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RIVISTA CONTEMPORANEA
POLITICA — FILOSOFIA — SCIENZE STORIA
LETTERATURA — POESIA — ROMANZI VIAGGI — CRITICA
BIBLIOGRAFIA — BELLE ARTI
VOLUME VIGESIMOSECONDO
ANNO OTTAVO

TORINO
DALL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1860

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RASSEGNA POLITICA

Come aveva ragione il conte di Clarendon, allorché nell'aprile del 1856 discorrendo del trattato conchiuso a Parigi il 30 marzo di quel­l'anno diceva quella essere non la pace, ma una pace! I quattro anni decorsi da quell'epoca hanno somministrato ampii e categorici com­menti alle parole dell'illustre ex-ministro britannico; ed oggi esse appaiono, quali in realtà furono, veramente fatidiche. Mediante il trattato dei 30 marzo si voleva assicurata la sorte dei Cristiani di Oriente, tutelata la Turchia dalle aggressioni del potente vicino, guarentita in tal guisa la pace del mondo, consolidato l'equilibrio europeo: questo era l'intendimento dei negoziatori di quel trattato, ed a taluno di essi pareva, per dirla con una locuzione familiare, di aver toccato il cielo col dito, perché erasi ammessa la Turchia nel concerto europeo e perché con la neutralizzazione del mar Nero era stata limitata la potenza navale della Russia. In qual guisa gli eventi abbiano corrisposto a quelle speranze dicono oggi i fatti con una evidenza ohe sovrasta a qualsivoglia dimostrazione: dovunque si volga lo sguardo in Oriente, come in Occidente si ravvisano in­dizii, che accennano a ben altra cosa che non sia una pace dure­vole e sicura. Altro che aver la pace, non vi è nemmeno una pace; e l'altr'ieri, in pieno Parlamento, il primo ministro di una delle maggiori nazioni del globo ha stimato poter affermare senza paura di mancare al debito della riservatezza diplomatica essere l'orizzonte europeo carico di nubi, ed il suo aspetto presagire prossime tempeste! In Oriente il fanatismo musulmano si è ridestato con cresciuta fero­cia, e mena orrendo scempio dei. poveri Cristiani: nell'estremità meridionale dell'Italia scorre il sangue e micidiali zuffe sono com­battute fra soldati che parlano la stessa lingua e sono figli della stessa patria: in Alemagna covano mali umori, sospetti e diffidenze,


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e si fa ogni opera per evocare dal sepolcro l'antica ed empiamente detta santa alleanza, affacciando ad ogni tratto la minaccia della invasione francese sul Reno; in Inghilterra le prevenzioni ed i so­spetti contro i disegni della Francia non furono mai più vive, né espresse con risentimento maggiore: dovunque ci è poca soddisfa­zione per le condizioni di oggi, ed affannosa incertezza per quelle di domani. Questa, se non c'inganniamo, è la situazione attuale del­l'Europa. La fede dei quaccheri e dej componenti la società degli amici della pace è posta a terribile esperimento: ma noi che non abbiamo mai creduto a quella generosa utopia, rinunciamo al poco invidiabile vanto di aver preveduto cosifatta condizione di cose, e soltanto ricordiamo che potei doveva succedere e così succederà sem­pre, finché le ragioni supreme della giustizia e del diritto non ab­biano avuta quella soddisfazione, che finora indarno reclamano da tanto volger di tempo. Con gli interventi e con gli espedienti si conseguirà una pace, che sarà com'è l'odierna, precaria ed effimera, ma non si otterrà mai la pace, quella cui tutta la onesta gente anela, e che non può trarre la sua origine da altra fonte, se non dal trionfo della giustizia.

La notizia dei luttuosi casi di Siria, che tanta e così giusta commozione ha destato in tutto il mondo Incivilito, non ha però prodotto nessuna sorpresa, e non poteva produrre questo sentimento, poiché sorprendono gli avvenimenti inaspettati, non quelli che si preveggono. Come aspettarsi che ad un tratto i Musulmani faccian senno e com­prendano e, ciò che più vale, pratichino il principio e le massime della tolleranza? Come supporre che un articolo di trattato, una clau­sola di convenzione abbiano facoltà di mutare i costumi, di schian­tare inveterati pregiudizii dalla loro radice, di spegnere il fanatismo? Come nutrir lusinga che un governo debole, e che tuttodì va sempre più sfasciandosi come l'ottomano, possa far osservare i patti da esso sti­pulati con gli altri governi? L'articolo famoso del trattato del 30 marzo 1856, in virtù del quale la Turchia era ammessa nel concerto euro­peo, poté essere un atto di cortesia verso il Sultano, ma non operò di certo il portento di rendere all'impero ottomano la vitalità perduta, né soffiarvi dentro l'alito vivificatore della civiltà cristiana. Le stesse riforme annunciate e promulgate dal Sultano, la cui buona fede ed i cui miti sensi siamo alieni dal rivogare m dubbio, mentre accre­scevano le cagioni di disfacimento dell'impero non giovavano ai po­veri cristiani che nelle parole e sulla carta, non nella realità.


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Ieri la carnificina di Gedda diceva abbastanza in qual guisa gli islamiti comprendano e praticano la tolleranza: oggi i massacri di Siria di­mostran qual genere d'interpretazione diano i Drusi all'hatti-humayum; domani, se non ci si provvede a tempo opportuno, vale a dire pron­tamente, nuove stragi diranno che cosa la civiltà cristiana abbia a sperare dall'impero, che per decreto del congresso del 1856 venne privilegiato dell'onore di far parte del concerto europeo. I casi di Siria sono un nuovo e terribile monito, ed il gran parlare che in questi ultimi gnomi se ne è fatto ci affida che non andrà perduto. La Francia, l'Inghilterra, l'Italia hanno speso tesori, hanno versato il sangue dei loro più eletti soldati per tutelare l'impero ottomano dall'aggressione della Russia: tanti sagrifizii non debbono essere stati satti invano: sulle tombe dei prodi, che caddero in Crimea, sta scritto il diritto supremo che ha l'Europa di non tollerare di vantaggio lo strazio delle genti cristiane in Oriente. Se nelle faccende interne dei singoli Stati civili l'intervento è un abuso e la negazione della indipendenza, nel caso di cui discorriamo, è debito verso la civiltà. La questione di supremazia politica deve cedere il posto alle inderminabili considerazioni di umanità e di giustizia: né sapremmo comprendere come i casi di Siria possano formare argomento di dissidio fra la Francia e l'Inghilterra. L'interesse delle due potenze di questa occasione non può essere che un solo, quello della civiltà. Esse non tanno voluto permettere — ed hanno avuto ragione — che la Russia diventasse arbitra dello scioglimento della questione orientale: ma non hanno nemmeno potuto volere che la condizione delle cose avesse ad essere cosi orribile e deplorando com'è oggi. L'imperatore Nicolo errò nell'arrogarsi il diritto di raccogliere la eredità dell'uomo ammalato, ma non errò per fermo nel diagnostico che fece della grave incurabile infermità, da cui quell'uomo è travagliato. Noi dunque crediamo che i casi di Siria hanno posta in maggiore risalto la necessità di provvedete all'assettamento delle cose orientali, ed auguriamo che invece di togliere da ciò occasione di divergenze e di conflitti le potenze civili vi ravviseranno nuova ragione di procedere ad accordi a vantaggio della causa della civiltà.

Le dolorose preoccupazioni giustamente cagionate dalle notizie d'Oriente hanno distolto, ma per poco, l'attenzione dell'Europa dalla Italia. Per alcuni giorni non si è parlato più né della Sicilia, di Napoli, ma fu brevissimo intervallo: oggi più che mai gli sguardi di tutti sono rivolti a quelle due provincie della nostra patria,


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ed anzi trascorsi appena i primi momenti di sdegno e di afflizione per i casi di Siria, si comprende meglio che prima, che tra la questione orientale e la italiana, ci sono non poche correlazioni, e che la tranquillità dell'Italia è la miglior guarentigia del trionfo della civiltà in Oriente. Ma come conseguire quella tranquillità? la risposta a questa interrogazione è luminosamente scritta negli ultimi avvenimenti: appagando i legittimi desiderii degl'Italiani, ordinando l'Italia secondo giustizia e sull'inconcusso fondamento del sacro prin­cipio di nazionalità. L'Italia divisa e debole è pericolo permanente, è sorgente di fastidii e di guai senza fine per l'Europa: si vuol ri­muovere davvero questo pericolo? sia l'Italia unita e forte. Questo argomento venne allegato con prospero successo, allorché pendeva la questione dell'Italia centrale: oggi esso non può essere adoperato con efficacia minore rispetto alla questione dell'Italia meridionale. Per variare di zone o di latitudini, la verità politica testé enunciata non muta: né si potrebbe senza commettere un errore ed un fallo ripudiare per Napoli e Palermo il benefizio del principio invocato e conseguito a Firenze ed a Bologna. Ci si dirà che come dopo Fi­renze e Bologna sono venute Palermo e Napoli, così dopo queste verranno Ancona e Perugia, e dopo queste Mantova e Venezia: ma questa stessa obiezione giova a corroborare potentemente la validità del nostro assunto. Bisognava pensarci prima di-cominciare; ma ora che si è incominciato non ci è più verso di fermarsi. Le questioni politiche, e segnatamente le nazionali, non si possono circoscrivere a capriccio né per disegno premeditato: nessuno può dire, una volta che le dighe sieno aperte, qui la fiumana ha da far sosta: folle sa­rebbe chi volesse tentar questa impresa: la fiumana lo travolgerebbe nel suo rapido corso e lo affogherebbe, immancabilmente. Il fiume va a prender pace nel mare, ed oggi il fiume del movimento ita­liano non può prender pace che nel gran mare della nazionalità. Ciò premesso ci pare evidente che l'interesse dell'Europa richiegga si dia forza al Governo del re Vittorio Emanuele, il quale incar­nando in sé vigorosamente il principio della nazionalità è ad un tempo stesso fattore di libertà ed elemento di ordine. Osteggiando quel Governo l'Europa noti gioverebbe per fermo gl'interessi dell'or­dine e dell'equilibrio; ma quelli del sistema opposto. Ciò è indubi­tato: fino ad oggi forse si poteva impugnare questa verità, ma ora la sua evidenza è palpabile e lampante: ed i soli che non la veggono sono proprio quelli che arrecano lusso di buona volontà a non vederla.


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Allorché la Lombardia venne per la forza delle armi emancipata dal giogo straniero e restituita all'italica famiglia; allorché l'Italia cen­trale per mirabile perseveranza de’ popoli conquistò lo stesso privile­gio, le dubbiezze sull'avvenire di tutta la penisola italiana cessarono. Ognuno comprese che si doveva, che si sarebbe andato innanzi: po­teva dissertarsi sulla maggiore o minore rapidità del movimento, ma nessun uomo di buon senso poteva credere che il movimento si sa­rebbe ad un tratto arrestato. È una legge storica: si avvera oggi in Italia, come si sarebbe avverata presso qualsivoglia altra nazione che si fosse trovata nella medesima condizione. Ben sappiamo che non si è mancato nemmeno questa tolta di evocare la solita fantasma­goria della propaganda piemontese: ma davvero ci stimiamo dispen­sati dall'allegare tutte le ragioni che chiariscono la insussistenza di quell'accusa, la quale, tra parentesi, non crediamo sia fatta sul serio. La propaganda piemontese, vale a dire, per chiamar le cose con i yen loro nomi, la propaganda nazionale non. 6 stata fatta, né si fa dal Governo del re Vittorio Emanuele che ad un solo modo: con la sua lealtà, con la sua fede intemerata, col semplice ma grandioso fatto della sua esistenza. E ad essa propaganda fu valido ed efficacissimo sussidio il contegno degli altri Governi della penisola sordi a qual­sivoglia umano e savio consiglio, ritrosi ad ogni civile riforma, schiavi incorreggibili dell'Austria. L'idea nazionale grandeggiò tra le per­secuzioni, fu alimentata dal martirio. Le arti adoprate dai gover­nanti per contrastare al progresso di quell'idea ne hanno accelerato il trionfo. Si ricordi che cosa fosse il governo di Napoli nell'ultimo decennio, e poi, se se ne ha coraggio, si parli pure della propa­ganda piemontese!

La questione adunque dell'Italia meridionale non può essere sciolta né definita con criterio diverso da quello, con cui venne feli­cemente sciolta ed equamente definita quella dell'Italia centrale: e lo svolgersi successivo degli avvenimenti in quella estremità della no­stra penisola da ragione, e la darà meglio ancora in avvenire non remoto al» nostro modo di vedere e di giudicare. Il repentino muta­mento avvenuto nei consigli della corte di Napoli non ha di certo aiutato l'andamento delle cose. Una bella mattina i Napolitani si sono svegliati; e sulle' mura della loro bellissima città hanno veduto un proclama, con cui Francesco II annunziava ai suoi popoli l'in­tendimento di largire una costituzione, di maritare il giglio borbo­nico coi colori italici, di collegarsi m amicizia col re Vittorio Emanuele.


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Avresti detto che a quell'annunzio, alla vista dei difetti e sospirati colorì nazionali la città ed il reame si sarebbero commosse profondamente: avresti detto ohe al primo ricomparire del sole su quel firmamento da dodici anni orafo di qualsivoglia luce di libertà, le agre pupille di tanti milioni dì travagliati Italiani si sarebbero schiuse con gioia ad allegrarsi dei divini raggi. Ma no; ciò non è succeduto: lo straniero, che ignaro degli avvenimenti. avesse pas­seggiato per Napoli il giorno e la sera del 25 giugno 1860, non solo non avrebbe ravvisato nessun indizio di gioia popolare, non solo non avrebbe mai supposto di vivere in un giorno che segnasse i primordii del riscatto di un popolo, ma avrebbe detto in cuor suo: questo è un popolo che attende con indifferenza alla sue faccende come tutti i giorni, e non ha nessuna ragione di letizia. In tal guisa, sia detto ad onor del vero e a lode de’ Napoletani, essi accolsero le promesse del secondo Francesco: ma non avevano accolte così nè quelle dell'avo nel luglio 1820, nè quelle del padre del gen­naio 1848: furono vittima allora della loro buona fede; non vogliono esserlo più oggi: chi oserebbe dire che hanno torto? spuntò pure un sorriso sulle labbra dei Napolitani leggendo l'atto sovrano del 25 giu­gno 1860: ma non fu quello della esultanza, fu il sorriso severo della sfiducia. Il rampollo di Enrico e di Carlo come diceva in istile poetico nel 1830 il buon Gabriele Rossetti, ascendendo al trono, dichiarò ac­cettare l'eredità paterna, e nel primo anno del suo regno l'ha gelosa­mente custodita ed ampliata: oggi egli riaccoglie la messe delle sue e delle paterne opere. Né può muovere lagnanza. La fiducia non si comanda; nè la sfiducia alimentate da immani fatti e da tenaci in­giustizie può essere schiantata da una parola. La lagrimosa storia di ieri rende legione del contegno che oggi serbano i Napolitani. Torniamo a ripeterlo: non ci può essere un galantuomo il quale si faccia a muoverne loro rampogna. Essi hanno fatto ciò che dove­vamo: non hanno obbedito ad un risentimento, ma hanno ascoltto la voce non ingannevole dall'istinto naturale dell'onestà: ed hanno provveduto in tal guisa alla loro dignità. Nei Consigli della Corona seggono uomini ohe tutti onorano e riveriscono: ma nemmeno essi hanno avuto facoltà di distruggere il sentimento universale di sfi­ducia. Nol potevano, perché lo stesso uomo onesto non può operare l'impossibile, non può fare che ciò ohe è non sia. Sono gente di buona fede; ebbene saranno le prime vittime: dal palazzo San Gia­como passeranno come Poerio nella galera di Montesarchio, o come Conforti nell'esiglio.


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 Ecco ciò che dice il paese. Torniamolo a ridire: chi oserà pretendere che così dicendo il paese abbia torto?

In questa condizione di cose il Governo Napolitano ha richiesto di alleanza quello del re Vittorio Emanuele, ed ha spedito a Torino il ministro di finanza Giovanni Manna ed il barone Antonio Winspeare con incarico di procedere a negoziazioni rivolte a conseguire quello scopo. Oggi il Governo del re Vittorio Emanuele raccoglie la fiducia di tutti gl'Italiani, ed è naturale che chiunque bramai di accattivarsi popolarità invochi e ricerchi l'amicizia dell'onesto e nazionale go­verno. L'anno scorso, nel mese di maggio, non sì tosto i telegrammi elettrici recarono l'annuncio della morte di Ferdinando II, il nostro Governo si affrettava a spedire a Napoli legato straordinario il conte Ruggero di Salmour latore di savii e nazionali consigli, ed incari­cato di fare ogni opera perché il Governo partenopeo concorresse alla guerra, ohe per l'indipendenza d'Italia, Francia e Piemonte in­sieme combattevano. Francesco II saliva sul trono: era figlio di una virtuosa e santa principessa di casa Savoia, la regina Maria Cristina, ed era puro di antecedenti: quale occasione più propizia per iniziare il nuovo regno con fàustissimi auspicii? ed allora tal fiducia comec­ché non facile ad ottenersi, era però possibile, ed in breve volger di tempo sarebbe divenuta certa. Il Governo Sardo faceva atto di conciliazione scordando le antiche offese: il popolo napoletano avrebbe imitato l'esempio. Andò a Napoli il conte di Salmour, e sostenne l'incarico affidatogli con zelo e devozione: ma le sue pratiche anda­rono fallite: si ebbe freddissima accoglienza, ed ai suoi suggerimenti fu risposto con reiterati rifiuti. Il Governo Sardo fece il debito suo, diede testimonianza irrefragabile di spiriti concilianti ed arrendevoli: il Governo Napolitano respinse sdegnosamente la mano che gli si porgeva, e mentre nell'Alta Italia si pugnava contro l'Austria, esso s'appigliò al partito di una neutralità poco benevola verso il Pie­monte. Tra l'Italia, alleata di Francia, e l'Austria preferì questa: e vergò nuovamente con le proprie mani la sentenza che lo dichiara incompatibile con la nazionalità italiana. Trascorreva un anno soltanto, e l'alleanza alteramente rifiutata allora, viene offerta umilmente oggi. Ma il Governo Napolitano ha dunque dimenticato, che durante quest'anno la Lombardia non è più austriaca, Toscana non è più lorenese, Parma non è più borbonica, Modena non è più estense, le Romagne non sono più pontificie, e la Sicilia non è più soggetta alla sua domina­zione? Le condizioni dei tempi e delle cose sono assolutamente mutate,


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ed il governo del re Vittorio Emanuele si trova oggi nell'obbligo di respingere la richiesta che l'anno scorso esso medesimo faceva. Non è sentimento di rancore né di vendetta, che ispira le risoluzioni di questo Governo: ma è coscienza degl'interessi d'Italia: questa co­scienza gli suggeriva nel maggio 1859 d'invitare il Governo Napo­litano a stringere l'alleanza: questa coscienza gli consiglia nel lu­glio 1860 di non accogliere la domanda di alleanza, che alla sua volta ad esso rivolge il Governo Napolitano. È debito di conserva­zione, è preveggenza dell'avvenire. Si dirà forse, che gli attuali mi­nistri napolitani non possono essere ragionevolmente chiamati in colpa degli errori e dei delitti del Governo antecedente, che essi anzi si adoprano tuttodì per arrecare rimedio alle disastrose conseguenze di quelli, e che un'alleanza a negoziare la quale è delegato un uomo di specchiata probità e di tanta virtù com'è il Manna, è sinceramente voluta, e sarà lealmente praticata. A ciò è agevole rispondere, che le persone degli attuali ministri napolitani non sono in causa, che si rende omaggio al loro disinteresse, che ben si riconosce la entità del sagrifizio che essi hanno fatto accettando il potere nelle condi­zioni in cui ora versa il reame: ma che la questione' non è di per­sone, bensì di principii, e dei principii un governo onorato com'è il nostro non può farsi giuoco. E poi chi assicura i ministri di re Vit­torio Emanuele, che mentre essi stipulano patti di alleanza coi mi­nistero napolitano, la camarilla di Gaeta non tenti di bel nuovo qual­che colpo disperato, ed ove riesca non trasformi, secondo il solito i ministri in galeotti? L'attuale governo di Napoli è in condizioni palesemente precarie: la reazione o la rivoluzione possono ad un tratto, e quando meno si pensa, balzarlo di seggio: ora è evidente, che i patti di una vera alleanza non possono essere stipulati se non tra governi, che siano durevoli, che porgano guarentigia della loro saldezza, che siano insomma in pari condizioni. Ci sembra perciò, che il conte di Cavour abbia raggiunto l'estremo limite delle con­cessioni consentendo a discorsi preliminari su questo argomento. Egli poteva fin dal principio declinare qualsivoglia discussione in proposito: non lo ha fatto per dar saggio all'Europa della oculatezza e della precauzione, con cui il governo italiano procede in tutti i suoi atti. Di più non si poteva fare, né si può andare più in là: né l'Europa vorrà arrogarsi il diritto di costringere un governo a ri­pudiare il proprio principio — quello in forza di cui esso vive — a porsi in contraddizione col sentimento pubblico ed a rinunziare


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pensatamente alla cura dei proprii interessi, che in questa occasione si confondono pienamente con quelli di un popolo, che a niente altro aspira fuorché a venire finalmente in essere di nazione.

Tutte queste ragioni diventano ancor più rilevanti — e per se stesse sono già rilevantissime — qualora si ponga mente alla con­dizione della Sicilia. Il nostro governo fedele alla sua massima ac­cetta anticipatamente le risoluzioni del popolo siciliano, qualunque esse sieno: verso Palermo non usa diversa misura né diverso peso da quelli che usò verso Firenze: la sua accettazione è incondizionata, e senza riserva, senza restrizioni: è forse disposto il governo napolitano a fare altrettanto? Quei ministri forse diranno di si, ma chi li assicura che altri non dica di né, e che mentre qui si nego? zia su questa base non giunga notizia, che le truppe borboniche hanno ripigliato le offese, e che scorre nuovamente il sangue ita­liano? Quest'asserzione, che noi; enunciamo ora a guisa d'ipotesi è già avverata. Il giornale officiale di Napoli annunciava l'intendi­mento di dar ordine alle truppe di partire dalla Sicilia: il fatto fu perfino annunciato nel recinto parlamentare inglese dal ministro lord John Russell: allorché ad un tratto è giunta la nuova dei san­guinosi conflitti di Milazzo. Da chi partì l'ordine per le offese? A chi ubbidirono il generai Bosco ed i suoi soldati ? Non per fermo al generale Pianelli ministro della guerra: dunque a chi? È forse te­merario presupposto il dire, che l'ordine fu spedito da coloro medesimi, che il giorno 15 luglio corrente sguinzagliarono sulla povera Napoli la soldatesca della guardia reale, perché bistrattando i pacifici cittadini, percuotendo ed uccidendo donne e fanciulli provo­casse una reazione e si rinnovassero il 15 luglio 1860 i casi atroci e funesti del 15 maggio 1848? Frattanto in Sicilia si è combattuto accanitamente, e le zolle di Milazzo rosseggiano di sangue italiano, versato da una parte con audace valore a sostegno della bandiera italica e versato dall'altra con valore non inferiore, e degno davvero di causa migliore! Ci strazia il cuore pensando, che meglio che a reciproche. offese quel valore sarebbe adoperato gloriosamente per of­fese comuni contro comune nemico. Solferino e Milazzo! Qual doloroso contrapposto. Caddero a Solferino migliaia di prodi italiani eroicamente combattendo e vincendo l'austriaco, e la nostra esultanza per la vittoria non era contristata che dal rimpianto ai valorosi che trionfando morirono. Son caduti a Milazzo tanti coraggiosi uomini, e la sconfitta è toccata alla parte avversa alla causa nazionale: ma questa volta


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non è soltanto il pensiero dei caduti che ci contrista: ci punge bensì con ineffabile amarezza il pensiero, che vinti e vincitori sono figli della stessa patria, e che i primi vittima del punto di onore militare, abbiano pugnato par una causa che non è quella della nazione. Faccia Iddio che quel combattimento sia stato l'ultimo nel quale Italiani si trovino a fronte di altri Italiani, e che presto l'esercito napolitano abbia a pigliare posto nelle file dell'esercito italiano!

Noi confidiamo quindi, che lo scioglimento della questione del­l'Italia meridionale sia prossimo, e ce lo auguriamo conforme a quello dell'Italia centrale. L'ordinamento secondo giustizia e secondo ra­gione della nazionalità italiana avrà fatto in tal guisa un passo ul­teriore e decisivo. A raggiungere questo scopo debbono essere ri­volti gli sfora, le opere, le parole di tutti. Oggi più che mai è d'uopo avere profondamente scolpito nella mente il memorabile con­siglio, che il giorno 10 gennaio 1859 era dato da quell'augusto so­vrano, che dichiarava di non essere insensibile al grido di dolore dell'Italia: Forti per la concordia. Il consiglio fu ascoltato, e per­ciò oggi i confini dell'Italia libera, dal Ticino e dalla Macra sono stati trasportati al Mincio e all'Arno. Continuando ad ascoltarlo l'Italia avrà raggiunto senza fallo i suoi naturali confini. Ond'è che non volendo bandir la concordia soltanto con parole, ci è caro darne esempio tacendo di alcune polemiche, che hanno dato occasione a controversie ed a recriminazioni. Per fiuto l'Italia dobbiamo scordarci di essere uomini di partito e pensare soltanto ad essere Italiani.

Torino 31 luglio 1860.

Giuseppe Massari.








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