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STORIA DELLE DUE SICILIE
DAL 1847 AL 1861

DI
GIACINTO DE' SIVO
VOLUME QUINTO
VITERBO
PRESSO SPERANDIO POMPEI
1867.


Pag 189-193

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§. 18. Più rabbie governative.

Là dove i cittadini potevano impunemente far da giudici e da manigoldi, che i tribunali? S'abborracciavano giudizii di maestà, si condannavano persone a centinaia. 1 soldati magistrati inappellabili. Il Lamarmora seguitò l'usanza Cialdiniana, e faceva senza legge fucilare e ardere, acciò il terrore supplisse alla forza. Nullo il segreto postale; il governo copiava i briganti; nulla la libertà di stampa, privilegio di soli rivoluzionarii. A' 9 novembre la canaglia che s'appellava studiosa rinnova in via Toledo i falò de’   giornali indipendenti, La stampa meridionale, l'Araldo, la Settimana e l'Alba, dice distruggere il brigantaggio morale; né soddisfatta, visto che seguitavano, la dimane corre alle tipografie, rompe torchi, sperde caratteri, batte gli scrittori. La polizia stigante guardava. Ma che. era ardere giornali, dove s'ardevano paesi? Il governo sfacciato, per ricusarne la solidalità in Europa, stampò un manifesto del Procurator Generale riprovante il fatto; ma a' colpevoli non fu torto un capello.

Il duca di Caianiello, carceralo nove mesi, non trovatasi reità, uscì per sentenza, ed esulò a Parigi. Il deputato Ricciardi a' 4 dicembre in parlamento deplorò la trista condizione del napolitano; né sapendosi tenere, sborrò in lodare il governo de’   Borboni, quello contro cui tutta la vita s' era vantato aver congiuralo; e conchiuse chiedendo l'altr'anno s'aprisse la Camera a Napoli. I colleghi gli risero in faccia a dilungo. Due giorni dopo ne toccò una al fratel suo, conte de’   Camaldoli, ma legittimista; cui la sera del 6 perquisirono la casa; e benché non trovassero indizio di colpa, il carcerarono. Mandaronlo alla corte criminale come capo di comitato reazionario; la quale dopo diciassette giorni gli die' la libertà provvisoria, con obbligo di residenza in città. Egli si tolse a tal vessazione, fuggendo a Roma. Arrestarono ben altra gente.

Torino servitosi de’   comitali e delle sette per diroccare l'antico, ora temeva di quelle sue arti, né solo de’   legittimisti, ma de’   medesimi suoi settarii: valeva rincatenare la belva. Il Ricasoli il 20 novembre scriveva a' prefetti, che «se le società segrete fecero opera di coraggioso patriottismo quando cospiravano, ora che Italia è fatta, sono ree di fellonia, cospirando contro il governo nazionale» cioè contro esso Ricasoli; però ordinava si sorvegliassero e punissero.

§. 19. Più rabbie parlamentari.

Quasi tante perpetrate morti e nefandezze non bastassero, i liberaloni del parlamento si scagliavano contro la troppa libertà. Il Petruccelli a' 6 dicembre disse: «La libertà talvolta è omicida. Abbiamo bisogno d'un nuovo anno 1793. A ogni cittadino un moschetto, a ogni traditore un patibolo. » E fu chi diegli del bravo. Ma come nel 93 il primo patibolo s'alzò pel re, cosi lucida era la conseguenza. E che meno del 93 nel napolitano? ma colui volea farvi il deserto, acciò vi sguazzassero poche belve come lui: fu lampo della feroce legge Pica uscita 1' anno appresso.

Il deputato Bertani a' 7 accusò il ministero di violare il segreto postale, violato anche ad esso. I ministri se n' offesero, dichiararono ch'ove fosse vero si terrebbero rei di delitto. Elessesi una giunta a verificarlo; la quale chiese vedere i registri dell'Interno, e 'l Ricasoli non li volle mostrare. Essa trovato vero il delitto, per evitare lo scandalo, fé un ridicoloso rapporto: assicurò violato il segreto postale, e che il Bertani avea ragione, ma che anche i ministri non aveano torto.

Forse /voleva dire che a leggere le lettere de’   cittadini bene, ma d'un deputato no; e non fu rimestato.

§. 20. Rabbie finanziere.

l guai maggiori di quel governo malversatore stan sempre nelle Finanze. Proclamata ladra l'amministrazione antica, i liberatori co’   fatti loro si mostrarono ladrissimi. Stamparono d'uffìzio che nel 1860 riscossero d'entrate lire 471, 499, 722, 60, e ne spesero 829, 875, 728, 10, cioè in più 348 milioni o 376, 005, 50 che raggranellarono vendendo a libito rendite pubbliche. Ma dicevano quello essere anno anormale. Poi nel 1861 spesero un bilione e undici milioni e 39, 881, 63 lire, cioé in più dell'entrate 533 milioni e 608. 416, 30; cui rimediarono con lo imprestito de’ 700 milioni. Questo a' profani manifestarono, il vero chi 'l seppe mai? Disonesti scialacquanti di quel del pubblico, avriano arso il mare. Non bastate le tante cresciute tasse, non il decimo di guerra imposto nel napolitano, esteso il 5 dicembre a tutta Italia, non i debiti fatti allora, quel ministro Bastogi a' 21 dicembre disse in parlamento, ch'oltre i milioni spesi in più quel!' anno, ne occorrevano altrettanti da spendere nel 62; però chiedeva altri prestiti, altre imposte. Propose anche vendere titoli di nobiltà a denari. Febbre era di pigliare e sparnazzare. La rivoluzione sin oggi s'ha inghiottito e inghiotte un milione e più di disavanzo per ogni giorno che passa; sicché a tutto il 66 gl’Italiani han pagato per tasse quattro bilioni e mezzo al governo rivoluzionario, che ha speso invece otto bilioni. E quei che celebravano la costituzionalità del vedere i conii, e accusavano di non dare conti i prenci assoluti, che spendevano poco, quelli dico gran costituzionali non hanno poi dato un conio in sette anni, perché forse è in essi un abisso che neppure osano guardare. Ma quella camera non si sbigottiva di nulla; o anzi il 12 del mese riconfermava il suo voto del 27 marzo, cioè Roma capitale d'Italia; e col deliberamento stesso dichiarava mancare all'Italia, oltre Roma «l'armamento nazionale, l'ordinamento, l'efficace tutela delle persone e della proprietà, un personale onesto, abile e devoto alla causa nazionale, il riordinamento della magistratura, lo sviluppo de’  lavori pubblici e della guardia nazionale.» E volea Roma, per regalarle la felicità.










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