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Abbiamo deciso di pubblicare la introduzione di Manebrini al suo libro del 1864 perché in questi giorni di calura estiva sconquassata dalle polemiche e dalle speranze sulla nascita di un “Partito del Sud” andare indietro nel tempo, al momento della fondazione dello stato in cui viviamo, ci permette di ritrovarci a tu per tu col peccato originale che ha caratterizzato tutta la classe dirigente meridionale – di destra e di sinistra – in questi centocinquantanni.

Vi ritroviamo la recriminazione per non essere considerati Italia, quando senza il sud l'Italia non esisterebbe:

Diremo solo poche parole, non come napoletani ma come Italiani, imperocchè fu vezzo di alcuni stranieri, lanciare senza saperle motivare, accuse e calunnie ripugnanti, contro un popolo generoso che à fatto sacrifizio di tutto sull'altare della gran patria Italiana.

Con un cinismo che attrista dissero che l'Italia finisce al Garigliano, vollero escluderci da questa patria prediletta alla quale demmo il nome Italia fu dapprima nominata la penisola formata dai golfi di Squillace e Lamelico o di S. Eufemia che oggi è Calabria ulteriore — poi fu fino al fiume Laus, e a Metaponto —

Il culto per un passato remoto, visto che il presente rattrista, con affermazioni che nel tempo approderanno alla frase famosa del Principe di Salina sulle magnifiche civiltà che diventerà un vero e proprio stereotipo:

L'unità politica la tentammo dall'epoche più remote. Con Federico II di Svevia nel mille combattendo contro i papi, e con Roberto di Angiò che può a buon dritto chiamarsi il Luigi XIV dell'Italia.

La libertà fu il primo godimento dei popoli meridionali, e già molto prima che si diffondesse nel rimanente di Europa, fioriva nelle nostre repubbliche, e Amalfi, Napoli, Gaeta, preludevano alla potenza marittima degl'Italiani, erano l'avanguardia di Venezia, di Genova, e di Pisa.

Non manca la illusione che con l'unità il sud abbia fatto chissà quale guadagno:

Il 21 ottobre 1860 gl'Italiani del mezzodì realizzarono il più gran fatto dell'età moderna, l'unità nazionale d'Italia.

Così pure l'autoflagellazione per i propri difetti (per noi presunti, ovviamente) rispetto alle altre parti d'Italia:

A due cause principalmente bisogna attribuire i nostri mali. Alla malignità burocratica, all'incuria, alla incapacità municipale.

Lo spirito di rivalsa verso il piccolo Piemonte che non valorizza le terre meridionali (anzi le ha messe a ferro e fuoco dovrebbe dire!):

Qual direzione poteva dare alla cosa pubblica, una burocrazia la quale se venne accresciuta da una frazione, intelligente e patriottica delle provincie meridionali e centrali, restò in fondo sempre qual era stata nel vecchio Piemonte, gretta, gesuitica, retriva?

Per finire, il luogo comune sulla ignavia dell'esercito, quando è storicamente dimostrato (e lo era già allora visto che Manebrini pubblica nel 1864) che l'Esercito Napolitano diede prova di valore – vi invitiamo a leggere il libro di Carlo Corsi “In difesa dei soldati napoletani 1860” rieditato di recente con prefazione di G. Salemi da Vincenzo D'Amico:

Vi sono stati degli scrittori stranieri che ànno accusato gli Italiani del mezzogiorno d'indolenza, di mollezza, sinanco di viltà — altri ànno loro negato qualsiasi tradizione, e ogni virtù militare.

Zenone di Elea – Agosto 2009

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DOCUMENTI
SULLA
RIVOLUZIONE DI NAPOLI
1860-1862
PER
AURELIO ROMANO-MANEBRINI

NAPOLI
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DEL CAV. GAETANO NOBILI
Via Salita al Ventaglieri.

1864
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INTRODUZIONE


I.


Se il fumo delle passioni non offuscasse la mente, se fosse possibile in questi giorni di emozioni continue e violenti, meditare sulle vicende della storia contemporanea; non esiteremmo, quantunque deboli ed oscuri, a tracciarne il quadro; per imporci un dovere, per ambire anche noi la gloria di essere annoverati, ultimi fra gli operai del pensiero. Ci siamo purnonostante arrischiati ad un lavoro utile pei talenti che l'epoca prepara all'avvenire, affinché potessero, quando tornò la calma ai lettori, la riflessione agli scrittori, quando ai tempi di lotte successero quelli di riposo, di analisi profonda, di libertà intera, e di tranquillo sviluppo intellettuale; agevolarsi nelle ricerche, e nella ponderazione dei fatti ai quali assistemmo.

Diremo solo poche parole, non come napoletani ma come Italiani, imperocchè fu vezzo di alcuni stranieri, lanciare senza saperle motivare, accuse e calunnie ripugnanti, contro un popolo generoso che à fatto sacrifizio di tutto sull'altare della gran patria Italiana.

Con un cinismo che attrista dissero che l'Italia finisce al Garigliano, vollero escluderci da questa patria prediletta alla quale demmo il nome Italia fu dapprima nominata la penisola formata dai golfi di Squillace e Lamelico o di S. Eufemia che oggi è Calabria ulteriore — poi fu fino al fiume Laus, e a Metaponto —

Nel I secolo di Roma dal Tevere a mezzodì, e solo dopo

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quest'epoca abbracciò le provincie centrali e del nord rimanendo così, fin quando caduta Roma, il nome d'Italia limitossi alla parte settentrionale, alla quale fu pure dato nel principio del nostro secolo a un' ombra di Regno cui erano esclusi la Toscana, Roma, e i paesi ove tal nome nacque (l).

L'Italia meridionale fu in quanto al linguaggio pel rimanente della penisola, ciò che la Provenza alla Francia — Essa a purificato, la lingua Italiana nel secolo in cui Federico II, protesse e coltivò nella sua corte di Palermo le arti, la poesia, e la letteratura nazionale. Abbiamo quindi iniziato se non compita la prima condizione nazionale l'unificazione della lingua, essendo la parola umana, o per esprimerci metafisicamente il Verbo il solo legame dei popoli i quali vedono dei fratelli in tutti coloro che parlano la propria favella. L'unità politica la tentammo dall'epoche più remote. Con Federico II di Svevia nel mille combattendo contro i papi, e con Roberto di Angiò che può a buon dritto chiamarsi il Luigi XIV dell'Italia.

La libertà fu il primo godimento dei popoli meridionali, e già molto prima che si diffondesse nel rimanente di Europa, fioriva nelle nostre repubbliche, e Amalfi, Napoli, Gaeta, preludevano alla potenza marittima degl'Italiani, erano l'avanguardia di Venezia, di Genova, e di Pisa.

Non àvvi passo dato dalla civiltà europea senza che vivamente non lo risentisca l'Italia del sud e non lo secondasse con forza. Nella lolla ardente dello spirito umano contro la tirannidi! clericale che si dà il dritto di comandare al pensiero e di dirigere le anime, quanti e sventurati campioni non à dato la nostra patria? — La protesta dell'umanità oppressa dalla Teocrazia qui si produsse sotto tutte le forme e quando sulle piazze della bella Napoli il nero fantasma di un prete volle accendere i roghi dell'Inquisizione; un grido terribile, potente, inesorabile, si levò contro l'audace, eia nostra terra restò incontaminata da delitti, che avevano in ogni altra parte di Europa desolata la società.

E mentre alla superficie il popolo protestava colle armi, nell'ombra, uomini mai più dimenticati, meditavano la libertà tutta intera, pronti a comparire sul campo, novella legione di martiri o di eroi.

(1)Cantù Storia universale.


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Cosi si avanzavano sulle orme di Galileo, di Descortes, e di Bacone, Giordano Bruno, Telesi, Leone, Porzio, Vannini, e Antonio Serra il creatore della scienza economica — Tommaso Campanella fa di più, solleva quistioni sociali, che oggi ancora appariscono sotto altra forma, vaghe, oscure, in un posto secondario, e precede di tre secoli gli Owen, i Pourier e i Sain-Simon.

La Spagna gravitava su mezza Europa quando Napoli sola dopo l'Olanda, ne scuoteva incessantemente il giogo, ma meno fortunata degli altri cadde combattendo nell'antico servaggio. La lealtà rozza, franca, espansiva, ingenua del popolo rappresentato da Masaniello, poteva resistere alla ipocrisia, all'astuzia feudale, ai tradimenti meditati nella corte dei Viceré? —Le armi dei popoli possono vincere nella santità dell'entusiasmo quelle dei despoti, ma la perfidia dei vinti disarmerà i vincitori, se al trionfo del patriottismo non si aggiunge la guida dell'intelligenza.

ll movimento intellettuale del secolo XVIII à nell'Italia del sud un eco immenso. Una schiera d'illustri uomini appariva, votata alla morte pleide luminosa su quell'orizzonte già carco di nubi.

In nessun paese dice Gualterio —aveva la rivoluzione pacifica prodotto frutti più maturi, in nessun paese le sue tracce furono più belle, in nessun paese i veri della nuova civiltà furono difesi e consacrati col martirio di tanti e sì generosi campioni — Mentre a Parigi la rivoluzione, cioè l'era nuova, tuffava le mani nel sangue di quella che distruggeva; a Napoli la reazione, cioè l'era antica; nuotava egualmente nel sangue di coloro che alle nuove dottrine erano devoti — Coi Pagano, coi Cirillo, coi Conforti, vendicava il vecchio assolutismo le vittime immolate a Parigi dalla giovane Libertà. I quaranta mila periti nelle carneficine napoletane attestano chiaramente che i partiti estremi non ànno nulla da invidiarsi, nulla da rimproverarsi vicendevolmente. Attestano soggiungiamo noi che la civiltà, la libertà, il dritto, fu disperatamente difeso, sanzionato col sagrifizio della vita. L'ingrata posterità à dimenticato le vittime, e neanco una croce sorge là dove Antonio Toscano periva novello Pietro Micca, e sulle sponde di quel Sebeto

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«Quanto povero d'onde tanto ricco d'onore» ove il vecchio e cieco Turris facevasi uccidere coi suoi parenti combattendo da eroe. Quale segno ci addita la casa dove nacquero, il luogo dove perirono, i Pagano, i Velasco, i Carafa, i Manthoné, i Cirillo, la Pimentel, la San Felice? Nulla, perfettamente nulla. L'oblio covre questo splendido passato. Picerno, la città perduta nei monti che combatté fondendo le canne degli organi, i piombi delle finestre, gli utensili domestici, Altamura che in mancanza di mitraglia vi supplì le monete; queste due Missolungi Italiane sono appena ricordate come paesi barbari. Quando preparavasi la riscossa nelle società segrete la più vasta associazione si organizza qui, e si dirama col nome di carbonarismo nella rimanente Italia, in Francia, e in Germania dove assume forme e nome diverso. Durante i cento giorni quarantamila soldati di Murat intrapresero una guerra d'indipendenza Italica. Vinsero gli Austriaci ovunque, ad Occhiobello, al Ronco, al Reno, a Spilimberto, a Pesaro, a Sinigaglia, al Panaro, a Reggio, a Cesena, a Tolentino, a Macerata, ma sventurati, mal diretti, insidiati dal tradimento, poco o nulla aiutati, dovettero abbandonare la vittoria. Senza tema di esagerare affermiamo che la più grande battaglia di indipendenza combattuta ai tempi nostri da Italiani contro Austriaci; è quella di Macerata (1).

La lotta durò due intere giornate ed era a noi assicurata la vittoria se le notizie delle insorgenze degli Abruzzi non avessero turbato l'animo di Murat, e mandato in iscompiglio ogni cosa. Allorché lutto fu perduto sui campi, le piazze forti resistettero onorevolmente e Ancona come Gaeta, si arresero dopo un assedio. Dopo la battaglia di Waterloo, dice Colletta, eia prigionia di Bonaparte la bandiera dei tre colori (testè si altera) sventolava, solitaria nel mondo, sopra i nudi sassi di Torre Orlando. Poco dopo Murat fu fucilato. Si levarono rimproveri contro i napoletani, ma con ingiustizia.

Una triste fatalità sovrastava allora al destino dei Napoleonidi, lo stesso Imperatore sarebbe perito come Murat se in luogo di sbarcare a Cannes fosse approdato nelle vicinanze di Marsiglia.


(1)Sulla descrizione di questa battaglia, oltre il Colletta, e Pepe, veggasi il bellissimo articolo dell'Enciclopedia popolare italiana—edizione Torinese.


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Qui essendosi saputo il suo sbarco, più di 5000 Guardie Nazionali si erano armate e avevano chiesto marciare contro di lui.

La restaurazione si trovò a Napoli come in Francia vinta dalla civiltà e mentre in Piemonte volevasi rimettere la società al medio evo, e a Roma qual'era prima dell'invasione francese, a Napoli le leggi della rivoluzione venivano rispettate e mantenute. Poi non bastandole si solleva e protesta, la prima in Europa dopo la Spagna, contro il sistema della Santa Alleanza, e si dà una costruzione.

Anche al 1830 sarebbe insorta, e avrebbe risposto ai moti della Francia, ma quando tutto era pronto, quando il Generale Guglielmo Pepe doveva arrivare da Marsiglia con un pugno di bravi, il governo Francese cambiava la sua politica ed ogni speranza svaniva.

Nel 1847 i primi che veramente ruppero a guerra di popolo contro il despotismo furono gl'Italiani della estrema Calabria. La rivoluzione si propagò più determinata quando ai 12 gennaio 1848 Palermo insorgeva e vinceva. La costituzione data a Napoli fu la prima che si fosse allora elargita in ogni altro stato della penisola. Con un governo che aveva tutte le forze del paese nelle mani, che manteneva tuttavia in ogni luogo i suoi uffìziali, i suoi giudici, senza il menomo cambiamento, che contava per partigiani centomila preti, burocratici, nobili di corte, sgherri e spie, potevamo essere di aiuto efficace alla guerra d'indipendenza? — Pure una legione di prodi sostenne sui campi Lombardi, fra le lagune di Venezia, e sugli spaldi di Roma l'onore dei meridionali. Le vite preziose di Cesare Rossaroll e di Alessandro Poerio basterebbero esse sole ad esser ricco tributo pagato da Napoli alla causa comune.

Durante la fiera reazione, mentre che il governo borboniano voleva del nostro paese fare come della Russia un regno del silenzio, l'emigrazione in Europa e in America lo ricordava, con atti splendidi di virtù cittadina e di valor militare. Nel 1859 al primo grido di guerra essa si trovò tutta presente, sia sotto le armi, sia nei consessi che preparavano l'indipendenza.

Da Napoli non potette partire gran numero di volontari. Napoli era in uno stato eccezionale, lontano dal teatro della guerra, e in totale balia dei borbonici.

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Se allora un'armata Francese, si fosse presentata lunghesso il Tronto e il Garigliano i Borboni sarebbero fin da quell'epoca partili e avremmo avuto l'agio di partecipare con più efficacia alla guerra.

Ma quando l'Italia centrale vota l'unione, Napoli, si solleva ad un tratto, e aiutata poscia da Garibaldi completa l'opera unificatrice.

Il 21 ottobre 1860 gl'Italiani del mezzodì realizzarono il più gran fatto dell'età moderna, l'unità nazionale d'Italia.

Ai giorni di gloria e di esultanza successero quelli delle ire e dei dolori. È questa la immediata conseguenza di tutte le rivoluzioni, le quali non si fanno pei contemporanei ma per le generazioni future. Non bisogna dimenticare ciò che un grande storico francese à detto:

«Devono essere distinte le rivoluzioni che scoppiano presso vi popoli lungamente sommessi, da quelli che sopravvengono vi fra popoli liberi cioè in possesso di una certa attività politica, a Roma, in Atene, ed altrove si vedevano le nazioni ed i loro capi disputarsi più o meno l'autorità. Presso i moderni popoli, interamente spogli, il cammino e differente. Completamente sottomessi dormono per lunga pezza, lo svegliarsi à luogo nella classe più illuminata la quale insorge e ricupera una porzione del potere. L'ambizione è successiva come il risveglio, e vince fino alle ultime classi, sicchè la massa intera trovasi in movimento. Presto soddisfatte di quanto ànno ottenuto, le classi intelligenti vogliono vi fermarsi, ma non lo possono più e sono senza posa incalzate da quelle che le seguono. Quelle che si arrestano, fossero anche le penultime, sono per le ultime un'aristocrazia, e in questa lotta di classi che si urtano l'una contro l'altra, la semplice borghesia finisce coll'essere chiamata, dagli operai aristocrazia, e come tale termina i suoi giorni (1).

D'altra parte gli errori, le ingiustizie, le ingratitudini non mancarono, ma il popolo fu costante nel sentimento nazionale, e in quelli che lo bistrattavano, più che i propri vide i nemici d'Italia.  A due cause principalmente bisogna attribuire i nostri mali. Alla malignità burocratica, all'incuria, alla incapacità municipale.


(1) Thiers Rivoluzione Francese.


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Qual direzione poteva dare alla cosa pubblica, una burocrazia la quale se venne accresciuta da una frazione, intelligente e patriottica delle provincie meridionali e centrali, restò in fondo sempre qual era stata nel vecchio Piemonte, gretta, gesuitica, retriva? Essa mise da parte, dimenticò, sprezzò anche, e gettò nell'abbandono, tutti i talenti che avrebbero potuto allearvisi e metterla cosi all’altezza dei nuovi destini della patria. Per colmo di sventura vennero ad inframettersi ed ottenerne la guida uomini che furono fra i più celebri agenti dei caduti governi. Costoro educati da lunghi anni al regime despotico non potevano non perpetuare nelle forme se non nei fatti i sistemi che si resero tanto insoffribili al popolo, e tanto odiosi. I ministri stessi ànno dovuto subire la loro influenza, e forse senza saperlo vedere fraintese, sviate, male applicate le loro intenzioni.

Cosa sperare da un municipio, il quale, spende milioni in feste pubbliche, e lascia nell'abbandono una città dove tutto deve crearsi, e un popolo che per due terzi, vive in un inferno sociale, ottenebrato dall'ignoranza, abrutito dalla fame? Pure esso chiede sviluppo intellettuale e morale, vuole miglioramenti materiali, reclama lumi. II municipio è nel sacro dovere di secondarlo, iniziarlo, essendo per dir cosi, il governo familiare del popolo, come è dei poteri politici quello della nazione.

L'irritazione generale che in questi ultimi tempi si è manifestata solto forme diverse, deriva dalle cause sopraccenna. te. Dov'è la tristezza, la desolazione dei miserabili senza speranza, ostentare il lusso, la prosperità, la ricchezza, e lo stesso che creare odii, far credere all'egoismo, inacerbire gli animi, aggravare i patimenti.

II.

Vi sono stati degli scrittori stranieri che ànno accusato gli Italiani del mezzogiorno d'indolenza, di mollezza, sinanco di viltà — altri ànno loro negato qualsiasi tradizione, e ogni virtù militare. Risponderemo agli uni e agli altri servendoci di autori pure stranieri che ebbero il campo di conoscerci da vicino, valutarci meglio, con animo imparziale, ed intelligente.

Ai primi diciamo che non possono mancar di vigore popoli che ànno additato agli Spagnuoli come si resiste alle invasioni straniere, che se trascesero in ignobile brigantaggio

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 fu in conseguenza dello stato morale in cui si trovavano per opera di preti, e tiranni di ogni specie. D'altra parte bisogna tener poco conto della opinione di taluni che pretendono il brigantaggio una piaga indigena dell'Italia meridionale. Presso tutti i popoli e in tutte le epoche, il fanatismo religioso, l'accecamento delle masse, la miseria sopratutto, à prodotto simili crisi sociali. Vogliamo darne un solo esempio che prendiamo nell'istoria della Rivoluzione di G. Michelet. Parlando della reazione del mezzogiorno della Francia, e particolarmente di quella di Avignone dice a Avignone fu il punto ove i due principii il vecchio ed il nuovo si trovarono l'uno a fronte dell'altro e violentemente contrastati, mostrarono, in origine l'orrore di una lotta furiosa. Essa produsse anticipatamente, in piccolo, come in uno specchio magico, l'immagine delle scene sanguinose che la Francia era per presentare. Settembre in questo specchio figurava la Vandea e il terrore. E non solo Avignone, sul suo stretto teatro mostrò e predisse questi orrori, ma ciò che è orribile a dire, è d'essa che li autorizzò in qualche modo, li consigliò col suo esempio, diede con gran numero di atti barbari un modello che il delitto inetto imitò servilmente... In nessuna parte più che nelle città dei preti si apprende a bene odiare... I preti cominciarono a raccontare o fare dei miracoli — Dapprima narrarono questo: un patriotta, portando via da una chiesa un angelo di argento, gli ruppe il braccio sua moglie poco dopo partorì un bimbo senza braccio. La Vergine, dopo l’89 si mostrava molto aristocratica. Dal 90 erasi messa a piangere in una chiesa della via Bac. Verso la fine del 9l cominciò ad apparire dietro una vecchia quercia al fondo del Bocage vandeano. Perfettamente alla stessa epoca spaventò il popolo d'Avignone con un segno terribile: la sua immagine nella chiesa dei Francescani, si arrossì, gli occhi si accesero di porpora sanguinosa parve andare in furore. Le donne accorrono in folla, paurose e curiose, per vedere, e non osavano guardare. Gli uomini meno superstiziosi, avrebbero forse lasciata arrossire la Vergine come voleva. Ma un rumore si sparse che li commosse dippiù.

Una gran cesta di argenterie di chiesa era passata per la città. Si disse, si ripetette, e non fu più una cesta, furono diciotto

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 sacchi pieni che la notte erano stati trasportati fuori della città. Cosa contenevano? Gli oggetti del monte di pietà, che il partito francese—dicevano— portava seco lui. L'effetto fu straordinario. Le genti povere, che in una miseria così grande, avevano impegnato lutto ciò che avevano, piccoli gioielli, mobili, abiti, si credettero rovinati, a. Non avvi altro a fare, si disse loro, che impadronirsi delle porte della città e dei cannoni che vi si trovano, fermare se vogliono sortirne; Lesciiycr, Duprat, Melvìlle (capi del partito nazionale), e lutti i nostri ladri. Era la domenica l6 ottobre, una folla di contadini era venuta ad Avignone, tutta armata, non si camminava altrimenti in quelle campagne. La cosa fu fatta all'istante, le porte occupate; e i realisti costituzionali, presero le chiavi della città e corsero a Sorgues presso l'abate Mulol, credendo apparentemente che darebbe loro delle truppe.

La folla affluiva, ai francescani, donne e nomini, artigiani e confraternite, facchini e contadini, i bianchi e i rossi, lutti gridavano che non se ne andrebbero se prima, il municipio e il suo secretario Lescuyer, non avesse dato loro ogni soddisfazione.

Lescuyer fu incontrato per istrada mentre andava a rifugiarsi alla municipalità, e fu condotto al popolo. Salì in cattedra, fermo e freddo dapprima: « fratelli miei, disse con coraggio, è creduta la Rivoluzione necessaria, ò agito con tutte le mie forze... » Era per confessare la sua fede, forse la sua attitudine dignitosa, la sua probità visibile sul viso, nelle parole, avrebbe racchetato gli animi. Ma fu strappato dalla cattedra, e d'allora era perduto. Gettato alla muta latrante, fu tirato verso la Vergine, verso l'altare, perché cadesse come un bue ammazzato ai piedi dell'idolo. Il grido omicida di Avignone il fatale zou! zou! fischiava da tutta la chiesa sull'infelice. Arrivò vivente al coro e là si liberò un momento; si assise, pallido, in uno stallo; qualcheduno che voleva salvarlo gli diede di che scrivere... Un uomo compassionevole gli mostrò alle spalle una porta donde fuggire. Ma in quel momento un operaio gli assesta un colpo cosi forte che il bastone si piegò in due. Egli cadde appunto ove volevasi, ai gradini dell'altare... La folla enorme, stretta sopra un punto, era come sospesa sul corpo giacente; gli uomini


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li crepavano il ventre coi piedi, e a colpi di pietre, le donne con le forbici, perché espiasse le sue bestemmie, tagliarono con una rabbia atroce le labbra che le avevano pronunziate.

Questo accadeva in Francia nel paese d'onde venne il più grande impulso alla civiltà moderna. Qual meraviglia se nelle nostre campagne, da popolazioni che si trovarono presso a poco nelle medesime condizioni, vengano commesse atrocità dello stesso genere? Del resto crediamo che il terrore non sgomenta la ferocia. La inumanità di Manhès non ànno nulla da invidiare alla crudeltà di Mammone. Il Colonnello francese che faceva a Lagonegro impalare degli uomini come usasi in Turchia è al di sotto di Fra Diavolo.

Educazione, lavoro, istruzione, opificii, scuole, sono i soli mezzi atti a combattere ciò che dicesi brigantaggio; ma ciò che in sostanza non è che una protesta dell'olocrazia.


III.


Quando ci dissero che non avevamo tradizioni militari, ne dovettero sorridere di sdegno i vecchi soldati che serbano tuttavia le cicatrici delle battaglie napoleoniche. Già in tutte le guerre del XVII e XVI li secolo gl'Italiani meridionali vi contribuirono potentemente. In quella del 1631 combatterono al comando del Principe di Belmonte, del maestro di Campo Torrecuso, di Toraldo e Tozio, ausiliarii del maresciallo di Brisac. Nelle guerre di Fiandra e di Catalogna, di Germania e del Milanese nel 1632, e nelle consecutive del l635, campeggiarono sempre con valore straordinario. Non bisogna dimenticare la parte presa nelle lotte fra Carlo V. e Francesco I. Questi fu fatto prigioniero dalla cavalleria napoletana e volle cedere la sua spada al Duca d'Avalos che la comandava. La vittoria di Cerisele fu sanzionata dai nostri. Gli Austriaci in una scguela di combattimenti che terminano alla Battaglia di Velletri non potettero mai resistere al valore degl'Italiani meridionali, come non resistettero mai a quello dei settentrionali.

Intanto, cosa strana, vi sono degli autori francesi che assisi placidamente sopra una seggiola a bracciuoli, chiusi nel silenzio dei loro gabinetti, in qualche via elegante di Parigi,


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con una leggerezza poco seria, ànno credulo apportare dei giudizi tanto erronei per quanto erano loro ignoti il popolo e i soldati dei quali àn voluto parlare. Da un altro lato dei Generali francesi che ànno comandato le nostre milizie che ànno con essi diviso i pericoli sui campi di battaglia, i disagi nelle marce penose, non possono astenersi di consacrare nelle memorie che lasciarono alla posterità, delle parole che bastano esse sole a smentire qualsiasi calunnia.

Nelle guerre dell'Impero gl'Italiani del Sud come quelli delle altre provincie profusero largamente il loro sangue a prò di Napoleone I, e massime in Ispagna, in Russia, e in Germania. Souchct ad ogni pagina della sua storia sulla guerra di Spagna ne ricorda il valore, e Saint Cyre dice a proposito degli attacchi intorno Girona «I napoletani si covrirono di gloria, resistendo a diversi assalti e rovesciando i nemici con una carica alla bajonetta una delle più audaci che mai sieno state eseguite».

Nella campagna di Russia il contingente meridionale giunse tardi e non gli restò che chiudersi in Danzica e partecipare alla difesa memorabile di quella piazza. Pure la cavalleria scortò l'Imperatore e Vilna respingendo valorosamente gli assalti dei Cosacchi. Era comandata dai Principi di Campana e di Roccaromana, e poiché il cocchiere di Napoleone fu assiderato dal freddo un uffiziale napoletano, Otttavio Piccolelis, si assumette l'incarico di guidar la vettura.

Due Reggimenti combattettero a Lautzen, e Bautzen, quelli che rimasero iu Danzica si covrirono di gloria.

Il generale Rapp comandante la piazza dice «i napoletani fecero perfettamente il servizio dei posti avanzati, emulando di bravura e coraggio con le truppe le più vecchie ed agguerrite». Egli poi raccomandò caldamente a Re Ferdinando IV gli avanzi dei prodi difensori di Danzica che facevano ritorno in Italia.

Non siamo quindi i figli degeneri della madre Italia la quale trovò in noi, nelle nostre arti, nelle nostre tradizioni, e sin nel nostro ciclo la sua più splendida forma. Fondiamole queste doti a quelle non meno grandi degli altri Italiani, e sotto l'egida della libertà, siano il patrimonio comune che le generazioni le quali passano trasmettono arricchito a quelle che arrivano.








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