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RIVISTA
CONTEMPORANEA

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VOLUME VIGESIMOSESTO
ANNO NONO


TORINO
DALL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1861

In questo paradiso decaduto d'Italia, ove natura stessa parve congiurare nelle sue mani a strumento di schiavitù e corruzione, quel genio del male che fu la razza borbonica, credette poter eternare il dispotismo. [...]

Le tirannidi cui Napoli soggiacque, avendo eretto a sistema l'ingiustizia, ne avvenne che ogni idea di legalità nelle masse andò sovvertita e confusa, onde il buono ed il retto non dovevano avere più senso certo.

NOSTRO COMMENTO – Siamo appena nel 1861 e la questione napoletana che prima della unificazione era considerata questione di liberazione dalla tirannide, ora diventa questione del neonato stato. Noi ci domandiamo: se già nel 1861 sulla stampa toscopadana la percezione del territorio a sud del Tronto era quello che si evince da questo testo, noi in questa Italia che ci siamo rimasti a fare?

Zenone di Elea – Maggio 2009 - https://www.eleaml.org

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LA QUESTIONE NAPOLETANA
[tratto da “Rivista contemporanea”]
pag 353-363

È una regione d'Italia che i Giganti o Lestrigoni anticamente abitarono: fra essi la forza unico culto, il fortissimo era re; le forze elementari divinità uniche; rito il furore, la pazzia dono del cielo.

Non potea essere altrimenti sopra un suolo selvaggio e vulcanico, dinanzi a una natura nuda e convulsa. La civiltà greca immigrata in quelle terre ebbe guerre lunghe e terribili dalla barbarie indigena; la conquista romana resistenza cruenta, poi ribellione fìerissima, cui non pose termine che la concessione della cittadinanza quintana. Nondimeno il genio di Pitagora e le leggi di Roma introdussero in quei popoli scienze ed arti, che sotto il riso di quel cielo non tardarono a metter flore, fecondando i tesori latenti di quel paese, che diventò una tra le più ricche e deliziose provincie d'Italia.

Vennero i barbari, ma poco male vi fecero, come quelli che nulla mutarono del pristino reggimento, mentre i succedutisi Longobardi e Normanni cominciarono per contro ad importarvi uomini, leggi e costumi. La peste del feudalismo fu cagione che la generosa idea degli Svevi morisse nel tradito Manfredi, al quale tenne dietro il tristissimo dominio angioino, vero vicariato dei pontefici: e poiché quella dinastia finì nell'esecrata Giovanna II, gli Aragonesi impadronitisi del regno per isforzo di fortuna, seguitarono l'opera, già continuata dai Francesi dopo i Longobardi e i Normanni, di sformare sempre più, introducendovi l'elemento straniero, la fisionomia napoletana. Qual meraviglia se tali e tante superfetazioni finissero per alterarne essenzialmente il tipo originale, e se quindi ogni spirito, ogni coscienza di nazione, per mezzo a tanto avvicendarsi di padroni, andassero perdute in quel popolo,


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e se la stessa esclusività primitiva degenerasse in una mutabilità senza esempio nella storia?

L'ultima corruzione aragonese preparò l'epoca infaustissima del vicereame, e la guerra di successione l'ultima piaga, la signorìa borbonica: la quale appena interrotta dal breve regno murattiano, che poca memoria lasciò e poco desiderio, fu ristaurata nel 1815.

Il 1815, che parve consacrare la vittoria della forza sulla ragione, del privilegio sul diritto, trovava a Napoli, che n'avea aiutata la reazione di strani paladini, quasi l'entusiasmo del dispotismo, poiché fissava in qualche modo le sorti del combattuto reame, fingeva sotto certa forma un ritorno alla nazionalità, e non mancava, come ogni istituto che abbia radice nella tradizione, di una certa idealità e di una certa poesia esteriore.

Il concetto monarchico, come nacque nell'età moderne e come ebbe a formularlo da ultimo il diritto del 1815, derivando immediatamente i poteri dalla Divinità, ingigantiva innanzi a popolo semibarbaro l'individuo che lo incarnava, ed al senso e all'affezione offrivasi coi vantaggi della personalità una, sacra, obbiettiva. Mentre il Giove dei tempi feudali tronfio di una sovranità metafisica (l'alto dominio) avea disperso nelle investiture la sovranità reale (il dominio diretto) e suscitatisi così intorno dei titani; i Giovi delle nazioni moderne, e in ispecie nel 1815, soppresso il diritto astratto e semplificato il positivo, sostituirono agli antichi contratti bilaterali un atto unilaterale, la grazia sovrana, e si attorniarono così di un olimpo che il loro cenno poteva creare ed esautorare a vicenda.

Non parrà strano a chi consideri la storia e l'indole di quel popolo, se un tale sistema trovò sotto il terreno a Napoli, se fu facile a quegli istrioni coronati di acquistarsi popolarità, e se un re d'infausta memoria poté riassumere la sua politica in queste parole: pel mio popolo penso io.

Le condizioni intrinseche ed estrinseche della vita fanno prevalere per se stesse nella gente napoletana, come nella donna, l'elemento sentimentale a quello razionale. Quivi dolori, viltà, fremiti, atonie ripetono i fenomeni della natura circostante: ma come i quietismi di questa sono più diuturni delle tremende ma passeggere febbri vulcaniche, così le attività del pensiero sono più brevi delle sue mistiche inerzie; e sebbene sotto quel sole, in un momento d'intuito, ei vi crei talvolta un poema, più spesso ama confondersi nelle serenità profonde del cielo, o nell'orizzonte infinito del mare, ebbro di quell'oppio che è il dolce far niente. Così a Napoli un uomo è un lazzarone o un Rossini, ma più spesso di un Rossiniun lazzarone. Il sensismo dalla politica si tramutò in maggiori proporzioni nella religione che trascorse a una specie di feticismo cattolico, e la superstizione trovò per isventura


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il sostrato nelle stesse teoriche dell'antica filosofia, talché in niun luogo il pregiudizio apparve come a Napoli mascherato di una formula quasi scientifica. La jettatura è un misto singolare d'idee pitagoriche e di fiabe spagnolesche.

In questo paradiso decaduto d'Italia, ove natura stessa parve congiurare nelle sue mani a strumento di schiavitù e corruzione, quel genio del male che fu la razza borbonica, credette poter eternare il dispotismo. Narrano che Ferdinando II, sospettando pria che morisse come i nuovi fati d'Italia avrebbero portate a Napoli le aspirazioni di lei, ma fidente d'altra parte sugli impedimenti che le speciali condizioni di quel popolo avrebbero opposto a una nuova ragione di cose, uscisse in questo detto memorabile: «Vittorio Emanuele crede di conquistare i miei Stati, ma non sa che qui comincia l'Africa». Il Colletta non avrebbe potuto meglio definire in una frase l'Italia del mezzodì, e concesso pure che colle frasi non si governi, spesso una frase può servir d'indirizzo per governare. Ma torniamo a noi.

Le tirannidi cui Napoli soggiacque, avendo eretto a sistema l'ingiustizia, ne avvenne che ogni idea di legalità nelle masse andò sovvertita e confusa, onde il buono ed il retto non dovevano avere più senso certo. Ma come il concetto istintivo ed astratto dell'equo non intero perisce nella mente sociale, era inevitabile una reazione, la quale, per le smarrite norme del dritto, e per la necessità del mistero di cui dovevasi avvolgere, e per la qualità del nemico che le era forza combattere, non poteva cercar l'equilibrio che nell'arbitrio. Così nacque la camorra, necessità di tutela incolpata contro il dispotismo spagnuolo, presso a poco, in origine, come i tribunali vehemici del medio-evo. A questa società ex lege, a questo frammassonismo napolitano presto aderirono i deboli in un patto di mutuo soccorso contro i più forti; ma cresciuto l'oltrepolere di uno, ristrettosi anzi in quell'uno la forza dell'autorità, elementi contradittorii si mescolarono in quello primigeno. E codesto anche avvenne perché mancando lo slancio dell'avvenire e un fine concreto, assoluto, presto l'istituzione ebbe a corrompersi. Più che all'utilità collettiva, in che risiede la moralità relativa d'un associazione, la camorra si diresse agli interessi egoistici, col cinismo di chi più nulla crede che la forza, onde il lutto fu messo in ogni occasione al servizio dell'individuo. Il camorrista fu la camorra. Così sotto le linee di un edificio che ebbe dapprima sembianza di un asilo sacro, si mascherarono poco a poco il lupanare, la taverna, l'assassinio, il giuoco d'azzardo: finché cresciuta la camorra a terribilità di potenza, non valendo il governo a distruggerla (come la Porta fe' de’ giannizzeri),


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tentò un concordalo con essa, contrastandone verso immunità l'alleanza. In breve, polizia, clero, tribunali, esercito, fu tutto camorra. E fu una società nella società, ove il militare trovò il suo grado, il letterato il suo mecenate, la donna il suo drudo, il giudice, il convenuto o l'attore le loro false testimonianze, il prigioniero la fuga, il tiranno stesso le sue spie e i suoi sicarii.

Di tali dannate condizioni del regno che fecero esclamare a John Russell con islancio di poeta e precisione di matematico, essere il governo borbonico la negazione di Dio, Napoli era sorpresa d'inopinata libertà, non parata a usufruirne i beni sinceri, inchinevole per natura e per effetto contrario di servitù ad esagerarne le utopie, ma pure inspirata alla fede che vien dal miracolo, giacché parve provvidenziale che a liberare tal popolo concorressero mezzi quasi mitici e il personaggio leggendario di Garibaldi. La rivoluzione a Napoli non sarebbe forse stata concepita che sotto una forma romanzesca. Giovanni da Procida e Masaniello, i due tipi del pensiero rivoluzionano, pareano quasi confondersi e attuarsi nell’uomo dalla camicia rossa, e l'immaginazione di quel popolo doveva restare vivamente colpita dal veder fuggir da una porta l'infernale figura di un borbone ed entrare dall'altra la taumaturga di Garibaldi, il san Gennaro della libertà. Codeste valse un raggio di resipiscenza alla parte viva della stessa camorra; direi quasi la camorra primitiva divinava un simbolo ignorato, e scopriva per la prima volta le condizioni della sua antica istituzione. E forse l'eccesso medesimo del male, il quale è più vicino al bene — che è affermazione ed azione — dell'indifferentismo negativo e passivo, era spinta morale in molli di quei cittadini selvaggi a una suprema riabilitazione. Così vidimo uscir dagli antri della camorra con in mano il segno della redenzione civile la famosa Sangiovannara, la Giovanna d'Arco di Napoli.

Per tali falli non è da negarsi che la divisione era già entrata nel campo della camorra: il compromesso delle vittime coi carnefici non aveva più in essa ragione di essere, e i camorristi del popolo avrebbero dato in mano al governo tutti i camorristi borbonici, come talvolta fecero, dittatore Garibaldi, se le succedutesi luogotenenze avessero saputo adoprare al modo che il medico fa della piaga, aprendovi una fonte di salute, e come adoprò Liborio Romano, cui senso politico abbondava, e che sparmiò per quel moda gran sangue nei primi pericoli del difficile mutamento. Ma non antecipiamo le considerazioni.

A dare adeguata idea dell'entusiasmo, del culto quasi figliale che per Garibaldi ebbe il popolo di Napoli, basterà un episodio di quel suo trionfo di mesi.


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Una sera, al solito, innanzi al palazzo d'Angri, agitavasi, accalcavasi una innumere folla. Immaginate migliaia di voci, un urlo solo conclamante al Generale, e immaginate che le gole dei gridatori erano per lo più di napoletani, cioè le gole più sgolate del mondo. Repente un ufficiale del Dittatore s'affaccia alla finestra e dice al popolo: il generale dorme. Ebbene: se nel largo del palazzo d'Angri non fosse stato un sol uomo, il silenzio non sarebbe già stato maggiore, «Ei dorme» si bisbigliavano appena fra loro, e se la svignavano mogi mogi, camminando, come per non lo destare, sulla punta dei piedi. Quanta delicatezza d'affetto in quel silenzio d'un popolo!

Ma i giorni della dittatura precipitavano al fine: Avvenuto il plebiscito, il Re fece il suo ingresso nella città di Napoli disposta ad accoglierlo con entusiasmo affettuoso. E già le fantasie popolari correvano incontro a questo grande monarca dell'Italia, che veniva circondato dall'aura della vittoria e della libertà, e amava fingerselo più e meno che re, ma pur in tutta la maestà e la potenza. Fu grave fallo a popolo sensista e usato alle pompe teatrali dei Borboni presentare il nuovo re con seguito troppo modesto: gran fallo più tardi condurlo in palazzo per vie fuor di mano, mentre il popolo ne desiderava e attendeva la vista da ore nell'affollata via di Toledo. Ma più gran fallo fu poi quell'altro dello aver allontanato o lasciato allontanare Garibaldi, quasi che queste due grandi individualità, le più pure della nostra epopea, e amiche sui campi di battaglia, non potessero da una stessa città essere contenute. Codesto fe' avvisare o supporre, mal a proposito, una sorta di incompatibilità, una specie di mutua esclusione tra i due principii rappresentati da quegli individui, la monarchia e la nazione: incompatibilità ed esclusione che non doveano né poteano sussistere, e che solo due partiti ugualmente ciechi e poveri di vedute hanno sciaguratamente creato; donde l'iliade di mali che dovemmo in seguito lamentare.

Qui comincia l'antagonismo tra le due forze componenti la nuova Italia, e qui forse la guerra civile che dovea ardere poco dopo le provincie meridionali. Imperocchè coll'allontanamento di Garibaldi s'inauguravano i sistemi pessimi delle luogotenenze e ferivasi il popolo napoletano nelle sue suscettività più legittime, negli affetti suoi più fecondi.

Il partito vincitore volendo cancellare inconsultamente fin la memoria della dittatura, con una specie di fretta febbrile incominciò l'assimilazione delle provincie di Napoli al regno subalpino. E non tenne conto, o non volle, della resistenza che avrebbe incontrata, dacchè la natura e la storia non impunemente si affrontano; bisogna correggerle secondandole.


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E non tenne conto, o non volle, del principio organico della vita meridionale, che è sentimento, e credette in buona fede potervi sostituire in un giorno la metafìsica pedemontana, ciocchè valeva a instaurare l'iconoclastia ove si adora il sangue di san Gennaro. Se la ragione avesse prevalso sulla passione, gli. uomini del governo si sarebbero avvisti come a quel popolo non bisognasse imporre, ma inoculare il razionalismo dell'Italia del nord, e come invece dal sentimentalismo di lui avrebbono potuto ottenere benefici effetti; tanto vero che natura e meccanica fanno collimare a uno scopo le forze contrarie.

Ma si fece peggio, chè si affettò disprezzo alle costumanze locali, disprezzo alle camicie rosse, e doppiamente si offese il senso morale del popolo, talché a dispetto delle signore non si volle suonato in teatro l'inno di Garibaldi, sol da poco permesso.

Il pedantismo burocratico s'insediò più feroce che mai vicino al peculato sistematico lasciato sorvivere ai Borboni.

Le misure poliziesche dello Spaventa, si per disfarsi della camorra che per cattivarsela, abortirono; le sue proscrizioni contro i bene affetti al popolo furono imprudenze ingiustificabili; infine la manifestazione inerme ch'ei fe' reprimere dalle baionette, isolò l'esercito dal popolo. — Nell'ordine economico ogni provvedimento se non assolutamente fu localmente erroneo. Non è qui luogo a discutere se la libertà dell'esportazione illimitata e incondizionata faccia buona prova sul terreno pratico; molle buone ragioni ci avrebbero forse per sciogliere negativamente il problema, ma certo è che dove le altre teorie economiche dell'oggi don sieno state attuale, e non formino con essa un sistema, torna pericoloso di ammetterla, giacché fra tutt'altro nulla rileva che l'oro mi rappresenti tutti i valori, ove io non possa avermi in natura quei generi che esso pur rappresenta, e di cui io abbisogno. D'altronde il popolo le teorie non capisce e vuoi vedere netti i suoi conti: bisogna che la comprensione dei suoi ultimi interessi si faccia strada un po' per volta e per via di prove che non importino un sacrificio immediato. Il signor Scialoja, predicando ad un popolo uso a veder proibita l'esportazione in caso di carestia, i vantaggi dell'esportazione che lo affamava, avrà detto anche una verità assoluta, ma non certo a proposito, come chi negando l'elemosina a un povero, volesse convincerlo che il lavoro gli frutterebbe ben più. Anche codesta è verità, ma il povero non si sfama già pel momento del vostro consiglio, e prima ch'ei possa eseguirlo, morirà intanto di fame.

L'inconsulto sfacimento dell'esercito borbonico avea già sparso per le campagne i primi semi del brigantaggio, il quale ebbe poscia


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incremento dal di fuori per le pie crociate di Roma, ma prima dal di dentro per l'azione della irritata e raccozzatasi camorra e della vecchia burocrazia borbonica mantenuta in ufficio. Così alienandosi gli amici che avrebbono potuto e dovuto succedere in quelle cariche, il governo lasciava facoltà ai nemici di organizzare contro sé una guerra civile, di cui fece egli stesso le spese, e a cui i suoi funzionarii prestarono l'impunità e la connivenza. E fu triste cosa vedere i martiri o i vendicatori della tirannia borbonica dover implorare le grazie dei loro vecchi carnefici o di chi era fuggito loro dinanzi, come fu triste prova della politica di Nigra richiamare quasi in odio di Garibaldi l'Arcivescovo di Napoli, che poi fu forza nuovamente bandire.

Cecità inesplicabile che ai luogotenenti di Napoli fosse men inviso un borbonico che un liberale non plasmato a sua immagine: onde l'unità. della causa parve invero obliata per l'infausto parteggiare, e l'antagonismo dalle regioni del pensiero salì a quelle dell'azione, dalla stampa all'esercito.

Se mettendo, come dicemmo, a profitto la divisione della camorra, compenetrando l'esercito borbonico nel settentrionale con savie proporzioni e con severa disciplina, e ponendo infine al contagioso confine di S. Pietro un buon cordone di sicurezza, il brigantaggio non sarebbe forse stato, o sarebbe stato in misura incomparabilmente più angusta, un' ottima occasione porgevasi, anche secondo gli intendimenti luogotenenziali, di allontanare i garibaldini da Napoli, mandandoli contro i banditi, e rinfocandone così lo sbollito entusiasmo; tanto più che a siffatto genere di guerriglie erano nati fatti, e che in allora i Maccabei del diritto divino non s'erano moltiplicati, né si sarebbero, con tanto miracolo operalo poscia dalle benedizioni del Vaticano.

Il generale Fanti stimò meglio spodestar l'Italia d'un altra forza, che non gli parve abbastanza legale, per impegnare in quella vece gran parte dell'esercito regolare in una lotta che men gli conveniva, mentre poca parte di esso sarebbe bastata a guardare il confino.

Dei garibaldini si provocò lo scioglimento, facendo gitto di un semestre di paga, e si preparò così la cagione a nuovi e non lontani lamenti, lasciando tanto fiore di gioventù inoperoso e dejetto.

Non provvido consiglio, se si guardi alla inopportunità del tempo, fu l'incameramento dei beni ecclesiastici e monastici, che sollevò come era a credersi, cagioni di grande scontento. Che se molta parte del clero, anche con pubblici manifesti, fece ragione in sulle prime alla massima (e fu invero documento di carità civile); ebbe poscia, e giustamente, a lagnarsi della applicazione, per la quale dati quei beni in mano di cattivi economi,


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né le corporazioni religiose né il popolo cointeressato ne godettero i frutti, anzi e l'uno e le altre restarono destitute d'ogni sussidio. E notisi che nelle terre di Napoli dove la questua è eretta in sistema, usavano, ad esempio, i conventi, seguendo il costume antico, dispensare in determinate ore il cibo ai poveri: carità più fittizia che vera, ma pur carità. Ma gli è vezzo moderno distrugger sempre senza mai edificare, e mentre in paese dove la beneficenza restringevasi a quelle usanze da medio evo, avrebbesi dovuto anzitutto organizzare in sostituzione la beneficenza civile, e i redditi delle proprietà ecclesiastiche devolvere al mantenimento dei varii istituti; nulla fu fatto. —A tante cagioni atte a fomentare il mal animo, ultimo si aggiunse l'esclusivismo, inspiralo da Piazza Castello, là dove sarebbe stato più uopo di conciliazioni, e le velleità conciliative là dove la conciliazione era per se stessa impossibile. I molli ma uniformi luogotenenti di Napoli confusero le ragioni del contraddittorio e del contrario.

Le quali cose discorse, non sarà tanto da accagionarsi dei disordini avvenuti il popolo napoletano, quanto lo sgoverno di quelle provincie, che come Saturno divorò un dopo l'altro i suoi figli. In questo è la giusta riprova e la giusta condanna del sistema che doveva per logica illazione perdere ogni efficacia, ogni opinione nel pubblico, e non che acquistar simpatie ai governanti, creare intorno ad essi un'atmosfera d'indifferenza, ove non giungeva a suscitare l'animavversione.

Non ragioneremo particolarmente delle troppe luogotenenze di Napoli, ma scenderemo di botto a Cialdini, a cui finalmente scaddero i due poteri militari e civili, necessità di associazione reclamata da necessità di cose, come apparirà di leggieri da quanto più sopra esponemmo, e della quale abbiamo dello più specificatamente nell'altro nostro scritto: Cavour e Ricasoli.

Il successo conseguito a Napoli dal vincitore di Castelfidardo non vuoisi per cerio attribuire al Ministero, il quale non fu forse condotto da uria delicatezza prudente, ponendo in Napoli a capo delle cose l'autore della famosa lettera a Garibaldi. Solo il supremo bisogno di una guarentigia potente alla proprietà e alla sicurezza sempre più minacciata, potevano giustificare in faccia a Napoli la scelta, e solo la moderata e sapiente condotta del Generale valsero in breve tempo ad acquisirgli la simpatia e il cordiale appoggio del popolo. Cialdini se non fu minor del suo nome militare combattendo l'idra brigantesca, fu maggiore della sua fama politica nel governo civile delle provincie. Ei capì Napoli, questa sfinge, questa Sibilla dei suoi antecessori, e di questi seppe adire l'eredità tristissima col beneficio dell'inventario. Il segreto del suo successo fu l'indipendenza.


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Senza emanciparsi dalle pastoie centrali, gli sarebbe abortito l'effetto, e i mezzi gliene sarebbero stati contesi. Snidata la reazione dal suo covo, fosse in palazzo o in taverna, avviate regolari ma energiche procedure, egli intese alla conciliazione vera e possibile, porgendo la mano agli uomini così detti dell'azione, che lo concambiarono d'uguale lealtà, e per tal modo riparò generosamente un antico fallo che non fu forse suo L'amor proprio, la dignità del paese offesi ci rilevò con modi cavallereschi nella guardia nazionale e nel popolo; la prima delle quali, battezzala pel sangue dei briganti, era degna di stringere la destra agli espugnatori di Messina e Gaeta, ed il secondo per l'assunto contegno si dimostrava omai non indegno della nuova altezza civile. I seguitatori dell'antico sistema, quasi gelosi dell'impensato successo, si offrirono a sfruttarlo, e se Cialdini con sincerità troppo militare ebbe a rifiutarneli, ei salvò nondimeno in quella congiuntura Napoli e se stesso. Quegli uomini sedicenti della maggioranza, maggioranza che oggimai non esiste, ebbero ricorso agli aderenti che hanno non pochi nelle sfere dei ministerii centrali, per esautorare il generale e sopprimere la luogotenenza: cosi padroni del campo avrebbero più ortodossamente ristaurato il vecchio ordine di cose.

La proverbiale fermezza del Ricasoli parve venir meno rimpetto alle pressioni di un partito che conta molti accoliti negli uffici i ministeriali. La soppressione della luogotenenza per le provincie di Napoli che diconsi omai capaci di un organizzazione definitiva. e normale, è lo specioso pretesto mediante il quale si coonesta l'esautorazione del Generale. Se non fosse un pretesto, bisognerebbe dirlo stolto consiglio, perché la tranquillità e la rinata fiducia della capitale verso il governo sono effetto della condotta speciale di Cialdini e la condanna implicita dell'ordine antico di cose a cui s'intende ritornare; perché l'anormalità delle condizioni tuttora vigente in quelle provincie non può persuadere a chi ben vegga un'organizzazione definitiva; perché infine l'istituzione della luogotenenza è necessaria in Napoli, finché Roma non sia capo d'Italia, per la lontananza dal centro, non ultima cagione delle fallaci apprezziazioni e delle tarde relazioni, non che per l'importanza della città e del territorio. La determinazione in cui venne cosi inconsultamente il Ministero, torna doppiamente pericolosa ora che la reazione favorita a Roma, a Trieste, a Marsiglia minaccia un tentativo disperato ed estremo.

Pronosticano i diarii successore al Cialdini il Lamarmora: noi non ci fermeremo ad esaminare relativamente all'uomo la convenienza di tale sostituzione; ma vorremmo il Ministero si persuadesse intanto che il popolo di Napoli non si governa co' metodismi pedagogici, ma con parenesi quasi socratica.


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Gli è popolo vergine che ha tesori latenti di genio, d'intelletto, d'amore; bisogna concedere alla sua natura perché ti si abbandoni tutto nelle braccia. Ricordi il Ministero che il mondo non risulta di elementi simili, né di moti uniformi, ma che dalla varietà di questi e dalla disformità di quelli sorge l'unità e l'armonia. Nel fare l'Italia non rinneghi le leggi supreme della vita universa. Dal Moncenisio al Vulcano, a otto parallele di divario nel dimn, l'italianità sfuma nel razionalismo del nord o nella sensualità del mezzogiorno. Perché la vita italica possa equilibrarsi tra i due poli, è necessaria Roma: ma fino a quel giorno tentiamo almeno in transazioni reciproche le condizioni d'una precaria esistenza.

V. Salmini.










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