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SALVIAMO DIALETTI E CANTI DEL SUD

di SEBASTIANO GERNONE
 
(clicca qui, se vuoi scaricare questo articolo in formato RTF)


 
Un populu mittitilu a catina
Spugghiatilu 
Atttupatici a vucca,
E` ancora libiru.    
Livatici u travagghiu  
U passaportu 
A tavula unni mancia   
U lettu unni dormi,
E` ancora libiru.    
Un populu
Diventa poviru e servu,  
Quannu ci arrobbanu la lingua
Addutata di patri:
E` persu di sempri.     
Diventa poviru e servu  
Quannu li paroli nun figghianu paroli   
E si mancianu tra d'iddi.
Mi nn'addugnu ora     
Mentri accordu a chitarra du dialettu    
Ca perdi na corda lu iornu…
Un popolo mettetelo in catene
spogliatelo
tappategli la bocca
È ancora libero.
Levategli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto in cui dorme
E' ancora libero.
Un popolo
diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua
ricevuta dai padri :
È perso per sempre.
Diventa povero e servo
quando le parole non figliano le parole
e si mangiano tra di loro.
Me ne accorgo ora
mentre accordo la chitarra del dialetto
che perde una corda al giorno

Ignazio Buttitta “Lingua e dialettu”
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Puozze na vota resuscità! / Scétate, scétate, Napule, Na’!
 

 S. Di Giacomo “ Luna nova”

 

Intendiamo scrivere cosa utile e ragionata nel sincretizzare un insieme di poesie del Sud,  articoli, interviste, testi di leggi in modo da diffondere – in molteplici direzioni e nel più lontano raggio possibile – l’urgente sollecitazione e desiderio di messa a fuoco di tutti gli strumenti utili alla tutela e alla rinascita d’uso del prezioso patrimonio dei Canti e Dialetti del Mezzogiorno –  scelta con diletto obbligata per ricerche che ci coinvolgono, e affinità culturali e storiche della macroregione duosiciliana - sebbene alcune analisi rintracciate riguardino l’intero territorio italiano, ed anch’esse vanno riportate per un comune cammino di conservazione e bellezza di una Memoria che appartiene a tutti. L’impegno che riversiamo speriamo stimoli gli assessori alla Cultura, le associazioni, le tv e le radio pubbliche e private, i singoli operatori ad estendere il progetto d’azione che - lanciando quest’ultimo prezioso sasso nella stagnante omologazione culturale - proponiamo a tutti i lettori.
Sull’utilità della cultura dialettale con il suo ricco patrimonio linguistico, favolistico, fonetico,

espressivo richiamiamo alla memoria l’impegno di tutti i ricercatori appassionati

d’ogni singola comunità, e quelle rare intelligenze di Calvino e Pasolini.

Calvino con la raccolta delle Fiabe di tutte le regioni e con molti scritti, citazioni, riferimenti (la sua passione per il cantautore Matteo Salvatore è nota), e Pasolini altrettanto

con la geniale antologia della poesia popolare dialettale (utilissima anche quella più recente d’autori vari nei Meridiani Mondadori curata da Franco Brevini), e con vari interventi in forme diverse.

Alberto Moravia in proposito, ricordava che la ricerca pasoliniana era riflesso reale delle voci popolari, e non aulica retorica quale fu quella alfieriana funzionale alla Nazione dei pochi.

Sia Calvino sia Pasolini hanno insistito sul valore rilevante della cultura definita locale, che inizia dall’espressione nei quartieri, nei piccoli paesi, nelle città, e davvero arricchisce l’insieme della corale sinfonia dei moduli espressivi parlati, suonati e cantati di un Paese; il premio Nobel Dario Fo ha sempre valorizzato le lingue popolari nei suoi testi e nel teatro rappresentati in tutto il mondo, vale a dire che le emozioni, le storie, le fantasie, le gioie e rabbie raccontate nei dialetti sono reali, vitali e non hanno confini se l’interprete è di gran pregio; e non è un caso se Eduardo De Filippo, sensibilissimo interprete in dialetto dell’universo meridionale napoletano seppure sempre conciliante nei finali, diede la direttiva affinché l’orazione funebre in suo onore fosse tenuta – come lo fu -da Dario Fo (allora non premio Nobel) con gran sconcerto dei potenti …

Pasolini, inoltre e a mo’ d’esempio, nella lettura dei nostri Dialettali osservava a proposito dei versi del barese Lopez riportati in un suo articolo:

‘ E u cardellicchie cande allegramente ‘...

“c’è molto di più o di diverso di quanto potrebbe far pensare la traduzione italiana: ‘il cardellino canta allegramente’... tra ‘cardellino’ e ‘cardellicchie’ c’è il salto che conduce da una fredda chiarezza a una sensualità diffusa, dall’affresco, diremmo, all’olio...”(P. P. Pasolini, Sulla Poesia Dialettale p.111, in Quaderni Internazionali diretti da Enrico Falqui, Mondadori 1947).

Del poeta Davide Lopez (1867 – 1953) che ricoprì cariche pubbliche si ricorda anche la poesia di denuncia civile, un rilievo amarissimo sulla realtà che si è formata con la Nazione senza alcuna nostalgia del passato. Con il noto racconto del garibaldino Checchi (in Eugenio Checchi: opere. 1886 Memorie di un garibaldino) che riguardava l’ostilità popolare dei baresi all’arrivo delle camicie rosse nel 1866 – dunque, dopo aver riscontrato duramente sulla propria condizione di vita il carattere di conquista del Sud del Risorgimento  -, Lopez  molti anni dopo continua la denuncia contro i governi crispini (si noti che il Crispi fu il regista della operazione dei Mille in Sicilia…) e giolittiani, ormai chiaramente colonialistici nella politica interna con l’ex Regno delle Due Sicilie e in quella estera: la Nazione mostra il suo divenire storico: dominio interno, colonialismo,  dittatura e imperialismo fascista…

Testo tratto da D. Lopez  “Canti Baresi”(1915):

 

 

U munne neve Il mondo nuovo

 

A jere si  rideve e si chjagheve,   Ieri si rideva e si piangeva,

ma josce non si mange e non zi beve;      ma oggi non si mangia e non si beve;

 

a jere chemmannave ‘nu bribbande,      ieri comandava un birbante,

ma josce stame ’manne a le brigande… ma oggi siamo in mano ai briganti…

 

A jere ci parlave ere arrestate    Ieri chi parlava era arrestato

ma josce ci non bache jè spegghjate;      ma oggi chi non paga è arrestato;

 

a jere che tre Jeffe era la ‘mbrese,   ieri con Festa Farina Forca era l’impresa

josce che tre Pe l’honne distese. oggi con Patria Popolo Progresso è distesa

 

La facce de la terre s’ha veldate,   La faccia della Terra s’è voltata,

u munne neve u vecchie ave scacciate;    il mondo nuovo il vecchio ha scacciato;

 

ave scacciate tutte, finghe u bene, ha scacciato tutto, finanche il bene

e ngi ave date ‘ngambie tasse e pene!     e in cambio ha dato tasse e pene!

 

U munne neve è care e jè criuse,   il mondo nuovo è caro e curioso,

fasce salì ngartedde le mueruuse. fa salir in cattedra i mocciosi.

 

Accoggje a vrazze apierte le brigande,  Accoglie a braccia aperte i briganti,

le ladre de la Paddrie chiame sande:      i ladri della Patria chiama santi:

 

ci tene sale ‘ngape e ‘mbiette core, chi ha sale in zucca e cuore,

afflitte cambe e disperate more!  afflitto vive e disperato muore!

 

Dassuse cingheciende bergeniedde Lassù cinquecento pulcinella

n’honne spilate come a le gardiedde.    ci hanno spennati come galletti.

 

Evviva a cusse munne! sembe ‘nnande!  Evviva a questo mondo!sempre avanti!

avim’a corre a passe de giagande! dobbiamo correre a passi da giganti !

 

Viva la libertà, viva l’Itagghje!   Viva la libertà, viva l’Italia!

mmò sime pisce e prime erme fragagghje!…    ora siamo pesci e prima eravamo fragaglia!…

(traduzione sg)

 

La denuncia storica che riscontriamo in Lopez è sempre presente nel grande poeta in lingua siciliana Buttitta e che - riscontriamo nuovamente nelle lingue popolari - non si legano alle “semplificazioni” delle versioni storiografiche dei gruppi in lotta per il potere, è la loro una lettura anche linguistica diretta, complessa e, probabilmente, più veritiera:

 

Un Seculu di Storia
Ignazio Buttitta
(Settembre 1970)

 

Accusu i politici

Accuso i politici

d'oggi e d'aeri:

di oggi e di ieri:

Crispi e compagni,

Crispi e compagni

pridicatura da monarchia,

predicatori della monarchia,

beccamorti e fallignami

beccamorti e falegnami

ca nchiuvaru a Sicilia

che inchiodorano la Sicilia

viva nta cruci.


viva alla croce.

Accusu i Savoia,

Accuso i Savoia,

i primi e l’ultimu

i primi e l'ultimo

re e imperaturi,

re e imperatore,

fascista e talianu

fascista e italiano,

ncurunatu di midagghi

incoronato di medaglie

scippati cu sangu

strappate con il sangue

ndo cori di matri.


dal cuore delle madri.

Un seculu di guerri,

Un secolo di guerre,

un seculu di stragi:

un secolo di stragi:

c'è ossa di siciliani

ci sono ossa di siciliani

vrudicati nte diserti,

sotterrate nei deserti,

nta nivi,

nella neve,

nto fangu di ciumi:

nel fango dei fiumi:

c'è sangu di sulfarara,

c'è sangue di zolfatari,

di zappatura,

di zappatori,

di matri scheletri

di madri scheletri

e picciriddi sparati

e bambini uccisi

nte chiazzi da Sicilia.


nelle piazze della Sicilia.

Non hanno vuci e gridanu

Non hanno voce e gridano

L’ammazzati du ‘93

gli ammazzati del '93

chi petri nte sacchetti

con le pietre nelle tasche

e la fami nte panzi vacanti.


e la fame nelle pance vuote.

Non hannu vuci e gridanu

Non hanno voce e gridano

cu coddu sutta i pedi di baruna,

con il collo sotto i piedi dei baroni,

cu l’ossa sturtiggnati du travagghiu;

con le ossa storcigliate dal lavoro;

ca lingua i cani

con la lingua di cani

e u ciatu e denti.


e il fiato ai denti.

Tri ghiorna di macellu

Tre giorni di macello

di martorii e beccamorti

di mortori e beccamorti

di lamenti e chiantu

di lamenti e pianto

nte casi di poviri.


nelle case dei poveri.

Ci fu carni a bon prezzu

Ci fu carne a buon prezzo

nte tavuli di baruna;

sulle tavole dei baroni;

a bon prezzu

a buon prezzo

pi sovrani di Roma;

per i sovrani di Roma;

a bon prezzu pi Crispi,

a buon prezzo per Crispi,

macillaru di corte;

macellaio di Corte;

e Lavriano

e Lavriano

ginirali e sicariu

generale e sicario

pagatu a ghiurnata.


pagato a giornata.

L’avemu cca

Li abbiamo qui

Ancora cca

ancora qui

chi stissi facci

con le stesse facce

e u cori di sarvaggi

e il cuore di selvaggi

i scannapopulu;

gli scannapopolo;

ci liccamu i pedi,

gli lecchiamo i piedi,

ci damu u votu,

gli diamo il voto,

l’ugnia pi scurciarinni;

le unghie per scorticarci,

a corda pi nfurcarinni;

la corda per impiccarci;

a mazza e a ncunia

la mazza e l'incudine

pi rumpirinni l’ossa.


per romperci le ossa.

L’avemu cca

L'abbiamo qui

ancora cca a mafia,

ancora qui la mafia,

assitatta nte vanchi d’imputati

seduta sui banchi degli imputati

a dittari liggi;

a dettare legge;

a scriviri sintenzi di morti

a scrivere sentenze di morte

chi manu nsangati.


con le mani che sanguinano.

L’avemu cca

Li abbiamo qui

I compari da mafia

i compari della mafia

Chi manu puliti,

con le mani pulite,

i firrara di chiavi fausi,

i fabbri di chiavi false,

i spogghia artari ca cruci nto pettu;

gli spoglia altari con la croce sul petto;

unni posanu i pedi sicca l’erba,

dove posano i piedi secca l'erba,

sicca l’acqua

secca l'acqua,

spuntanu spini e lacrimi pa Sicilia.


spuntano spine e lacrime per la Sicilia.

L'avemu cca

Li abbiamo qui

L’affamati du putiri;

gli affamati del potere;

l’affamati di carni cruda,

gli affamati di carne cruda,

ca cridinu a Sicilia

che credono la Sicilia

un porcu scannatu

un porco scannato

e ci spurpanu l’ossa.


e le spolpano le ossa.

Si si sicilianu

Se sei siciliano

isa u vrazzu,

alza il braccio,

grapi a manu:

apri la mano:

cincu banneri russi,

cinque bandiere rosse,

cincu!

cinque!

Adduma a pruvulera du cori!


Accendi la polveriera del cuore!

Si si sicilianu

Se sei siciliano

fatti a vuci cannuni,

fatti la voce cannone,

u pettu carru armatu,

il petto carro armato,

i gammi cavaddi di mari:

le gambe cavalli di mare:

annea i nimici da Sicilia!


annega i nemici della Sicilia!

L’avemu cca e cantanu

Li abbiamo qui e cantano

I rusignoli ammaistrati

gli usignuoli ammaestrati

c’agghiuncinu lacrimi di nchiostru

che aggiuugono lacrime d'inchiostro

e lacrimi da Sicilia,

alle lacrime della Sicilia

e stornellanu u misereri

e stornellano il miserere

a gloria di patruna.


a gloria dei padroni.

Cantanu odi o suli

Cantano odi al sole

o celu

al cielo

o mari

al mare

a zagara,

alla zagara,

e portanu a Sicilia ntronu

e portano la Sicilia sul trono

cu velu niuru

col velo nero

di mala maritata.


di mal maritata.

U furnu svampa

Il forno avvampa

e ghettanu cinniri a palati,

e buttano cenere a palate,

incapaci d’impastari

incapaci d'impastare

i cori di sicililiani

i cuori dei siciliani

e farinni unu a tri punti

e farne uno a tre punte

tridici voti chiù granni da Sicilia.


tredici volte più grande della Sicilia.

A Sicilia non havi chiù nomi

La Sicilia non ha più nome

né casa e paisi;

né casa e paese;

havi i figghi sbattuti pu munnu

ha i figli sparsi per il mondo

sputati comu cani,

sputati come cani,

vinnuti all’asta:

venduti all’asta

surdati disarmati

Soldati disarmati

chi cummattinu chi vrazza.


che combattono con le braccia.

Chi vrazza,

Con le braccia,

i rami virdi da Sicilia,

i rami verdi della Sicilia

arrimiscanu a terra,

rimescolano la terra,

rumpinu timpuna,

rompono le zolle,

siminanu

seminano

e fanno orti e ghiardina.


e fanno orti e giardini.

Chi vrazza...,

Con le braccia,

fabbricanu palazzi,

fabbricano palazzi,

costruiscinu scoli,

costruiscono scuole,

ponti,

ponti,

officini

officine

e aeroporti.


e aeroporti.

Chi vrazza,

Con le braccia,

i lapi di meli da Sicilia

le api da miele della Sicilia

grapinu strati,

aprono strade,

spirtusanu muntagni,

perforano montagne,

svacantanu a panza da terra.


svuotano la pancia della terra.

Chi vrazza,

Con le braccia,

i surdati senza patria,

i soldati senza patria,

i sfardati,

gli stracciati,

i carni senza lardu

e carni senza lardo

vestinu d’oru i porci di fora.


vestono d'oro i porci di fuori.

I chiamanu terroni,

Li chiamano terroni

zingari,

zingari,

pedi fitusi;

piedi fetenti;

e hanno i figghi e i matri

e hanno i figli e le madri

chi cuntanu i ijorna

che contano i giorni

cu l’occhi vagnati;

con gli occhi bagnati;

e stu cielu ca vasu,

e questo cielo che bacio,

e sta terra chi toccu

e questa terra che tocco

e mi canta nte manu;

e mi canta nelle mani;

e seculi di civiltà

e secoli di civiltà

sutta i pedi.


sotto i piedi.

A sicilia non havi chiù nomi;

La Sicilia non ha più nome;

ma miliuna di surdi e di muti

ma milioni di sordi e di muti

affunnati nta un puzzu

sprofondati in un pozzo

ca io chiamu e non sentinu,

che io chiamo e non sentono,

e s’allongu i vrazza

e se allungo le braccia

mi muzzicanu i manu.


mi mordono le mani.

Io ci calassi i cordi di vini,

Io gli calerei le corde delle vene,

i riti di l’occhi

le reti degli occhi

pi tiralli du puzzu;

per tirarli dal pozzo;

pirchì cca nascivu

perché qui sono nato

e parru a lingua di me patri;

e parlo la lingua di mio padre;

e i pisci

e i pesci

aceddi

gli uccellì

u ventu,

il vento

puru u ventu!

pure il vento!

trasi nt’aricchi

entra nelle orecchie

e ciarlaria nsicilianu.


e ciarla in siciIiano.

Cca nascivu,

Qui sono nato,

e si mi vasu i manu

e se mi bacio le ,mani

vasu i manu di me morti;

bacio le mani dei miei morti;

e si m’asciucu l’occhi

e se mi asciugo gli occhi

asciucu l’occhi di me morti.


asciugo gli occhi dei miei morti.

Cca nascivu,

Qui sono nato

addattavu nte minni di sta terra,

allattai nelle mammelle di questa terra

ci sucavu u sangu:

le succhiai il sangue;

si mi tagghiati i vini,

se mi tagliate le vene,

vi bruciati i manu!


vi bruciate le mani!

Non è veru c’amamu a Sicilia

Non è vero che amiamo la Sicilia

si avemu a storia nto pugnu

se abbiamo la storia nel pugno

e l’affucamu;

e la soffochiamo;

non è veru

non è vero

si addumanu u focu

se accenciamo il fuoco

e l’astutamu;

e lo spegniamo;

non è veru mancu

non è vero nemmeno

si stamu un ghiornu libiri

se stiamo un giorno liberi

e pi cent’anni servi.


e per cent'anni servi.

Non dumannamu pirdunu a storia

Non chiediamo perdono alla storia

ora ca nni scurdamu

ora che abbiamo dimenticato

i martiri di tutti i tempi

i martiri di tutti i tempi

ca misiru u coddu sutta a mannara

che misero il collo sotto la mannaia

senza chianciri:

senza piangere

Di Blasi, unu! (1)


Di Blasi, uno! (1)

Ora ca nni scurdamu

Ora che abbiamo dimenticato

i torturati nte galeri,

i torturati nelle galere,

i cunnannati a vita,

i condannati a vita,

i nfurcati,

gl'impiccati,

e l’arrustuti vivi nte chiazzi.


e gli arrostiti vivi nelle piazze.

Petri e fangu

Pietre e fango

Pi cu supporta a miseria,

per chi sopporta la miseria,

petri e fangu

pietre e fango

pi cu batti i manu e putenti

per chi batte le mani ai potenti

petri e fangu

pietre e fango

pi cu non metti u coddu

per chi non mette il collo

nta furca da libirtà:

nella forca della libertà:

u dicu e siciliani,

lo dico ai siciliani

e mi scatta u cori!


e mi scoppia il cuore!

E fu aeri,

E fu ieri

(a data non cunta)

(la data non conta)

io vitti chainciri i matri

io vidi piangere le madri

nto Chianu da Purtedda, (2)

nel Piano di Portella (2)

e Saveria Megna

e Saveria Megna

addinucchiata supra l’erba

inginocchiata sull'erba

parrari cu so figghiu ammazzatu.


parlare con il figlio ammazzato.

Idda u videva,

Lei lo vedeva,

io no:

io no;

u foddi era io

il pazzo ero io

si doppo vitti nersciri di fossi

se dopo vidi uscire dalle fosse

tutti i morti pa libirtà da Sicilia:

tutti i morti per la libertà della Sicilia:

vivi

vivi

a migghiara

a migliaia

a marusi

a marosi,

cu focu nta l’occhi!


e il fuoco negli occhi!

Dammi la manu

Dammi la mano

Cola Lumbardu, (3)

Nicola Lombardo, (3)

(io parrava cu iddu!')

(io parlavo con lui! )

sfardati a cammisa, ci dissi,

straccia la tua camicia, gli dissi,

fammi vìdiri i pirtusa nto pettu

fammi vedere il petto

Sfunnatu di baddi taliani.

bucato dalle pallottole italiane.

A Bronti, ci, dissi,

A Bronte, gli dissi,

nto Chianu i San Vitu

nel Piano di San Vito

dopu cent’anni cu passa

dopo cent'anni chi passa

senti ancora a tò vuci:

sente ancora la tua voce

moru pu populu!


muoio per il popolo!

Cuntami a storia

Raccontami la storia

Turiddu Carnivali, (4)

Turiddu Carnevale, (4)

(io parrava cu iddu!')

(io parlavo con lui!)

figghiu du nfernu e du paradisu,

figlio dell'inferno e del paradiso,

cuntami a storia!


raccontami la storia!

Nta stu pugnu c’è a morti,

In questo pugno c'è la morte,

ti dissiru;

ti dissero;

nta stu pugnu i dinari,

in questo pugno i denari

ti dissiru;

ti dissero;

e tu :

e tu:

a morti,

la morte,

a morti!

a morte!

E ci turcisti u pugnu.


e gli torcesti il pugno.

L'indumani

L'indomani

a Sciara

a Sciara

i cumpagni

i compagni

u purtavanu a spadda:

lo portavano a spalla:

quattru,

quattro,

sudati,

sudati,

un passu doppu l’àutru.


un passo dopo l'altro.

Ntutt’unu

Di colpo

a cascia

la cassa

divintò leggia,

diventò leggera.

ci scappavadi nmanu

gli scappava dalle mani:

u mortu un c’era nta cascia,

il morto non c'era nella cassa,

caminava in prima fila

camminava in prima fila

nmenzu i banneri russi;

fra le bandiere rosse;

a testa,

la testa,

tuccava u celu!


toccava il cielo!

Cu camina calatu

Chi cammina curvato

torci a schina,

piega la schiena,

s'è un populu

se è un popolo

torci a storia..

piega la storia.

 

 

Note:
1) Francesco Paolo Di Blasi, giacobino, decapitato nel 1795.
2) Luogo dove il brigante Giuliano e la sua banda spararono sui contadini che festeggiavano la data "del I maggio" 1947.
3) Avvocato, fucilato per ordine di Nino Bixio, il giorno 8 Agosto 1860, per avere capeggiato una sommossa di contadini ; che chiedevano la ripartizione delle terre che era stata promessa da Garibaldi.
4) Giovane contadino sindacalista di Sciara, piccolo paese della provincia di Palermo, ucciso dai mafìosi il 16 maggio 1955.

 (in https://www.irsap-agrigentum.it/lingua%20e%20dialettu.htm)

 

 

 

Nel testo classico “Poesia dialettale del Novecento” Pasolini con M. Dell’Arco, curò  anche la bellissima poesia di Antonio Nitti - con Abbrescia e Lopez tra i poeti popolari baresi più sensibili - che Pasolini con grand’affinità riversò in italiano nella sua famosa antologia dialettale del ‘900….

 

Al vespro

A vrespe


Come si stringe il cuore
guardando il mare
nell’ora in cui il marinaio
scende a pescare;

quando dietro lo Specchio
il vespro, pian piano,
si distende e va lontano
la luce a tormentare;

nell’ora in cui si tinge
di fuoco San Cataldo,
quando scompare il calore
davanti all’Avemaria.


A uno a uno allora,
le pene e i dolori,
le lacrime e le punture
ti sembra di sentire.


Come se strenge u core
acchiamendanne u mare
a l’ore c’au marnare
ascenne a pezzecà;

acquanne drete a Specchi
u vrespe, chiane chiane,
se stenne e va lendane
la lusce a termendà;

a l’ore ca se tenge
de fueche San Catalde,
quanne sparesce u ccalde
nand’a l’Avemmarì.

A june a june tanne,
le pene e le delure,
le larme e le pendure
te pare de sendì.

 

L’interesse per la poesia popolare del Pasolini  - oltre ai citati vedi anche Pasolini, P. P., Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, utile anche il testo di Mirko Grasso "Pasolini e il Sud"  - poesia, cinema, società - Edizioni del Sud, Bari www. dalsud.it  -  fu certo rafforzata dall’amicizia con il poeta dialettale Vittorio Clemente che ritroviamo in un’ intervista allo stesso  Pasolini:


“Nei primi mesi del ‘50 ero a Roma, con mia madre: mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da Piazza Costaguti saremmo andati a abitare a Ponte Mammolo; già nel ‘50 avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l’aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittorio Clemente trovai un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino, a venticinque mila lire al mese”( “Profilo autobiografico” in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960.)

E Pasolini ritiene la poesia “Acqua de magge” del Clemente, che riproponiamo in un frammento, un piccolo capolavoro che fa pensare “al dialetto come a un mezzo espressivo immune  dalle inibizioni della lingua poetica novecentesca “(in Poesia dialettale del Novecento, cit. pag. LXIV ):

Acqua de magge

 

Splenneve a meraviglie lu turchine

de lu ciele serene e pe le fratte

addurèvene forte gli mbrelline

de lu sammucche, bianche come a latte.

E’re nu paradise! E’re na feste!
Ma rentummì nu tuone all’assecrune

ed ecche appresse appresse na tempeste

d’acqua che sfurie a ùttele e uttelune….

 

…Splendeva meravigliosamente il turchino del cielo sereno e tra le fratte odoravano forte gli ombrellini del sambuco, bianchi come il latte. Era un paradiso ! Era una festa ! Ma d’improvviso rimbombò un tuono ed ecco appresso appresso una tempesta d’acqua che infuria a rovesci e gran rovesci…(frammento e traduzione N.d.R.).

Amico di Clemente fu Eugenio Cirese, tra i maggiori poeti dialettali molisani e a noi dà gioia ricordare la poesia Serenatella:


Serenatella

 

Iè notte e iè serene     È notte ed è sereno

dentr’a ru core e ‘n ciele. nel cuore e nel cielo.

 

Le stelle  Le stelle

fermate   fermate

vicine,  vicine,

a cócchia a cócchia    a coppia a coppia

o sole,  o sole,

com’a pecurelle  come pecorelle

stanne pascenne stanno pascendo

l’aria de notte  l’aria di notte

miez’a ru campe    in mezzo al campo

senza rocchie   senza cespugli

e senza fine.  e senza fine.

Sponta la luna Spunta la luna

e pare lu pastore e sembra il pastore

che guarda e conta   che guarda e conta

la mandra sparpagliata, la mandra sparpagliata

e z’assecura che nisciuna     e s’assicura che nessuna

ze sperde      si perde

miez’a ru verde.       in mezzo al verde.

Canta nu rasciagnuole Canta un usignolo

la litania d’amore    la litania d’amore

dentr’a na fratta.       dentro una fratta.

Canta pe te Canta per te

che viglie, bella, che vegli, bella,

e siente e senti

la serenata  la serenata

dent’a la stanza      dentro la stanza

areschiarata. rischiarata.

Nen t’addurmì, dulcezza,   Non addormentarti, dolcezza,

veglia fin’a demane,  veglia fino a domani

e penza a me che stongh     e pensa a me che sto

a repenzà luntane,     a ripensare lontano,

e guarde      e guarda

la luna ghiancha     la luna bianca

che t’accarezza che t’accarezza

e pare che t’arrenne e pare che ti rende

ridènne      ridendo

ru vasce che te donghe.     il bacio che ti do. 

(Traduzione di Luigi Bonaffini) da Poesie molisane, 1956
 

Per l’amata Calabria rievochiamo La ninna d’ u briganteju di Vincenzo Ammirà

(versione in italiano di  Sebastiano Gernone)

 

______________________
La ninna d’ u briganteju
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_________________________
Ninna nanna del brigantello
_________________________

Veni addormentati

subbra stu sinu,

la hiocca è mammata,

tu puricinu

chi sutt’a l’ali

si ‘ngrugnu e sta,

o briganteju,

la ninna fa.

L’occhiuzzi chiudili,

quantu si’ caru!

Tutti guardatili

Ca nci ‘mbilaru;

pari lu suli

ca sindi va,

o briganteju,

la ninna fa.

Crisci : si^ orfanu,

lu patri amatu,

briganti ‘ntrepidu,

t’hannu ammazzatu

facendu focu

di ccà e di là,

o briganteju,

la ninna fa.

Vint’anni, cridimi,

non toccau tila,

dormia n’tra l’erbi

ch’havi la Sila,

senza timuri,

senza pietà,

o briganteju,

la ninna fa.

Crisci: assimigghialu

Cà nci si^ figghiu,

nommu si^ timidu

comu connigghiu,

curri a lu varcu,

non stari ccà,

o briganteju,

la ninna fa.

Ti vogghiu vìdari

Cu la scupetta,

cu lu cervuni,

cu la giacchetta,

cu lazzi e ‘nciocioli

‘nquantità,

o briganteju,

la ninna fa.

Potissi vìdari

Mammi e mugghieri,

di li cchiù ‘ntrepidi

briganti veri,

pemmu mi chiamanu,

filicità!

o briganteju,

la ninna fa.

Addormentati

sul mio seno,

la Chioccia è mamma,

tu il pulcino

che sotto le ali

s’imbroncia e sta,

o brigantello,

la ninna fa.

Chiudi gli occhiuzzi,

o mio amato!

Guardateli

sembrano velati;

sembra il sole

che s’abbandona,

o brigantello,

la ninna fa.

Cresci: sei orfano,

il padre amato,

brigante intrepido,

ti hanno ammazzato

facendo fuoco

di qua e di là,

o brigantello,

la ninna fa.

Vent’anni, credimi,

non toccò tela,

dormì tra l’erba

che la Sila copre,

senza timore,

senza pietà,

o brigantello,

la ninna fa.

Cresci: a lui Pari

ché a lui sei figlio,

non essere timoroso

come coniglio,

corri al varco,

non star qui,

o brigantello,

la ninna fa.

Ti voglio vedere

Con la schioppetta,

il cappello conico,

giacchetta,

e tanti lacci e ciondoli,

in quantità,

o brigantello,

la ninna fa.

Possano vedere

madri e spose,

dei più valorosi

briganti veri,

ora mi chiamano,

felicità!

o brigantello,

la ninna fa.

 


Il lavoro di ricerca di questa poesia è stato possibile grazie al ritrovamento causale di un’antologia, su una bancarella di libri a Roma vicino l’Università (quella del generoso e buono Stefano da poco scomparso, un suo ennesimo dono), curata da Antonio Piromalli e Domenico Scarfoglio (“L’identità minacciata. La poesia dialettale e la crisi postunitaria. I° vol.: Il Meridione”), pubblicata dalla meritoria Casa Editrice G. D’Anna Messina - Firenze 1977.

Vincenzo Ammirà (1821-1898) è considerato il maggiore poeta dialettale calabrese dell’800.Nacque e visse a Monteleone (l’attuale Vibo Valentia) e fu autore perseguitato per i suoi versi e per l’impegno politico sia dai Borbone sia dai Savoia, soprattutto per un suo poemetto “osceno” La Ceceide( vedi https://www.sbvibonese.it/biblio/laceceide/la_ceceide1.html ).

Celebrò nelle sue poesie i briganti e le prostitute in un’anarchia artistica censurata e, a quanto se ne sa, molte poesie sono a tutt’oggi inedite.

Ricordiamo ancora tra i maggiori “Lo Cunto de li Cunti”, conosciuto anche come Pentamerone, il capolavoro di Giambattista Basile(1566-1632), uno dei più grandi narratori dialettali della letteratura italiana. Nella prosa del “Boccaccio Napoletano “ il dialetto della gente comune diventa raffinata magia e fiaba barocca, e in una grande felicità creativa si racconta la realtà popolare del Meridione italiano del Seicento (v.Giambattista Basile, “Il cunto de li cunti” nella riscrittura di Roberto De Simone. Edizione in due volumiI-949 Milano, Einaudi - I Millenni, 2002 )

Desideriamo omaggiare tra i grandi poeti, i versi di Salvatore Di Giacomo che diedero voce alla sua città, e che il critico Gianfranco Contini nel 1968 considerò “in assoluto una delle più poetiche del suo tempo”:

“Nu pianefforte ’e notte / sona luntanamente, / e ’a museca se sente / pe ll’aria suspirà. / È ll’una: dorme ’o vico / ncopp’ a sta nonna nonna / ’e nu mutivo antico / ’e tanto tiempo fa. / Dio, quanta stelle ncielo! / Che luna! E c’ aria doce! / Quanto na bella voce / vurria sentì cantà! / Ma sulitario e lento / more ’o mutivo antico; / se fa cchiù cupo ’o vico / dint’ a ll’oscurità. / L’anema mia surtanto / rummane a sta fenesta. / Aspetta ancora. E resta, / ncantannose, a penzà”(Pianefforte ‘e notte).

Per la Lucania, il grande poeta dialettale più volte candidato al Premio Nobel è stato Albino Pierro, scrittore in tursitano, l’arcaico idioma di Tursi che non aveva alcun tipo di trascrizione letteraria e che così recita in:

 

Metaponto
(Metaponto)

 

 

Ci su’ tante billizze,     Ci sono tante bellezze,

a Metaponte,    a Metaponto
ca s’abbràzzene mute suttaterra.     che si abbracciano mute sottoterra.

Di tutte sti cose antiche   Di tutte queste cose antiche
le sèntese u respire     senti il respiro
com quanne a lu scure     come quando al buio
t’appòggese c’ ‘a ricchia     ti appoggi con l’orecchio
a na singa di mure.     a una crepa di muro.


C’è nachièna canun spìccente mèi       C’è una pianura che non finisce mai
a Metaponte    a Metaponto
e quanne nd’a staggione      e quando nell’estate
si còcete nd’u sòue     si cuoce nel sole,
arrivèntete granne cchiù d’u mère  diventa grande più del mare
come fùssete vitre nda n’abbàgghie come fosse vetro in un abbaglio
ca si gnùttete i  cose   che s’inghiotte le cose
e tu nun vìrese  e tu non vedi
manche nu fihicèlle di pàgghie.       Nemmeno un sottile filo di paglia.

Iè crère ca pure mo,     Io credo che ancora ora,
u filòseme antiche, il filosofo antico,
c’avì’ na iamma d’òore      che aveva una gamba d’oro
e ca stavìte e che era presente
nda nu stesse mumente a que e allè,   nello stesso momento qui e là,
ci iòchete cuntente quann’è notte   
giochi contento quando è notte
cchi nu mère di stelle;   con un mare di stelle;
e nda quillu iancore accussì duce,       e in quel biancore così dolce,
sintènnese chiamè come cc’ ‘a vocia
sentendosi chiamare con la voce
di n’organe affuchète nd’i muntagne,      di un organo sommerso in mezzo ai monti,
le pàrete ca sè cchi nivichè.  gli sembra quasi nevichi.
Eppure,  Eppure,
nda tutte chille billizze,  tra tutte quelle bellezze,
vire ca ci su’ ssempe e ca ci tòrnene   vedo che ci son sempre e che ritornano
come ll’ombre ca pàssene nd’u specchie   come le ombre che passan nello specchio
o com’i nuuicèlle ianche e nivre…
    o come bianche e nere nuvolette…”

 (trad.sebastiano gernone)

 In Metaponto, Il Nuovo Cracas, Roma 1963, pp. 85-90.

 

Un poeta raro è Achille Serrao nato a Roma nel 1936 da genitori campani: è poeta, scrittore e critico, direttore della rivista Periferie e del Centro di documentazione della poesia dialettale «V. Scarpellino». In dialetto  -quello paterno di Caivano, per Serrao  “più duro e aspro del napoletano”, ha pubblicato numerose raccolte di versi: Mal’aria, ’O ssupierchio, ’A canniatura, Cecatèlla, Semmènta vèrde, Cantalèsia e Via terra. Antologia di poesia neodialettale.

Leggiamo:“ La straordinaria poesia d’Achille Serrao si situa nel contesto della continuità del patrimonio poetico napoletano attraverso i secoli - da Cortese e Basile al Novecento – della cui tradizione Serrao è profondo innovatore, superando, insieme con altre e diverse voci (Salvatore di Natale, Michele Sovente, Tommaso Pignatelli, Mariano Bàino) i due filoni principali della poesia napoletana agli inizi del secolo, quello realistico di Ferdinando Russo e quello melico di Di Giacomo, ancora rintracciabili – il cantabile digiacomiano specialmente - nel verismo piccolo borghese d’Eduardo De Filippo e d’Antonio De Curtis.
Il rifiuto della tradizione melica da parte di Serrao e dei poeti citati è un’operazione sia ideologica che letteraria, non scevra da importanti risvolti antropologici, che mira al recupero di una specificità culturale sepolta sotto il peso dei modelli imposti, del bozzettismo letterario, del folklorismo, della canzonetta e del cantabile. Strumento essenziale per la ricostruzione di una cultura e di una memoria personale ed autentica diventa il neodialetto, nella misura in cui riesce a liberarsi dalle ipoteche del passato: rifiuto allo stesso tempo etico ed estetico della tradizione napoletana - nota Brevini parlando di Serrao - perché il poeta neodialettale napoletano respinge sia l’apologia della miseria che la cantabilità del linguaggio, e pone la sperimentazione linguistica al centro della sua contestazione. Così si esprime, in proposito, lo stesso Serrao:

Oggi giungo al dialetto e ne assumo responsabilmente l’impiego soprattutto, da un lato da una esigenza di concretezza operativa ed espressiva, con il proposito di recuperare all’esistenza che conduco quei valori antropologici per troppo tempo inespressi e addirittura relegati ai confini della vergogna familiarsociale; dall’altro, e contemporaneamente, da un movente psicologico: la religiosa necessità di instaurare con il padre morto un dialogo di verifica del vissuto, dei come dei perché, nell’unica lingua in definitiva comune, di eguale lunghezza d’onda, una lingua di possibile intesa rinvenuta nel luogo dove affondano le radici di famiglia, dove antropologia e memoria hanno lasciato sedimenti.

… leggere una poesia di Serrao, specialmente per chi conosca la poesia dialettale napoletana, significa avventurarsi in un territorio disorientante, sconosciuto, dove sono scomparsi i riferimenti soliti e le abituali aspettative, le tracce rassicuranti di una continuità lessicale e stilistica. “La poesia di Serrao – sottolinea Luigi Bonaffini - ha un effetto sconvolgente perché è assolutamente nuova, senza precedenti o riscontri riconoscibili, ricrea continuamente il linguaggio nel suo intimo, spinge la sintassi ad esiti inquietanti, a volte di estrema densità e concentrazione, ma anche di segreta armonia ed equilibrio. È una poesia d’urto, che cancella sistematicamente ogni potenziale tendenza all’orecchiabilità, alla scorrevolezza, alla parola facile”. (Rimandiamo al lettore la lettura “esplosiva” di Achille Serrao riportando per ovvi motivi solo due poesie,N.d.R):

 
‘O cunto d”e ccose piccerelle Il racconto delle piccole oscure cose:

Dint’a na notte mariuncella cose   In una notte mariola cose
‘e niente spatriate e sgrimme pur’esse ca nun tèneno
 da niente disperse e aggrinzite senza cuntarielle ‘a cuntà: rilorge quacche   storie da raccontare: orologi qualche     llibbro nu lappese ‘nguacchiato    libro una matita macchiata
‘e gnostra ‘mponta e ‘o cantaro addereto
d’inchiostro in punta e il pitale dietro
‘a culunnetta, ruseca ‘o lietto quanno 
 il comodino, cigola il letto quando
spànteco, quanno cu’ maggio stréuzo 
 spasimo, quando in questo maggio strambo
m’avoto, doce mese accreanzato
 mi rigiro, dolce tenero mese
‘mman’a cchillo accreanzato assaje.  
una volta tenerissimo.


 


Mal’aria

 

C’è rummasa ‘a scumma d”a culàta mo’      C’è rimasta la schiuma del bucato ora
na chiorma ‘e muscille che s’aggarba
 una marmaglia di gatti che assapora
pezzulle ‘e pane sereticcio quacche 
pezzi di pane muffo qualche
“silòca” ‘nfacc’ê pporte arruzzuta
“affittasi” sulle porte arrugginito
e ‘o viento nu viento ahi na mal’aria   
 e il vento un vento ahi una mal’aria
‘a quanno se ne só  
 da quando se ne sono
fujute tutte quante secutanno ‘o ciuccio ‘nnante, ‘e notte     
fuggiti tutti seguendo l’asino avanti, di notte
cu”a rrobba ‘a robba lloro (‘o ppoco pucurillo ca serve e tene)
con la roba di casa (il poco poco che serve e si mantiene
e ‘a pòvere s’aiza ‘int’a stu voltafaccia
    e la polvere si solleva in questo voltafaccia
pe’ ll’aria che se tegne d”o janco d”a petrèra. 
 nell’aria che si colora del bianco della pietraia.

in www.fabruaria.it: la nota da cui abbiamo attinto e le traduzioni sono di Laura Ricci che sentitamente ringraziamo.

Un aspetto particolare della poesia meridionale dialettale  è quella che si esprime negli emigranti che si sono acculturati all’estero, ma che hanno conservato come uno scrigno prezioso la lingua dei padri. Tra questi nominiamo quali loro ambasciatori Joseph Tusiani e Giose Rimanelli.

JOSEPH TUSIANI nato a san Marco in Lamis (Foggia) nel 1924 emigrò in America nel 1947. Da condizioni di partenza difficili ha raggiunto il titolo di Professor emeritus di letteratura italiana all’università di New York, è autore riconosciuto di poesia inglese, latina e dialettale (curata in quattro ampie monografie da Cosma Siani), e noto traduttore di classici italiani. Riportiamo la sua voce antica in :


Li tataranne  I nonni

Non sacce chija sònne; sacce sule.  Non so chi sono, so solo

che, iune de quisti iurne, che uno di questi giorni

j’a ì a ffà pe ssempre cumpagnia   andrò a fare per sempre compagnia

a ddi vicchiune de lla terra mia,   agli antichi vecchi  della terra mia,

a quiddi tataranne che, na vota,  a quei nonni che una volta

cullu mente appuiate allu bastone, col mento appoggiato al bastone

ce assettàvene fore sedevano fuori

allu sole lijone,      al solleone

e ffacevene sempe nu trascurse,  e discorrevano sempre

quiddu trascurse che mmo fanne ancora      quel discorso che ancora fanno

cu ccerre e vente, cu rradice e rrame,   con alberi e vento, con radici e rami,

e culla prima ièreva ch’addora.      e con la fresca erba odorosa.

(traduzione sebastiano gernone)

 

GIOSE RIMANELLI  nato nel 1926 a Casacalenda (Molise) emigrò negli Stati Uniti e divenne  Professore Emerito di Italiano e di Letteratura Comparata all ‘Università di S.U.N.Y a Albany. Raggiunse fama internazionale con alcuni suoi romanzi degli Anni Cinquanta, fra i quali Tiro al piccione (1953) (ristampato da Einaudi, 1991), ha ricevuto l’American Book Award per il suo romanzo Benedetta in Guysterland (1993). All’attività narrativa ha unito gli scritti di poesia, giornalismo, teatro e critica letteraria.
I suoi libri di poesia includono Carmina blabla (1967), Monaci d’amore medievali (1967), Poems Make Pictures Pictures Make Poems (1971), Arcano (1990), Moliseide (1992). Rimanelli è apprezzato musicologo e pittore. Trascriviamo la sua sofferta lirica per il terremoto di pochi anni fa nel natìo Molise.
   Te

U terremòte  Il Terremoto

di Giose Rimanelli

per i morti e i vivi di San Giuliano di Puglia, Molise, questa memoria / riflessione / preghiera da terra lontana

... è menùte pe z’ècchièppà i guègliùne  è venuto per prendersi i bambini
che stévene nè scóle cà mèéstre:  che stavano nella scuola con la maestra:
i libbr’èpiérte, ù sóle n’ ì fenèstre, i libri aperti, il sole alle finestre,
pe crésce bbenedìtte dà fèrtùne. per crescere benedetti dalla fortuna.

Mó, mbéce, c’è remàste ù hióre e ù chiànde   Ora, invece, c’è rimasto il fiore e il pianto
ngòpp’è llù sànghe de pìnge e mètùne; sopra quel sangue di tegole e mattoni;
vìndinóve so’ muórte ndùtte, ognùne   ventinove sono morti in tutto, ognuno
cà vóce sìje: tèvùte gghiànghe, e ande con la propria voce: bare bianche, un mucchio

de ràne sótt’ù mùre sdèrrepàte, di grano sotto i muri dirupati
tègliàte cùrte, sènze cchiù fetùre     tagliato corto, senza più futuro
nguìstu brèsciàte córe dù Molise.   in questo bruciato cuore del Molise.

Nùj séme ggènde sèmbe cù sèrrìse   Noi siamo gente sempre col sorriso,
pùre se nguólle càsche ù pepetùre: anche se addosso ci cade la ronca,
mè pùre cuìlle mó z’è cuènzemàte!   ma quello anche si è ora consumato.


Pompano Beach, Florida, 2 Novembre 2002.

Lo stesso scrittore Erri De Luca  usa il napoletano nel suo ultimo romanzo “Morso di luna nuova. Racconto per voci in tre stanze” perché “se magna ‘e pparole a muorse p’’a fame che tene” esortando in un dialetto rivoluzionario “A Napule  che sta sotto..a rovesciare a ‘Napule che sta ncoppa. E’ comm’’o Vesuvio, sarrà n’eruzzione, ‘o ‘fuoco ch’esce  a  sott’a terra”.

Non possiamo per ragioni di spazio citare tutti gli autori nelle diverse espressioni artistiche dialettali del Sud ma a memoria ricordiamo il gruppo “Gli Ucci” (Uccio Bandello, Uccio Melissano, Uccio Aloisi) cantori del mondo contadino salentino, I Cantori di Carpino, lo straordinario Matteo Salvatore che ha salvato canti finanche medievali del Gargano, il calabrese Otello Profazio e tanti altri.
L’espressione popolare è Cultura radicata in una storia plurisecolare che ha una dignità che si oppone alle imposizioni linguistiche del Grande Fratello omologante- in realtà veicolo di quelle del Mercato  Generale Multinazionale - e, per di più riattiva un insieme di gusti, palati, tradizioni culinarie e di costume, che se ben avviate resistono e s’impongono al consumismo che tutto appiattisce ed elimina: canti, parole, suoni, vocaboli, cibi, espressioni del corpo,insomma lor signori vogliono imporre il trionfo della cultura  meccanica e del governo centralizzato. A costoro – mercanti senza creatività e anima –occorre sottrarre terreno agendo nelle periferie del Sud con diversi protagonisti (associazioni culturali, sezioni di partito, istituzioni, tv locali,  ecc…)tutti impegnati nel recupero delle Memorie linguistiche, musicali, culinarie e di palato (scuole pubbliche e private con corsi per preparare a mano i nostri cibi tradizionali): da queste iniziative molteplici trarrà vantaggio la nostra indipendenza culturale, la nostra salute, la nostra economia turistica, la nostra identità.

Questo nostro impegno di diffusione è work in progress, lavoro in corso aperto a tutti i contributi  e sollecitazioni, e non sarebbe stato possibile senza la paziente ricerca di un insieme d’operatori culturali  che ringraziamo sentitamente. Segnatamente gli studiosi della meritoria Accademia Belli di Roma (sito www.accademiabelli.com) che hanno lavorato per anni e, finalmente, conseguito un risultato importante e indicativo per tutti, vale a dire l’approvazione di  una specifica legge ben congegnata per la difesa dei dialetti romano e del Lazio, così come i ricercatori che riuscirono a far approvare le disposizioni per l’Emilia Romagna, Il Friuli, la Liguria, il Piemonte, la Sardegna: l’ordinamento recentissimo del Lazio è da noi riportato per intero e degli altri l’indicazione del sito dell’istituto linguistico campano    https://www.ilc.it/legge482.htm che comprende tutto l’iter legislativo parlamentare e delle regioni citate e una petizione specifica, inoltre una lettera circolare molto interessante in https://www.bdp.it/intercultura/info/normativa/mino2.php ; il tutto è contributo per la diffusione e progettazione nelle regioni e comunità del Sud di specifiche leggi.


Ringraziamo tutti gli autori degli articoli riportati  e le redazioni dei loro siti, i competenti intervistati, gli amici Mino Errico, Gino Giammarino, Francesco Urso che con la consueta fiducia, pazienza di Giobbe, consigli hanno sempre supportato lo svolgersi della ricerca.

L’antologia di testi contiene, naturalmente, note per tutte le regioni anche se alcuni interventi riguardano specifiche realtà; e, d’altronde, unificare il tutto avrebbe tradito lo  spirito corale che intendiamo rilevare in un insieme di diversità che si arricchiscono l’un con l’altra.

Vorremmo finire questa nostra introduzione con le recenti parole ( 12 gennaio 2005 a Polignano a Mare di Bari) trasmesse da Moni Ovaia, tra gli artisti più completi che ci siano, e che in mille canti e lingue diffonde - tra l’altro -  la bellezza e l’intelligenza dei suoni, delle parole, delle lingue che ci riconducono alla nostra comune radice più profonda, alla nostra vera Terra comune:

“Quando una parola esce dalle tue labbra fai molta attenzione. Ricordiamoci che mentre parlo creo. Il  mondo è stato creato dal desiderio del canto. Il canto è la prima gemmazione della nostra identità ma è anche ciò che trasforma la parola prosodica, banale in

racconto. Il gran narratore sa cantare. Un caro straordinario amico è Tonino Zurlo, geniale cantore e narratore pugliese di Ostuni, con una Calata di una ricchezza unica di sfumature e colori…”

E, infine, questo nostro articolo intende contribuire a quella non retorica Patria del Sud che è viva nei paesaggi, nelle colline, nei mille paesi, nella gente e che risalta in una bellissima poesia in siciliano che ci viene inviata dall’amico Francesco Urso www.libreriaeditriceurso.com che la traduce e la commenta:

 

PAISI MIU

Lu suli ca ti cerca a la matina,

paisi amatu, disidiratu,

ti trova ‘ntra li ciuri e li iardina,

e s’addimmura e s’i innammura

ri s’angulu ri terra furtunatu,

unni l’apuzza d’oru lu meli fa.

Paisi miu, vasatu di lu mari,

quantu ti vogghiu beni Diu sulu u sa!

Mi po’ la vita macari alluntanari,

ma lu me cori resta ccu tia cca!

Ciuriddi bianchi di li minnuliti,

a cu vi viri u cori riri,

picchì frivaru aprili lu faciti,

è primavera ‘nti sta ciurera,

‘ncantatu resta e mai si nni vò gghiri,

comu se fussi natu ‘nti sta città.

 

Sebastiano Andolina

 

PAESE  MIO
Il sole che ti cerca ogni mattina,

paese amato, desiderato,

ti trova in mezzo ai fiori e ai giardini,

e si intrattiene piacevolmente e s’innamora

di quest’angolo di terra fortunata,

dove fa il miele la graziosa ape d’oro.

Paese mio, baciato dal mare,

Dio solamente sa quanto io ti voglia bene!

La vita potrebbe anche portarmi lontano,
ma il mio cuore resta sempre con te qua!

Fiorellini bianchi dei mandorleti,

il cuore sorride a chi vi vede,

perché febbraio trasformate in aprile,

è primavera in tutto questo sbocciare di fiori,

e resta incantato e mai se ne vuole andare,

come se fosse nato in questa città.


Sebastiano Andolina

 

 

La poesia fu musicata da Giuseppe Gaetano Alia (1903-1999), indimenticato maestro elementare e instancabile istruttore di musica di tante giovani generazioni; attualmente è cantata con la chitarra da Liliana Calabrese in tutte le occasioni in cui, in quest’angolo di Sicilia, da parte della Libreria Editrice Urso e dall’Associazione “Avola in laboratorio” si voglia rendere omaggio all’appartenenza ad una comunità.

La poesia intende far conoscere a tutto il mondo la bellezza del proprio luogo natio (in questo caso si parla di Avola, ma il nome della città non viene evocato, limitandosi il poeta a parlare del prorio “paese”), esaltandolo con vezzegiativi intraducibili nella lingua italiana ( tipo “apuzza”, “ciuriddi”, “ciurera”, ecc.).
La città in questione si trova in riva al mare, in territorio pianeggiante caratterizzato da larghe estensioni di mandorleti e agrumeti (detti da queste parti “giardini” ) e da montagne contrapposte al mare, note già anche a Virgilio per lo speciale miele ibleo, che qui si produceva (ibleo per il nome della dea a cui queste montagne erano sacro, la dea Ibla).
La poesia risulta essere molto apprezzata anche da chi non è nato in queste contrade (F.U.).



Sebastiano Gernone

Bari, gennaio - febbraio 2005

INTERVISTE SUL DIALETTO BARESE
a cura di Sebastiano Gernone
GIGI DE SANTIS
intervista del 16 gennaio 2005


Gigi De Santis è tra i più appassionati cultori del dialetto barese.

D: Come salvare i dialetti?

R: Devono intervenire i nostri anziani in un contesto didattico.

Occorre che essi frequentino le scuole e tutti i centri culturali in modo che possano trasmettere per via orale la loro memoria dialettale..

D: Pensi anche a delle registrazioni audiovisive?

R:Certo, già ci sono delle registrazioni d’Alfredo Giovine, il maggior dialettologo ed esperto di folklore barese. L’idea di Giovine è indicata nel libro “Pulpe rizze” (Polpi ricci”) edito nel 1963, precisamente nelle pagine incluse nel capitolo “Registrazioni su nastro magnetico”, le stesse furono da lui effettuate e conservate nell’archivio Giovine delle Tradizioni Popolari fondato dal nostro Maestro nel 1960 e diretto oggi dal figlio Felice.

D. Quali progetti stai realizzando e prevedi per il futuro?

R: Si sta svolgendo il 2° Corso Accademico sul Barese scritto e parlato. E’ un’iniziativa che fa parte delle attività dell’Università della Terza Età curata dall’associazione “Puglia ed Europa”.

Inoltre, ogni anno dal 1997 curo il Calendario Barese che raccoglie usi e costumi ed è scritto tutto in barese; finanche i nomi dei santi sono inclusi e scritti in dialetto.

Da qualche anno, aggiungo, su RTG Puglia – una TV sensibilissima al patrimonio storico, culturale e sociale della città di Bari –conduco una trasmissione con la regia dell’amico fraterno Vito Signorile intitolata “MARASCIA’ “, un appuntamento quotidiano con il folklore e il dialetto barese.

 

Intervista a Nico Salatino del 19 gennaio 2005

A cura di Sebastiano Gernone

Nico Salatino è tra i più completi artisti baresi, cantautore e attore raro molto apprezzato per il suo recitare non “gridato” ed esternato ma con un tono più interiore che soprattutto nel teatro popolare dialettale è qualità apprezzata, talento eletto che manifesta maggiormente gli stati d’animo e le emozioni dei soggetti interpretati.

D.: in che modo salviamo la ricchezza dei suoni e dei

vocabolari dei dialetti, delle lingue popolari?

R.: I dialetti si salvano sicuramente a scuola con i ragazzi; lezioni tecniche non barbose e che annoiano ma viva e sentita recita dialettale di poesie, storie vere e leggende, fiabe, teatro, soprattutto - ripeto - da trasmettere coinvolgendoli ai ragazzi: è la speranza principale, essenziale.

Storicamente il dialetto già con il fascismo fu occultato: giornali dialettali baresi come Papiol

furono eliminati (oltre a Papiol – settimanale umoristico pupazzettato - che riprese le pubblicazioni dal 1946 al 1951 furono pubblicati a Bari anche Pispisbaubau, Figaro - settimanale satirico con alcuni articoli in dialetto diretto da Riccardo Ferrara con

le caricature di Menotti Bianchi - e fino al 1931 sopravvisse soltanto il settimanale satirico

pupazzettato dialettale “Don fiammifero”, unicamente perché giornale dei fascisti locali, N.d.R.); con la TV nazionale a partire lentamente dalla metà degli anni ‘50 fu imposto l’oblio e il disuso del dialetto, condizionato salvo le caricaturali intonazioni dialettali d’alcuni comici utili alla cultura omologante della nazione.

Pensa che a Piazza San Ferdinando (centro di Bari, N.d.R.) si svolgevano negli anni ‘50 finanche serate dedicate alla poesia dialettale e lo stesso sindaco barese dell’epoca parlava in dialetto (il primo cittadino era Vitantonio Di Cagno che parlava spesso pubblicamente in dialetto - frequentemente nei mercati popolari, luogo d’incontro e ascolto frequentato - ci ha

confidato il regista barese Peppino Schito, ndr).

Oggi a Bari il teatro popolare dialettale ha un suo successo di pubblico ma vi sono anche forme espressive volgari che non rispecchiano la realtà sociale, un teatro “comodo” e di consumo basso. Oltre a recitare canto in dialetto e, purtroppo, la mancanza di case discografiche serie e creative a Bari limita molto le potenzialità dei cantanti dialettali baresi.


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Interviste sulla tutela dei dialetti (interviste sul dialetto barese e napoletano)

Sul dialetto napoletano un’intervista  a Salvatore Palomba, autore tra l’altro del libro “La poesia napoletana dal novecento ad oggi”, è  apparsa sul sito www.ammasciata.org a cura di Franco Celentano, la riproponiamo in tutta la sua espressività:

Sapenno lèggere e scrìvere

parlata cu ‘o pueta Salvatore Palomba

Dimane, dinto ‘a sala giunta d’ ‘a Reggione Campania se appresèntano ‘e ccelebrazione pe Sergio Bruni. È stato pròpeto ‘o guvernatore Bassolino ca ha cercato a Palomba ‘e se ncarrecà ‘e l’organizzazione, accussì come pure Palomba stà faticanno pe fa nàscere ‘a scola d’ ‘a canzone napulitana ca avessa stà ‘e casa dinto ‘o tiatro Trianon. Pe tènere a mente ‘o cumpagno suoio Sergio Bruni, dinto ‘e scole ‘e Villaricca ce stà già nu premio. ‘E guagliune d ’e scole medie e elementare anna scrìvere nu piezzo (puisìe, designe…) ncoppa ‘a canzone napulitana. Ma essenno ca ‘e guagliune nun sanno scrivere ‘o nnapulitano, Palomba ha appruntato pe lloro nu libbretiello ( Note sul dialetto napoletano) ca le mpara dinto a niente ‘a scrivere ‘a lengua e Di Giacomo e de tutte quante l’ate senza sturcià o peggio ancora ammuzzà ‘e pparole luvànnoce ‘e vvocale semi-mute, chelle ca nun se pronùnciano ma ca se scrìvono ‘o stesso. E chist’anno ‘o premio addeventa sempe cchiù grosso: ponno partecipà tutte ‘e scole d’ ‘a pruvincia e d’ ‘a reggione nosta, pe mezza d’ ‘a co-operazione d’ ‘a Direzione Scolàstica Reggionale.

Quale songo ‘e principie ca ve hanno purtato a scrìvere chistu libbro Note sul dialetto napoletano?

Io aggio fatto na riflessione. Penzo ca quase nisciunu guaglione napulitano, da ‘e ùnnice ê trìdice anne, ha maie visto na pàggina scritta napulitano dinto ‘a vita soia. Si mo chistu fatto continua a durà, ‘o nnapulitano se parlarrà ma ognuno se ‘o mmentarrà a capa soia. Si già sulo ‘a fernéssemo d’ammuzzà ‘e vvocale mponta ‘e pparole, avéssemo luvato ‘a miezo nu problema gruosso. E aroppo, cchiù a llà, nun ce staranno cchiù guagliune ca saparranno lèggere na puisìa. Pe chesto penzo ca ‘o primmo passo ca s’eva fa era chistu ccà.
Pure Sergio Bruni s’era rassiggnato. Isso diceva: cantate, pure malamente ma cantate napulitano. Pecché? Pecché sapeva ca ce arresecàvamo ‘e pèrdere tuttecose. Accussì mo nasce ‘a scola d’ ‘a canzone napulitana addó ‘e studiente se mpàrano ‘a storia, ‘a dizione e tutto ‘o riesto appriesso.

Chello ca vulimmo crià è n’humus addó pure ‘e guagliune d’ ‘e scole ‘e fora abbiano a vedé ‘e che se tratta. Se ‘adda acummincià cu ‘e guagliune piccerille: appriesso a chesto stongo sbarianno da vinte anne, da ‘o 1985 quanno tenevo na rubbrica ncoppa ‘o Il Mattino. Una d’ ‘e ppuisìe ca ascette dinto ‘a rubbrica, Il Faro (dedecato a nu pate da nu criaturo) mo ‘e guagliune ‘e paricchi scole se ‘a mpàrano pe ‘o iuorno d’ ‘a festa d’ ‘o pate, tanto ca è bella e chè addevenata cunusciuta.
Oramaie manco ‘e ggiurnale quotidiane nun pubbrècano cchiù puisìe napulitane. L’ùrdemo ca facette na cosa ‘e chesta fuie Ettore De Mura, ô ‘50-’60.

Pecché succede chesto, penzate vuie?

È sempe na quistione ‘e mercato: ‘a storia vecchia ‘e l’offerta e d’ ‘a richiesta…po ‘a televisione ha omologato tutte ‘e llengue nguaianno tuttecose…’a televisione ha criato ‘a

lengua d’ ‘a pubblicità.
‘E guagliune cunósceno parole comme biodegradàbbile, detersive e ati ccazzate ‘e cheste, e aroppo se mèttono scuorno ‘e parlà napulitano!

Servesse dinto ‘e scole a mparà ê guagliune a parlà napulitano?

Certamente, a parlà e a scrìvere. ‘O fatto curiuso è ca ‘o nnapulitano è una d’ ‘e llengue ca se pàrlano cchiù assaie e ca songo cchiù cunusciute pe tutte parte. ‘O pueta siciliano, e cumpagno d’ ‘o mìo, Ignazio Buttitta me diceva sempe ca io songo nu pueta furtunato, diceva ca io tengo ‘a sciorta pe mezza ca ‘o nnapulitano ‘o ssanno tutte quante e a tutte pizze pe mezza d’ ‘a canzone. ‘O nnapulitano se parla ancora, e dinto a chistu libbretiello aggio cercato ‘e mparà ‘e ccose ca cchiù mpòrtano ausanno ‘a manera cchiù fàcile è possìbbile.

Ha ditto cocheduno ca ‘o nnapulitano putesse pure tènere sulamente n’atu paro ‘e generazione ‘a campà, vuie che penzate?

È possìbbile, comme è possìbbile ca fra cient’anne parlammo tutte quante sulo americano…

E nu napulitano ca nun parla cchiù napulitano è sempe nu napulitano overamente o addeventa n’ata cosa?


Ah, chesta è na discussione longa. Nun ‘o ssaccio che succedarrà, saccio sulo ca ce putesse stà nu revutamiento comme pure pò essere ca tutte quante ce arrennimmo a parlà sulo ‘e llengue ca ce mpara ‘o mercato. È capace pure ca vene ‘o mumento d’ ‘a nàusea. A botta ‘e magnà chesta robba pesante, ce putesse pure avutà ‘o stòmmaco…e si chesto succede ce putesse pure venì n’ata vota ‘o genio ‘e magnà cose cchiù terra terra, cose cchiù overe.

Comunqe si è overo ca ce stà ‘o perìcolo ca l’identità d’ ‘e pòpole scumpàreno, penzo ca chella napulitana fosse l’ùrdema a scumparì pe bìa ca tenimmo accussì assaie culturalmente ca primma ca scumpare, ce ne vo.


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Siti e altre note di riferimento:
Sui dialetti nelle scuole meridionali – pur se lo studio è in ambito siciliano - 
lo scritto di grande interesse del prof. Palmeri in:
https://www.ilbrigante.com/modules.php?name=News&file=article&sid=3844

Un libro rivolto a “promuovere la consapevolezza linguistica nelle scuole “ con un’attenzione “ai dialetti della Puglia classica, cioè di Capitanata e Terra di Bari (il Salento, o antica Calabria, va considerato con la parlata calabra – siciliana)” è quello dello scrittore e studioso dialettale Francesco Granatiero:

“La memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia.”, Claudio Grenzi Editore, 2004 Foggia.


E’ un testo utilissimo per l’insegnamento dei dialetti  nelle scuole elementari e medie.

Un testo utile è quello pubblicato dall’editore Franco Angeli di Milano nel 2004:

“Lingue minoritarie, lingue nazionali, lingue ufficiali nella Legge 482/1999”

di Daniele Bonamore con la collaborazione di Manlio Cortellazzo e Michele Salazar.

Sul dialetto vedi le numerose indicazioni contenute nel sito di Mino Errico

https://www.eleaml.org/  
e di Francesco Urso in

www.libreriaeditriceurso.com;
Sui dialetti:
www.dialettando.com;
https://www.ahoo.it/indexdialetti.php
Sul siciliano vedi:
https://www.linguasiciliana.org
Sul napoletano vedi:
https://www.ammasciata.org/villone.pdf

 

Su come scrivere in napoletano, la redazione del sito www.ilbrigante.com e del cartaceo IL BRIGANTE presenta in questi giorni un volume intitolato: "Grammatica Lessigrafica della vera Lingua Napoletana" di Aldo Oliveri, "nella quale l'autore ha messo, nero su bianco, un lavoro di studio durato oltre tredici anni, determinando una serie di regole precise grazie alle quali si può scrivere il napoletano così come lo si parla e non attraverso quello che l'ideatore sostiene essere grammatiche del napoletano "italianizzato". Le polemiche sono già ferventi...

 

Segnaliamo il Centro di documentazione per la poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”, https://www.poetidelparco.it/Index1047.htm

istituito in gennaio 2002.

“Il Centro di documentazione per la poesia dialettale intende porsi come polo di riferimento e di attrazione per studi specifici su lingue minori e poesia dialettale italiana.

L’istituzione si avvale della collaborazione di docenti e studenti dell’Università di Tor Vergata e raccoglie:

a) volumi di poesia dialettale; b) supporti critici (saggi, monografie, articoli, ecc.) apparsi in volume, su riviste, su quotidiani; c) ogni tipo di materiale (filmico, fonico, ecc.) che abbia attinenza con la realtà poetica dialettale.

Il Centro organizzerà convegni - dibattiti sulla poesia e sulle lingue dialettali, rappresentazioni di testi dialettali (Teatro - Poesia); intratterrà rapporti con istituzioni, organizzazioni e associazioni culturali per iniziative comuni che riguardano la poesia dialettale.

Pubblicherà un “Bollettino Bibliografico” periodico del fondo in deposito presso la Biblioteca comunale Gianni Rodari sede del Centro e delle iniziative culturali assunte.

Offrirà assistenza gratuita nelle ricerche agli studenti universitari interessati a redigere tesi di laurea sulla poesia dialettale e consulenza critica ed editing a poeti dialettali esordienti.

Nella biblioteca si procederà alla catalogazione dei reperti con mezzi informatici e saranno conservati e repertati i materiali pervenuti.

I nostri visitatori sono invitati a collaborare al successo di questa iniziativa che vuole colmare una lacuna nella conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

Libri, articoli e documentazioni vanno inviati a Centro di documentazione per la Poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino” c/o Biblioteca Comunale G. Rodari - via Olcese 28 - 00155 Roma.”

 

SUI CANTI:
L’articolo di Ignazio Macchiarella in
https://www.vocideuropa.net/archivio
L’articolo di Teresa Rauzino sui Canti del Gargano e della Puglia in:
https://www.capitanata.it/notiziario/html_record_long.php?uid=&Rif=1101122428
L’articolo di Salvatore Libertino sui Canti della Calabria con annesse immagini 
molto belle della collezione Lomax in:
https://web.genie.it/utenti/t/tropeamagazine/canti/
Per la collezione straordinaria di Lomax sui canti raccolta negli anni ‘50 
nelle regioni italiane
vedi <https://www.alan-lomax.com/>
Una intervista a Matteo Salvatore in: 
https://www.pugliaisland.it/docs/it/backstage/backstagesalv_vid.htm
Una casa discografica del Sud impegnata soprattutto nella conservazione 
dei canti del Salento è  Aramirè  vedi: https://www.aramire.it

La Baldini Castoldi Dalai editore ha recentemente pubblicato “LA STORIA DELLA CANZONE NAPOLETANA “ di Carmelo Pittari che - leggiamo dalla presentazione - “da molti anni si è dedicato a studiare la storia della canzone napoletana fin dagli esordi più lontani, e cioè da quel frammento di canto popolare, Jesce sole, della prima metà del XIII secolo che, insieme al celebre Canto delle lavandaie del Vomero, costituiscono gli incunaboli di una civiltà del canto ancor oggi fiorente. Con toni colloquiali, didattici e ricchi di aneddoti che supportano l'indagine storica, l'autore segue l'evolversi di un genere, che dalle forme anonime e popolari acquista a poco a poco autorità e valenza artistica, dando i suoi migliori frutti negli anni che vanno dalla seconda metà dell'Ottocento ai primi decenni del Novecento. È l'«epoca d'oro», in cui vedono la luce successi dialettali intramontabili come 'O sole mio e Marechiare.

Un viaggio alla ricerca delle origini della canzone napoletana è un viaggio suggestivo e avventuroso che ci riporta nei primi secoli dell'era cristiana, tra i contadini, i pastori e i pescatori e poi anche tra i briganti, i venditori ambulanti, i cantastorie e i trovatori, ci riporta insomma tra quelli che furono i discendenti più diretti dei rapsodi greci e dei cantori latini.
Una parabola che approda all'«epoca d'oro», a cavallo del Novecento, quando s'impone la qualità della poesia in vernacolo dei più grandi poeti: Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Giovanni Capurro, Ernesto Murolo, E. A. Mario, Libero Bovio, Raffaele Viviani. Questo libro collega a ciascun poeta i maggiori collaboratori musicali, raccontandone le vicende artistiche e umane. In ogni «storia» sono compresi i pareri dei più illustri critici per favorire una comprensione realistica di questo interessante fenomeno culturale.”

 

DA RICERCARE.
Negli anni ’30 e ’40 del secolo trascorso, la casa discografica Fox a New York registrò alcuni dischi a 78 giri con tarantelle, ballate e canti degli emigrati italiani in America soprattutto meridionali, di gran valore e che ho ascoltato per quel che riguarda la comunità barese di New York. L’amico collezionista mi ha assicurato che ve ne sono di tutte le regioni degli emigrati. Magari una ricerca più approfondita potrà farci riascoltare le voci dei nostri antenati.

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LEGGI

Le disposizioni per l’Emilia Romagna, Il Friuli, la Liguria, il Piemonte, la Sardegna sono – già lo si è sottolineato – incluse nel sito ben curato dall’istituto linguistico campano    https://www.ilc.it/legge482.htm che comprende tutto l’iter legislativo parlamentare e delle regioni citate e una petizione specifica, inoltre una lettera circolare molto interessante in https://www.bdp.it/intercultura/info/normativa/mino2.php. Nel riportare per intero il testo della  recente legge regionale sui dialetti di Roma e del Lazio un particolare ringraziamento all’Accademia Giuseppe Gioachino Belli di Roma www. accademiabelli.com e in particolare al Presidente, Prof. Giuseppe Renzi, (titolare della Cattedra di “Letteratura e Dialettologia Romanesca” presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università Popolare di Roma) e alla componente della Direzione Dr.ssa Rosangela Zoppi Tirrò (Consigliere, scrittrice e poetessa).


Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio

Art. 1

(Finalità)

1. La Regione, al fine di salvaguardare ed incrementare il patrimonio storico e culturale del

proprio territorio, tutela, valorizza e promuove i dialetti locali presenti e riconoscibili in porzioni del territorio regionale, sia nella loro espressione orale sia nelle forme letterarie.

 

Art. 2

(Tipologia delle iniziative sostenute dalla Regione)

1. La Regione sostiene le iniziative finalizzate alla tutela ed alla valorizzazione dei dialetti del Lazio, intesi come parte del patrimonio culturale della Regione, rientranti nelle seguenti tipologie:

a) attività di ricerca storica, linguistica e demo – etno - antropologica;

b) organizzazione di seminari e convegni;

c) realizzazione e/o pubblicazione di opere letterarie e teatrali;

d) costituzione e incremento di fondi bibliografici, archivi sonori e videocinematografici afferenti la documentazione di canti, musiche strumentali e danze tradizionali;

f) tutela, valorizzazione e divulgazione degli usi linguistici dialettali afferenti le tradizioni

folkloriche regionali;

g) iniziative editoriali, discografiche, audiovisive, multimediali ed espositive nonché trasmissioni radiofoniche e televisive;

h) iniziative rivolte alla popolazione scolastica.

 

 

Art. 3

(Istituto per la tutela e la promozione dei dialetti del Lazio)

1. La Regione, al fine di garantire il raggiungimento delle finalità di cui all’articolo 1,

istituisce, ai sensi dell’articolo 53 dello Statuto, l’Istituto per la tutela e la promozione dei dialetti del Lazio (ITPDL).

2. L’ITPDL è ente strumentale della Regione dotato di personalità giuridica, di autonomia

statutaria, amministrativa, regolamentare, organizzativa, finanziaria e contabile ed esercita le

proprie attività conformandosi agli indirizzi politico-programmatici approvati dal Consiglio

regionale ed alle direttive della Giunta regionale.

 

Art. 4

(Attività dell’ITPDL)

1. L’ITPDL svolge tutte le attività utili al perseguimento degli obiettivi di cui alla presente

legge ed in particolare:

a) stabilisce rapporti di collaborazione e scambio con i competenti uffici dello Stato, della Regione e degli enti locali nonché con le università, gli istituti di ricerca, le associazioni e singoli studiosi;

b) avvia l’elaborazione di un vocabolario storico e socio- linguistico dei dialetti del Lazio;

c) promuove iniziative di studio e di ricerca nel settore, atte anche ad acquisire documentazioni in forma scritta, fotografica, grafica o audiovisiva curando la pubblicazione e la diffusione dei risultati sotto forma di libri, pubblicazioni, dischi, audio e videocassette, ed altri mezzi di diffusione;

d) provvede alla creazione di una biblioteca e nastrovideoteca specializzata nel settore;

e) assicura la fruizione pubblica del materiale raccolto, secondo le disposizioni previste in apposito regolamento;

f) promuove e realizza iniziative di diffusione delle ricerche svolte e delle documentazioni raccolte;

g) promuove e realizza interventi rivolti al mondo della scuola compresi corsi di aggiornamento per insegnanti.

 

Art. 5

(Organi)

1. Sono organi dell’ITPDL:

a) il direttore;

b) il collegio dei revisori.

 

 

Art. 6

(Direttore)

1. Il Consiglio regionale, su proposta della Giunta, previa pubblicazione di apposito avviso sul Bollettino Ufficiale della Regione, nomina il direttore dell’ITPDL scegliendolo tra i candidati in possesso di professionalità di livello universitario con specializzazione in materie storiche, linguistiche e demo-etno-antropologiche.

2. Il rapporto di lavoro di direttore è esclusivo e regolato da contratto di diritto privato i cui

contenuti, ivi compresi la durata, i limiti di età, le incompatibilità ed i criteri per la determinazione degli emolumenti, sono quelli previsti dalla normativa vigente per i dirigenti delle strutture apicali dell’amministrazione regionale.

3. Il direttore ha la rappresentanza legale dell’ITPDL e ne dirige le attività delle quali è responsabile nei confronti della Regione.

4. Il direttore redige annualmente una relazione sull’attività svolta e sui risultati conseguiti che trasmette all’assessorato competente in materia di cultura.

 

 

Art. 7

(Collegio dei revisori)

1. Il collegio dei revisori è costituito con decreto dei Presidente della Giunta regionale ed è

composto da tre membri nominati dalla Giunta regionale e scelti tra i revisori contabili iscritti nel registro previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 88 (Attuazione della direttiva n. 84/253/CEE relativa all’abilitazione delle persone incaricate del

controllo di legge dei documenti contabili) e successive modifiche.

2. Il collegio dei revisori elegge al suo interno il presidente, che provvede alla convocazione ed

all’organizzazione dei lavori.

3. Il collegio dei revisori esercita il controllo sulla gestione contabile e finanziaria dell’ITPDL e riferisce ogni semestre sui risultati dell’attività di controllo alla Giunta regionale.

 

Art. 8

(Comitato scientifico)

1. La Giunta regionale nomina il comitato scientifico, composto da sette membri scelti tra docenti universitari nelle materie di cui all’articolo 6, comma 1.

2. Il comitato scientifico resta in carica per la durata del mandato del direttore dell’ITPDL.

3. Il comitato scientifico elegge al suo interno il proprio presidente.

4. Il comitato scientifico presenta annualmente al direttore una proposta di programma contenente le iniziative e le attività per la realizzazione dei compiti istituzionali dell’ITPDL.

 

 

Art. 9

(Statuto e regolamento interno)

1. Il direttore, entro sessanta giorni dalla nomina, adotta lo statuto dell’ITPDL in cui sono

disciplinati, in particolare, i principi di organizzazione, le competenze e le modalità di

funzionamento degli organi.

2. Lo statuto è approvato dalla Giunta regionale che può apportare, ove necessario, modifiche ed integrazioni.

3. Nei trenta giorni successivi all’approvazione dello statuto, il direttore adotta il regolamento interno, contenente le norme di organizzazione e di controllo interno, la dotazione organica, le procedure per la formazione degli strumenti contabili, nonché le modalità di costituzione e funzionamento del comitato scientifico.

 

 

Art. 10

(Organizzazione e personale)

1. L’ITPDL ha una struttura amministrativa cui è preposto un dirigente nominato dal direttore e scelto fra persone in possesso di diploma di laurea e con una provata esperienza nella direzione amministrativa di enti, aziende e strutture pubbliche o private.

2. Il regolamento di cui all’articolo 9 determina le modalità di organizzazione della struttura di cui al comma 1.

3. Il rapporto di lavoro del dirigente di cui al comma 1 è a tempo pieno.

4. Il personale dell’ITPDL gode dello stesso stato giuridico e trattamento economico del personale regionale.

5. Per l’espletamento dei suoi compiti istituzionali l’ITPDL si avvale prioritariamente di personale messo a disposizione dalla Regione Lazio.

6. L’ITPDL può, altresì, avvalersi:

a) di personale comandato dalla Regione Lazio;

b) di società o singoli professionisti mediante contratti di consulenza.

 

 

Art. 11

(Finanziamento)

1. Il finanziamento dell’ITPDL è assicurato mediante:

a) risorse di parte corrente ed in conto capitale determinate secondo parametri fissati dalla Giunta regionale in relazione alle attività svolte dall’ITPDL ai sensi della presente legge;

b) introiti derivati dall’effettuazione di consulenze e prestazioni erogate a favore di terzi;

c) somme stanziate nei bilanci della Regione e degli enti locali per l’esercizio di attività assegnate all’ITPDL;

d) finanziamenti dello Stato, dell’Unione europea e di altri organismi internazionali per specifici progetti.

 

Art. 12

(Centro regionale di documentazione, ricerca e valorizzazione del patrimonio linguistico di Roma e del Lazio)

1. Per le finalità di cui alla presente legge, la Giunta regionale istituisce, nell’ambito delle proprie strutture, un centro regionale di documentazione, ricerca e valorizzazione del patrimonio linguistico di Roma e del Lazio.

2. Il centro opera in collaborazione con l’ITPDL, con il compito di introdurre nel sistema di catalogazione regionale i dati provenienti dagli studi e dalle iniziative poste in essere dall’ITPDL e da altre fonti.

 

Art. 13

(Promozione dello studio dei dialetti nelle scuole)

1. La Regione promuove e finanzia lo studio dei dialetti del Lazio nelle scuole, nelle università

popolari e della terza età, nei centri anziani, in tutte le comunità di emigrati laziali in Italia o

all’estero nonché nelle associazioni che abbiano tra gli scopi sociali lo studio e la promozione dei dialetti del Lazio, attraverso una costante attività propositiva e progettuale svolta direttamente o attraverso l’ITPDL.

 

Art. 14

(Norma finanziaria)

1. Per l’attuazione della presente legge è autorizzata, per l’esercizio finanziario 2004, la

spesa di euro 750.000.

2. Il relativo onere è posto a carico dell’UPB…….mediante l’istituzione di apposito capitolo

denominato “Spese per il funzionamento dell’Istituto per la tutela e la promozione dei dialetti del Lazio”.

 

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STRUMENTI LEGISLATIVI DELLA REGIONE PIEMONTE PER LA TUTELA E PROMOZIONE DELLA MUSICA POPOLARE.

VEDI:

https://www.regione.piemonte.it/pac/musica/

Legge regionale 7 aprile 2000, n. 38.

Interventi regionali a sostegno delle attività musicali.

(B.U. 12 aprile 2000, n. 15)

Art. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8

Art. 1.

(Oggetto della legge)

1. La Regione Piemonte, riconoscendo la funzione sociale e culturale dell'attività musicale popolare, tutela, valorizza e contribuisce al suo sviluppo promuovendo iniziative e facilitandone l'esercizio al fine di garantire la più ampia diffusione nell'ambito delle comunità locali.

Art. 2.

(Albo regionale)

1. La Regione provvede ad istituire un albo regionale dei soggetti che svolgono attività musicali popolari al quale potranno aderire associazioni e gruppi autonomi costituiti a norma di legge e senza scopo di lucro quali:

a) complessi bandistici e società filarmoniche;

b) gruppi vocali e società corali;

c) complessi strumentali e gruppi folcloristico-musicali.

Art. 3.

(Programma pluriennale di intervento)

1. Al fine di coordinare in un quadro programmatico organico gli interventi regionali nel settore, la Giunta regionale, previo parere della Commissione consiliare competente, approva il programma triennale integrato di intervento nel settore della musica popolare e indica le risorse finanziarie da stanziare nei bilanci annuali di previsione in apposito capitolo di spesa.

Art. 4.

(Contributi)

1. La Regione, sulla base della programmazione pluriennale di cui all'articolo 3, concede annualmente contributi in favore dei gruppi e delle associazioni iscritti all'albo regionale di cui all'articolo 2:

a) per l'acquisto, il miglioramento ed il completamento di attrezzature musicali fisse e mobili nella misura massima del 70% della spesa ritenuta ammissibile;

b) per lo svolgimento dell'attività musicale popolare e mediante la realizzazione di spettacoli e concerti bandistici, corali, folcloristici o di altre manifestazioni aventi la stessa natura entro il 30% della spesa ritenuta ammissibile.

Art. 5.

(Adempimenti degli enti operanti nel settore)

1. Entro il 15 marzo di ogni anno i gruppi e le associazioni di cui all'articolo 2 devono presentare all'assessorato regionale competente apposite domande scritte dalle quali risulti:

a) l'esatta denominazione dell'ente, la sede ed il legale rappresentante;

b) i programmi di attività dell'anno ed eventualmente quelli di valenza pluriennale;

c) i preventivi di spesa articolati secondo quanto stabilito nell'articolo 4 al fine di valutare le relative ammissibilità ai contributi.

Art. 6.

(Adempimenti della Regione)

1. Entro il 30 settembre di ogni anno la Giunta regionale approva il piano annuale di attribuzione dei contributi ai soggetti che abbiano presentato regolare domanda con la richiesta documentazione di cui all'articolo 5.

2. Il contributo si intende finalizzato espressamente ad una delle voci di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a) e b).

3. La Regione, attraverso i propri uffici o delegando tale incarico ai Comuni può svolgere la funzione amministrativa di controllo e la vigilanza sull'attuazione dei piani e dei programmi.

Art. 7.

(Vincolo di destinazione dei contributi)

1. I contributi di cui alla presente legge sono erogati per le finalità di cui all'articolo 4 e non possono essere utilizzati per altre finalita'.

2. I soggetti beneficiati, entro il 31 luglio dell'anno successivo, devono presentare il rendiconto completo delle attività finanziate, dal quale risulti anche ogni altro contributo eventualmente percepito a sostegno dell'attività di cui si tratta.

Art. 8.

(Finanziamento degli interventi)

1. Per l'attuazione della presente legge e' autorizzata per l'anno 2000 la spesa di lire 2 miliardi.

2. Agli oneri derivanti dall'applicazione del comma 1 si provvede mediante istituzione di apposito capitolo avente la seguente denominazione "Contributi per il sostegno delle attività musicali popolari" con dotazione di lire 2 miliardi in termini di competenza e di cassa.

3. Alla copertura degli oneri di cui ai commi 1 e 2 si provvede mediante riduzione di pari ammontare sul capitolo 15910.

4. Per gli anni successivi la spesa sarà determinata dalla legge di bilancio.

5. Il Presidente della Giunta regionale e' autorizzato con proprio decreto ad apportare le occorrenti variazioni al bilancio in corso.

Regolamento regionale 17 luglio 2000, n. 6/R.

Albo regionale dei soggetti svolgenti attività musicali

(B.U. 19 luglio 2000, n. 29)

Art. 1, 2, 3, 4

Art. 1.

(Requisiti di iscrizione)

1. Possono essere iscritte all'Albo regionale le Associazioni musicali in possesso dei requisiti di cui all'articolo 2 della legge regionale 7 aprile 2000, n. 38 (Interventi regionali a sostegno delle attività musicali).

2. Le Associazioni di cui al comma 1 devono altresì potere comprovare una precedente attività almeno triennale, svolta a carattere continuativo e amatoriale non-professionale nel settore della musica popolare, con l'esecuzione di repertorio riconducibile alla tradizione musicale, corale e folkloristica italiana, delle regioni italiane o dei gruppi minoritari presenti storicamente e radicati sul territorio nazionale, con l'esclusione delle Associazioni aventi repertorio e finalità di diffusione correlati prevalentemente alla musica classica e colta in genere.

Art. 2.

(Domanda di iscrizione)

1. La domanda di iscrizione all'Albo regionale deve essere presentata alla Regione Piemonte dalle Associazioni musicali interessate entro il termine del 15 marzo e deve contenere le attestazioni e gli elementi di cui all'articolo 2 della l.r. 38/2000.

2. La domanda di iscrizione deve essere corredata della copia conforme dell'atto costitutivo e dello statuto dell'Associazione musicale richiedente, nonché della documentazione di cui all'articolo 1 comma 2, e di una dichiarazione, rilasciata in conformità a quanto previsto dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675 (Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali), utile all'adempimento di cui all'articolo 4.

Art. 3.

(Validità dell'iscrizione)

1. Le domande accolte comportano un'iscrizione decennale all'Albo.

2. Trascorsi dieci anni le Associazioni iscritte possono confermare con apposita istanza scritta, pena la cancellazione, l'adesione all'Albo. La conferma dell'iscrizione dovrà essere presentata nei termini di cui all'articolo 2.

Art. 4.

(Pubblicazione dell'Albo regionale)

1. L'elenco completo aggiornato delle Associazioni iscritte all'Albo sarà pubblicato a cadenza annuale sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte prima della approvazione del programma annuale di assegnazione del contributo regionale.

Regolamento regionale 5 marzo 2001, n. 3/R.

Regolamento regionale recante: Modifica al regolamento regionale 17 luglio 2000, n. 6/R 'Albo regionale dei soggetti svolgenti attivita' musicali popolari '

(B.U. 7 marzo 2001, n. 10)

Art. 1

Art. 1.

1. Al comma 2 dell'articolo 2 del regolamento regionale 17 luglio 2000, n. 6/R (Albo regionale dei soggetti svolgenti attivita' musicali), le parole: "dell'atto costitutivo e dello Statuto" sono sostituite dalle seguenti: "dell'atto costitutivo e/o dello Statuto".

La Regione Piemonte promuove, tutela e riconosce le attività musicali popolari anche attraverso la gestione di uno specifico Albo. Possono iscriversi all'Albo regionale dei soggetti che svolgono attività musicali popolari le Associazioni musicali configurate quali complessi bandistici o società filarmoniche, gruppi vocali o società corali, gruppi folkloristico-musicali.

Per aspirare all'iscrizione all'Albo regionale, le Associazioni musicali richiedenti devono avere i seguenti requisiti:

1) Legale costituzione decorrente da almeno tre anni;

2) Sede legale nel territorio regionale;

3) Svolgimento dell'attività musicale senza scopo di lucro;

4) Documentato svolgimento di una precedente attività nel settore della musica popolare a carattere continuativo e di durata almeno triennale, con repertorio esclusivo o prevalente di musica popolare.

L'iscrizione all'Albo ha validità decennale ed è rinnovabile. L'Albo regionale è pubblicato annualmente sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte ed è consultabile on line cliccando il rigo che segue:

Visualizza l'edizione vigente dell'Albo regionale dei soggetti che svolgono attività musicali popolari

Strumento legislativo

    * Legge regionale 7 aprile 2000, n. 38

      (Interventi regionali a sostegno delle attività musicali)

    * Decreto del Presidente della Giunta Regionale 17 luglio 2000, n. 6/R

      (Regolamento regionale recante: "Albo regionale dei soggetti svolgenti attività musicali popolari")

    * Decreto del Presidente della Giunta Regionale 5 marzo 2001, n. 3/R

      (Regolamento regionale recante: "Modifica al regolamento regionale 17 luglio 2000, n. 6/R 'Albo regionale dei soggetti svolgenti attività musicali popolari'")

Richiesta di iscrizione e modulistica

La richiesta di iscrizione deve essere presentata entro il termine annuo del 15 MARZO. I soggetti interessati (complessi bandistici e società filarmoniche, gruppi vocali e società corali, gruppi folkloristico-musicali) possono avvalersi delle seguenti istruzioni e MODULISTICA:

Indicazioni in merito all'iscrizione all'Albo regionale   Download file word   Download file pdf

Modulo di richiesta di iscrizione all'Albo regionale   Download file word   Download file pdf

Richiesta di contributo

La legge regionale 38/2000 prevede che le Associazioni musicali iscritte all'Albo regionale dei soggetti che svolgono attività musicali popolari possano richiedere annualmente entro il termine del 15 MARZO l'assegnazione di un contributo a sostegno delle attività musicali popolari programmate nell'anno in corso. I due àmbiti di intervento del contributo sono rappresentati rispettivamente dall'acquisto, manutenzione e completamento di strumenti e attrezzature musicali, e dallo svolgimento di spettacoli, manifestazioni e concerti di musica popolare.

Tuttavia, a seguito della promulgazione della legge regionale 44/2000 in materia di trasferimento di funzioni dalla Regione alle Province, dal 1° gennaio 2002 la gestione del contributo annuale è di competenza delle PROVINCE.

I soggetti interessati all'assegnazione del contributo annuale devono quindi presentare la richiesta alla PROVINCIA competente per territorio e NON alla Regione, ora competente soltanto in materia di iscrizione all'Albo regionale. L'iscrizione all'Albo è comunque il requisito fondamentale per aspirare all'assegnazione del contributo annuale da parte della Provincia.

Informazioni

Per ulteriori richieste di chiarimento potrete rivolgervi a:

DIREZIONE PROMOZIONE ATTIVITÀ CULTURALI, ISTRUZIONE E SPETTACOLO

Settore Promozione attività culturali - Via Meucci 1, 10121 Torino

Daniele Tessa - telefono 011/432.4436

e-mail: [email protected]

 Servizio a cura della Direzione Promozione Attività Culturali, Istruzione e Spettacolo

Settore PROMOZIONE ATTIVITA' CULTURALI    Via Meucci, 1 - 10121 Torino

Tel. 011 432.2647 - 432.4419 - 432.4436;   Fax 011 432.2812

  

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Pervenuta da Nadia Scardeoni

    da

    Culla di natale

    https://www.edscuola.com/archivio/interlinea/culla.html

Culla di Natale

a cura di Nadia Scardeoni

 

Invia la ninna nanna del tuo paese a: [email protected]

 

https://members.xoom.it/diaz2/flifli.htm

Fli-Fli

Canzone kenge arbereshe del 1500,
cantata nelle comunità albanesi del Sud Italia

Shen Maria duke

kenduar

mer te birin e ve ne

gjume

e mi tote ne te

djepuar

fli o bir e bej nino

Fli oi dashur e mos me

qaj

rri ne prehrin e mos

bej vaj.

Oh sa bukur ti me je

oh sa i hieshem biri

jm

Syri yt me jep hare

me mbush shpirtin me

gezim.

Fli oi dashur e mos me

qaj

rri ne prehrin e mos

bej vaj.

Ninna-Nanna

Santa Maria cantando

prende suo figlio e lo

addormenta

e gli dice cullandolo

dormi bambino e fai la ninna.

Dormi mio amore e non

piangere

stai con me e calmati.

Quanto sei bello

quanto sei carino figlio mio,

il tuo sguardo mi dà felicità

mi riempie lo spirito di gioia.

Dormi mio amore e non

piangere

stai con me e calmati.

Versione albanese a cura di: Drita Driza

Versione italiana a cura dell'insegnante: Adamantina Milone

https://www.siris.it/galotto/folklore/canzone8.html

"Il contenuto delle ninne nanne è caratterizzato dall'augurio insistente della madre al proprio figlio per un destino favorevole. Augurio questo causato, in questo caso, dalle misere condizioni di vita in cui si trova la famiglia: l'ambiente in cui la madre lavora muovendo la "naca", contrasta con l'oro della via e i confetti e i rubini nella culla. La "naca" è un tipo di culla che, appesa al soffitto, viene mossa dalla madre mentre accudisce ai lavori di casa. Essa è posta all'estremità del letto ed è fabbricata o con il legno o con della corda; per attenuare la ruvidità viene imbottita di cuscini."

    Ninna nanna siciliana

    Inviata da Francesca Vassallo

Ninna nanna

Quanne figghia meia vari a scola,

li petri ri la via si riventini oro.

Rumanimi figghia meia, rumanimi e statte;

ddate fatihene, bena mamma.

Ninna ninna nenna,

oh lu beni ri la mamma,

iri ri cora, beni ri la mamma,

oh quiri ri li genti ié di parola.

Mina la naca truzzir'ra la cuperta,

oh la naca tuia, bena mamma,

ié china ri cunfette.

Mina la naca truzzir'a li cuscini:

la naca tuia, bena mamma,

china ri rubine.

 

Ninna nanna

Quando mia figlia va a scuola,

le pietre della via diventano oro.

 Dormi figlia, dormi e riposa;

 gli altri lavorano e tu tiri la porta. e tu riposi sul loro lavoro.

Ninna nanna nenna,

 ah, il bene della mamma,

é veramente di cuore,

quello degli altri é di parola.

Tiro la culla e tocca le coperte,

 la tua culla

 é piena di confetti.

La tua culla e tocca i cuscini:

la tua culla

é piena di rubini.

Saluti Nadia Scardeoni

https://donnesenzadominio.splinder.com

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Alcune note sui dialetti di Chan Phap Y

Dal Vietnam, 25 febbraio 2005

Carissimo Sebastiano,

Ti invio alcune considerazioni in margine al tuo saggio. Considerazioni sparse, fuori da ogni ordine logico, a volte volutamente ripetitive, come d’uso io amo, ma che nascono dal mio amore profondo per la nostra terra e per l’immensa ricchezza che ci ha lasciato perché la sapessimo far fruttare a beneficio delle generazioni a venire.

Rileggendole, prima di trasferirle in una memory key per inviartela da qualche cybercafe, mi accorgo che costituiscono una sorta di scaletta lavorativa per un impegno di più ampia portata, la sinossi di una lunga lettera d’amore alla nostra terra che non avrò mai il tempo di scrivere.

Mi accontento di piccole cose e mi riposo in esse. Qualche poesia di Lucio Piccolo-conoscete questo grandissimo poeta siciliano, cugino del gattopardo?-

Fraternamente ti abbraccio

cpý

Obliterazione delle lingue locali:
 un crimine contro l’umanità di Chan Phap Y

Rileggere Butitta, nel contesto dell’appassionata difesa di Sebastiano Gernone, attizza ricordi emotivi ma riporta alla realtà del momento presente. Nei suoi versi c’è non solo la denuncia di una politica d’oppressione e di discriminazione che usa la distruzione delle culture popolari per meglio imperare; questa è ormai opposizione desueta. C’è invero la testimonianza di una tragedia, quella che –parlando delle lingue che ogni giorno spariscono in molte zone del pianeta- ho già definito logocidio

Le raccolte di favole e poesie, di canzoni e storie, sono certamente utili quali mezzi d’archivio per il diletto e la ricerca di future generazioni. Non ho mai espresso alcun entusiasmo per il lavoro d’archeologia di etnologi e di letterati con tendenze popolari o populistiche. Non è la mummificazione dei testi che mi interessa ma la loro vitalità, il loro inserimento nei programmi di insegnamento delle scuole superioni e delle università.

E il loro uso nella vita di ogni giorno per la comunicazione sociale.

Rispetto Pasolini, che amo tanto come autore de Le ceneri di Gramsci e come inimitabile poeta e narratore cinematografico, per l’energia che dedicò al salvataggio della cultura popolare; scrisse anche nella sua lingua natale, il Friulano. Rispetto e ammiro le selezioni del Pitré, l’antologia di Calvino e molti altri sforzi di recupero. C’è una lunga serie di studiosi che hanno dedicato la loro vita alla tutela del patrimonio culturale ancestrale.

In Francia le cinque diverse espressioni dell’occitano, dopo secoli di mortificazione per la gloria della centralizzazione statale, sono tornate a nuova vita, si pubblicano libri e riviste nel Sud del Paese mentre linguaggi celtici sono soggetto di studio all’univerisitá di Rennes in Bretagna e in altri luoghi dell’insegnamento pubblico.

Per quanto mi riguarda la lingua siciliana È una lingua e NON un dialetto così come sono lingue e non dialetti il Friulano e il Sardo,

Non so quanto parlate siano le nostre lingue locali in quell’area che il mio amico Gernone chiama, con appropriata definizione, macroregione Duesicilie; so che la lingua italiana, che pure nacque nell’Isola con Cielo d’Alcamo, con Jacopo da Lentini e con altri emeriti cantori dentro e fuori la corte fredericiana, e anche prima di Federico, è la lingua obbligatoria di comunicazione, il che va bene se vogliamo tenere vivi i contatti con le altre genti della penisola. Non solo, l’Italiano è la lingua che ci tiene legati alla grande entità geopolitica che è l’Europa.

Ciò che mi preoccupa, o che mi preoccupava ancor più in passato, è la funzione disgregante della predominanza monolinguistica, cioè le conseguenze socio-politiche del monopolio della lingua d’uso.

Credo sia importante, molto più della conservazione e della imbalsamazione, tenere sano il corpo della lingua che la nostra cultura ci ha trasmesso, dobbiamo parlare quella lingua, dobbiamo sostenere la pubblicazione e la diffusione di opere, non solo poeti o affabulatori ma giornali, anche di quattro pagine, come si usa per il Provenzale. Teatro cosiddetto popolare, teatro di strada, spettacoli di piazza, qualsiasi mezzo che attraverso il gioco, il divertimento, aiuti a memorizzare, ad amare, a difendere e a preservare le biblioteche, che tali sono le lingue, dateci dalle nostre terre.

Benedetta sia la memoria dei cantastorie, veicoli sublimi delle lingue popolari!

Oggi abbiamo mezzi di comunicazione che in passato non esistevano, sfruttiamoli.

Realizziamo siti internet in Barese, Napoletano, Siciliano, Calabrese etc., diamo spazio a trasmissioni dialettali via radio locali, ce ne sono centinaia, e televisioni di quartiere. Questa è la partecipazione attiva e creativa che può ristorare la dignità perduta dei nostri idiomi. È un fatto, è una sfida che dobbiamo trasformare in lotta. È un dovere morale e sociale dal quale nessuno dovrebbe abdicare.

Tutto comincia da noi stessi, dalle nostre aggregazioni amicali e professionali, da situazioni di empatia, dalla voglia di realizzare qualcosa che non è grande come una rivoluzione ma è grandissima come lo è ogni momento della nostra esistenza.

Qualche tempo fa inviai a Sebastiano Gernone una e-mail con un allegato che lui non riuscì ad aprire e mi comunicò il suo disappunto con una frase diretta, cruda e bellissima in lingua Barese. Mi divertii un mondo e mi rilessi quelle parole almeno una diecina di volte.

Mi ripeto continuamente affermando che viviamo in un mondo di separazione. Una separazione allargata continuamente, senza soluzione di continuità, dalla oscena quantità di messaggi che non informano ma distruggono il nostro modo di pensare, di parlare, di comunicare. I messaggi-target usano neologismi privi di radici, inventati a hoc per indurre all’acquisto di qualcosa o per convincere che qualcuno o qualcosa è meglio che altri. I messaggi inventano una nuova lingua che non é una lingua ma che ha il potere di inserirsi nella lingua usualmente parlata e defraudarla, come un virus, della sua naturalità.

La globalizzazione della separazione, per quanto riguarda la comunicazione, ha la sua lingua di comunicazione, una lingua standardizzata che è appunto lo Standard English.

La conoscenza di questa lingua mentre ha il grande vantaggio di avvicinare culture distanti e diverse, com’è tura della globalizzazione, porta con se allo stesso tempo la potenzialità dell’ annientamento delle lingue regionali o comunque di inquinarle sino alla perdita delle loro identità.

Un eccellente esempio di difesa è l’istituzione, in alcuni paesi africani, della doppia lingua, una ufficiale e una nazionale. Come in Kenya che è bilingue, Ki-swaili e Inglese ma che pure conserva intatte lingue etniche quali il Kikuiu e il Do-Luo.

In altri casi la difesa prende in considerazione la praticità di una lingua nazionale che mantiene unite centinaia di differenti etnie, ciascuna con la sua lingua. Sono i casi della Nigeria, dell’Africa Occidentale e Centrale francofone. Ma qui accade una sorta di rivoluzione: la lingua acquisita viene "etnicizzata" sì che l’inglese di Lagos non è certamente lo stesso che a Oxford e il francese di Yamoussoukro non è quello di Parigi.

L’inglese e il francese, nelle situazioni africane, sono stati rigenerati in lingue regionali. Oltretutto l’inglese ha subito trasformazioni sostanziali anche negli Stai Uniti d’America e in Australia dove la Oxford University Press, ma anche altri editori, pubblica dizionari di American English e di Australian English.

Nella macroregione Duesicilie, per quanto il problema dell’inquinamento dall’esterno sia piuttosto grave, la difesa è contestuale all’esistenza delle persone che parlano la lingua del popolo. Esistenza che non è un fatto meramente fisico ma un fenomeno di cultura collettiva che in quanto tale è soggetto alla legge universale della trasformazione però dall’interno. Senza questa trasformazione, attraverso l’immissione di nuovi lemmi e attraverso la creazione di nuove espressioni, la lingua sarebbe il fantasma di se stessa, un sarcofago da museo. O, come ci dice lo zio Ignazio, li paroli nun figghianu paroli    E si mancianu tra d'iddi.

Ogni generazione sviluppa nuove esigenze, nuove visioni della vita, nuovi modi di sognare, di amare, di far politica, di scrivere e di cantare; quest’amalgama di nuova creatività ha bisogno di mezzi espressivi che la generazione precedente non poteva, per evidenti ragioni storiche, avere.

L’immissione di nuova linfa è indispensabile alla vita della lingua ed è nel momento della trasfusione che dorme il pericolo. Quando nuovi vocaboli anziché inserirsi dolcemente e armoniosamente nella lingua locale per arricchirla tentano invece di imporsi e fagocitarla.

Abbiamo molti mezzi, l’ho già accennato, di mantenere viva e ricca la parlata che i nostri antenati ci hanno confidato con amore ma non pensiamo di imbalsamare testi. Perfino gli accenti, le inflessioni e il significato stesso di molte parole sono definitivamente cambiati. Oggi Butitta scriverebbe diversamente, così come noi ci esprimiamo differentemente dai nostri nonni e non sono certo che Lopez userebbe ancora il nome cardellicchie. Peccato! Perché è un nome bellissimo e, come nota Sebastaiano, non è lo stesso che dire cardellino.

Per finire, per quanto riguarda la transumanza degli eventi, e la lingua ne è l’anima, amo il divenire che si rivela nel qui e ora, come si canta nel pensiero zen. I ricorsi sono sottigliezze vichiane dalle quali mi sono sempre tenuto alla larga. Amo i linguaggi per quel che sono oggi, per quel che oggi sanno esprimere e comunicarmi. Ed e’ questo idioma, da qualunque provincia sorga, che noi dobbiamo difendere dagli attacchi fastfoodiani perché difendendo la lingua delle nostre strade e dei nostri rioni difendiamo e manteniamo integra la radice della nostra essenza culturale.

 

Hue, Viet-Nam Centrale, il 19 febbraio ’05

 

Chân Pháp Ý


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“la Repubblica”  GIOVEDÌ, 03 MARZO 2005

Pagina XI - Bari Cultura INVIATACI DA GIOVANNI RINALDI

impegnato nella tutela del nostro patrimonio archivistico musicale.

MUSICA: LE NASTROTECHE PRIVATE CHIEDONO FONDI PER I RESTAURI    

Salviamo la memoria dei canti contadini

Corsa contro il tempo per recuperare i nastri che stanno scomparendo 

ANTONELLA GAETA     

Centinaia di canti contadini scolorano. Il tempo cancella le voci da vecchi nastri magnetici come un affresco del quale, tra poco, non si distingueranno profili. Accade negli archivi musicali privati costruiti generosamente dagli anni Settanta in poi da ricercatori che hanno percorso la Puglia registrando e annotando la memoria. Appunto. L´esercizio della memoria è gravoso in una regione che, spesso, sembra temerlo. Eppure, ha avuto in dono una tradizione musicale (difficile trovarne di così riconoscibili nelle altre arti) costruita dal popolo, di voce in voce, di decennio in decennio. “Tra cinque o sei anni sparirà tutto” denuncia il foggiano Giovanni Rinaldi. Il suo archivio può essere considerato tra i più imponenti, frutto di un´accuratissima ricerca sul campo condivisa con Paola Sobrero tra il 1974 e il 1980 in 23 comuni dell´area del Tavoliere (Gargano, Subappennino Dauno e Capitanata). Lavoro prezioso in una zona che lo è altrettanto per il conflitto di classe nelle campagne dal quale fu percorso all´inizio del Novecento e, poi, negli anni Cinquanta. La ricerca contiene un repertorio di canti politici e sociali, anarchici, religiosi e di pellegrinaggio, fino ai canti della comunità albanese. “Abbiamo fatto un lavoro pionieristico che trent´anni fa si è servito di sistemi di registrazione all´avanguardia - spiega Rinaldi- solo per questo ne rimane una traccia apprezzabile, ma la qualità dell´audio si è già dimezzata. Il nostro lavoro è stato sottovalutato e, adesso, andrebbe assolutamente salvato. Ma in Puglia nessuno sta ad ascoltarci”. Per il momento, a tendergli la mano è stata la Cgil nazionale. “Certo, gli enti locali mi hanno sostenuto quando si è trattato di organizzare eventi come lo spettacolo Braccianti o il progetto di un documentario con Alessandro Piva, ma il problema è più complesso. L´interesse non è paragonabile a quello che ha suscitato il movimento salentino”.

Difficile conservare i materiali (che spesso sono fotografici, come le due immagini che pubblichiamo in questa pagina, e video). Difficile farli pubblicare. La situazione riguarda anche altri archivi fondamentali, come quello su centinaia di canti polivocali salentini registrati da Luigi Lezzi negli anni Settanta, all´inizio di quel folk revival, ispirato da Rina Durante, che portò da queste parti ricercatori appassionati, come Giovanna Marini, sulle tracce dell´importante lavoro di recupero compiuto a partire da metà anni Cinquanta da Alan Lomax, Ernesto De Martino e Diego Carpitella. Sempre Lezzi ha continuano a recuperare canti per tutti gli anni Ottanta.

Sulla tradizione dell´organetto di Villa Castelli, nell´alto Salento brindisino, hanno compiuto ricerche Gian Domenico Caramia e Mario Salvi. Del problema degli archivi abbandonati si occupano in Salento personaggi come Luigi Chiriatti che da qualche anno ha preso a pubblicare autonomamente le registrazioni con l´etichetta Kurumuny. Lo stesso fa Roberto Raheli con l´etichetta Aramirè o Salvatore Villani, in Gargano, con l´associazione Taranta.

“Mentre si spendono centinaia di migliaia di euro per i grandi eventi nessuna istituzione s´impegna a recuperare e rendere fruibili al pubblico gli archivi sonori, un patrimonio inestimabile che senza un progetto organico di salvaguardia rischiano di andare perduti - denuncia l´operatore culturale Vincenzo Santoro, esperto di musica tradizionale. “Che ne pensano di questo piccolo problema i candidati alle elezioni regionali? Perché in altre regioni, come il Piemonte, esistono leggi regionali che sostengono la musica popolare con la creazione di archivi e il sostegno alla ricerca e alle pubblicazioni?” si chiede Santoro. Difficile da immaginare possibili risposte e, forse, più facile mettersi all´ascolto di questi meravigliosi canti che parlano di noi con la più grande schiettezza possibile. E, alcuni dei più antichi, non sono conservati in Puglia. Sono dall´altra parte dell´Oceano, in America, nella Alan Lomax Foundation, ad esempio, pubblicati recentemente nel volume sul Salento dedicato dalla collana Italian Tresury del celebre folklorista. La Puglia si ascolta anche negli archivi dell´istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino, in quello di Roberto Leydi in Svizzera o nell´archivio dell´Accademia di Santa Cecilia, come nella Discoteca di Stato e nelle Teche Rai. Bisognerà recuperare e catalogare anche la memoria lontana. Prima o poi.  

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l´intervista

La cantautrice Giovanna Marini:
"Ho iniziato dal Gargano e dal Salento"

 "Sono melodie imperdibili"      

 

Giovanna Marini, perché nel ´68 scelse la Puglia per cominciare la sua ricerca musicale sul campo?

“Incontrai il mio amico Diego Carpitella al Conservatorio di Roma e gli manifestai la mia intenzione. Fu molto chiaro. La prima cosa da fare, mi disse, è andare assolutamente sul Gargano e in Salento. Aveva ragione, ho trovato un patrimonio incredibile, in quegli anni quasi completamente inesplorato”.

Cos´ha di speciale?

“Musicalmente la Puglia è una regione che fa parte di una linea che parte da Benevento e arriva a Lecce. Lungo questo tracciato si trovano alcuni dei più singolari motivi melodici italiani. Senza contare l´impressionante caso della musica terapeutica, composta di pizziche e tarantelle, davvero unica in Italia. Si va dal Gargano con i brani di Andrea Sacco ripresi da Roberto De Simone, al Salento che ha una doppia lingua (il salentino e il griko) e, soprattutto, contempla l´utilizzo di una scala rovesciata come nei modi musicali greci. Particolare, questo, che interessa molto i musicisti”.

Da queste parti c´è il reale rischio che alcuni importanti archivi privati vadano perduti.

“Ma scherziamo? Non si può, è come bombardare un museo. Il documento musicale fa meno impressione se rischia di andare distrutto ma è altrettanto importante. Sembra meno grave perché non lo si conosce. La Pietà di Michelangelo è paragonabile al bellissimo canto "Lu povero Antonuccio", bisognerebbe cominciare a capirlo”.

Occorre, dunque, maggiore divulgazione.

“Assolutamente sì. Se tutti sapessero il valore delle testimonianze griderebbero allo scandalo. Non è possibile anche perché stiamo parlando di una sorgente di studi destinata a chi deve scrivere altra musica dopo. A chi ci si dovrebbe rivolgere per ispirarsi se non ai padri? È un passaggio fondamentale che non va in alcun modo trascurato”.

(a. g.) 



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Nota inviata il 5 marzo 2005 da Mino Errico:


LE LEZIONI MAGISTRALI DI M. ALVAR E J. P. SCLAVO

Il 31 maggio 1995, nell'Aula Magna della Facolta' di Ingegneria, sono state conferite le lauree honoris causa ai professori Manuel Alvar e Jean-Pierre Sclavo, di cui pubblichiamo le lezioni magistrali tenute in quella occasione.

ISPANISMI NEL DIALETTO NAPOLETANO

di Manuel Alvar

Ringraziare non è compito facile: la sincerità può sembrare retorica ed allora chi umile lo è veramente non sa trovare il tono che renda accettabile l'eco della propria sincerati'.  Non saprei come uscire dalla mia perplessità' se non contassi sulla vostra disponibilità' alla comprensione.  Ad essa mi rimetto.  Se oggi mi chiamate, e la vostra libera scelta mi onora, sono costretto a pensare che tra le mie virtù - so bene che vi siete dimenticati dei miei difetti - avete creduto di trovare amore per la verità'. Ragion d'essere dello scienziato  e nobile patrimonio delle genti della mia terra, come si usa dire.Vi ringrazio con riconoscenza infinita, vi ringrazio dal profondo del cuore e vi chiedo che mi spogliate di qualsiasi apparenza per rimanere - soltanto - con il nocciolo della mia verità . Molte e molte  grazie  per  il  dono di sogno che ora mi offrite. Infatti, sono stato molte volte a Napoli e ne conservo un  ricordo  carico di emozione. Permettetemi di evocarlo. L'ombra di Garcilaso si e' stesa sulla poesia spagnola del periodo  successivo  alla  guerra civile   e   noi,  allora  ragazzi,  protestavamo  contro  quella perfezione formale che Garcilaso aveva e che si trovava  si', in Garcilaso, ma ai poeti di allora mancava quel sentimento doloroso che solo la morte  può curare. E  il  sentimento  doloroso  di Garcilaso  maturò presto  ed  eroicamente quando aveva 33 anni. Sono venuto a Napoli e ho cercato  le  tracce  di  Garcilaso,  il poeta  con  il  quale  cantiamo al nostro primo amore: 

 Yo no naci'  para quereros, mi alma os ha cortado  a

    su  medida  por habito del alma misma os

    quiero. 

  Eravamo usciti dalla casa di Leopardi e  ci mettemmo  per  una  strada  ampia, tra case alte. Volevamo andare alla chiesa di S. Pietro, che  il  poeta  aveva  frequentato.  Ma sulla  via  c'era  la  statua  romana del fiume Nilo e il ricorso emozionato dalla Cancisn V:

    Si de mi baja lira

   Era il canto che  il  poeta  scrisse affinché  il  suo amico Mario Galeota ottenesse le grazie della bella Violante di Sanseverino. Lo sappiamo da qualunque  edizione del  poeta  di Toledo. Ma ciò che sorprese il viaggiatore non fu solo il ricordo che restituiva vita all'archeologia ma le bianche lenzuola  che  pendevano come paraventi luminosi; e li' - stretta la strada, alti i palazzi, carica  di  simboli  la  statua  e  il ricordo  sempiterno del fiore di Cnido - c'era un giovane in posa eretta: una mano sul fianco e l'altra alla bocca,  a  indirizzare la  voce.  L'uomo  gridava:  "Violante!", e il secolo XVI rivisse all'improvviso davanti  a  noi,  viaggiatori  del  XX:  Garcilaso chiamava la amata di Mario Galeota, con voce che tagliava un'aria densa, mossa soltanto dal tremare  delle  lenzuola.  Non  eravamo più qui. Eravamo nel secolo XVI e la lira stava nascendo nel muoversi di quelle labbra e la lingua di Castiglia serviva a dire presenze  che  pure erano comprensibili: Ed infatti, quattrocento

anni dopo, possiamo ancora conoscere le  vie  che  portarono ad alcuni  luoghi  di riposo. E' cio' che vorrei fare oggi, partendo dalla mia pochezza, ma pensando che se "Garcilaso  tornasse....".

Garcilaso  ci  ha  portato  a  sentieri  che  dovremo ora percorrere. Perche' a Napoli stava il suo amico Juan de Valde's e i  suoi  amici  italiani  e questo avra' a che vedere con il tema

della mia lezione. Ci furono contratti letterari che arricchirono molto  la  letteratura spagnola, ma ci furono anche i rapporti di persone che avevano bisogno di  ambedue  le  lingue  per  i  loro

affari  quotidiani  e  allora  tutto  il  mondo  complesso  della linguistica  sociale  venne  ad  ingarbugliarsi  in   non   pochi problemi.  Per  non  complicare  le  cose  e sviluppare una linea

facile da seguire, faro' riferimento ad un vocabolario napoletano ben  noto,  quello  di Antonio Altamura (2* edizione, 1968). Ogni lettore resta stupito per il numero delle voci in cui l'autore fa

riferimento  allo  spagnolo. Si sono ripetute spesso le parole di Juan  de  Valde's:  "En  Italia  assm  entre  damas  como   entre cavalleros   se  tiene  por  gentileza  y  galanma  saber  hablar

castellano", ma non sono le sole che  potremmo  addurre,  ne'  da esse  potremmo  indovinare  quale sarebbe stato il destino comune dei due popoli. E oggi, dopo tanta storia unita e - ormai - tanto

lontana la convivenza, ci occupiamo del lessico di una città' che fu paradigma di felicita' per gli spagnoli che  contemplarono  la sua  bellezza.  Gli antichi versi castigliani evocarono nostalgie

che,   tante   volte,    furono    rivolte    a    Napoli:   

  Castilla, mi cuna;

      Italia, mi ventura;

  Flandes, mi sepultura.

  Oggi vorrei indagare come la presenza spagnola  sia  stata  più'  duratura  che la storia, ma - anche - quale bisogno ci sia di mettere le cose in  chiaro  affinché'  la

chiarita'   ci   illumini.  Sfogliando  le  pagine  del Dizionario dialettale napoletano e' necessario verificare le  sue proposte  etimologiche.  E'  vero  che  l'autore ha proceduto con

umiltà' e prudenza: "si tratta soltanto di suggerimenti, e le mie proposte  non  intendono avere altro valore" [p. XXI(. Vorrei che queste virtù' di umiltà' e prudenza fossero quelle che mi guidino

nel  valutare  il  problema,  ma,  indipendentemente  da ciò' che Altamura dice - o tace - affronto alcune  questioni  preliminari.

Sono  ben  175 le voci indicate come ispanismi; per altre 75 lo spagnolo può' alternare con una diversa origine possibile e altre  25  presentano  il castigliano come possibile riferimento.

Questo e' un dato importante in se' e  per  se':  addirittura  il 2,38%  del  repertorio farebbe pensare ad una origine castigliana sicura. Ma attenzione: spagnolo include virtualmente tutto, senza

discriminazione:  castigliano,  aragonese,  catalano. Ma la lunga lista di Altamura non e' ne' esatta ne' completa. L'esattezza  e' evidentemente  un  problema  di  conoscenze; i lessicografi sanno

bene come sia relativo dire completa una lista di parole,  ma  io mi  attengo  ad  una  linea  del  tutto  sicura:  la lista non e' completa neanche se  ci  limitiamo  a  ciò'  che  offre  Altamura stesso, perché' per realizzare quel rigore che abbiamo il diritto di chiedere, ogni parola deve essere sottoposta  ad  una  critica severa  che  ne comprovi la validità'. Fare la storia individuale di ogni parola e' cosa desiderabilissima, ma renderebbe  infinito questo  lavoro.  Mi  concentro  sulla  informazione sicura che ci danno i fatti fonetici e  per  realizzare  una  valida  selezione terro'  in  conto i dati dei più' autorevoli dizionari italiani e spagnoli.   In primo  luogo  devono  essere  temperate  le

affermazioni  categoriche:  dire  che  abballunato  ('gallonato'( viene dallo spagnolo aballonado esige maggiore rigore,  dato  che la  parola  spagnola  non esiste. D'altro canto, in italiano c'e'

gallonare e gallonato, sicché' bisognerà' cercare da  dove  venga la  doppia  bb  napoletana.  Penso  che  possiamo ricorrere ad un campo, quello del vestito,  che  fu  specialmente  accettato  dai

napoletani.  Allora  penso  che  l'influenza  spagnola  si  poté manifestare in qualcosa che non si e' segnalato; su  gallonare  o galonear  poté'  interferire  la  tipica  valona  che Autoridades definiva come 'ornamento, che si poneva al collo, di solito unito al  margine della camicia, che consisteva in una stretta striscia di tessuto fine, che ricadeva sulla spalla e sugli omeri  e,  per la  parte  anteriore,  era  lunga  fino  alla  meta'  del petto'.

Accaglia'  ('scomparire,  allontanarsi,  non  farsi  più' vedere'(  non  può'  essere  ispanismo  come  viene  proposto (da callejear), perché' il  trattamento  fonetico  non  lo  permette.

Discendera'  forse  da  calle  o dal suo derivato callear, che e' pero' attestato solo come termine agricolo ('tagliare o  separare nelle  vigne  i sarmenti che attraversano lo spazio tra i filari,

per facilitare la vendemmia'). Il verbo non ha in spagnolo alcuna diffusione   (non  e'  registrato  in  Autoridades),  sicché'  ho difficoltà' a pensare ad ispanismo diretto; preferisco una  forma

analogica  formata  in  napoletano. Galana 'cintura' e' evidentemente una forma castigliana, ma  un  contenuto  semantico sconosciuto in spagnolo. La trafila penso che sia la seguente: da

galana 'ben adorna' si passo' a 'cinturone' e credo che  qui  sta la  chiave  del  napoletano:  cinta  ebbe  il valore di 'cintura, cingolo', secondo Covarrubias, pero' lo stesso lessicografo  dice che  "e'  propria  della  donna,  e  tra le altre gioie di cui e' adorna, si trovano cinta e collare". La cinta come  'cintura  con pietre  incastonate' si sarà' associata facilmente al significato di galana 'ben adorna', in modo che  non  si  disse  direttamente (cinta)   galana   e   rimase  come  in  tantissimi  altri  casi,

l'aggettivo,    mentre     si     perdette     il     sostantivo.

Altrettanto  poco sicuro mi pare che il napoletano ne'nna 'bimba, bambina' venga da niqa. Si tratta si' di un ispanismo, ma di  origine  differente  da  quella  che si adduce. Per me non e'

altro che nena, dato che la i di niqa qui si sarebbe conservata e la nn non e' rara nei prestiti spagnoli (per esempio nknni'llo da ninillo). Credo che unendo  ne'nna  e  nknnillo  si  spiega  bene

l'etimologia  che  propongo: con la sua e, con la sua n (non q) e con il suffisso -illo. Nene e' voce molto diffusa in  spagnolo  e credo  con  un  valore  che  non  ha  nulla  a  che vedere con il

carattere "festoso" che  le  é  attribuito  nel  Diccionario  de Autoridades,   perché'  bisognerebbe  sapere  se  il  festoso  é nell'imitazione del linguaggio infantile da parte  degli  adulti,

posto  che  neno  e'  parola comune nell'occidente della penisola cosi' come  nene  nel  murciano.  Altri   ispanismi   addotti  da Altamura   sono   molto   dubbi.   Penso   ad   accapkzza',  piu'

vicino  all'italiano  'mettere  la  cavezza  agli  asini'  che  a [cabeza],  cabezada  e  cabezsn  dello  spagnolo.  Penso a ca'ira 'ce'ra, sembianza, fisionomia',  che  con  il  suo  dittongo  non

permette  di pensare allo spagnolo cara, ma voglio credere in una parola gergale molto diffusa, come caire ['denaro guadagnato  con la  prostituzione']  e  i  suoi affini. Per esempio, in francese, face 'viso' diventa 'moneta'  a  causa  dell'effigie  che  questa porta  e,  cosi',  non  ci sarebbe nulla di strano che il tributo della  prostituta  al  ruffiano  venisse   da   questa   famiglia variatissima (caira, caire, cairo, cairsn, cairma), che di solito si fa derivare da camda, dato che - come dice Rafael  Salillas  - "il  concetto  di offesa non e' legato agli affronti femminili. I delinquenti si insultano tra di loro ma non  pensano  che  quello che fanno e' insulto". In effetti lo stesso Salillas documenta il mutamento semantico: dancaire e' 'colui che giuoca per un altro e con  il suo denaro', che Corominas spiega come 'colui a cui danno caire',  sicche'  caire  e'  la  'commissione'  che  gli  pagano, logicamente,  in denaro. A mio modo di vedere il napoletano caira va tenuto distinto dal toscano ce'ra: il primo, un ispanismo  del quale  non  ci  si  e'  accorti  e  che  non  e' unico nella vita ruffianesca della  citta';  il  secondo,  prestito  dal  francese che're.  La  c-  iniziale e il dittongo ai sono solo nella parola gergale  spagnola;  ad  essa  va  riferito   ca'ira   'sembiante, fisionomia',  gia'  dentro  il campo lessicale in cui lo spagnolo

caira e' 'moneta' e da li',  come  in  francese,  avremo  'viso'.  Trappa'no  'cafone,  scostumato, incivile' si fa derivare dallo spagnolo trapajoso. Si potrebbe pensare in una base  trap-, comune  allo spagnolo   (trapala,   trapacear,   trapatiesta, trapalero), ma non di piu'. Le voci  gergali  trapala  e  trapana

'carcere',   per   la  forma  dei  suffissi,  sembrano  piuttosto italianismi  in  spagnolo  (cfr.  trappola).  Il  significato  di 'cafone,  incivile',  che  ha  il  termine  napoletano,  non crea insuperabili difficolta' per metterlo in relazione con trappolare 'ingannare,  imbrogliare'.  Cosi' avremmo che da trappa 'inganno' verrebbe trappola  'ramo  per  cacciare  animali  selvatici'  (il nostro  trampa  'carcere') e da qui trappolare 'ingannare'. Forse e' a questo punto  che  saranno  sorte  le  accezioni  dispettive

riferite  a  colui  che  inganna e allora le forme napoletane con trap- potrebbero essere messe in loro  relazione,  anche  se  non possiamo  ignorare  l'associazione  di  questa fase con l'idea di 'rumore', che fa pensare ad una onomatopea.  L'ispanismo  sarebbe allora   molto   dubbio.   Altre  pretese  voci  spagnole sembrano essere, al contrario, nostri italianismi. Mi  limito  ad un  paio  di  esempi  per  non  annoiare:     bo'ccia, dallo spagnolo bocha 'palla di legno per giocare a  bocce'.  Si  tratta della parola italiana boccia, che e' piu' antica dello spagnolo, secondo etimologi cosi' affidabili come  Prati  o  Corominas.  Il Diccionario  de  Autoridades  conferma la documentazione di Prati con una significativa postilla: "E'  voce  presa  dal  toscano  e introdotta  modernamente". Concorda il fatto che la parola manchi nella sezione spagnola  di  Franciosini,  mentre  e'  inclusa  in quella  italiana  con  due  entrate  che  significano 'bozzolo' e 'alambicco'.   Non credo neppure che sia  accettabile  che briscola  'gioco  di  carte'  venga dallo spagnolo brisca, parola questa che manca nei dizionari riuniti da Gili ed in Autoridades, sicche'  dobbiamo  cautamente  pensare  che la fonte presunta sia

moderna, d'accordo con la documentazione  spagnola,  che  e'  del secolo XIX ben avanzato. Cio' rende improbabile l'ispanismo della parola napoletana. Quanto al  gallicismo  della  parola,  non  e'

eccessivo insistere in questa cronologia: se l'origine della voce rimonta al nome del commediante  francese  del  secolo  XVII,  la diffusione del gioco non si sarebbe prodotta in modo rapido, dato

che manca ancora in Sobrino (1769) e, per di piu', l'italiano  ha la stessa parola del napoletano, con il che viene chiusa un'altra via che ci permetterebbe di pensare  al  carattere  ispanico  del termine. A  mio parere, neppure sono ispanismi baccalà 'merluzzo secco  e  salato',  barbarita',  bazzo'ffia,  capuna'ta  zuppa  calda  di pezzi....', cefe'ca 'caffe' annacquato', furzato 'condannato ai lavori forzati', ga'ggio 'propina  straordinaria', gnoccvlara  'donna  vezzosa'  e  molti altri. Bisognerà sottrarre agli ispanismi napoletani prestiti fatti  dall'italiano comune  (abbusca',  acciacca',  ammantkcato,  cardova'na, giarra, mazzamo'rra, para'ggk, quinti'lio,  riffa,  ecc.). Dopo tante   riserve  quante  ne  ho  fatte,  dovremmo  considerare  I castiglianismi specifici del napoletano; certamente, abbondano  e riguardano  campi  lessicali molto eterogenei, il che attesta che la convivenza non fu quella di alcune classi dominanti  su  altre sottomesse,  ma  lo  scambio  linguistico  che  si  determina tra persone di  ogni  condizione  ed  entro  livelli  niente  affatto vincolati,  anzi  aperto ad una comunicazione molto libera. Tutti gli aspetti della vita sono  segnati  dalla  presenza  di  parole spagnole,  che vanno dalla più' squisita cortesia alla brutalità' del lupanare. Ordinare questi materiali in campi  ideologici  non

e'  compito  facile, dato che molti termini possono includersi in più' d'uno, ed altri  costituiscono  unita'  indipendenti.  Anche tenendo  in  conto  queste  difficoltà',  mi accingo a ordinare i

dati, avvertendo, pero', che gli schemi  che  sto  per  stabilire sono  relativi. La  vita umana e le attività' del corpo dell'uomo o che in esso si realizzano contano con addurmirsk  che e'  il  nostro  adormecerse, detto di qualche membro, equivalente agli italiani addormentare, assopire  o  intorpidire  le  membra, pero'  lo  adormir  spagnolo  rimonta  al  secolo XI; aggiungiamo contrapanze'tta 'gobba', formazione umoristica. La parola  sembra calco  di  composti  spagnoli, a volte per il contenuto semantico (contrahecho 'che ha il corpo contorto o gobbo');  altre  per  la forma  (contramano,  contramina,  contramuro,  ecc.). Insomma, la gobba e' una contrapanza opposta al ventre, senza  dimenticare  - e'  chiaro  -  la  connotazione  umoristica che ebbe lo spagnolo, secondo Covarrubias ("pancia o ventre che e' pieno o  sollevato") e  che persiste nel denominare panza il ventre umano. E va ancora aggiunto panceta  'pancetta',  che  manca  nel  DRAE. I vestiti  ed  i loro accessori. Abbiamo gia' visto che lo spagnolo potrebbe  aver  contaminato  la  forma  abballunato,  ma  la  sua

influenza   nelle   antiche   mode   napoletane  non  fu  scarsa: apprkttatsra 'busto che stringe alla vita per mettere in  risalto il  seno',  che  appartiene  alla  eterogenea  famiglia  nata  da apretar; cartie'ra 'borsa per scolari'; curre'a  'correggia'  per evidenti  trattamenti  fonetici; fkrre'tto 'filo di ferro ricurvo

che serviva a sostenere i capelli lunghi delle donne' e  che  non e' altro che lo spagnolo herrete, non raccolto ne' da Covarrubias ne' da Autoridades, ma documentato nell'eta' d'oro:  "dos  cintas de   vara  y  media  con  sus  herretes  de  plata",  secondo  la testimonianza di Lope,  che  nel  Diccionario  dell'Accademia  si intenderà'  come  "capo di filo metallico, latta o altro metallo, che si mette  nelle  stringhe  [...]  affinché'  possano  passare facilmente per gli occhielli. Ne esistono anche ornamentali [...] e si usano in alcuni fiocchi che portano le signore. In relazione   con  il  mondo  della  pettinatura  stanno  anche  le garze'tte italiane: 'basetta  lunga,  favorito'.  Queste  basette lunghe  e  larghe  del  napoletano  non si possono separare dalle garcetas spagnole, documentate  gia'  nel  giullare  Juan  Zorro: 'capelli che dalla tempia scendono sulla guancia o quelli con cui si fanno le trecce' (Autoridades). Le nostre garcetas uscirono di moda  all'inizio  del secolo XVII, dato che Covarrubias dice "che anticamente si usavano".   Molto curioso e' il caso di uso particolare  di calzas. C'e' in napoletano (tirarse, stirarse la) cauza 'tendere bene le calze (segno di grande  eleganza,  secondo l'uso   spagnolo)'.  Evidentemente  e'  un  influsso  della  moda spagnola perche' "si  legavano  con  molti  lacci  alla  cintura, affinché'  stessero  ferme  e  senza grinze".   Al lessico della casa e degli utensili  domestici  appartengono  barracca  e barraccone, arcusvo 'alcova', ciappa 'fermaglio, gancio' che come arcaismo sussiste nel giudeo-spagnolo e nello spagnolo d'America, capkzze'ra 'spalliera del letto e' documentata tra di noi fin dal secolo XIV,  mentre  che  la  corrispondente  forme  italiana  e'  testato  'testiera  del  letto',  giarra  'giara,  brocca',  ecc.

Il lavoro ed i lavori accolsero affardklla' 'caricare  di pesi'  la cui origine spagnola mi pare sicura, dato che, anche se in  italiano  esiste  fardello  fin  da  tempo  antico,  i  verbi corrispondenti sono imballare, impaccare, in epoca moderna, e far fardello o imballare, anticamente; dato  che,  inoltre,  fardarse era 'caricarsi' nell'Estebanillo (1646), penso che con esso debba collazionarsi  il   significato   'caricare   di   pesi',   anche conservando   la   forma  (a)  fardelar,  di  corretto  carattere spagnolo. D'altra parte,  la  relazione  del  napoletano  con  la parola  peninsulare  si  spiegherà'  forse  con  una  postilla di Corominas: "fardel. Il sacco o sacca in cui qualcosa si  mette  e si  preme, in modo da diventare come imbottito, come le sacche di lana che si portano dalla Spagna in Italia".  Altri  termini  che non  presentano  difficoltà'  sono  ammasa' 'ispessire' (italiano impastare), ammula' 'arrotare,  affilare'  ed  i  suoi  derivati, ammuntuna'  'ammonticchiare'  (montsn  e' documentato in spagnolo

dal  1104),  arrkmesca'   (da   remezclar),   atturra'   'tostare mandorle',  che  e' verbo del nostro secolo XIII, da cui derivano il siciliano atturrari e il  logudorese  turrare,  ma  la  parola spagnola,  ancora  viva,  ando'  in  disuso  nel  secolo XVIII, e Franciosini  diceva  che  turrar  era  "vocabolo   antico,   vale arrostire  sopra  la  brace".  Non  passo  oltre  la  a-  per non allungare la lista. Un  paragrafo  molto  complesso  lo costituisce  quella  che  in  senso molto largo potremmo chiamare vita sociale. Vi rientrerebbe una  quantita'  di  aspetti,  dagli atti  di  cortesia  fino ai giochi. Ordinandoli potremmo disporre della  seguente  enumerazione: i

1.  Atti  di   cortesia:

accumpagnamie'ntu  'corteo  funebre',  con  lo stesso significato spagnolo, mentre in italiano ha altri valori; addi'o! 'escl.  Per intendere  cosa che si perde per sempre', come risulta nel DRAE e

raccoglie Ambruzzi, che non ha  nulla  di  simile  nelle  entrate italiane;   fine'zza   'gentilezza,   cortesia',  che  dimostrano ispanismo le ragioni fonetiche e il contenuto semantico  concorde

con il napoletano (per Covarrubias "come termine cortigiano certa galanteria e comportamento  di  uomo  di  valore  e  di  onore").

2.  Designazioni dei giovani:

criatura 'bambino', come il 'bambino mentre si  va  educando'  di Covarrubias;  barda'scia 'ragazza', come lo spagnolo bardaja, che non e' al di la' di qualche problema,ma dobbiamo ricordare che la

documentazione castigliana (1526) e'anteriore a quella  italiana. Quando all'etimo, Covarrubias segnala "che e'  nome  persiano,  a quando si dice", e  cio' indusse gli etimologi spagnoli a pensare

al turco, attraverso  l'italiano, ma -ss- non avrebbe dato -j- in  spagnolo;il che ci fa pensare ad un arabismo(come dissero Migliorini-Duro, Palazzi o Prati)e aggiungerei altre ragioni cronologiche e geografiche:in Italia dura dal XVI al XVIII secolo,  che  e' il periodo di ispanizzazione massima, e in napoletano e in milanese, dialetti con i quali  lo  spagnolo convisse intimamente. Torno dunque all'arabo barda 'prigioniera greca, schiava  bianca',  che si  usa  ancora nell'attuale H Bard, che non e' altra cosa che il mercato delle schiave  del  Cairo.

3.  Giudizi  morali:

aggra'vio  'ingiuria', ciaschia' 'burlare' (spagn. chasco 'beffa, burla'), bonape'zza 'persona malvagia, traditrice', che  tra  noi e' la forma ironica per designare il 'gaglioffo, furbo, sagace' e fa parte della ricca fraseologia in cui bueno, -a  ha  un  valore opposto a quello normale, come si vede in El espaqol coloquial di Werner Beinhauer. Io  penso  che  il  sintagma  risalga  all'età d'oro,  dato  che  in Autoridades pieza "si chiama comunemente il gaglioffo o buffone, sicche' della persona spregevole di corte si dice  che  e'  pieza  de Rey" e per gli stessi accademici buena o gentil pieza era "frase ironica che si applica e dice di  chi  e' molto   astuto,   gaglioffo   e  di  malvage  caratteristiche"  e Franciosini aveva coscienza del suo  valore  quando  scrisse  che piega  "si  dice  per  ironia  di chi e' cattivo e conosciuto per tale, che noi diciamo il tale e' un galant'uomo". 

4. Al mondo ludico appartengono i giochi(basto 'asso di bastoni', bole'a 'azione del gioco della  pelota')  o  i  balli  (cana'rio, ispanismo  tanto  nella  designazione  dell'uccello che in quella della danza, e ciacona, definita da Autoridades  come  "danza  di societa'  con  le nacchere, [...] che non solo si balla in Spagna [...] ma che da essa l'hanno presa altre nazioni, e  la  chiamano allo  stesso  modo".

5.  Il  mondo  della vita marinara lascio' numerosi termini:

 game'lla 'scodella',  cusppo  'rete  da pesca', che con questo significato e' registrato da Palet (1623),

anche se nei  dialetti  italiani  può'  essere,  anche,  'rete  a sacco'. La forma napoletana e' ispanismo a causa della -o (che e' anomala in catalano; lo stesso che il dittongo uo, che, dato  che o  e'  chiusa  in  catalano,  dovrebbe  essere  u in napoletano); bisogna quindi pensare ad un dialetto castigliano che, per me, e' l'andaluso,  come  in altri casi (per la -o, per il dittongo -uo- da una vocale media tonica). Dico che non e' l'unico caso di  una parola  spagnola  meridionale  che  passa a Napoli: l'arabo ab ka

'rete' ha dato jabega in spagnolo, mentre che abb k raggiunse  la forma  jabeque. Ho studiato altrove la fortuna di queste parole e non mi ripeterò', ma voglio dire che nelle tonnare  del  duca  di Medina-Sidonia  si  raccoglieva  la  ciurma meno raccomandabile e jabega divento' il riparo di quella repzblica  xabeguera  che  si arruolava a Malaga e che fini' con l'essere tanto disprezzata: ci basti il ricordo di Quevedo e l'evoluzione di gente de la  jabega al significativo valore di 'ladroni'. A questo punto arriviamo in Italia,  dove  scia'baca  e'  'meretrice'  in   calabrese;   nap. sciavkcsne, -ona 'chi riceve ogni sorta di donne', sciabbleco'tte 'uomo rotto alla mala vita', in otrantino. Spiegazione che  credo valida  dove  ci  sono  cosi'  poche ragioni che siano mediamente accettabili. Il cambio semantico,  inesplicabile  in  Italia,  e' perfettamente   comprensibile   a   partire  dalla  vita  sociale spagnola; da  qui  poté'  facilmente  penetrare  in  città'  come Napoli,  dove  nel  1680  c'erano piu' di 20.000 marinai "in gran parte pescatori: a  Santa  Lucia  l'intero  quartiere  viveva  di questa attività' e la "pietra del pesce" era uno dei mercati più' importanti della citta'", come scrive Giuseppe  Galasso  nel  suo Napoli spagnola dopo Masaniello (1972).   Le sciabbiche ci hanno portato al mondo  dell'architettura  navale,  dove  galosnk manifestava  il suo carattere spagnolo: era la nave impiegata per attraversare l'Atlantico, distinta  dalle  galeras  mediterranee, come  si vede già' da Covarrubias : la galera era un'imbarcazione "più' adatta a scorrere le coste  che  ad  avventurarsi  in  alto mare",  mentre  che  galeaza  e  galeones "sono imbarcazioni più' forti e meno leggere, ma sopportano i colpi  dell'acqua,  perché' hanno  alto bordo". Lope de Vega navigo' in galeones, che per lui erano le imbarcazioni che commerciavano con le  Indie;  Cervantes andò'  in  galeras  e parlo' di quelle napoletane e di quelle che attraccano  a  Barcellona.

6.  Il  mondo  della  natura lascio' una terminologia abbondante:

piante (cardi'llo' peperoncino forte',  che  e'  cerecilla  'pepe rosso', forse cuglia'ndra 'ghianda'), uccelli  (cucu',  come  nel ritornello   "cucu', guarda no lo seas tu'",  con  il  ben  conosciuto cambio semantico 'cuculo' > 'cornuto';la attuale distribuzione geografica della parola fa pensare che  cucu' sia  aragone-

sismo;caio'la 'gabbia  per uccelli', attestato gia' tra i mozarabai (qayy{la) e nello spagnolo del secolo XIV.  La  voce  perdura nella terminologia taurina: si dice a puerta gayola quando il torero riceve il toro alla sua  uscita  dalle  stalle, senza che  i pedoni lo  attacchino. 

7. Il complesso mondo della terminologia  che  ha  a  che  vedere con   le    cose     ecclesiastiche   o   con   il   mondo  delle  credenze   e   della   immaginazione  lascia derivati come a'nkma 'e Dio 'bambino innocente'  e'  spagnolo,  secondo  il  DRAE,  lo stesso  che  a'nkma  'persona'  e'  valore  ben noto nella nostra lingua.  Il  [bu'  bu']  'mostro  immaginario  per  spaventare  i bambini'  e'  in  italiano  spauracchio,  babau, mentre che Rosal (1601) raccolse la voce  bu'  bu'  "per  spaventare  i  bambini":

Quevedo  ci  fornisce  un  testo  coerente con il precedente: "il diavolo entra dicendo bu', bu', bu' ed esce come  un  razzo".  La voce  era  molto  piu' antica (per lo meno del secolo XV) e dello stesso Quevedo e' un testo come "parleranno francese dicendo bu', come  bambino  che  gli  fanno  carezze".

8.  Nel  mondo  dell'intelletto abbiamo ammknta' 'giocare di fantasia', come l'ha definito  Covarrubias  ("riferire  alcuna  cosa con    precisione   e   pericolo,  e   cosi'   diciamo  no mente' is   tal   cosa ,    che   vale   non   la  ricordate";  in  italiano     menzionare,    nominare )   o   barasnna   'confusione'

(ispanismo   perche'    non    ha    f-,   di fronte al valenzano e  portoghese  barafunda).  Infine  mi  si consenta di addurre un esempio molto complicato. Si dice a  Napoli  ammurra'  'procedere alla  cieca come branco di bestie' che, a mio modo di vedere, non si puo' separare  da  ammurrsnk  'avventato,  testa  sventata'  e dovremo  mettere in relazione 'comportarsi irriflessivamente come un branco di animali' con la famiglia spagnola di cui fanno parte modorra "malattia che fa perdere i sensi all'uomo" (Covarrubias), modorro 'uomo taciturno e abbattuto', amodorrido,  antica  parola rustica;  modorra  "tra i velisti e' la seconda veglia; in quanto e' la parte della notte che da' piu' sonno" (id). La famiglia  si arricchisce  molto:  modorra,  modorrar, morra, morrada, amorrar, forme tutte che vengono da *MUTURRU. Come in spagnolo  modorra  e morra  > morro 'labbra gonfie' e, nella lingua popolare, morra e' la  'testa',  ammurra'  verra'  dalla  famiglia   di   mo(do)rra.

Per  porre  fine  a questa serie, lunga ma non esaustiva, degli ispanismi, aggiungiamo quelli che non riguardano  la  forma ma  il  contenuto.  Tra  i  non  pochi  che sono calchi semantici addurrò' brevemente appktitssa '[di] ragazza che susciti desideri erotici', dato che per Autoridades "si intende con appetitoso non solo delle cose che riguardano il senso del gusto [...] ma  anche di  quelle che riguardano l'animo". Benché' non sia sempre facile delimitare i due campi, come risulta all'appassionato  "e'  cosa da  mangiarla",  che  porterebbe gli amici della psicolinguistica alla tesi dello spagnolo come pieno di temperamento,  cosi'  come accadde  con  i  nostri  derivati  di QAUERO per VOLO o il nostro mujer per DOMINA. Ma  ci  sarebbe  molto  da  dire.  Per continuare  in  questo  settore,  avremmo  che essere in Balenzia 'essere tra i godimenti'  e'  un  adattamento  di  dejar,  estar, quedarse a la luna de Valencia 'frustrate le speranze di ciò che si desiderava o pretendeva', che  per  Ambruzzi  e'  'lasciare  o restare  a  piedi,  con  un  palmo  di naso', in spagnolo già' in Castillo Solsrzano (1584-1648); basso 'gonna', come la  accezione 28   di   bajo  'parte  inferiore  del  vestito  delle  donne,  e specialmente della biancheria intima', 'a settimana entrante  'la

settimana   prossima',   flo'scio   'vizzo,   moscio',  appassa'' '[superare uno che cammini  davanti]'.  Come  lo  spagnolo  pasar 'superare  un  altro'. Mettiamo  fine  a  qualcosa  che somiglia al racconto interminabile. La presenza spagnola a Napoli fu  lunga  e  fu  di  più  di  una  fortezza oppressione. Quanto dobbiamo  noi  a  questo  avvicinamento?


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(1964, Dall'Ara e il giallo dello scudetto del

Bologna),

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Corso di Bolognese

dal 4 novembre al 16 dicembre 2004

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Roberto Serra (al Profesåur)

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SU INDICAZIONE DI MINO ERRICO RIPORTIAMO :

    I. FURTIVE LINGUE.

I POETI DIALETTALI DELL’ULTIMA GENERAZIONE IN PUGLIA.

https://userhome.brooklyn.cuny.edu/bonaffini/DP/furtivelingue.htm


   
Non ci dovrebbe essere ormai alcun dubbio che il dialetto può andare anche in Puglia verso una capacità creativo-espressiva liberata da antichi ritardi. I pochi giovani, al di qua o al di là dei quarant’anni, che scrivono consapevolmente oggi in dialetto sentono urgere la situazione di crisi che investe i linguaggi. Questi si distendono lungo il patagio epocale che porta dalla civiltà agricolo-artigianale, organizzata gerarchicamente e attenta all’autorità della tradizione letteraria, ad una civiltà di massa caratterizzata da un grande movimento di culture e subculture alla ricerca delle loro identità, antagoniste dell’inevitabile omologazione in atto.

    Attraverso il testo poetico, il dialetto consapevole si scava numerosi collegamenti sia con i retropiani emotivi e pulsionali di specie psichica, sia con i piani comunicativi di valore più propriamente sociale e linguistico. È capace, cioè, di valorizzare le sensazioni più profonde, i dati meno consci, così come è in grado di sostenere un discorso cha da prevalentemente lirico o gnomico, si fa anche narrativo, coinvolge una cera parte di storia e soddisfa l’esigenza del recupero della memoria comunitaria. Il dialetto vive così in equilibrio tra realtà e poesia, è realistico e simbolico-metaforico insieme, fusione di primitivo e di moderno, semplice e problematico. In quanto sostegno all’igiene mentale e al colloquio tra passato e presente, il dialetto ha significato nelle giovani generazioni che l’hanno adottato un’acquisizione, per così dire, di armonia, su cui innesta nuove tensioni e sovrastanti discorsi di denuncia e di alienazione.

    Per la Puglia dialettale degli anni ’80 la svolta è stata inequivocabile, sicché dal Gargano al Salento si può tentare di ridisegnare, sulla trama soggiacente degli ormai affermati Strizzi, Borazio, De Donno e Gatti, un filo rosso che, con prudente beneficio di inventario, tocca i nomi, da nord a sud, di Francesco Granatiero di Mattinata, Domenico Rignanese di Monte S. Angelo, Lino Angiuli di Valenzano (più conosciuto come poeta in lingua), Raffaele Nigro di Melfi (lucano, quindi, ma ormai naturalizzato pugliese), Peppino Zàccaro di Bari, Michele Muschitiello di Bitonto, Salvatore Fischetti di Lizzano (prov. di Taranto).

[…]

   

    SERGIO D’AMARO - Scritti e interventi sulla letteratura dialettale (1989/2001)

    Sommario

    I. Furtive lingue. Poeti dialettali dell’ultima generazione in Puglia, p. 1

    II. Le Puglie dialettali. Quasi un ritorno ad Itaca, p. 4

    III. Nel verso della madre antica. I poeti dialettali della Capitanata, p. 8

    IV. Poesia dialettale della Capitanata (Introduzione), p. 19

    V. La poesia dialettale del Gargano, p. 22

    VI. Due poeti del popolo tra anniversari e riconoscimenti postumi, p. 23

    VII. J.Tusiani, una fetta di dialetto all’anno, p. 25

    VIII. Di qua, di là, Lino Angiuli chissà dove ci porterà, p. 29

    IX. La scandalosa diversità (Incontro con F. Granatiero), p. 31

    X. Un rampino per recuperare il dialetto, p. 34

    XI. Dal Gargano una buona tempra di dialetto satirico: L. Aucello, p. 35

    XII. Due voci femminili nei dialetti del sud, p. 36

    XIII. Il dialetto infetto di Serrao, p. 37

    XIV. Ecco le cose che restano per Serrao, p. 39

    XV. I neodialettali, p. 40

    XVI. Una rigogliosa stagione di poesia dialettale, p.41

    XVII. Il percorso poetico di Nino De Vita, p. 42

    XVIII. L’altra Italia è quella dei dialetti, p. 49

 

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In questa rassegna non poteva mancare GERHARD ROHLFS il grande studioso tedesco dei dialetti italiani. Riportiamo:

 

GIUDIZIO DELLA COMMISSIONE PER L’ATTRIBUZIONE DEL PREMIO FORTE DEI MARMI, ANNO 1964:

SEZIONE «STORIA DELLA LINGUA ITALIANA»

La Commissione, nel prendere in esame le possibili candidature all’assegnazione del Premio, destinato quest’anno alla Storia della lingua italiana, ha deciso di intendere il titolo nel suo senso più vasto, includendo, oltre che la storia della lingua nazionale, anche la dialettologia e le scienze onomastiche.

Dopo aver vagliato l’opera di vari studiosi, la Commissione si è trovata concorde nel mettere in prima linea il nome di Gerhard Rohlfs.

Nato a Berlino nel 1892, professore di Filologia romanza prima a Tubinga, poi a Monaco, rientrato infine a Tubinga come docente emerito, il Rohlfs è autore di numerosissime opere nei campi più vari della romanistica, alcune delle quali di grande mole e di primaria importanza, come indispensabili strumenti di consultazione. Fino dall’inizio dei suoi studi, il suo prevalente interesse è andato verso i dialetti del mezzogiorno d’Italia: a lui si devono amplissime e prolungate inchieste in tale complesso àmbito, non solo quelle a servigio dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale di Jud e Jaberg, ma anche lo studio delle isole linguistiche dell’Italia meridionale. La sua tesi sull’origine di queste isole come reliquie dell’antica colonizzazione greca - tesi svolta principalmente nel suo volume "Griechen und Romanen in Unteritalien", Ginevra 1924, e poi in numerosissimi altri articoli -, anche se ha suscitato contrasti da pparte di chi considera quelle isole come dovute ad una colonizzazione bizantina, resta alla base di ogni ulteriore studio sull’argomento. Prezioso frutto di anni ed anni di raccolta e di elaborazione sono i due Vocabolari dedicati dal Rohlfs l’uno alle Tre Calabrie (tre volumi, Halle-Milano, 1938-1939), l’altro al Salento (tre volumi, Monaco, 1956-1961), oltre al Vocabolario etimologico della grecità meridionale ("Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität", Halle 1930). Né vanno dimenticati i Saggi antroponimici e toponomastici riferiti principalmente all’Italia. Ma la più bella testimonianza della dedizione del Rohlfs agli studi linguistici italiani è la monumentale Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti ("Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten", Berna, 1949-1954, in tre volumi) che considera, insieme con la lingua nazionale, un’imponente mole di dati dialettologici, e che degnamente si inserisce nella linea di studi di grammatica storica iniziati dal Diez e continuati dal Meyer-Lübke.

Una così appassionata e fervida attività; tante opere di grande mole e rilievo, e che sono talora state, in alcune loro tesi fondamentali, incentivo, specialmente da parte italiana, per accese e feconde discussioni; l’alta dignità scientifica della sua produzione, che indubbiamente ha contribuito al diffondersi degli studi italiani nel mondo, rendono Gerhard Rohlfs, a giudizio unanime della Commissione, degno del Premio.

Forte dei Marmi, ottobre 1964


DISCORSO DEL VINCITORE DEL PREMIO FORTE DEI MARMI 1964
PROF. GERHARD ROHLFS

Fra le nazioni europee l’Italia gode il privilegio di essere, certamente, il paese più frazionato nei suoi dialetti*.

Questo fenomeno ha senza dubbio delle origini etniche e storiche, ma non sarà indipendente da certe proprietà e qualità del popolo italiano. Questo frazionamento mi sembra l’espressione linguistica di un individualismo nazionale e di un alto sentimento per l’importanza culturale della piccola patria. L’intero significato di tale situazione si rileva subito, quando confrontiamo l’Italia con quel paese europeo che nei suoi immensi territori ci presenta proprio il caso contrario, cioè un minimo di divergenze dialettali: la Russia.

Questa ricchezza dell’Italia dialettale fu già per Dante Alighieri cagione e motivo di esaminare e giudicare i vari dialetti sul loro valore poetico e artistico, in cerca di un volgare illustre, il quale per il sommo poeta doveva essere piuttosto un ideale che una realtà.

E questa ricchezza dialettale esiste ancor oggi come fenomeno sociale e come fenomeno linguistico.

Ogni viaggiatore che, cominciando col Piemonte, traversando poi la Liguria, la Toscana, il Lazio e le province napoletane, si reca in Sicilia, si può rendere conto di questa situazione.

Non posso entrare qui in dettagli: mi contento di far risaltare alcuni importanti confini linguistici o piuttosto confini dialettali; perché in questi confini si rispecchiano certe antiche barriere storiche e etniche (1).

Appena passato l’Appennino tra Bologna e Firenze, spariscono di colpo i cosiddetti fenomeni galloromanzi: la lüna e piöve vengono sostituiti con luna e piove. Il fögu e la röa dei Genovesi si trasformano in fuoco e ruota. Sparisce la nasalizzazione dei settentrionali: karhûn, savûn, visîn. Invece delle consonanti scempie appaiono le antiche geminate latine: terra invece di tera, gatta invece di gata, bella invece di bela. Spariscono anche, almeno in gran parte, quei riflessi sonori che ricordano le lingue romanze occidentali: l’amiga diventa amica, la cadena diventa catena, savüdo o savudo diventa saputo. Il bagio dei Genovesi si trasforma in bacio; la camisa dei Lombardi diventa camicia.

Entrato poi in Toscana il viaggiatore s’imbatte in uno stranissimo fenomeno: la cosiddetta ‘gorgia’ toscana: la hòha hanta una hanzone, nelle hase si spegne ogni fòho; ma anche il dito diventa ditho, il sapone si trasforma in saphone. Illustri glottologi italiani e stranieri tendono a vedere in questa aspirazione l’effetto fonetico di un sostrato etrusco. Ciò che rende problematica tale interpretazione è il fatto che le più antiche manifestazioni del fenomeno non vanno oltre il sedicesimo secolo. Anche le circostanze nelle quali si presentano le aspirate in etrusco sono tutte diverse (2).

Non abbiamo qui il tempo di occuparci del posto linguistico di Roma per la formazione della lingua nazionale. Si sa che la lingua della Roma di oggi non corrisponde più a quel dialetto romanesco del Cinquecento, cioè dialetto di tipo prevalentemente meridionale, ma oggi non è altro che (come si suol dire) lingua toscana in bocca romana. Non è nemmeno più il caso di accettare l’opinione di Giulio Bertoni, formulata nell’apogeo del fascismo e espressa nella fiera affermazione: ‘Mentre la pronunzia di Firenze ha per sé il passato, quella di Roma ha per sé l’avvenire’.

Un altro importante confine dialettale è quello che divide l’Italia Centrale dai dialetti del Mezzogiorno. Questo confine, il quale non è un confine assoluto, segue, press’a poco, una linea che si può tirare da Ancona, passando per Rieti, ai monti Albani sotto Roma (3). Sorpassata questa linea, entriamo in una zona di una più antica romanità. Qui, di fronte all’italiano di tipo toscano si sono conservati vecchi latinismi: frate invece di fratello, soru invece di sorella, agno (aino, auno) invece di agnello, fago invece di faggio (arbor fageus). Qui si trovano gli ultimi residui della quarta declinazione latina: la manu col plurale le manu, la ficu - le ficu. Qui solo sopravvive il neutro latino nella classe dei sostantivi, che esprimono una sostanza (materia inanimata), riconoscibile nella forma speciale dell’articolo illud, il quale produce la gemmazione della consonante iniziale: lo llatte, lo mmèle, lo ssale, lo bbino (4). Qui l’aggettivo possessivo si aggiunge in forma enclitica al sostantivo, come in rumeno: fràtemo, sòruta, màmmata, mugghièrema. Qui la donna è chiamata fèmmina. Qui ritroviamo in piena vita antichissimi avverbi come cras (crai) e nudiustertius (nustierzu). Solo in questa zona si è mantenuta una arcaica forma del condizionale: avèra ‘io avrei’, cantèra ‘io canterei’, putèramu ‘noi potremmo’, forme che corrispondono al latino potùeram, pronunziato nel lat. volg. potuèra(m), forme che noi ritroviamo in spagnolo: pudiera, vendiera.

Voglio accennare ancora ad un’altra particolarità dei dialetti meridionali, la quale colpisce chi è abituato alle forme di espressione della lingua nazionale ovvero del francese e dello spagnolo. E’ la totale assenza dell’avverbio che si forma con la desinenza -mente. Cito per la Calabria i seguenti esempi: sugnu veru malatu ‘sono veramente malato’, parlavamu segretu cioè ‘in modo segreto’, la figghiola era bella vestuta, la fimmina era brutta vestuta. Ma in queste terre meridionali non esistono neanche avverbi bene e male. Si dice p.e. facisti bònu ‘hai fatto bene’, un sacciu lèggiri bònu ‘non so leggere bene’, staju boniciellu ‘sto benino’, cántanu biellu ‘cantano bene’. Il saluto ‘benvenuto’ diventa bomminutu, ossia bono venuto. Invece di male si usa l’aggettivo malo, p.e. fui malu cunsigghiatu, tu canti malu. Il fenomeno merita un certo interesse, perché appartiene a quel gruppo di concordanze linguistiche che esistono tra i dialetti del Mezzogiorno d’Italia e la lingua rumena. Anche il rumeno non conosce per niente la formazione dell’avverbio con la desinenza -mente. Cito i seguenti esempi: am mîncat splendid ‘ho mangiato splendidamente’ am suferit teribil ‘ho sofferto terribilmente’, soruta cânta frumos ‘tua sorella canta bene’ (‘formoso’). Sembra che qui ci troviamo di fronte ad una fase della latinità anteriore allo sviluppo della forma avverbiale la quale vale per le altre lingue neo-latine.

E continuando il nostro viaggio attraverso l’antico regno delle Due Sicilie, passata la provincia di Cosenza, all’altezza del golfo di Sant’Eufemia, ci troviamo di fronte a una nuova sorpresa.

Da qui in giù la romanità dei dialetti si presenta più moderna e quasi ringiovanita. Sparisce l’antico condizionale: cantèra diventa cantaría, potèra si trasforma in putiría (putarría). Vuol dire che il condizionale prende quella forma neo-latina che fu usata nella lingua aulica dei poeti trecentisti: vorría, saría, credería (5). Sparisce cras e nudistertius: crai diventa dumani, nustierzu diventa avantèri. E mentre ci avviciniamo al Faro di Messina, sparisce anche marìtuma, fìgghiama e sòruta, e non si sente che mè maritu, mè figghia e tò sòru. E con tali forme si presentano in questa Calabria meridionale (generalmente d’accordo con la Sicilia) molti altri vocaboli e forme dialettali che sembrano allacciarsi piuttosto alla comune lingua nazionale o addirittura alle condizioni dell’Italia settentrionale.

Per determinare questa strana posizione linguistica, cioè l’intimo contatto della Calabria meridionale (e della Sicilia) col linguaggio dei settentrionali, scelgo un interessante esempio nel campo delle relazioni sociali e familiari.

Nei dialetti meridionali del continente, a nord del golfo di S. Eufemia, cioè a nord di Catanzaro, l’idea di sposarsi, seguendo la antica tradizione latina, viene rispettivamente espressa con due verbi distinti, cioè ‘ammogliarsi’ e ‘maritarsi’ secondo che si tratti di uomo o di donna, cioè me nsúru = latino me inuxoro (‘mi reco nella dipendenza della moglie’) detto dell’uomo, e mé maritu detto della donna, distinzione osservata anche in Lucania, Campania e nelle Puglie e fino in Toscana. Viceversa nella Calabria meridionale, come anche in Sicilia, questa distinzione non è per niente conosciuta: l’òmu si marita, la fimmina si marita. La perdita di questa antica distinzione ci porta ai paesi settentrionali, tanto in Francia, dove je me marie si dice indistintamente dell’uomo e della donna, quanto nell’alta Italia, dove la formula me marido (nelle Venezie) si usa ugualmente per l’uomo e per la donna; similmente in Piemonte e in Liguria: gen. maiáse ‘sposarsi’ (si dice tanto dell’uomo quanto della donna).

D’altra parte in questa Calabria meridionale si presentano curiosissimi fenomeni. - E’ quasi sconosciuto l’uso del passato prossimo, il quale viene sostituito dal passato remoto, anche in riferimento all’ultimo passato: invece di dire: hai dormito bene? si domanda: dormisti bònu? Invece di dire come avete mangiato? si domanda: come mangiástivu?; capiscístivu?, ki ddicístivu? - Dopo certi verbi è escluso e non ammesso l’infinito. Non si dice ‘voglio mangiare’, ma si dice vògghiu mu (mi) mángiu, cioè ‘voglio che mangio’; ‘sono passato senza vederti’ diventa passai senza mu (mi,) ti viju; ‘andiamo a mangiare’ diventa jamu mu (mi) mangiamu.  - Per chi conosce il greco moderno, queesti due fenomeni si rivelano come manifesti riflessi di una lunga bilinguità greco-latina.

E arriviamo in Sicilia. E qui nuove sorprese ci aspettano.

Invece di trovare in questa più antica colonia latina un baluardo di un’antica latinità con fisionomia individuale al pari della Sardegna, notiamo dei dialetti che sembrano appartenere ad una più recente romanità, come stidda, viteddu, bedda matri, pronunzia che la Sicilia ha in comune con la Sardegna e con molti altri dialetti del Mezzogiorno. E la stessa impressione riporterà uno studioso il quale, lontano dalla Sicilia, in una biblioteca di Parigi o di Londra, per scopi folkloristici, consulti le raccolte di fiabe e di canti popolari delle varie province d’Italia. Confrontati col piemontese, col genovese, col lombardo, col napoletano, col barese e col calabrese della provincia di Cosenza, i testi siciliani si presentano allo studioso straniero molto più lisci, più accessibili e quasi senza difficoltà. E questa è veramente una situazione paradossale: il siciliano che è il dialetto più meridionale dell’Italia, si mostra essere il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno.

Le ragioni di questa situazione sono complesse, ma sono oggi essenzialmente conosciute. La posizione linguistica della Sicilia rassomiglia in molti aspetti alla posizione dell’Andalusia in Spagna, terra per il 90% nuovamente romanizzata dopo la riconquista cristiana. Anche in Sicilia la liberazione dalla dominazione dei Saraceni e la loro scacciata ha portato ai noti fenomeni della riconquista: fenomeni sociali, fenomeni di ripopolazione, fenomeni linguistici.

E questa situazione non è limitata alla Sicilia, ma comprende anche, come già è stato detto, la Calabria meridionale fino al golfo di Sant’Eufemia, dove non hanno dominato i Saraceni, ma dove fino al dodicesimo secolo si è mantenuto il greco come lingua del popolo (6). Quello che distingue la Calabria meridionale dalla situazione linguistica in Sicilia, è unicamente una altissima percentuale di grecismi, di fronte ai moltissimi arabismi della Sicilia (7). Per il resto si può dire che la Calabria meridionale, linguisticamente (almeno in molti aspetti), non è altro che un avamposto della Sicilia, un balcone della Sicilia.

Il tempo non ci permette di entrare in particolarità. Basta ricordare, per la Sicilia, i numerosissimi gallicismi come avantèri ‘l’altroieri’, accattare ‘comprare’, giugnettu ‘luglio’, racina ‘uva’, vuccèri ‘macellaio’, custureri ‘sarto’. A questi elementi settentrionali si aggiungono gli influssi che per via di massima immigrazione sono emanati dall’Italia padana. - Ecco perché troviamo in Sicilia testa invece di capu, agúgghia invece di acu, òrbu nel senso di ‘cieco’, tròja invece di ‘scrofa’, tuma nel senso di ‘formaggio’ - tutti termini tipici dei dialetti dell’Italia padana (8). Da queste e altre correnti è nata in Sicilia una specie di koiné, una romanità più giovane, una romanità avanzata, ma anche meno indigena. Questa riforma linguistica che sta in diretta connessione colla conquista dei Normanni e col regno di Federico II, ha avuto per effetto di collegare la Sicilia più intimamente colla madre-patria Italia e colla lingua nazionale, in sorprendente e stranissimo contrasto colla Sardegna, rimasta in una posizione arcaica e linguisticamente isolata, nel complesso assai più vicina all’antica latinità.

* L’Italia dialettale fu intitolato un articolo in cui G. I. Ascoli nell’VIII volume dell’Archivio glottologico italiano (1882, pp. 98-128) tracciò la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani, messi a confronto col tipo toscano, articolo che due anni prima era già apparso in versione inglese nell’Encyclopaedia Britannica (IX edizione), New York vol. XIII, p. 491-498. - Italia dialettale fu anche il titolo di un interessante Manuale Hoepli (1916) in cui Giulio Bertoni si propose di fissare i principali caratteri dei dialetti italiani. Fu fondata più tardi (1924) da Clemente Merlo la rivista L’Italia Dialettale che fino ad oggi (attualmente diretta da Tristano Bolelli) rappresenta il maggiore centro scientifico per i lavori che riguardano la dialettologia italiana.

Il discorso è stato pubblicato nella Rivista "Nuovi Argomenti", 1967, pp. 22-27.

(1) Cerco di dare in alcune rapidissime linee una veduta generale della situazione dialettale in Italia. In questo ‘panorama’, visto lo speciale interesse dell’autore, sarà data una maggiore importanza a certi fenomeni del Mezzogiorno, anche perché essi sono meno conosciuti.

(2) Si veda ora la presentazione del problema nella mia Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (Torino ed. Einaudi, vol. I, 1966, §196).

(3) Questa linea, in una parte importante del suo tracciato, corrisponde approssimativamente al confine storico che separava il ducato di Spoleto dalla Pentapolis e dal Patrimonium Petri.

(4) Si confrontino d’altra parte nelle stesse zone dialettali i seguenti esempi coll’articolo maschile illu ( =illum): lo cane, lo patre, lo frate, lo lupo. - In altre zone si usa lo come articolo per il neutro, lu come articolo per il maschile: lo latte, lu cane.

(5) Fa eccezione l’estrema parte della provincia di Reggio (zone dell’Aspromonte) dove la grecità si è mantenuta più a lungo e dove ancora oggi (intorno alla cittadina di Bova) il greco continua a sopravvivere in alcuni villaggi. In questa estrema Calabria il condizionale si esprime (come una volta in greco antico) per mezzo dell’imperfetto indicativo p. e, partiva ‘ io partirei’, lu facìa ‘lo farei’, si putiva iva ‘se potessi andrei’, si avìa fami lu mangiava ‘se avessi fame lo mangerei’.

(6) Per la continuità (residui e influssi) della lingua greca nel Mezzogiorno d’Italia, v. G. ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia (Roma 1933) e l’edizione anteriore Griechen und Romanen in Unteritalien (Ginevra 1924).

(7) Si veda G. ROHLFS, Lexicon Graecanicum Italiae Inferioris, Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität (Tübingen 1964).

(8) Va qui ricordata anche la tipica opposizione che riguarda l’uso dei verbi ‘avere’ e ‘tenere’. Mentre invece del verbo ‘avere’ (per esprimere un possesso, una qualità o uno stato di cose) da Roma e dalle Marche in giù, d’accordo con la Sardegna (tengo duos frades) e con lo spagnolo (tengo dos hermanos) si usa il verbo tenere, p. e. (prov. Cosenza) illu tène dui frati, quant’anni tieni?, nella Calabria meridionale e per tutta la Sicilia non si conosce altro che il verbo avere della lingua nazionale e dei settentrionali: aju la frèvi ‘ho la febbre’, iddu avi dui frati, quant’anni ai?

https://www.

geocities.com/enosi_griko/Articoli/GerhardRohlfs1.html


Bibliografia

Indispensabili:

C. Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Roma-Bari, Laterza 1995 ;

C. Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana, Roma-Bari, Laterza 2003

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