non appaiono registrati, e non si trovano accennati né su i bilanci, né in alcun rendiconto di cassa.

Fino dal 2 giugno 1868 uno dei più diligenti deputati, ii siciliano Cancellieri, interrogò il ministro su questi millioni, ch'ei credeva avrebbero dovuto trovarsi in moneta di bronzo, e di cui non aveva più saputo trovare alcuna traccia. Il ministro Digny rispose allora che «questa moneta non iscritta nella contabilità dello Stato, non esiste». La cosa, per il momento, è finita lì. Ma il Cancellieri non è uomo da acquetarsi con tanta facilità. E poiché, rifatti i suoi conti, trovò che i millioni in bronzo devono esistere, nel maggio di quest'anno tornò all’assalto. Ed ancora una volta il Digny rispose «non esistere somme che non siano contabilizzate». Non mancò allora chi ebbe l'aria di sorridere per la soverchia ingenuità del deputato, il quale pretendeva aver scoperto «un tesoro nascosto». Ma il bravo Cancellieri, senza degnarsi di rilevare la sciocca ironia, si fece a narrare l'istoria dei venti millioni in questione; ed ha saputo darne cosi circostanziate notizie, che il ministro fu costretto a prendere sul serio fa cosa, e promettereper l'indimani precisa risposta.


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VENTI MILIONI INTROVABILI 95


L'indimani venne; e il ministro dovette confessare che «questa moneta di bronzo non si conteggia, né in entrata né in uscita, perché si supponeva che le somme emesse fossero eguali a quelle che si ritiravano». Ma accadde che nei tre anni 1862, 63, 64, si emise moneta di bronzo per oltre 36 millioni, e se né è ritirato soltanto per l'ammontare di 20. Ora, codesta differenza lo stesso ministro confessò che «non ha mai figurato in nessuna situazione del tesoro». Aveva dunque ragione il Cancellieri; e quelli che il giorno prima avevano affettato di sorridere, rimasero scornati. Lo stesso Lanza, che è tra i più esperti dell’amministrazione finanziaria, e che, per conseguenza, doveva mostrarsi dei più increduli, stupito per l'enormità di tal fatto, disse che «la Camera deve essere grata alla diligenza del Cancellieri». Ed aggiunse sperare che «la massima luce verrà fatta su questo argomento, affinché mai possa surgere il sospetto che siavi stato qualche abuso in tanta delicata operazione».

Eccitò quindi il ministro a presentare tutti i necessarii documenti, da consegnarsi ad una speciale commissione «che ne faccia un chiaro e preciso rapporto alla Camera, affinché si sappia in che stato si trovi questa faconda». Trattandosi di cosa di sì delicata natura, bisognò bene che il ministro acconsentisse.

Del resto, volendo esser brevi, diremo che l'ultima sessione va distinta sopra tutto per le urgenti questioni finanziarie che vi si agitarono; le quali si riassumono nella tassa sul macinato e nella regìa cointeressata dei tabacchi approvata con lievissima maggioranza di voti; e nelle tre Convenzioni bancarie,


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che furono dal Parlamento condannate coi tre distinti rapporti del Ferrara, del Seismit-Doda e del Torrigiani. Per fare l'istoria della tassa sulla macinazione dei cereali, accennando ai modi con cui fu dapprima preparata, discussa, e votata, e poi troppo improvvidamente applicata, non basterebbe un grosso volume. E sarebbe pur prezzo dell’opera il farlo, nell’interesse delle nostre 'finanze, e a norma dei futuri legislatori. Noi qui, per altro, dobbiamo limitarci a dire una parola di dolore e di protesta per le troppo sanguinose conseguenze che essa ebbe. In quasi tutte le provincie d'Italia, e più deplorabilmente in quelle. dell'antico Piemonte, di Parma, di Reggio, e di Bologna, orrendi conflitti avvennero tra i poveri contadini che non volevano pagare, e i più poveri soldati, che, loro malgrado, furono costretti a fare l'odiosa parte delli esattori forzosi col fucile e colle baionette. Molte provincie furono poste in istato d'assedio. Per l'Emilia e per le Romagne il ministero conferì al generale Cadorna straordinarii poteri, che esso stesso non ha; e così diede argomento ai meno benevoli di disonorare l'Italia in faccia alli stranieri, che la dissero assoggettata al regime della sciabola; imperocché, imperando in Firenze il generale Menabrea, venne affidato il governo della Sicilia al generale Medici; quello delle Romagne al generale Escoffier; quello di Bologna e dell’Emilia al generale Cadorna; e quello di parecchie terre napoletane al generale Pallavicini. Miserando circolo vizioso cui siamo condannati. Si aumentano insopportabilmente le imposte per mantenere un numero eccessivo di soldati; e poi bisogna aumentare da capo il numero e la paga dei soldati, per mandarli ad esigere le insopportabili imposte.


LA TASSA DEL MACINATO 97


Salteremo a pie pari tutti i dolorosi dettagli; metteremo in disparte le desolanti narrazioni della stampa locale d' ogni opinione. Citeremo solo alcuni lugubri fatti narrati dalla stessa Gazzetta Officiale. Nel suo foglio dell'8 Gennaio, essa dice:

«I disordini avvenuti in provincia di Ferrara, rimasero circoscritti in Cento, ma furono gravi. La gente di quel contado nella giornata del 7 invase il municipio e la sottoprefettura, devastò, bruciò le carte, ruppe il telegrafo. I pochi soldati di guarnigione resisterono ferendo alcuni dei tumultuanti. Il tumulto cessò e le communicazioni vennero subito ristabilite.

«Nella stessa giornata del 7, circa duemila contadini invasero, ad un' ora pomeridiana, S. Giovanni in Persiceto della provincia di Bologna, devastando municipio e pretura, bruciando li archivii, saccheggiando alcune case dei più ricchi abitanti. Sopravvenuto alle tre pomeridiane il 28.° bersaglieri, fu ricevuto a fucilate, e dovette entrare in paese con la forza. Dopo conflitto brevissimo, nel quale rimasero morti cinque contadini, e feriti molti, l'assembramento sciolse in fuga».

Qualche giorno più tardi, cioè il 17, la medesima Gazzetta Officiale, in una specie di resoconto riassuntivo, confessa che «furono trenta li individui rimasti morti nelle turbolenze ultime, e sessanta circa i feriti».

E tutto ciò per un' imposta, anzi soltanto per là improvida ed assurda applicazione di un'imposta, che due distinti magistrati del regno, il Valerio ed il Pepoli, nella pienezza dei poteri straordinariamente esercitati nel 1860 nelle Marche e nell’Umbria, non esitarono di stigmatizzare, dicendo che «è stata in

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ogni tempo reputata ingiusta, come quella che colpisce la derrata più necessaria all'uomo, ed aggrava più particolarmente la classe più povera». Del resto, quando si potessero pure dimenticare li arbitrii commessi, li odii suscitati ed il sangue versato, è certo che, fra le spese di percezione e quelle di coercizione, di cotesta esosa tassa resterà soltanto, come altri già disse, «ai contribuenti il peso, al popolo il dolore, al governo il disdoro, all'erario pressoché nulla». Milliaia di petizioni furono mandate contro 1' applicazione di codesto balzello al Parlamento. Ma appunto il giorno in cui esse dovevano discutersi, il ministero 1' ha prorogato.

XX.


Se mercé sanguinose, certo non meno funeste furono poi le conseguenze produtte dall’altra legge finanziaria sulla Regìa cointeressata dei tabacchi. Mai progetto di legge aveva provocato, fin dalla sua presentazione, così pronta, così forte, così universale ripugnanza; e subito si manifestò da sinistra e da destra un nuovo consenso per oppugnarla. Non disconosciamo che sarebbe stato vergognoso per i ministri che avevano firmato il contratto, se fosse stato respinto. Ma altre volte il Parlamento italiano aveva disdetto Convenzioni già stipulate dal governo; ed oltre quella con Lagrand-Dumonceau, immaginata dal Ricasoli per liberarsi dei beni ecclesiastici, possiamo ricordare quella che era già conclusa con Rotschild per le ferrovie meridionali, e l'altra col Fremy per il credito agrario. Che se tali disdette non valgono, in vero, a far prosperare le


LA REGIA COINTERESSATA 99


condizioni finanziarie di un paese, costretto di quando in quando a ricorrere al credito pubblico, non è questa una ragione per trattenere il Parlamento dal respingere un contratto ch'ei reputi assurdo e ruinoso. In quest'affare dell'appalto dei tabacchi, poi, il ministero, novello Esaù, non esitò, per un magro piatto di poco denaro, a sacrificare la primogenitura di un principio.

Come osò il ministero stringere un contratto per cui condannava il paese a subire ancora per lunghi lustri il disastroso privilegio del tabacco, mentre pel caldi e ripetuti eccitamenti di tanti egregi deputati evidentemente si veniva a formare nella Camera una maggioranza favorevole alla libera coltivazione? E non ricordano i signori ministri quante dolorose memorie vanno istoricamente congiunte, massime in Italia, al sistema della regia cointeressata, che essi vollero ristaurare? Che se il governo doveva pensare a far fronte alli impegni del pubblico tesoro, non mancavano altri spedienti per procurare alle esauste casse dello Stato le risorse indispensabili. Parecchie dozzine di progetti vennero pubblicati a tal uopo, anche da persone assai competenti. Certo non tutti quei progetti erano buoni ed accettabili del pari; ma è certissimo altresì che non era difficile trovarne dei meno ruinosi od infausti del voluto appalto. Il quale «stabilendo un potente monopolio di una compagnia di pochi privilegiati, è persino un insulto all'Italia», la quale non merita che il suo governo, invece di svilupparne la ricchezza col lavoro e colla libertà, «ne ipotechi e ne venda prodigalmente i futuri proventi», e la screditi in faccia alli altri popoli, mostrando di non avere fiducia nelle sue interne risorse.


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E non è senza meraviglia che il mondo vide possibile in Italia, anche ai nostri giorni, la formazione di una potente compagnia, con doganieri proprii che perseguiteranno cittadini e stranieri, e che «pe' suoi intessessi non può a meno di essere corruttrice». D'altronde l'Italia ha tanta copia di naturali produtti, e, purché sappia o voglia, può coll'industria sviluppare tante risorse, che è vergognoso davvero se i suoi governanti non sanno sottrarsi alla necessità di ricorrere all'usura di nazionali od esteri speculatori. Se fosse meno insensatamente governata, questa nostra Italia potrebbe prepararsi in breve immense risorse; e, se ci è consentita la frase, divenire, per la sua posizione felice sul Mediterraneo, il porto franco del mondo. Ed è doloroso vedere chi comanda, intento, non a preparare le instituzioni richieste dalle libere esigenze dei tempi moderni, ma a risuscitare le immorali prepotenze di gabellieri e di publicani, onde furono contristati i secoli trascorsi.

Quando la legge per l'appalto dei tabacchi fu messa alla prova della pubblica discussione, la si vide combattuta con dotti ed eloquenti discorsi dai deputati più competenti. Sopra tutti fece profonda impressione il Lanza, il quale era tanto compreso dei danni immensi, materiali e morali, di tale Convenzione, che sentì il dovere di postergare ogni riguardo; e, lasciato il seggio presidenziale, Minino il sistema finanziario del governo con un discorso che resterà tra i più memorandi della sessione. Tra li altri danni, il provetto oratore. non mancò di accennare ai sospetti di prevaricazione od almeno di indelicatezza, che inevitabilmente sarebbero nati nel pubblico,


PROCESSO DEL GAZZETTINO ROSA 101


contro alcuno dei membri stessi del Parlamento, il cui voto, a torto od a ragione, si sarebbe detto cointeressato davvero. Ad onta di ciò, la Regìa dei tabacchi venne approvata colla maggioranza di quei pochi voti che, pur troppo, le diedero favorevoli li uomini del terzo partito. Per il che, il Lanza ha creduto dovere di coscienza e di dignità rinunciare all'alto officio di presidente della Camera. Ma le di lui previsioni si sono avverate assai più presto e più ampiamente che non si sarebbe creduto.

Cominciò subito a correre nel pubblico la voce sinistra che alcuno dei deputati non era stato del tutto disinteressato in questa triste faccenda; e un bel giorno il Gazzettino Rosa di Milano si fe' un dovere di ripetere le tristi accuse, senza omettere il nome dei deputati contro cui erano rivolte.

Costoro, sentendosi punti sul vivo, chiamarono in giudizio il giornale accusatore; e ne nacque quel famoso processo, pieno di tanti incidenti drammatici, che assunse tutta l'importanza di una lotta politica; appartenendo i processanti al partito ministeriale, ed i processati, coi loro testimonii e difensori, a quello della più decisa opposizione. In sostanza, il giornale in questione, parlando del disastroso voto pronunciato in favore della Regìa cointeressata, aveva detto correr voce che il tale e il tal altro fra i deputati, ne avevano ricevuto «uno zuccherino». Citato per ciò, dinanzi ai giudici, l'obbligo suo era unicamente quello di provare che le voci da lui registrate erano corse davvero, e non le aveva inventate di suo capo per artificio oratorio, onde meglio diffundere una calunnia. La questione era tutta qui: né si doveva estendere più oltre. Se il giornalista riusciva a provare che le tristi voci erano corse da senno,


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evidentemente egli aveva non solo il diritto, ma il dovere, di raccoglierle a rivendicazione della giustizia ed a tutela della pubblica moralità. Che se, invece, . i querelanti potevano provare che quelle voci erano state dal giornalista stesso con maligna arte inventate, era troppo giusto che questi subisse la pena dovuta ai calunniatori.

Furono citati come testimonii parecchi deputati e persone di grande considerazione; e tutti affermarono, in modo inconfutabile, che le voci di corruzione erano corse pur troppo, e con molta insistenza.

Ciò avrebbe dovuto bastare perché lo scrittore, chiamato a render conto del fatto suo, fosse subito assolto. Invece il tribunale di Milano, non solo lo condannò, ma, con nuovo esempio, aumentò la pena già enorme chiesta dallo stesso procuratore fiscale. Per il che, il direttore del giornale fu condannato per diffamazione ed ingiuria pubblica a carico del deputato Raimondo Brenna, a mesi otto di carcere e lire mille di multa per la diffamazione; ed al carcere per giorni lo oltre alla multa di L. 100 per ingiuria pubblica. Ed il gerente, fu dichiarato colpevole di diffamazione e di ingiuria pubblica, mediante stampa, in danno dei deputati Civinini e Brenna, con recidività; e condannato per ciascuna delle due diffamazioni ad un anno di carcere e L. 500 di multa, e per ciascuno dei due reati di ingiuria pubblica a un mese di carcere e L. 100 di multa.

Tale sentenza, è inutile negarlo, ha produtto una grande impressione anche tra i più concitati nemici del Gazzettino. Li amici, poi, ne trassero argomento per fare una dimostrazione in onore di lui, e, per conseguenza, a disdoro dei magistrati


SI VUOLE UN' INCHIESTA PARLAMENTARE 103


che avevano diretto il processo e pronunciata la sentenza. Fu aperta una sottoscrizione per sovvenire al giornale la somma voluta per pagare la multa; ed in pochi giorni, si ebbero profferte che oltrepassarono più e più volte la cifra richiesta.

XXI.


Ma la cosa non doveva finire così.

Già da qualche tempo il deputato Morelli aveva proposto che il Parlamento esso stesso provedesse a rivendicare l'onore de’ suoi membri facendo un inchiesta. Ma la maggioranza alzò le spalle, e lasciò cadere senz'altro l'ingrata proposta.

Dopo il processo di Milano, fu il deputato Ferrari che tornò all’assalto; e il 2 Giugno fece una proposta così formulata:

«La Camera, convinta che, dopo il recente processo, sia surta per essa la necessità di una inchiesta sui fatti concernenti la regia cointeressata, delibera che una Commissione d'inchiesta parlamentare metta in luce so, e fino a qual punto, sia stata rispettata la dignità del Parlamento da tutti i suoi membri.»

Nel 1862, mentre il ministero Rattazzi aveva già stipulato una convenzione con Rotschild per le costruzioni delle ferrovie meridionali, si fe' inanzi uno dei più potenti banchieri italiani offrendosi a costrurre quelle ferrovie a patti che parevano più convenienti. Il Parlamento, ad onta dell’opposizione dei ministri, accolse con grande favore l'improvvisa proposta; non solo per il piacere di vedere sostituita una società nazionale ad una straniera, ma anche perché gli si era fatto credere che lo stato ne avrebbe guadagnato circa quattordici millioni.


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Se non che, un anno dopo, si diffuse il sospetto che uno dei più zelanti promotori della nuova società fosse un deputato, il quale aveva preso parte alla discussione ed alla votazione della legge. Tanto bastò per indurre il Mordini a chiedere alla Camera di verificare la cosa con apposita inchiesta; e il generale Pettinengo si alzò subito a dire con generose parole che, trattandosi dell'onore del Parlamento o dei suoi membri, non v'era da esitare un istante; onde pregò i suoi colleghi della maggioranza ad approvare, senz'altro, la proposta del Mordini, che sedeva in quel tempo tra li oppositori. Così l'inchiesta fu votata e compiuta senza difficoltà. Ora, invece, il ministero presieduto dal Menabrea fece una Convenzione, non per la costruzione di nuove ferrovie, e quindi por dare incremento alla prosperità nazionale, ma per alienare l'ultimo cèspite un po' lucroso dello stato. Il paese se ne commosse; il Parlamento, lungi dall'applaudire, protestò, e non seppe creare una stentata maggioranza che spigolando voti tra le fila più opposte, e a costo di indebite transizioni. Nel pubblico subito si diffuse e si avvalorò il sospetto che alcuno avesse potuto valersi della sua posizione per fare illeciti guadagni. E quando, dopo tutto ciò, si venne finalmente a chiedere un'inchiesta, la maggioranza ministeriale, anzi il ministero stesso si oppose, sino a farne una questione di gabinetto. Per sottrarsi all'odiosa responsabilità del rifiuto, a destra si gridava perché dalla sinistra fossero date subito, e in pubblico, quelle prove che le norme giuridiche ed ogni sentimento di delicatezza e di convenienza esigono siano fornite, invece, a tempo e con modi più opportuni,


I PLICCHI LOBBIA 105


il costume dei pubblici dibattimenti si è ora introdotto in tutti i paesi civili, ed è un vero trionfo della moderna civiltà; ma dappertutto se ne fa prima una istruttoria privata; se no, le prove del reato si potrebbero troppo facilmente sopprimere, e i colpevoli avrebbero troppo agio di mettersi in salvo. In somma, dalli uni si pretendeva ciò che li altri non potevano onestamente e ragionevolmente accordare.

Il parlamento ed il paese restavano così in uno stato di angosciosa perplessità, che non si sarebbe potuto protrarre più a lungo.

Quand'ecco, a vincere ogni più tenace ripugnanza, nella tornata parlamentare del 5 giugno surge il deputato Lobbia; il quale, tenendo un po' dramaticamente nella mano due plicchi suggellati, così discorse:

«Se la Camera avesse accettata la proposta d'inchiesta delli onorevoli miei amici Ferrari, La Porta e Damiani, io mi sarei fatto un dovere di presentarmi spontaneamente alla Commissione parlamentare per fare dichiarazioni in proposito; ma, vedendo che in ogni modo si ritarda, e anzi si mette in discussione se debba o no aver luogo tale inchiesta, io non posso, senza mancare alla mia coscienza, mantenere più oltre il silenzio. Annuncio quindi solennemente alla Camera che possiedo dichiarazioni di testimonii, superiori a qualsiasi eccezione; le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei tabacchi. Uno dei testimonii che comprovano l'esistenza di tali dichiarazioni sono io, e le dichiarazioni colle firme legalizzate da pubblico notaio sono chiuse in questi due pieghi che ho in mano.


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Nel giorno in cui nominerete una Commissione l'inchiesta, mi farò dovere di presentarli e di consegnarli alla medesima; ed anzi mi presenterò io stesso coi testimonii per essere contemporaneamente esaminato. L'inchiesta, o signori, liquiderà la verità dei fatti e pronuncierà se vi sono dei rei, o se vi furono soltanto dei calunniatori».

Il Lobbia non aveva avuto agio di distinguersi molto in Parlamento; ma quanti lo conoscevano lo avevano in conto di valoroso soldato, di uomo serio e probo a tutta prova. Era, quindi, ragionevole nelli uni la persuasione, e in altri lo sgomento che in quei due plicchi si contenessero se non prove materiali, che era assurdo il sopporre esistenti, almeno dichiarazioni od indizii assai più gravi e convincenti, di quel che, nel fatto, poi si rinvennero. Ma bastò la fiducia delli uni e la paura delli altri, comunque esagerate, per mettere il Parlamento nella impossibilità di ricusare più oltre l'inchiesta universalmente invocata, e per dare d'un tratto al Lobbia una importanza infinitamente maggiore di quel che prima non avesse. Ad accrescerla, poi, oltre ogni misura, potentemente contribuì il partito ministeriale; il quale, costretto a darsi per vinto ed a lasciar fare l'inchiesta come il Lobbia l’aveva voluta, lo fece bersaglio nella sua stampa di così sconcie contumelie, che il 15 giugno egli si trovò nella necessità di pubblicare la seguente dichiarazione: — «Qualche giornale cominciò a farmi segno di turpi e codardi attacchi personali, facendosi schermo della mia attuale posizione verso la Commissione d'Inchiesta, alla cui opera mi legano i più ineluttabili sentimenti di dovere e di onore.


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TENTATIVO DI ASSASSINIO 107


Io ho la coscienza di ciò che devo a me stesso ed al paese in seguito al voto della Camera, né vi è forza che possa distrarrai in questo momento dal compito mio. Però credo fin d' oggi avvertire per mezzo della maggior pubblicità che, non uso a tollerare come uomo, soldato e deputato, né offesa, né sospetto al mio nome, io terrò bene nella mia mente quei giornali e quei nomi che osarono, sia pure menomamente, di offendermi, per chieder conto, appena libero, dei loro attentati alla onestà delle mie intenzioni e del mio carattere.»

Ciò il 15: ed alla prima ora del 16, cioè del giorno medesimo in cui doveva comparire dinanzi alla Commissione d'inchiesta, egli venne proditoriamente aggredito da un assassino che gli vibrò quattro colpi di pugnale, uno dei quali gli avrebbe trapassato il core se, per buona ventura, non fosse stato sviato dal portafoglio. E l ' assassino non è per anco scoperto. Anzi, per colmo di obbrobrio, alcuni magistrati, della cui indipendenza, dopo le recenti persecuzioni del ministro Pironti, è ormai lecito dubitare, si diedero l'aria di credere che l'orrenda tragedia non sia che una triste commedia, ed osarono avviare processo contro tre amici del Lobbia, anzi contro il Lobbia stesso, per simulato ferimento.

Or vedremo come il processo, se si farà davvero, andrà a finire. Intanto l'istoria può già scrivere che, appena si è diffusa la notizia del tentato assassinio, tutto il paese si riempì di vergogna e di raccapriccio. A Milano, a Genova, a Torino, a Napoli, a Verona, da per tutto insomma, il popolo commosso si diè a tumultuare gridando dovunque: viva Lobbia, abbasso la consorteria, ed, al solito, come disse la Gazzetta Officiale, anche viva la repubblica.


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Al Lobbia poi furono dirette da ogni parte parole di condoglianza per li oltraggi sofferti, e di congratulazione per il pericolo scampato. In breve ei divenne l'uomo più alla moda di tutta l'Italia; e col di lui nome vedemmo battezzati persine i cappelli, li almanacchi e le farse. Ed è tutto merito de’  suoi avversarii.

Per coteste dimostrazioni la polizia ebbe a ricorrere di nuovo a sanguinose repressioni. Nel conflitto, a Milano furono feriti anche alcuni poliziotti, e parecchi cittadini vennero con percosse trascinati alle carceri, o, miseramente malconci, trasportati all'ospitale. Due ebbero a morire per le riportate ferite, e si chiamano Aresi e Galliani. Un vecchio è scomparso, e non se n'è saputo più nulla.

Per questi fatti si avviò a Milano nei primi di luglio, con insolita rapidità, un clamoroso processo. Li imputati presenti erano venti cinque; persone di buona famiglia, che si dissero per natura e per consuetudine tranquilissimi. Da accusati che erano, al pubblico dibattimento costoro assunsero sin dal primo giorno l'attitudine di accusatori, e i soldati della questura, invece, piuttosto che testimonii citati dal fisco contro li imputati, apparvero essi stessi quasi rei convenuti. Il tribunale poi non esitò a mandare assolti dal primo all'ultimo i cittadini che la polizia voleva far credere colpevoli di tentata rivolta. Altrettanto accadde a Bologna, dove il tribunale decretò non esservi luogo a procedere contro alcuno di coloro che la polizia aveva arrestato per la dimostrazione fatta in onore del Lobbia.

È per coteste non volute sentenze assolutorie,


MISTERIOSA MORTE DELLO SCOTTI 109


che il ministro Pironti s'irritò sino a perderne il senno; ond'egli cominciò contro i più onesti magistrati quella indegna persecuzione che varrebbe a rendere impossibile tra noi 1' esercizio della giustizia, e basterebbe a disonorare l'Italia al cospetto delle genti civili, se il paese intero non avesse protestato in modo così solenne, ed ove la stolta prevaricazione governativa avesse a restare impunita.

Altro episodio assai doloroso e misterioso del tentato assassinio del Lobbia è la morte che ne derivò del povero Scotti, giovine cremonese, che dimorava a Firenze per ragione d'impiego. Egli era a letto, quando udì i due colpi di pistola che il Lobbia sparò contro il feritore fuggiasco. Curioso di vedere che fosse, e forse generosamente sospinto a portar soccorso al ferito, fece per correre in istrada; ma sulle scale s'incontrò con un individuo che pare lo abbia costretto a tornarsene indietro. Da quel momento, lo sventurato ammalò; e, recatosi a stento a Cremona, per avere l'assistenza de’  suoi cari, peggiorò così rapidamente che, a capo di poche ore, morì; senza aver potuto aprir l'animo con chicchessia.

Volendo spiegare senza malizia una morte così repentina, sulle prime la si disse cagionata dallo spavento. Ma come supporre ragionevolmente che un giovine sano e robusto fosse spento in sì brevi giorni, e con fenomeni cotanto strani, por un semplice sgomento? D'altronde, sgomento di chi o di che? Può essere che il rumore di due colpi di pistola sparati in aria basti ad uccidere un giovinetto che aveva dato prove ripetute di non vulgare bravura? Non è quindi a stupire se tale spiegazione non valse a soddisfare gran fatto. Più facilmente fu creduta la voce,


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che subito dopo ne corse, di veneficio. La stampa dell'opposizione ripeté con alte grida e con rara insistenza l'accusa. Si additarono per nome le persone su cui cadevano i maggiori sospetti; si spiegarono senza ambagi le cause che risarebbero state a delinquere; e vi fu persino un giornalista ministeriale che, in un momento di distrazione forse, si lasciò sfuggire dalla penna che allo Scotti s'era fatto trangugiare quasi a forza una pillola composta con pidocchi, o non sappiamo quale altro più schifoso insetto; cui fu facile, naturalmente, alii oppositori di connettere l'idea del veleno. Comunque sia, fatto è che da ogni parte si invocò uno scientifico esame del cadavere; e che, per la prima ed unica volta in caso di sì delicata natura, le autorità competenti si sono ricusati di farlo. D'onde il sospetto prese più profonde radici nelli animi imparziali, per quanto grande sia la ripugnanza che essi provano a credere possibili certi troppo orrendi delitti.

XXII.

L'inchiesta dunque fu fatta. Contro il volere fin troppo imperiosamente manifestato dai ministri e dai ministeriali, si cominciò col procedimento secreto, come di ragione, e si finì colli interrogatorii pubblici, come di diritto. Dall'ingrato dibattimento apparve veramente enorme la facilità dell'accusa, ma ancora più enorme la sfrontatezza del diniego. Vi fu uno dei cointeressati che ebbe la pretensione di dare ad intendere aver ottenuto dal Balduino un buon millione di partecipazione, soltanto a forza di importunità e di audacia. Vi furono testimonii cui bastò l'animo di disdire pertinacemente quanto non una, ma cinque onorevoli persone hanno affermato con giuramento di avere udito dalla stessa loro bocca.

La Commissione d'Inchiesta, per conclusione del suo arduo lavoro, ha dichiarato: 1° Che i signori Balduino e Tringali non hanno dato spiegazioni soddisfacenti; 2.° Che la compartecipazione di un millione manca ili spiegazione ragionevole; 3.° Che non può revocarsi

CONCLUSIONI DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA 111


in dubbio avere il Cimone Welll-Schott asserito per l'addietro a carico del Civinini, ciò elio più tardi ha disdetto; 4.° Che la lettera scritta dal Brenna al Fambri è tale da produrre penosa impressione; 5.° Che quantunque la partecipazione del Fambri non possa per so stessa chiamarsi illecita, importa riprovare questi fatti affinché non s' abbiano a rinnovare in nessun modo; 6.° Che è desiderabile prevalga la consuetudine che i deputati si astengano dal prender parte a certo opera/ioni, per cui un senso di delicatezza li metterebbe nella necessità di astenersi dal voto.

E' impossibile che una sentenza piaccia a tutte lo parti. Ma è singolare che questa pronunciata dalla Commissione d' inchiesta, mentre venne senza restrizione applaudita dalla stampa della opposizione, fu censurata e vilipesa dalla ministeriale. K sì che nella Commissione, eletta. dal presidente stesso della Camera, i deputati ministeriali si trovavano in maggioranza.

Ma il sentimento pubblico si unì ai giornali di opposizione contro i governativi per applaudire ed avvalorare il verdetto della Commissione. A Modena si tenne, l'8 di Agosto, una grande adunanza popolare allo scopo di provocare « una solenne manifestazione del pensiero e del sentimento pubblico sopra una questione di alta moralità politica e sociale»; promosso da molti liberali cittadini, per iniziativa del professore Sbarbaro che ne fu presidente. Il ministero tentò d'impedirla con ogni arte; ma poi fu costretto consentirla. L’adunanza deplorò che la Commissione d'inchiesta «abbia sentito la necessità di ricordare i più elementari principii di delicatezza e le più ovvie massime di moralità parlamentare», che vennero «apertamente disconosciute dallo spirito di parte»

XXIII.


Una parola almeno sul modo con cui si è formato e riformato il ministero, che ora sopraintende ai destini d'Italia,


Si ha un bel leggere l'istoria del paese nostro e quella delle altre nazioni governate col sistema parlamentare e costituzionale, ma non è possibile trovare altro esempio di un ministero che siasi costituito con maggiore sprezzo di tutte le consuetudini e di tutte le convenienze.

V'erano in Parlamento due grandi partiti; l'uno di opposizione, l'altro favorevole ai ministri; i quali non erano saliti al potere per altra ragione, tranne quella che il re se li trovò sottomano al momento della catastrofe di Mentana, come più volte ebbero a dire i loro stessi l'autori. Questo ministero, che ebbe a programma la repressione e la resistenza, il 22 dicembre 1867 fu colpito in Parlamento da un voto solenne di disapprovazione. Da ciò la prima crisi ministeriale. Ma i capi, invece di ritirarsi dal potere, come era preciso dover loro, osarono ripresentarsi alla Camera più stretti che mai ai loro portafogli. Per assicurare la loro posizione, invece di modificare il programma nel senso voluto dalla maggioranza più liberale, con intrighi e promesse riuscirono a staccare da essa un gruppo di uomini già noti per antiche gesta rivoluzionarie, i quali si rassegnarono a formare un terzo partito. Così, ad onta del suo scandaloso mal governo, potè il ministero prolungare sua vita per un'altra quindicina di mesi. Il brutio gioco, per altro, minacciava di avere un termine, quando vennero presentate quelle famose convenzioni finanziarie, contro cui la coscienza nazionale assolutamente ripugna.

Lo scopo non fu raggiunto; imperocché, come altrove abbiamo accennato, il Parlamento le respinse subito coteste convinzioni, ed anche con insolita severità di giudizio. Ma chi le aveva stipulate, non mancò di adoperarsi per manipolare una maggioranza favorevole. A tale uopo, ei cospirò contro i proprii colleghi, onde avere disponibile un certo numero di portafogli con cui assicurarsi il numero necessario di voti; e mandò un esploratore nel campo nemico per tentare se mai vi fosse alcuno da sedurre.

Per tal modo, si formò l'ultimo ministero, con elementi presi

RIMESCOLAMENTO DI MINISTRI. 113

da tutte parti della Camera, ottenendo così una illogica coalizione di partiti, a stento accozzata da una illogica coalizione di interessi.

Infatti, in nome di quali principii potrà dirsi manipolata cotesta fusione di partiti, mentre con disgusto universale si udirono i giornali ed i capi delle due parti opposte affermare con pari asseveranza che intendevano mantenere salde ed inviolate le rispettive dottrine; quelle dottrine che da più anni a vicenda si combattevano? Perché tra avversarii politici si possa decorosamente ed utilmente stringere un connubio, bisogna che li uni o li altri rinneghino almeno in parte li antichi propositi, per fare atto di adesione alla politica delti antichi nemici. Ma ciò, nel caso nostro, non si è visto. Anzi, si è visto il contrario; imperocché in pieno Parlamento li oratori delle due parti, mentre promettevano di procedere uniti e concordi per l'avvenire, con troppa affettazione protestarono di non aver fatto un passo, e neppur di aver stesa la mano per giungere alii accordi invocati. Or dicasi: Come mai uomini che avevano combattuto per l'addietro in campi così divisi ed opposti avrebbero potuto un bel giorno trovarsi insieme e d'accordo, se fosse vero che né l'uno né l'altro si era pur mosso? D'altronde non sarà superfluo, a questo riguardo, il considerare che mentre, quando si tratta di cose buone ed onorevoli, tutti vanno a gara per arrogarsi il vanto della iniziativa, stavolta si vide invece in tutti una gara scandalosa per dare ad intendere di essere stati tirati a ritroso; ambo le parti così respingendo il merito di aver preso l'iniziativa della vantata conciliazione, quasiché fosse un delitto. E poiché li uomini del terzo partito, per iscusare la loro condotta, facevano correre voce che essi entravano nel ministero col patto di portarvi tutto il corredo delle loro idee, e quindi la possibilità di farle trionfare, il presidente Menabrea non esitò a protestare in Parlamento che, ad onta di ogni modificazione di persona, il ministero avrebbe pur sempre conservato ed osservato il suo antico programma. E, come se ciò non bastasse, si volle pubblicare

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nella officiosa Nazione una nota troppo esplicita; la quale, perché acquistasse ancora più seria importanza, si fece propalare per tutto l'orbe per mezzo del telegrafo. La nota è del 3 maggio e dice: — «Ieri sera ebbe luogo un'adunanza della destra con intervento dei ministri. Trattossi del nuovo atteggiamento del partito, che deve effettuarsi in seguito alle trattative passate fra la Permanente e il ministero. Dalle dichiarazioni fatte dall'onorevole presidente del Consiglio e dal ministro delle finanze risulta, che il primo passo per giungere a questi accordi venne mosso dalla Permanente; che li accordi poterono stabilirsi per intero su ogni questione, sia di politica che di finanza e amministrazione, sulla base del vecchio programma della destra, che non subì alcuna modificazione di rilievo». È troppo difficile spiegare come e perché li antichi rivoluzionarii del terzo partito abbiano potuto in un giorno diventare tanto amici colli antichi conservatori della Permanente, che erano i loro più deliberati avversarii. Molto meno si può spiegare come i primi, cioè coloro che avevano sempre militato sotto il Vessillo della rivoluzione, siansi decisi di porgere, anche nei momenti supremi del macinato e della regia cointeressata, così efficace soccorso ad un ministero di resistenza; e come i secondi, che avevano fatto con successo le loro prime armi tra le fila dei conservatori, così calorosamente lo combattessero in nome della più larga libertà. Quanto si può dire con asseveranza si è che il ministero, formatosi così contro ogni ragione e contro ogni tradizione, con elementi presi da tutte le parti della Camera nello scopo di amicarsi tutti i partiti, è riuscito invece a disgustarli tutti.








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