Eleaml


RIVISTA CONTEMPORANEA
POLITICA — FILOSOFIA — SCIENZE STORIA
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VOLUME VIGESIMOSECONDO
ANNO OTTAVO

TORINO
DALL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1860

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RASSEGNA POLITICA

Gli eventi incalzano e si succedono con una rapidità, che l'immaginazione stessa dura fatica a seguire: tutti i giorni nelle primarie città d'Europa, tutti chieggono delle notizie d'Italia, e tutti i giorni la curiosità è appagata da annunzi di nuovi avvenimenti. Ieri ancora si facevano congetture e pronostici sull'esito probabile dei negoziati per la conchiusione di un'alleanza tra le due estremità della penisola, e ognuno si domandava in qual guisa il governo del re Vittorio Emanuele si sarebbe cavato dall'impaccio, in cui quella serotina profferta di alleanza lo collocava. Oggi nessuno parla più dell'alleanza napolitana: era un fuoco fatuo, che per poco turbò gli occhi con l'effimera luce, e che ora si è dileguato per non più ricomparire. Il governo diede un ultimo saggio de’  suoi moderati intendimenti, pregando il Re a scrivere al generale Garibaldi per suggerirgli di non varcare la stretto di Messina, a condizione che la Sicilia fosse arbitra de’  suoi destini, e che il Governo napolitano riconoscesse anticipatamente la legittimità della sentenza che il popolo dell'isola fosse per pronunciare. Rispose con affettuosa riverenza il generale Garibaldi dichiarando non poter aderire al suggerimento, e dopo quel momento s'incomiciarono a ventilare nel mondo politico quali sarebbero state le probabilità di una spedizione in terraferma. Ma mentre si facevano tanti presupposti, i fatti già parlavano, e con la loro parola eloquente imponevano silenzio a tutte le congetture. Nel volgere di pochi giorni il Faro era passato, le Calabrie inalberavano lo stendardo nazionale; le truppe napolitano dopo breve combattere si scioglievano, e a Potenza in Basilicata, a Foggia in Capitanata, ad Avellino nei Principati echeggiava il grido Viva Vittorio Emanuele, governi provvisorii si costituivano, la decadenza di casa Borbone era pronunciata, e alla cadente dominazione del figlio di Ferdinando II non rimane più che breve spazio di territorio.


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Quegli avvenimenti parlano da sé, e perciò noi saremo più del solito sobrii di commenti. E poi fra tanta precipitazione di eventi, fra tanta ansietà ed aspettazione né i lettori tollererebbero lunghi discorsi, né noi saremmo in grado di scriverli. In ciò che succede devesi ravvisare anzitutto la onnipotenza dei giusti principii e della opinione pubblica, che ad essi rende omaggio. Che cosa non si diceva negli anni scorsi della sapienza di Ferdinando II, e del genio con cui egli aveva architettato l'edificio del dispotismo che sorgeva nel lembo meridionale d'Italia a tormento di quei poveri abitanti, a pericolo della italica nazionalità, a sfida contro l'Europa? mirate, si diceva, un principe che scampò dal naufragio del 1848 più vigoroso di prima, che ha messo a dovere i liberali, che ha resistito alla Francia ed all'Inghilterra, che non ha curato i consigli dell'Austria, che ha sempre risposto con sdegnosa noncuranza alle rimostranze del Piemonte! egli ha una marineria poderosa, un esercito formidabile, una falange di poliziotti al suo servizio: egli ha saputo mettere dal canto suo forti e numerosi interessi! e da ciò s'inferiva che quel dispotismo avesse una vitalità pressoché indestruttibile, una forza pressoché impossibile a debellare. C'est un Roi, dicevano non pochi francesi: e quando poche pagine dettate con la semplicità del galantuomo, da un illustre statista inglese, fecero il giro dell'Europa, gli ammiratori di Ferdinando II le schernirono, e tanti liberali pure, colpevoli di non aver fede nei principii e nella forza che da essi scaturiva, stringendosi nelle spalle dicevano: ci vogliono altro che le lettere del signor Gladstone per demolire l'edificio borbonico. Noi ci onoriamo di non aver mai dubitato della inevitabile caduta di quell'edificio: ci confortava in questa fede la certezza, che le sentenze della pubblica opinione tosto o tardi, ma infallibilmente, ricevono la loro esecuzione pratica. Quell'edificio torreggiante d'iniquità che pareva sfidasse gli uomini ed il cielo, oggi è crollato. Chi oserà più, dopo tanto esempio, decantare la forza del dispotismo? la poderosa marineria napolitana non ha impedito lo sbarco di poche centinaia di uomini a Marsala: il formidabile esercito napolitano non ha potuto frenare la marcia vittoriosa di quegli uomini a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo, a Reggio, al Piale. Mancarono forse a quella marineria, a quell'esercito le armi, le munizioni, le forze, il valore? no davvero: annoveravano alcuni capi di poca levatura, ma altri pure ne avevano, il Bosco, a cagion d'esempio, valorosi ed intelligenti. Com'è dunque avvenuto, che tanto apparato di forze sia sfumato nel volgere di pochi giorni? ciò è avvenuto, perché il numero dei soldati, la disciplina, il valore stesso possono poco o nulla,


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quando la forza morale della opinione non è con essi. Il Governo borbonico raccoglie ciò che ha seminato: negli ordini civili praticò la corruzione e la violenza, ed ora nei momenti del pericolo non ha trovato un amico: negli ordini militari predicò l'indisciplina, la insubordinazione premiando i soldati ed i bassi uffiziali che si facevano delatori dei loro capi, ed incoraggiandoli ad essere delatori, ed ora quei soldati non hanno potuto salvarlo dalla ruina. La caduta del Governo borbonico non è dunque solamente un trionfo segnalato del principio nazionale, ma è pure omaggio a quel principio morale, che né governi né popoli possono mai violare impunemente. Il sistema che ha finora imperato nell'Italia meridionale, forte per lo spergiuro e per la violenza, era ribellione flagrante contro la giustizia: finché visse Ferdinando II la ribellione ebbe forza di durare, perché tutto faceva capo a lui: quand'egli mancò furono visibili i segni precursori della cessazione di quella ribellione, perché ciò che non poggia sulla base inconcussa della morale, è cosa fortuita e passeggiera, come passa quaggiù l'uomo da cui trae l'origine. Se oggi Ferdinando II potesse alzare il capo dal sepolcro, vedrebbe i frutti dell'opera sua, e quale eredità legasse al figliuolo. La dominazione borbonica oggidì è nella medesima condizione, in cui era Ferdinando II negli ultimi mesi della sua vita; un medico illustre, che oggi non è più, interrogato sulla malattia di quel Re, rispose: Iddio lo ha condannato a rimirare il proprio cadavere. La tragica eloquenza di quel motto ritraeva al vivo la condizione fisica dell'infermo. Oggi chi è che leggendo i ragguagli del subitaneo e successivo disfacimento, irrimediabile ed ignominioso, della dominazione borbonica non possa esclamare con certezza di colpire nel segno, che la dominazione borbonica è condannata a rimirare il proprio sfacelo? Cosi sta per finire la monarchia fondata da Carlo III, gloriosamente da lui battezzata a Velletri, infamata poi dagli eccidii del 1799, e irremissibilmente condannata dopo gli spergiuri del 1820 e del 1848. Non aggiungiamo parola: il giusto e severo giudizio di Dio ha pronunciato, a noi non rimane che inchinarci ad esso, ed augurare che su quelle rovine sorga, simbolo benedetto di riparazione e del riscatto nazionale, la candida croce di Savoia fregiata dagli italici colori.

Né ci faremo a discutere, se un'ultima calamità sia serbala alla misera Napoli, e quali probabilità di riuscita possa avere un estremo disperato tentativo di resistenza della morente dominazione. Forse quando le pagine che oggi scriviamo, saranno divulgate per la stampa, il doloroso problema sarà già sciolto. Le dissertazioni adunque quanto incresciose all'animo nostro tornerebbero all'intuito inutili,


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 e quindi non faremo altro se non rendere omaggio di schietta lode alla lettera che in data de’  24 agosto il conte Leopoldo di Siracusa indirizzava al suo nipote Francesco II, esortandolo a togliere ogni cagione di ulteriore effusione di sangue, scendendo dal trono. È una lettera che commuove profondamente l'animo di chi la legge, perché informata da nobilissimi sensi «Sire salvate la nostra casa dalle maledizioni dell'Italia!» In questa esortazione è tutta la mestizia di chi ravvisa giunta l'ora della catastrofe preveduta, è tutta la tristezza di chi a tempo opportuno diede non ascoltati consigli. Questo è un documento, che la storia deve conservare. Noi lo riferiamo per intiero;


SIRE,

«Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che sovrastavano la Nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che presaga di maggiori sventure trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio.

«Le mutate condizioni d'Italia, ed il sentimento dell'unità nazionale, fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al Governo di V. M. quella forza onde si reggono gli Stati, e rendettero impossibile la Lega col Piemonte. Le popolazioni dell'Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero co’  loro voti gli ambasciatori di Napoli; e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze, ed in preda al risentimento delle moltitudini, che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di esterminio lanciato contro la Nostra Casa, fatta segno all'universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già invade le provincie del continente, travolgerà seco la Dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del Reame; e Voi, un dì speranza ed amore dei popoli, sarete riguardato con orrore, unica cagione di una guerra fratricida.

«Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra regale congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile sciolse i sudditi dall'obbedienza, e li fece arbitri dei proprii destini. L'Europa ed i vostri popoli vi terranno conto del sublime sagrifizio; e Voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della patria, e Voi benedirete il giorno in cui generosamente vi sagrificaste alla grandezza d'Italia.


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«Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato che la mia esperienza m'impone; e prego Iddio che possa illuminarvi, e fervi meritevole delle sue benedizioni».

Napoli,24 agosto 1860.

Di V. M.

Affezionatissimo zio

LEOPOLDO, conte di Siracusa


La questione dell'Italia meridionale tocca adunque al suo stadio decisivo, e mediante il suo scioglimento, la causa nazionale avrà fatto un nuovo ed immenso passo. Ma l'Europa, diranno taluni, si acconcerà essa a questa nuova condizione di cose, e darà il suo beneplacito alla unione dell'Italia meridionale alla settentrionale, ed a tanta parte di quella del centro? se per Europa s'intenda l'opinione pubblica, noi rispondiamo francamente che si, poiché quest'opinione è propizia agli sforzi che noi facciamo per venire in essere di nazione, ed è presaga della preziosa forza che la civiltà acquisterà nell'Italia ordinata a nazione. Se poi per Europa si vuole intendere la diplomazia, la nostra risposta a quella interrogazione non è nemmeno dubbiosa. L'altro giorno l'imperatore dei Francesi nella sua lettera al conte di Persigny, ieri la regina d'Inghilterra nel discorso con cui prorogava la sessione legislativa del Parlamento britannico hanno rinnovato la dichiarazione, che non vi sarebbe intervento estero in Italia. Quando le due grandi potenze occidentali usano questo linguaggio, è chiaro come il sole che intervento non ci sarà, poiché nessuno oserà fare ciò che esse non fanno, né esse tollererebbero che altri facesse ciò che esse hanno risoluto di non fare. Ciò per noi è tutto, il principio del non intervento è la nostra guarentigia: la diplomazia può dare consigli contrarii all'attuazione dell'unità, può direi che facciamo male a promuoverla, ma quando in pari tempo ci assicura che nessuno interverrà, è evidente che ci lascia la libertà di azione, e che implicitamente essa accetta anche l'ordinamento della nostra unità. L'opinione pubblica dell'Europa adunque è propizia ai nostri desiderii, e la diplomazia o non li avversa, oppure si limita a ciò fare nella sfera dei consigli e delle influenze politiche. Da che noi inferiamo risolutamente che l'Italia oggi se vuoi essere davvero nazione non ha che a volerlo davvero, e che se non raggiungeremo l'intento, la colpa sarà esclusivamente nostra e non di altri. La via per conseguire la desiderata meta non è certamente senza ostacoli e senza difficoltà, ma in pari tempo non è nuova: e quindi non sarà malagevole il batterla. Lo splendido esempio di costanza e di ostinazione dato dall'Italia centrale dal luglio 1859


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al marzo 1860 è la bussola che deve guidare il moto nazionale nell'Italia del mezzodì. La carità della patria ed il fermo proposito che abbiamo di non nuocere con inopportune polemiche all'andamento propizio delle cose italiane c'impongono il debito di non esprimere i nostri timori e le nostre ansietà. Diciamo soltanto, che Palermo e Napoli per meritare la sorte di Firenze e di Parma e delle altre città del centro d'Italia, debbono conquistarsela con le stesse virtù con cui queste la conquistarono. Con ciò non intendiamo né punto né poco di asserire che il Governo del re Vittorio Emanuele abbia a starsene spettatore inerte od indifferente di ciò che succede di là dal Tronto e dal Faro. Questo governo ha stretti obblighi verso la causa nazionale, verso la casa di Savoia, verso l'immensa maggioranza che finora con tanta abnegazione e disciplinato zelo lo ha sorretto: a questi obblighi non deve mancare, ed il giorno in cui fosse persuaso di non avere più facoltà di mantenerli dovrebbe cedere ad altri il maneggio delle pubbliche faccende. Per buona ventura ciò che ora noi esprimiamo a modo d'ipotesi è fatto, intorno a cui non abbiamo dubbio veruno. Noi abbiamo certezza che i consiglieri della corona comprendono la gravità della posizione in cui essi si trovano, e sapranno avere all'uopo risoluzioni per l'audacia e per la prudenza pari alle grandi difficoltà. Gli uomini che nel 1855 rialzarono gloriosamente sulle rive della Cernaja il vessillo gloriosamente caduto su quelle dell'Agogna, che nel Congresso del 1856 fecero salire la questione italiana all'altezza di necessità europea, che nel 1859 trapiantarono quel vessillo dal Ticino al Mincio, e che nel 1860 lo hanno fatto sventolare sull'Arno ed alla Cattolica, quegli uomini non saranno inferiori ai destini d'Italia ed a loro medesimi a pie dell'Etna e del Vesuvio. Il senno e la concordia degl'Italiani fanno pronta e severa giustizia dei maneggi d'incorreggibili settarii e di pretendenti: e l'Italia sarà!

Tuttociò che si è detto in questi ultimi giorni intorno al contegno dell'Austria non scuote la nostra fede, non scema le nostre speranze. L'Austria avrebbe di certo una matta voglia di smettere dal raccoglimento, a cui la condannarono Magenta, Palestre è Solferino: ma non sempre si può ciò che si vuole, e l'Austria del conte Rechberg non è più onnipotente di quella del conte Buol. La fantasmagoria delle viribus unitis si è dileguata con la morte del principe di Schwarzemberg, e l'alterigia di Olmutz è già espiata dalla umiliazione di Toeplitz e preparata forse a maggiore espiazione nel progettato, ma non ancora attuato, abboccamento di Varsavia. A Toeplitz Francesco Giuseppe ha implorato pietà da quel governo che così disdegnosamente trattò ad Olmutz:


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l'opera del principe di Schwarzemberg venne disfatta dal conte Rechberg, ed il principe d'Hobenzollern ha preso la rivincita dello scacco patito dal conte di Manteuffel. Le gazzette austriache ed austriacanti hanno menato gran rumore delle concessioni, che secondo le loro asserzioni, il principe reggente di Prussia avrebbe fatte all'imperatore Francesco Giuseppe: e pur troppo pare che la Prussia abbia avuta la debolezza di impegnarsi a non riconoscere prima dell'Austria le annessioni passate o future in Italia ed a promettere alleanza offensiva e difensiva in caso di guerra contro la Francia, e che senza concedere la guarentigia della Venezia, abbia ammesso in massima essere la conservazione della dominazione austriaca nella Venezia giovevole agli interessi della confederazione germanica. Ma questi impegni e questa promessa non sono finora che verbali, e tutti sanno che in Germania il passaggio dal concetto all'azione non è né rapido, né immediato: e noi confidiamo che fino a quando sarà a Berlino una libera ringhiera, la voce dei rappresentanti della nazione richiamerà i rettori della Sprea alla coscienza dei veri interessi germanici e ricorderà ad essi che la solidarietà tra la Prussia e l'Austria non è la vita, ma la morte della nazionalità tedesca, e che l'Italia unita e forte sarà la miglior guarentigia che l'Alemagna possa avere per la sua indipendenza e per la sua libertà. Il chiasso adunque che si è fatto a Vienna per il colloquio di Toeplitz rassomiglia molto a quelle clamorose melodie, a cui si abbandonano coloro che la sera tardi passeggiando per le strade vogliono nascondere la paura che li tormenta: né quel chiasso è bastato a dissimulare la poca soddisfazione che il contegno dell'Ungheria desta nell'animo dei rettori viennesi. A Pest come a Venezia è la stessa aspirazione: è lo spirito di nazionalità che fa impallidire i carcerieri e compone a terrore l'animo dei dominatori. L'Austria essendo non una nazione ma un governo, non può reggere all'urto del principio di nazionalità, di cui essa è la negazione: questo è l'intrinseco ed incurabile tarlo che la rode e la condanna a debolezza, che la conduce a morte inevitabile. Se fosse forte davvero, come tuttodì spacciano i suoi apologisti, si preoccuperebbe forse tanto delle cose d'Italia? Vanno sempre millantando, che quando vorranno porranno gl'Italiani alla ragione, e frattanto negli atti e nei detti contraddicono nel modo più palpabile la propria millanteria. Uno di questi giorni è piaciuto al governo francese di proporre all'Europa di annoverare la Spagna fra le grandi potenze: il governo prussiano ha opportunamente risposto, che concedendo quest'onore alla Spagna, sarebbe d'uopo per non turbare l'equilibrio religioso di concederlo in pari tempo alla Svezia:


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il governo inglese ha saviamente risposto, che al Portogallo non si potrebbe ragionevolmente rifiutare ciò che si accorderebbe alla Spagna, e che l'Italia avrebbe tutte le ragioni di reclamare la stessa prerogativa: il governo austriaco invece, che non ha smessa la speranza di vedere rivivere un bel giorno nell'Escuriale il bieco genio di Filippo II, ha detto subito di si, ma si è affrettato a soggiungere che con ciò non intendeva menomamente creare un antecedente a pro di altri Stati. Non li nominava questi Stati, ma attraverso gli artificii della rettorica diplomatica della cancelleria aulica era agevole scorgere che si faceva allusione all'Italia, di cui non si vuole a nessun patto. L'Italia dà loro tanto fastidio, e lasciano ciò intravedere perfino nelle loro reticenze: e frattanto dicono e ripetono che al momento opportuno la metteranno al dovere. Saremmo curiosi di vedere qual linguaggio sarà per tenere il conte di Rechberg, allorché saprà che Vittorio Emanuele regna sulle Puglie e sulle Calabrie, sugli Abruzzi e sulla Sicilia, come già regna a dispetto dell'Austria sulla Toscana e sulle Romagne. La riserva contro la nuova grande potenza sarà allora un po' più difficile. A noi quindi non ha arrecato nessuna sorta di stupore il leggere nei rendiconti delle tornate del Parlamento britannico, che la sera del 24 agosto lord Palmerston rispondendo alle interrogazioni di un onorevole deputato, abbia dichiarato esser persuaso che il governo austriaco non violerebbe il principio del non intervento, e si asterrebbe dal pigliare la iniziativa delle offese contro l'Italia. Questa determinazione non ci ha né sorpresi, né stupiti: l'Austria ha da pensare a casi suoi, e dopo averci reso nel 1859 il servizio di passare il Ticino non ci renderà nel 1860 quello di valicare il Mincio. Nelle condizioni nelle quali oggi è collocata l'Austria non può impedire l'ordinamento dell'Italia a nazione: e perciò dichiara di non volerci assalire. In questo proposito inoltre è un calcolo che gl'Italiani hanno già sventato per lo passato, e confidiamo siano per isventare anche per l'avvenire. L'Austria fa assegnamento su i nostri dissidii interni, su i maneggi di certi partiti, sull'anarchia che sarebbe la funesta conseguenza se per mala nostra ventura quei dissidii e quei maneggi avessero a prevalere. È un calcolo che non è di certo esente da perfidia, ma che non è neppure senza scaltrezza: e sarebbe fondato, se l'esempio glorioso dato dalla Toscana, da Parma, dalla Romagna e da Modena dal giorno della pace di Villafranca sino a quello in cui la proclamata annessioue pose fine allo stato provvisorio delle cose in quelle provincie, se quell'esempio non fosse tuttora fresco a dimostrare irrefragabilmente che i tempi nei quali l'Austria poteva speculare sulla dissennatezza degl'Italiani ed usufruttuarla peri suoi protervi intenti, sono passati e passati irrevocabilmente.


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È cosa indubitata che se le opinioni e le massime enunciate in certi manifesti, se certe formole aragonesi trovassero buona accoglienza presso gl'Italiani e fossero tradotte nella pratica, l'Austria non si apporrebbe in falso, poiché il suo calcolo riuscirebbe e la causa nostra sarebbe spacciata. Ma la pubblicità data a quelle formole ed a quelle massime è più che bastata a dimostrare in qual conto siano tenute dagl'Italiani: e ciò dovrebbe far persuasa l'Austria, che i suoi alleati hanno perduta la facoltà di giovarle, e che facendo quel calcolo, essa fa proprio i conti senza l'oste, il quale questa volta è il senno italiano.

Torniamo dunque al nostro assunto, e diciamo che oggi il vento spira propizio per noi, giacché gli amici ci lascian fare, ed i nemici non possono impedirci dal fare: di che cosa abbiam dunque d'uopo per sortire l'intento ed attuare il desiderio italiano? della perseveranza nel sagrifizio, nel senno, nella concordia.

Anche i recenti casi d'Oriente valgono a dimostrare all'Europa come assicurando la pace d'Italia, vale a dire ordinandola a nazione (poiché senza questa condizione sine qua non pace non sarà mai), si procaccia alla civiltà una nuova forza, col sussidio della quale il formidabile problema -orientale finirà con essere sciolto secondo giustizia, ed in conformità de’  veri interessi della cristianità e della civiltà. I protocolli firmati a Parigi nei primi di questo mese dai ' rappresentanti della Francia, dell'Inghilterra, della Russia, della Prussia, della Turchia e dell'Austria hanno forse provveduto al male presente ed immediato, ma vi ha forse qualcuno in Europa il quale creda sul serio che con essi saranno prevenute ulteriori calamità, ed assicurata la sorte dei poveri cristiani? Lord Palmerston ha potuto decantare recentemente la vitalità dell'impero ottomano, e tesser l'encomio di Fuad bascià per la energia di cui ha dato saggio in Siria infliggendo severe e meritate punizioni agli autori de’  nefandi assassinii commessi nel mese scorso: ma questa volta, come per lo passato, né in Inghilterra né altrove l'ottimismo dell'arguto ministro non farà illusione a chiunque sa che l'impero turco è colpito da una paralisi e da un languore che come non sono state guarite dagli hatti-humayum e dall'annessione della Turchia nel concerto europeo, cosi non avranno rimedio né per i protocolli di Parigi, né per le spedizioni di truppe, né per l'energia di Fuad-bascià. Questi sono palliativi, ma il male dura, persiste e crescerà finché non giunga l'ora fatale. Ciò sta scritto a caratteri visibilissimi nel libro del destino. E difatti mentre l'impressione di ribrezzo e di orrore universalmente prodotta dalle nuove dei massacri di Siria non era ancora dileguata, già altre notizie provenienti da altre provincie soggette alla dominazione musulmana


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porgono argomento d'impressioni dello stesso genere. Nell'Erzegovina i Turchi non trattano i Cristiani meglio di ciò che in Siria abbiano fatto i Drusi verso i Maroniti. Nel Montenegro un assassino ha ferito a morte ed ucciso il principe Danilo. In questo misfatto non entra, da quanto si asserisce, nessuna ragione politica: ma pongasi pure che ciò sia, chi può negare che come in certe date condizioni atmosferiche tutte le malattie assumono la stessa forma, così in certe date condizioni politiche del pari anche i delitti cagionati da motivi deprivato risentimento pigliano la veste politica o religiosa? L'uccisione dell'uladika ha riacceso le ire dei Montenegrini contro i Musulmani, e l'omicida prima di consumare il misfatto viveva in Costantinopoli. L'Europa civile perciò tosto o tardi sarà costretta dalla forza delle cosca cercare alla questione orientale, che tuttodì si complica e si aggrava, uno scioglimento che non sia come tutti quelli tentati finora, né una rappezzatura, né un provvedimento temporaneo, ma bensì uno scioglimento durevole: e nulla sarà durevole che non sia conforme all'equità, che non faccia sparire dal territorio europeo la mezzaluna, simbolo di una dominazione barbara, che dopo avere contristata l'Europa, oggi è impotente a reggersi e si sfascia da tutte le parti. L'ora fatale suonerà; ed allora se l'Italia sarà ordinata e forte, l'opera della civiltà sarà agevolata di molto. Ecco perché noi andiamo continuamente ripetendo, che provvedendo all'ordinamento dell'italiana nazionalità l'Europa provvede alle proprie sorti, alla propria sicurezza, al trionfo della civiltà. L'Austria non governa la Venezia, ma la manomette come una località dove si tiene accampamento: il giorno in cui l'Austria non sarà più accampata in Italia sarà apparecchio a quello in cui il Turco cesserà di essere accampato in Europa. I due problemi si connettono strettamente, e lo scioglimento del problema italiano renderà non solo sicuro, ma più agevole lo scioglimento del problema orientale.

Torino, 31 agosto 1860.

Giuseppe Massari.






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