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RIVISTA CONTEMPORANEA
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VOLUME VIGESIMOSECONDO
ANNO OTTAVO

TORINO
DALL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1860

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SULLA
ORGANIZZAZIONE DEL NUOVO REGNO (1)

Io mi propongo di pubblicare alcune idee sulla organizzazione del nuovo Regno d'Italia; e prego i miei colleghi del Senato e della Camera dei Deputati ad accoglierle con benevolenza e a prestar loro l'attenzio­ne che meriteranno.

Convinto come sono, che i Governi e la loro influenza sulle Società e la iniziativa dei Parlamenti non hanno altra guida sicura che quella della pubblica opinione, io credo che tutti coloro che pensano e s'interessano alle sorti della patria, hanno il dovere di contribuire con tutte le loro forze e nei modi più adattati alle loro facoltà a rischiarare e perfezionare quella opinione; questo è lo scopo dello scritto che si raccomanda per le buone intenzioni con cui fu dettato e nel quale l'autore, estraneo per inclinazioni e per studii all'azione politica e sprovvisto di cognizioni speciali e pratiche, si è limitato ad esporre idee generali e di possibile applicazione.

Sentiamo oggi ripetere e da molte parti, che il momento non è anche venuto per pensare alle istituzioni e per provvedere all'organizzazione dello Stato, e che invece tutte le nostro forze devono essere indirizzale a quegli apparecchi militari, che occorrono alla difesa della nazione e alla piena liberazione di essa.

Ammetto senza esitazione che vi è molto di vero in questa proposizione, e che malgrado il grande progresso fatto in poco tempo verso il nostro fine supremo, l'impulsione data agli spiriti e le ragioni stesse della nostra conservazione,


(1)Queste considerazioni furono dettate in lingua francese per essere inserite nella Revue des deux mondes. L'autore stesso ne ha fatta la trasduzione con notevoli aggiunte e correzioni pel nostro giornale.


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sono tali che non ci consentono di fermarci, come vorrebbero i calcoli di una politica timida o troppo prudente; quindi è che conviene rivolgere le risorse principali e l'energia del paese ad accrescere la forza della nostra armata e a provvedere colle finanze a questa politica necessità. Ma non è meno vero che bisogna per tempo indirizzare lo spirito pubblico all'esame della nostra interna organizzazione e prepararlo così a fondare quell'edificio civile, all'ombra del quale solamente potremo godere dei frutti della libertà e dell'indipendenza. Il modo migliore d'interessare i cittadini in difesa di questi grandi benefizii, è di farli concorrere, ognuno nella sfera della loro influenza, a costruire e conservare il sistema politico e quella costituzione nazionale che dovranno reggere l'Italia: in una parola, ognuno deve convincersi che in vece della famosa definizione dello Stato data da un Re di Francia, lo Stato è l'espressione della volontà libera e illuminata dell'intera Nazione.

Sopraffatti con ragione dal pensiero di assicurare la nostra indipendenza, l'idea che da qualche tempo ha dominato e domina fra noi, è quella della unificazione. Evitiamo però di confondere l'unificazione colla centralizzazione, perché potremmo essere trascinati a stabilire una forma di governo, che non avrebbe radici nelle nostre tradizioni, e che malamente si applicherebbe ai nostri intelletti e alle nostre inclinazioni.

L'unificazione nei principj che devono animare la nostra politica generale e nella organizzazione dei nostri mezzi di difesa, cioè in tutto quello che si riferisce alle armate di terra e di mare, è essenziale per l'indipendenza della Nazione e per la sicurezza dello Stato, ma non si deve estendere oltre i limiti voluti da queste necessità. Sopra questo argomento parmi inutile di dichiarare, che non si tratta qui dei principii di diritto naturale, che sono scritti [nello Statuto fondamentale e che sono comuni a tutti i cittadini.

L'unificazione o piuttosto la centralizzazione che lengo per nociva ed anche come pericolosa per l'ordinamento futuro dei popoli italiani, sarebbe quella che abbraccerebbe tutti i rami dell'amministrazione propriamente detta.

Vi sono dei paesi in cui le diverse parli di questo servizio pubblico sono quasi concentrate nelle mani del Capo dello Stato e del suo Ministero: presso altri popoli, certamente più liberi, come in Inghilterra, in America, in Svizzera, le attribuzioni amministratile sono sparse quanto più è possibile sulla superficie del paese.


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Non vi è oggi chi dubiti che questo secondo sistema è favorevole allo sviluppo delle pubbliche libertà.

Un grande centro amministrativo suppone ed influisce alla sua volte a creare un grande centro di popolazione e di ricchezza, cioè una vasta capitale. Basta la più leggera cognizione dell'indole varia delle diverse provincie d'Italia, perché si debba riconoscere che la formazione di una grande capitale non potrebbe effettuarsi se non a scapito della vita propria che esiste da tanti secoli diffusa sopra tutti i punti del nostro suolo, vita che noi possiamo e dobbiamo conservare e sviluppare senza diminuire le garanzie chieste per l'indipendenza nazionale. Una grande capitale e un grande centro amministrativo, due cose che necessariamente si sovrappongono, sarebbero evidentemente fatti funesti per noi. Infatti, entrando in quella via accadrebbe che a poco a poco sparirebbero quelle varietà, cosi singolari e frequenti fra noi, d'intelligenza, di costumi, d'industria, che abbracciano le diverse condizioni sociali. Un sistema politico che avesse per effetto necessario la distruzione di queste differenze e di ridurre i popoli della penisola come se tutti escissero dalla stessa forma, tutti tagliati sullo stesso modello, forse neppure indigeno, non solo farebbe perdere alla Nazione le forze utili da lungo tempo acquistate e che naturalmente operano per il progresso materiale e intellettuale di quei popoli, ma costringerebbe quelle forze a trasformarsi con grande perdita in conformità di un sistema opposto a quello in mezzo al quale si sono sviluppate.

Una grande centralizzazione amministrativa avrebbe ancora un'altra conseguenza cattiva. Questo sistema non può esistere e conservarsi se non creando una classe numerosa d'impiegati i quali vivono necessariamente alle spese dello Stato, i quali, per la maggior parte almeno, non portano nella società che idee anguste o piuttosto delle regole che dispensano dalle idee e che trasformano il lavoro amministrativo in una rutina necessariamente lenta, arida, e il più spesso imperfettissimamente illuminata. Né si potrebbe mettere in dubbio che molti di questi impiegati sarebbero stati e sarebbero ancora ben più utili alla ricchezza e alle libertà del paese, se applicassero le loro facoltà a crearsi nel commercio, nell'industria, nelle lettere e nelle scienze, una esistenza indipendente, degna di un libero cittadino. Questo grande numero d'impiegali è una delle più larghe piaghe dei bilanci, e non sarebbe facile di dimostrare che questa spesa sia veramente utile, almeno nel magior numero di casi, allo Stato.


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Non vi è finanziere che non si preoccupi della grande spesa incontrata per la percezione delle imposte, e sarebbe una scoperta mollò utile, quella d'immaginare dei mezzi più facili e più economici per riscuotere le imposte e per far cessare le più moleste fra esse. È questa la ragione della buona accoglienza fatta generalmente ai progetti messi avanti in questi ultimi tempi nel Belgio, della soppressione delle gabelle comunali, operata colla sostituzione di altre imposte.

Il sistema che chiamerò di s''centralizzazione amministrativa avrebbe per effetto immediato quello di diminuire il numero degli impiegati e quindi le spese dello Stato. I bilanci di tutti gli Stati sono oggi aggravati dal carico di forti somme destinate alle pensioni degli impiegati; volendo trasformare i nostri sistemi d'amministrazione secondo i principii che sostengo, vi sarebbe il pericolo di dovere accrescere, almeno per un certo tempo, quelle spese sicuramente improduttive. Su di che io credo che i nostri uomini di Stato avrebbero materia di buoni studii, utili progetti da elaborare. In molte parti d'Italia vi sono vaste estensioni di territorio che potrebbero facilmente esser messe in coltura, se dei piccoli capitali e sopratutto degli intelletti e delle braccia, si volgessero sotto un regime libero a quella industria. Io potrei citare un gran numero di proprietarii del compartimento Pisano, oggi fatti ricchi, e di cui la fortuna si è formata colla cultura di pezzi di terreno, ceduti a certe condizioni dal Governo di Leopoldo I. Non vedo impossibile d'immaginare un sistema di concessioni dei terreni dello Stato, che potrebbe alleggerire, almeno in parte, i bilanci dall'enorme peso delle pensioni.

E quale è, dimando ancora, l'uomo di Stato che non abbraccerebbe volentieri in un avvenire più o meno prossimo la speranza di veder trasformati quegli individui che oggi vegetano, quasi sempre oziosi, stanchi o disgustati del loro officio, alle barriere delle città per riscuotere i dazii o nelle piccole camere senz'aria e senza luce dei Ministeri, in tanti coltivatori liberi e intelligenti, che hanno dinanzi a loro una famiglia da arricchire, una vecchiaja agiata da apparecchiarsi?

Un grande centro amministrativo, e per conseguenza una mostruosa Capitale creano necessariamente intorno ad esse un largo numero di esistenze che dissipano vaste fortune nel lusso e anche peggio.


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Noi di certo non pretendiamo di far qui la guerra alle grandi capitali che oggi esistono, imperocché pel fatto solo della loro esistenza con un progresso crescente di grandezza e di prosperità, è forza ammettere che vi sono delle ragioni profonde di quella esistenza e che i vizii ed i mali che trascinano seco quei grandi centri, sono corretti e superati da un certo numero di benefizii e di vantaggi. Questo però non è sicuramente il caso dell'Italia, dove una grande Capitale non potrebbe formarsi senza paralizzare la vita di molle città importanti di cui ciascuna avrebbe ragioni per essere la Capitale, e distruggendo, ciò che più monta, tutte quelle forze locali che in mezzo alle libertà riceveranno presto un grande sviluppamento e spargeranno sopra tutto il paese la ricchezza e la felicità vera. Evitando col sistema politico e amministrativo che noi vorremmo vedere immaginato ed applicato all'organizzazione civile dell'Italia, la formazione di una Capitale, noi evitiamo il pericolo di veder dissipate grandi fortune e perdute senza alcun frutto belle e nobili. esistenze fra le spensieratezze e le futilità che formano molta parte della vita delle classi elevate nelle Capitali. Un sistema opposto, cioè lo sviluppo di un sistema fondato sopra le nostre tradizioni, sopra le nostre varie facoltà e inclinazioni, sui nostri veri interessi che sono principalmente. quelli delle località, tenderebbe al contrario a persuadere i nostri proprietarii, che, anche senza tener conto del bene grandissimo che vi è per la educazione morale e fisica delle famiglie vivendo in campagna per molta parte dell'anno, essi, come i capi delle case di commercio e delle manifatture, sono interessati a sorvegliare i loro interessi agricoli e a vivere in mezzo ai loro contadini. Le strade di ferro, i telegrafi, i giornali si direbbero inventati per giovare a quella vita mista di città e di campagna, che per tante ragioni è la sola che convenga alle classi agiate.

Noi consideriamo dunque come evidente e dimostrata chiaramente la tesi che ci siamo proposta, cioè che nell'organizzazione che si deve preparare per l'Italia, dobbiamo principalmente proporci di evitare la formazione di un grande centro amministrativo, dobbiamo studiare, per quanto è possibile, di diminuire il numero degli impiegati, e di favorire al contrario ed incoraggiare l'attività individuale in tutte le classi, in tutti i-punti del nostro suolo, sia colle varie industrie, sia col concorso libero dei cittadini alle amministrazioni locali.

Ci siamo sforzati sin qui di dire, ciò che si dovrebbe fare secondo noi, nella organizzazione interna del Regno: è obbligo nostro di dire

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ora come quel sistema possa essere messo in via di applicazione; abbiamo sostenuta o crediamo anche di avere dimostrata una tesi, ed ora ci resta un programma da esporre. Questa ardua impresa, certo al di sopra delle nostre forze, non ci proveremo d'intraprendere con un piano vago e generale, ma eleggendo invece quei casi, nei quali le nostre idee ci appariscono applicabili.

È oggi opinione ricevuta dagli uomini pratici e di scienza nel tempo stesso, e convalidata da molte esperienze, che i grandi lavori e servigi pubblici sono con vantaggio dello Stato affidati alle Compagnie e alle industrie private. Non importa di essere economista per comprendere che lo Stato se diviene capo d'industria o di grandi lavori e servigi pubblici, spende peggio o più dei privati.

Non ci fermiamo qui ad esaminare quei principii di economia sociale che per la iniziativa del Capo dello Stato si applicano oggi ai grandi servizii e lavori pubblici in Francia; noi crediamo che non sarebbero utilmente applicabili in Italia, dove piuttosto che favorire lo sviluppamento della democrazia già molto estesa fra noi, importa di educare gli uomini all'esercizio di una libertà savia e moderata.

Il nostro nuovo Regno ha in prospettiva dei grandi lavori da compiere; non esitiamo ad affermare che vi sono in Italia canali da costruire, fiumi da rendere navigabili, e sopra tutto strade ferrate da costruire, di cui l'influenza sull'unificazione politica e per la difesa del suolo, è almeno tanto grande quanto quella delle fregate e dei cannoni rigati. Adottiamo dunque francamente il principio di affidare alle Compagnie private l'esercizio delle miniere e delle grandi manifatture che possiede lo Stato, la costruzione di tutte le grandi opere e l'esercizio di molti servigi pubblici. In tutte le provincie d'Italia vi sono in mano dello Stato dei grandi possessi territoriali, dei corsi d'acqua, dei vasti boschi, di cui la cessione all'industria privata servirebbe ad attirare fra noi molti capitali dallo straniero, ad impiegare utilmente molte intelligenze e molte braccia che vivono oggi a spese dello Stato e alleggerirebbe immediatamente il debito pubblico.

Questo sistema avrebbe anche un altro e grande vantaggio indiretto, quello cioè di diffondere nel pubblico l'esempio e l'amore delle associazioni private, le quali moltiplicano in qualche modo il fruito dei capitali, formano lo spirito delle speculazioni e rendono così possibili molte intraprese, che non potrebbero mai essere tentate dallo Stato.


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Un altro principio molto fertile e per il quale crediamo che la nostra macchina amministrativa giungerebbe presto ad agire senza complicazioni, senza perdita di tempo, liberamente e a buon mercato, è quello che chiamerò principio della scentralizzazione amministrativa.

Ripeto anche una volta che io intendo di esporre considerazioni applicabili all'Italia e quindi all'organizzazione del nostro Regno.

Ritengo che tutti i miei concittadini capaci di esercitare funzioni civili e politiche, ossia tutta quella classe che comincia coi piccoli proprietarii e commercianti e che termina colle notabilità che siedono nella Rappresentanza nazionale, non esiteranno un momento ad ammettere questa proposizione, che cioè, in tutte le provincie del Regno, o piuttosto in. tutte le città che sono in qualche modo le capitali di queste provincie, si può con una legge elettorale conveniente ottenere un Consiglio che si chiamerà, municipale, distrettuale, divisionale, come si vorrà, capace di scegliere degli abilissimi amministratori, ai quali le attribuzioni dei diversi Consigli oggi esistenti, potrebbero essere con sicurezza liberamente affidate.

Sin qui abbiamo veduto in azione due sistemi, apparentemente opposti, ma che in fondo conducevano allo stesso fine ed avevano gli stessi vizii: uno di questi sistemi consiste in una forte concentrazione amministrativa sotto la diretta e immediata sorveglianza del Capo dello Stato e del Governo superiore; l'altro sistema è la divisione del territorio in un grande numero di piccoli centri incapaci di governarsi anche in limiti molto stretti, e ai quali le attribuzioni e le libertà concesse sono necessariamente limitatissime, stretti successivamente questi centri sotto centri sempre maggiori, come per formare una certa simmetria, analoga alle ramificazioni di un albero. Fra questi due sistemi io m'immagino che stia il vero e l'utile per noi, il quale consisterebbe non nel creare delle provincie, lo che è inutile perché esse esistono naturalmente, ma nello stabilire che queste provincie o centri di 30, 40 o 50 mila abitanti e più esercitino tutte quelle funzioni amministrative, oggi divise inutilmente e con tanta perdita di tempo e di denaro, fra i diversi Consigli esistenti. L'esercizio di queste funzioni spetterebbe ad un corpo di Magistrati provinciali scelto dal Consiglio provinciale.


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Se noi non ci facciamo una grande illusione, se è giusto il giudizio che abbiamo dato delle cognizioni e delle virtù dei nostri concittadini, se la diffusione dei principii di un regime liberale e della istruzione avviene fra noi cogli stessi benefizii che altrove, siamo convinti che non vi sarebbe alcun pericolo per lo Stato nell'affidare, senza restrizione, senza vincoli, liberamente, tutta l'amministrazione della provincia a quel Magistrato. Questo stesso magistrato avrebbe pure l'autorità di scegliere nelle piccole comunità gli uomini i più stimati e più capaci del luogo, che sarebbero i suoi delegali, e le leggi e i regolamenti provinciali stabilirebbero le attribuzioni e le dipendenze di quest'autorità secondaria. Le materie affidate interamente alle amministrazioni provinciali sarebbero la Polizia, gl'Istituti di carità e di beneficenza, l'Istruzione primaria, secondaria e tecnica, le prigioni, la costruzione e la conservazione delle strade, dei canali, degli edifizii e dei monumenti pubblici, i pretori o giudici di conciliazione, la percezione delle imposte.

Io so bene che tutta la burocrazia spalanca gli occhi a questa mia proposta e mi oppone le ambizioni, le irregolarità, i capricci che si verificano sempre negli alti delle Amministrazioni comunali. A questa obiezione rispondo con una parola sola, cioè che a tutto rimediano, per quanto si può umanamente, la libertà savia e ben intesa e i suoi benefizii, cioè la pubblicità, la discussione, l'educazione politica, e il principio che gl'interessi locali sieno giudicati e regolati dagl'interessati.

Non ho bisogno di ripetere ancora, che noi mettiamo innanzi queste idee solo per sottoporle al giudizio dell'opinione pubblica e perché esse siano presenti allo spirito dei noslri colleghi del Parlamento nazionale, allorché verrà il giorno di dover provvedere alle leggi organiche del Regno.

Né vi sarebbe difficoltà ad immaginare nel nostro sistema alcune garanzie, almeno temperarie, per il governo superiore contro gli abusi del sistema stesso. La scelta del primo Magistrato fra i magistrati eletti sarebbe riservata al Re: invece dei governatori, degli intendenti, dei prefetti, si può immaginare un impiegato del governo coll'incarico di render conto degli atti delle autorità provinciali, di vigilare perché questi alti non offendano mai la legge fondamentale dello Stato e colla facoltà anche di esercitare una specie di veto dentro certi limiti sulle imposte stabilite da quell'autorità.


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Noi ci crediamo in dovere di aggiungere ancora qualche parola sui molti e varii vantaggi che secondo noi risentirebbe immediatamente la società dall'applicazione lenta e progressiva di un sistema di scentralizzazione fondato sopra larghe attribuzioni date alle provincie.

Quasi tutti gl'impieghi o le funzioni che secondo noi dovrebbero cadere dalle mani del governo propriamente detto, in quelle dell'autorità provinciale, sarebbero gratuite. Gli affari della Provincia fatti dai magistrati della provincia e sorvegliati dal Consiglio provinciale, sarebbero per quanto è possibile umanamente, ben fatti, prontamente e a buon mercato. La giustizia e l'opportunità degli atti amministrativi sarebbero facilmente riconosciute e ammesse dagli amministrati. Finalmente quel sistema sarebbe una specie di scuola normale per le alte cariche politiche e amministrative.

In conclusione, il sistema proposto soddisfa alle condizioni generali dì un regime libero, cioè, lascia agli amministrati la maggior somma di libertà possibile nella gestione dei proprii affari, rende la macchina amministrativa semplice ed economica, interessa tutti ma a gradi diversi secondo le varie facoltà e della sfera dei relativi interessi, alla conservazione e al buon andamento della macchina stessa.

Io non mi stancherei mai dal ripetere con tutta la sincerità dell'animo, che ho troppo osato pubblicando quest'idee sull'organizzazione civile del nuovo Regno, le quali non possono' essere il frutto che di un certo buon senso, di una qualche cognizione del cuore umano, e sopra tutta di una gran dose di patriottismo che se nuoce alle idee stesse, è pure la sola scusa che posso offrirò.

Io domando al lettore anche qualche momento di attenzione sopra il resto delle idee generali che intendo pubblicare sul nostro edilizio politico.

Continuando a combattere la burocrazia e la moltiplicità degli impiegati, noi ci limitiamo a chiedere che sia posto alla testa del governo un Consiglio di ministri, di cui il numero dovrebbe essere determinato dalla natura degli affari e dal grado di responsabilità che vi è unito, ed un Consiglio di Stato. Un ministro delle finanze, un ministro della giustizia, un ministro della guerra e della marina, un ministro dell'interno o piuttosto della polizia (') comporrebbero il Consiglio dei ministri di cui il presidente sarebbe il ministro degli affari esteri.


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Questi ministri avrebbero veramente attribuzioni di una grande responsabilità; la loro presenza è necessaria nel Consiglio della Corona che dev'essere formato di uomini politici propriamente detti.

Il Re può sempre e utilmente concedere il titolo di ministro di Stato a uomini politici eminenti, come premio di grandi servigi resi al Paese, e nei momenti gravi e difficili, l'esperienza e le cognizioni di questi consiglieri straordinarii sarebbero utilmente consultate dalla Corona.

Gli affari attinenti alla pubblica Istruzione, al Commercio, ai Lavori pubblici, non richiedono uomini politici, ma piuttosto uomini noti per cognizioni speciali; quegli affari sarebbero dunque attribuiti a Direzioni e a Consigli amministrativi, lasciando al Consiglio di Stato la cura di discutere e di preparare le leggi, i regolamenti e i progetti.

Non vi è difficoltà ad immaginare che un Consiglio superiore di Commercio potrebbe essere formato senza aggravio per le finanze colle grandi notabilità industriali e commerciali del Regno.

Finalmente, per le materie di pubblica Istruzione, di cui una gran parte sarebbe secondo noi devoluta alle amministrazioni provinciali, crediamo che l'alta Direzione dovrebbe spettare ad un presidente degli studii e ad un Consiglio scelto dai corpi universitarii del Regno.

Tutte le Università dello Stato, cioè i professori effettivi delle Università, presenterebbero una lista di nomi, fra i quali il Re sceglierebbe n Rettore o il Preside delle università.

Questo Preside sorveglierebbe all'esecuzione delle leggi e dei regolamenti universitarii per mezzo d'Ispettori straordinarii, proporrebbe al Re i nomi dei nuovi professori e avrebbe l'obbligo di proporre all'approvazione della sezione apposita del Consiglio di Stato, le riforme universitarie.

Quanto all'elezione dei professori fatta dal Re sulla proposta del Preside, noi vorremmo che l'autorità di presentare al Preside le liste in cui cadrebbe la scelta dei professori, fosse devoluta alle sezioni o classi di un Istituto nazionale, da crearsi in Italia in luogo della Società italiana fondata dal conte Lorgnia e conosciuta in Europa sotto il nome della Società dei XL.

I membri di quest'Istituto (1), che dovrebbero riunirsi almeno


(1) Questo mio pensiero, pubblicato nello Statuto di Firenze, dieci anni sono, fu più volte raccomandato al Presidente della Società Italiana.


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per lo spazio di un mese ogni anno, ora in una, ora in un'altra delle città principali del Regno e di cui il numero dovrebbe essere limitato a venti per le scienze matematiche, fisiche e naturali, e allo stesso numero per le scienze storiche, morali e politiche, sarebbero scelti dalle Accademie o Istituti principali del Regno (*).

Il Preside delle Università domanderebbe alle due classi dell'Istituto all'epoca della riunione annuale una lista di nomi per supplire ai posti vacanti nell'alto insegnamento. L'Istituto nazionale non esclude né distrugge gl'Istituti provinciali, che anzi sono il suo corpo elettorale e sarebbe materia da sottoporre all'esame dell'Istituto stesso se debba esservi una pubblicazione di atti o memorie, e se questa debba farsi a spese dei materiali raccolti dagl'Istituti provinciali.

Fra le materie della Pubblica Istruzione non facciamo deliberatamente menzione di ciò che riguarda le belle Arti, perché è oggi universalmente abbracciata l'opinione che i Governi non hanno altra ragione d'interessarsene, che per fornire alla Corona i mezzi onde ricompensare degnamente i lavori di un merito incontestabile,

Dopo avere esposto un piano d'organizzazione del Regno, di cui l'elemento principale sarebbe un sistema di amministrazione provinciale, estesa, libera, indipendente o quasi indipendente del Governo superiore, ci rimane da esaminare un'obiezione apparentemente di una certa gravità, e che è fondata sulla condizione politica attuale del Regno e della Penisola e su quell'intima nostra natura che si potrebbe chiamare l'io degl'Italiani. Ecco come quest'obiezione si presenta alla mia mente. Il nuovo Regno nono anche formato, abbiamo ancora lotte e combattimenti lunghi da sostenere, appena s'intravede il principio dominatore della Costituzione nazionale. In questo stato di cose, non sarebbe egli da considerarsi, come un tentativo imprudente e pericoloso quello di sostituire all'ordinamento burocratico attuale un'agglomerazione di piccole repubbliche? Non vi sarebbe egli fondamento per temere che i centri amministrativi provinciali, corressero a rendersi affatto indipendenti, cioè a disgregare lo Stato?

Noi ci affrettiamo a rispondere che queste paure dovrebbero oggi esser passate e che anzi le larghezze concesse alle libertà e alle autorità provinciali in presenza del Parlamento, custode della legge fondamentale e che assieme al Re provvede all'indipendenza e alla Costituzione nazionale, sono un gran cemento d'unione.


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Se noi vorremo comporre qualche cosa di solido e che non tema la volubilità naturale ai popoli meridionali, bisogna che il nostro sistema amministrativo interno, non sia paralizzato dalla schiavitù amministrata centrale, ma che sia invece fecondato da un largo regime liberale che non soffochi la vita propria dei diversi popoli della Penisola.

Noi non temiamo che in presenza dei grandi Stati che ci circondano e dei principii della civiltà moderna, possa più rivivere il germe delle piccole repubbliche del medio Evo. Se a proposito di repubblica si sogna ancora qualche cosa, sarebbe una Repubblica universale col corredo delle teorie umanitarie e socialistiche, cioè l'opposto del nostro sistema politico. Le provincie che si amministrano liberamente, che col mezzo di una legge elettorale conveniente deputano a quelle funzioni amministrative gli uomini pratici e le notabilità del paese, per poco che la nostra educazione politica sia avanzata, non saranno mai tentale ad invadere il campo politico del Parlamento nazionale. Le provincie che si amministrano liberamente, non avranno alcuna ripugnanza ed anzi saranno sempre inclinate a conservare ed a stringere i legami nazionali, a rispettare l'autorità politica e legislativa del Parlamento, ad amare e venerare nel nostro Re il simbolo vivente e glorioso della Nazione. In una parola, bisognerebbe supporre quello che è impossibile, cioè che il nostro progresso va contro a tutto le idee moderne, che noi non abbiamo alcuna cognizione dei grandi interessi che dominano oggi presso le nazioni libere e civili, che l'esperienza del passato, che le grandi aspirazioni del nostro avvenire, non hanno alcuna influenza sulle nostre opinioni: in queste ipotesi solamente si potrebbe temere in mezzo al XIX secolo la rinnovazione dell'Italia del medio Evo.

Per decidere della opportunità di provvedere all'organizzazione interna del Regno e dello spirito che deve dominare quest'opera, tenteremo per ultimo di farci un'idea, per quanto è possibile esatta, delle condizioni politiche nostre, cioè della stabilità e dell'avvenire del nuovo Regno.

Un anno è appena scorso che le grandi potenze, l'Inghilterra e la Francia principalmente, vedendo la pace dell'Europa minacciata dalla situazione dell'Italia, si adoperavano per ajutarci a riconquistare la nostra indipendenza e per costringere l'Austria a tornare nei limiti assegnati dai trattati del 1815.


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In quel tempo l'autorità dell'Europa poteva forse ancora assegnare dei confini alle nostre aspirazioni nazionali, poteva forse regolare in qualche modo la forma della costituzione politica della Penisola. Due grandi principii d'azione erano allora in presenza fra noi, e uomini gravi e patrioti ardenti nel tempo stesso, combattevano nei due campi e con armi diverse per uno scopo comune, la liberazione della Penisola. In quel tempo si poteva ancora con qualche vantaggio discutere sulle origini, sulle esigenze, sugli effetti probabili di questi sistemi: allora forse era ancora permesso di sostenere che quel sistema, che i pregiudizii e le simpatie del partito tory rispetto all'Austria, resero impossibile, benché non pronto, non assoluto nei suoi successi, aveva nulladimeno il vantaggio di lasciare agl'Italiani soli l'opera della loro rigenerazione politica, e di non sottoporci alla necessità del soccorso armato delta Francia e alle incertezze inseparabili da questo soccorso. È il sistema del conte di Cavour che ha trionfato, né poteva essere altrimenti se si considera a quali estremi di violenza si erano ridotte le cose nella Penisola e come allora corresse l'obbligo a quell'uomo di Stato di abbracciare il soccorso dell'Alleanza francese. La Provvidenza ha coronato un'opera, che è il frutto de’ sacriflzii e degli sforzi del popolo italiano per quasi un mezzo secolo, e che il Gabinetto di Torino sin dal Congresso del 1856 ha propugnato con un ardire e con un'intelligenza forse senza esempio nella storia. Un Regno, che è oggi di undici milioni d'Italiani, è sorto in pochi mesi, e da tutti i punti della penisola gli animi sono rivolti ai Re, custode leale ed animoso delle libertà e delle aspirazioni di questo Regno. Gli avvenimenti dell'Italia Centrale dopo i preliminari di pace di Villafranca, cioè, l'accordo e la perseveranza di quelle popolazioni giustamente offese dall'ostinazione e dalle slealtà dei passati Governi, segnano un'era nuova nella storia delle libertà popolari e dei diritti delle Nazioni, di cui l'influsso benefico non ha confini.

Le tante transazioni immaginate per diminuire gli effetti sinistri di quella pace e che sembravano pur troppo inevitabili, furono disperse dall'energia del sentimento nazionale, sentimento che oramai tende irresistibilmente al suo pieno trionfo. Fra il successo delle armate del Re di Napoli e quello dei volontarii di Garibaldi, l'opinione e la coscienza universale non esitano a pronunziarsi; fra l'Italia divisa in due campi, fra l'Italia degl'Italiani e quella oppressa dagl'Austriaci, dagli Svizzeri, dagl'Irlandesi, l'opinione a la coscienza universale e si può aggiungere la saggezza e la prudenza degli uomini di Stato,


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non esitano a riconoscere da qual parte sono le garanzie della stabilità e della pace. Qualunque possa essere il risultato dell'ardita intrapresa di Garibaldi, qualunque il grado di prudenza in cui deve contenersi la politica nazionale del Gabinetto di Torino, non è meno vero che la lotta fra l'Italia libera e indipendente e l'Italia schiava ed oppressa, non cesserà che in quel giorno in cui il trionfo della nostra nazionalità sarà completo, e non è l'ultimo dei vantaggi che il nuovo Regno rende alla Nazione, quello d'insinuare nella politica delle grandi potenze a nostro riguardo, che la lotta interna che rimane non minaccia la pace dell'Europa e non deve estendersi oltre i confini della Penisola.

Non è dunque fuori d'Italia, non è nell'influenza delle grandi potenze sulla nostra costituzione nazionale, che ci è dato di scorgere le ragioni che s'oppongono seriamente, non dirò a determinare fin d'ora l'organizzazione definitiva del nuovo Regno, ma a rivolgere lo spirito pubblico sopra le forme più acconcie a questa organizzazione: le difficoltà, i pericoli nostri, non esitiamo a dirlo, sono oramai più dentro che fuori, e queste difficoltà sono appunto nell'organizzarci, cioè di quel genere che l'opinione sola può correggere e rettificare.

Il grande risultato che abbiamo ottenuto nei dieci mesi decorsi è frutto delle virtù politiche delle popolazioni italiane e della protezione dei nostri alleati; l'avvenire ci è assicurato alle stesse condizioni.

Nel Parlamento, nei Consigli municipali, nei Giornali, ognuno di noi nella sfera della sua influenza, non ha oggi che un supremo dovere da adempiere; è quello di secondare e di fortificare questo Governo chiamato a costituire il nuovo Regno, che è il fondamento della nostra nazionalità. Lo spirito che ha animato sin qui gli atti del Parlamento ci conforta a credere che la grande maggiorità dei Rappresentanti ha comprese le condizioni generali dell'Italia e quelle di questo Regno.

Nella discussione del trattato del 24 marzo, questa maggiorità avrà una nuova occasione per stringersi intorno al Governo. Per quanto dolorosa possa esserci la separazione nostra da quei popoli, che la natura ha posto al di là delle Alpi, e che per secoli combatterono sempre fedeli e valorosi assieme ai nostri soldati, benché ci repugni di veder diminuite in qualche modo le nostre naturali difese, saremmo ingiusti e inconseguenti negando alle popolazioni di Savoja e di Nizza l'esercizio di un diritto che abbiamo invocato


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per legittimare l'unione dell'Italia centrale col Piemonte, e che forse non tarderemo ad invocare di nuovo.

L'Imperatore dei Francesi fu e sarà ancora il più potente, il più sincero nostro alleato, ed il Governo del Re fece atto di onestà e di saviezza politica, allorché senza ledere il principio della Nazionalità, concedeva ai popoli di Nizza e di Savoja la libertà di aggregarsi alla Francia conformemente a quel principio, ed offriva agli interessi e alle ambizioni legittime della Francia un compenso ai sagrifizii fatti per noi, un segno di fiducia nella sua alleanza.

Le relazioni internazionali stabilite fra noi e la Francia, i legami stretti fra le due famiglie regnanti, le guerre fatte assieme, lo spirito e gli effetti del Trattato del 24 marzo, creano dei vincoli di ragione, di giustizia, di sentimento, che valgono più di un trattato scritto, i quali impegnano la Francia a difendere quella costituzione della Penisola, che la Francia stessa ha tanto contribuito a creare, e che non saranno sciolti se non quando l'Italia libera e unita sarà divenuta una potente alleata per la Francia.

Torino, 25 maggio 1860.

C. Matteucci Senatore del Regno.



(*) Come segno della tendenza pur troppo contraria a questi principii che si persiste a seguire nella organizzazione dello Stato, ci duole di dover segnalare il ristabilimento del Ministero d'agricoltura e commercio. Nessuno potrà nemmeno sospettare che questo biasimo muova in noi da una mancanza qualunque di riguardo per la persona destinata a questo officio, imperocché non o questione di persone, ma di cose, e mi son note, come ad ogni toscano, la lealtà del carattere e l'abilità come uomo di Governo del nostro amico l'avvocato Corsi. In presenza delle dottrine dominanti del libero scambio e della libertà delle industrie, un Ministro di Agricoltura e Commercio non può essere niente di più di una società o di una scuola d'Agraria e di Economia politica; e di fatti in Francia i decreti di questo Ministro, che si veggono affissi sopra tutte le porte delle ìfairies, consistono in precetti contro la malattia della vite, per la cura delle epizoozie o in cose simili. Così l'autorità del Governo viene a sostituirsi all'interesse privato e alla cognizione che ogni cittadino deve acquistare delle cose che lo riguardano onde agire liberamente e per conto proprio; così si creano un certo numero d'impiegati e una spesa non lieve per lo Stato.


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(**) Questo scritto era già dato alle stampe, allorché il Ministro, conte Mamiani si compiaceva di darci a leggere un suo progetto che fu in questi giorni sottoposto alla Camera dei Deputali, sull'Aggrandimento della Società Italiana dei XL.

Questo progetto muove pur troppo dalla solita tendenza, che non cesseremo mai di combattere, che hanno i Governi di mescolarsi più che non o necessario, di quelle materie che devono essere lasciate liberamente all'attività individuale o alle associazioni private. Fortunatamente per noi esisteva in Italia una società delle Scienze creata dal conte Lorgnia e avente fondi proprii. Se i membri di questa società si metteranno d'accordo, cosa non difficile, s'opra alcune modificazioni che la condizione attuale dello scienze e le variate relazioni sociali richiedono, si può ritenere che la detta Società soddisferà pienamente ai bisogni della scienza e del tempo. La più necessaria di queste modificazioni, sarebbe tuia riunione annuale, per lo spazio di circa un mese, in una delle principali città del Regno, d'anno in anno cangiata, dei membri della Società. In questa riunione accadrebbero le elezioni ai posti vacanti, la lettura e la scelta delle Memorie da pubblicarsi negli Atti, la discussione dei programmi e dei premii, e sopratutto quelle famigliari conversazioni che stringono legami d'amicizia fra i cultori delle scienze e che giovano tanto al progresso vero della scienze stesse.

Noi crediamo far cosa grata all'illustre Ministro gettando nel campo della discussione pubblica le principali objezioni che si sono affacciate alla nostra mente esaminando quel progetto ministeriale, che in ogni modo era meglio lasciar maturare dagli Scienziati prima di sottoporlo all'attenzione della Camera, oggi preoccupata di cose più urgenti e più gravi.

Il progetto suppone che il Governo. ha l'autorità di trasformare la Società Italiana ili un'altra istituzione molto diversa. Non crediamo che questo sia, ed anzi stimiamo necessario il consenso della Società stessa per una modificatone qualunque del suo Statuto.

Fra le Accademie provinciali, che secondo il progetto citato avrebbero facoltà di eleggere i membri del nuovo Istituto Nazionale, è messa l'Accademia della Crusca. Ognuno sa che quest'Accademia è istituita per la compilazione del Dizionario della lingua italiana, e non s'intende come sia chiamata ad ingerirsi dell'elezione dei membri della classe delle scienze matematiche, fisiche e naturali del nuovo Istituto. L'Accademia della Crusca ha un'esistenza e uno scopo speciale, e come l'Academie des XL di Francia non ha da fare coll'Institut.

Nel progetto è messo a presidente perpetuo dell'Istituto Nazionale un principe della Famiglia Reale. Per quanto grande sia il nostro rispetto e il nostro amore per tutti i membri di questa Famiglia, per quanto siamo certi che questi sentimenti non verranno mai meno fra noi, anzi mossi da questi sentimenti, la verità vuole che diciamo che vi sarà sempre fra gli Scienziati italiani quello che avrà più titoli e ragioni del Principe Reale, ad essere presidente dell'Istituto, né si può esser certi che questa onorificenza tocchi sempre ad un Principe che abbia amore alle Scienze e un certo grado d'istruzione nelle Scienze dell'Istituto. Le attribuzioni che secondo quel progetto sono attribuite al presidente, cioè la elezione di alcuni nuovi membri per la classe delle Scienze morali, filosofiche, istoriane eco. , può spettare al Re sulla proposta del ministro, o del preside dell'Istruzione pubblica. Se si ammette che sia utile di formare una classe di queste

Scienze, non vi è difficoltà a formarne un primo nucleo per Decreto Reale coi nomi di Manzoni, di Capponi, di Sclopis, di Cibrario, di Centofanti, di Mamiani, di Cantù ecc.; questi primi membri eleggerebbero i loro colleghi mancanti per formare il numero stabilito.


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Il progetto stabilisce che vi devono essere sei Curatori, incaricati di scegliere le Memorie da pubblicarsi negli Atti. Volendo lasciar sussistere, come credo convenga, i diversi Istituti provinciali del Regno, sarebbe materia di grave esame se convenga togliere a questi Istituti la materia delle loro pubblicazioni, senza di che gli Atti dell'Istituto Nazionale non sarebbero formati che di cose già pubblicate. Vuoisi anche aggiungere che gli atti dell'Istituto, formati di Memorie di cui la pubblicazione sarebbe ritardata, non avrebbero interesse vero, né per gli autori né per il pubblico. Ma mettendo anche da parte queste considerazioni d'altronde gravissime, non s'intende perché l'ufficio attribuito ai Curatori nel progetto, non possa ecl anzi non debba esser assegnato all'intero corpo accademico o ad una commissione temperarla scelta dal Presidente.

Finalmente, ed è questa la cosa che ci ha più colpito nel progetto, leggiamo che i membri del nuovo Istituto Nazionale cioè i rappresentanti della Scienza Italiana, sono chiamati scrittori coll'incarico unico di fornire una composizione all'anno per gli atti dell'Istituto. Evidentemente l'Autore del progetto non ha più pensato che ai suoi diletti studii, nei quali può accadere che uno in un mese o in un giorno faccia una bella disertazione. Ma la Società Italiana delle scienze, l'Accademia di Bologna, quella di Torino, e l'Istituto di Milano non hanno acquistata la celebrità di cui godono, per avere nei loro Atti composizioni di questo genere: sono le Memorie di Lagrange, di Beccarla, di Volta, di Galvani, di Aldrovandi, di Zannotti, di Brunacci, di Paradisi, di Nobili, di Spallanzani, di Venturi, di Scarpa, che hanno dato questa celebrità agli Atti Accademici, e la Scienza Italiana scapiterà se non continueremo in quella via.

In conclusione: la Società Italiana dei XL con qualche modificazione introdotta nel sub statuto dai suoi membri stessi basta a soddisfare per quanto e nei modi in cui una Società lo può, ai' bisogni delle scienze in Italia, e non credo che si debba ricorrere alla pubblica finanza per la piccola spesa che dovranno fare i membri di quella Società per trovarsi riuniti una volta l'anno, e se il Governo non se ne mescola, non dubitiamo che le municipalità e i notabili dei paesi accoglieranno la Società Italiana con quelle stesse onorificenze e amichevoli ospitalità con cui in Inghilterra, in Svizzera e in Germania sono accolte la Brithish association, e la Societè des sciences naturelles e la riunione dei Dotti Tedeschi.

Se una Società simile o analoga alla Società Italiana è utile che si formi per le scienze storiche, filosofiche, morali, ecc., si deve lasciarne il giudizio ai cultori di quelle scienze e lasciare loro piena libertà di formarne l'ordinamento.









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