Eleaml


Questo testo documenta il clima che si viveva nei primi anni dopo la unificazione della penisola. Contiene la storia di una persecuzione politica ai danni di un patriotta, di un benestante, che godeva di amicizie importanti.

Ci domandiamo quale sia stata la vita di coloro i quali provarono ad opporsi al nuovo stato di cose e non è difficile rispondere. Se ne trova qualche accenno nel testo:

“E quindi cotesto passato e cotesti antecedenti politici ci inducono già il convincimento che egli non poteva poscia divenir così nemico all'Italia e così pericoloso all'ordine pubblico da meritare l'odiosa punizione di essere imprigionato insieme ai preti reazionari ed ai borbonici, divenuti suoi compagni di carcere, e mandato, dopo cinque mesi di prigionìa nel Castel Capuano, a domicilio coatto nell'estremo Piemonte.”

Gli oppositori marcivano in prigione, venivano deportati nelle gelide prigioni piemontesi – vedi  Fenestrelle – oppure finivano passati per le armi se si trattava di povera gente.

Tutto in nome della Patria Una!

Zenone di Elea – RdS, 25 Febbraio 2009


L'INNOCENZA

AL TRIBUNALE DELLA PUBBLICA OPINIONE

OSSIANO

GLI ABUSI E SOPRUSI GOVERNATIVI

PER

LUIGI MEZZETTI

FIRENZE 1867

TIPOGRAFIA UCCELLI E ZOLFANELLI

Via de' Rustici N. 3

AVVERTENZA.

Questo scritto non sarebbe stato pubblicato se l'ingiustizia, commessa in Napoli a danno del Necci all'epoca dei pieni poteri, non fosse stata a dispetto dello Statuto rinnovata testé dall'ex-Direttore Generale di Polizia sig. Amore prima di cessare dall'Ufficio.

La certezza dell'impossibilità di ottenere giustizia, la riconosciuta inanità di ogni conato diretta a questo scopo avrebbero fatto sì che tutto sarebbe stato sepolto nell'oblio: tanto più che la consorteria capitanata dal Ricasoli non avrebbe mai riconosciuto ingiusto un atto compiuto dal Gualterio, sua salda e principale colonna.

Oggi le difficoltà accennate non sono rimosse, tuttavia giova far conoscere coi fatti di qual moneta vengono pagati i veri patrioti dal Governo Italiano.


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AI DEPUTATI

CHE VOTARONO LA LECCE DEI POTERI ECCEZIONALI.

Signori

Allorché Voi mossi dall'idea del bene pubblico e della sicurezza interna della Nazione volaste la legge fatale 17 Maggio 1860, non intendeste certo di sanzionare e legalizzare l'arbitrio e le violenze governative: anzi, poiché acconsentiste che venissero sospese ai cittadini le guarentigie costituzionali, alla conservazione delle quali avevate mandalo di vigilare assidui, assumeste sacro e imprescindibile dovere di reprimere, punire e riparare qualsiasi ingiustizia, che in conseguenza del grave atto da Voi compiuto e con aperta vostra offesa fosse stata dal potere esecutivo commessa a danno dei cittadini. E per ciò che questo scritto è a Voi dedicato; perché con esso vi si chiede l'adempimento dell'obbligo assunto: la sua forma forse troppo negletta e disadorna non vi rattenga dal prendere in esame i fatti che per esso si espongono, e se sono tali, e non ne dubitiamo, da indurre nell'animo vostro il convincimento dell'innocenza del Necci, ordinate che il Ministero renda conto del suo operalo, che adduca le prove vere e reali della reità di esso, e se egli lo potrà, noi saremo i primi a rendergli ragione;

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ma ove queste prove, come ne siamo sicuri, manchino, si faccia giustizia al cittadino oltraggiato ed ingiustamente punito, finisca una volta la persecuzione che lo opprime, e infine se è impossibile la riparazione del danno patito, si tolga che i suoi interessi vengano travolti in una totale ruina.

Firenze Luglio 1867

Luigi Mezzetti.

Mio Caro Necci

Compio il dovere di amico levando la mia voce in favore della tua innocenza.

Se quest'attestato di affetto può esserti di sollievo nell'abbandono ed isolamento della relegazione, sarò contento dell'opera mia.

Accetta con un saluto del cuore una fraterna stretta di mano dal

Firenze Luglio 1867.

Tuo per la vita

Luigi Mezzetti.

...essi hanno torlo e lo sentono; ma la leggo adoperano some dalla lacciaia I butteri; chi preso tentenna, sente stringersi il collo.

Guerrazzi — Assedio di Roma.

Se in massima generale è cosa oltremodo pericolosa e dannevole lo accordare al Potere esecutivo facoltà non consentite dalla Costituzione dello Stato, e il sospendere le guarentigie, che la legge accorda ai cittadini, anche quando trattisi di un Governo veramente democratico e nazionale, il pericolo e il danno saranno inevitabili allora che il governo cessando di abbracciare e considerare imparzialmente gl'interessi generali della nazione, anzi subordinandoli ai suoi particolari, si mula in governo-partito, e si regola e vive colle norme che reggono la vita e lo sviluppo basso e ristretto del partito stesso. Il provare che ciò avviene appunto nel governo italiano sarebbe, come suoi dirsi, portar nottole in Atene e vasi a Samo; è da lunga pezza che dalla stampa onesta si è levata una crociala contro la così delta Consorteria, degli uomini della quale si compone precisamente il governo e che pesa sull'Italia come le cappe impiombate dell'Alighieri. Il favoritismo più sfacciato e schifoso, l'interesse di parte che predomina su lutti e su lutto, sono state sempre le norme direttive del governo — partilo, figlio della sella, e anello e capo di quella catena che nessuno sforzo valse ancora a spezzare, e che stringendo come un ceppo l'Italia, le ha impedito di svilupparsi e risorgere.

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Cotesta setta resa potente dalla servilità generale e dai mezzi di corruzione, di cui sagacemente sa prevalersi, ha sfruttato i sagrifici di sangue e di ogni genere compiuti dai patrioti a suo totale ed esclusivo beneficio. Al popolo, al vero popolo bisognoso di benessere materiale e di educazione, la Rivoluzione così sfruttata non ha arrecalo che miseria maggiore e maggiore demoralizzazione; esso alla vista della corsa affannosa e briaca verso il potere e le ricchezze di coloro, che gli predicevano F età dell’oro e gli giuravano, come i Tribuni della Plebe di Roma, di farsi suoi difensori, ha perduto ogni fede ed ogni entusiasmo: riconobbe l'inganno e 1incanto fu rollo: se fosse stato educato e conscio della propria forza e dei suoi diritti, avrebbe reagito e forse schiacciato gli ingannatori; ma nella sua notte morale si accasciò; e di questo infiacchimento seppe giovarsi la setta per diffondere la sua influenza deleteria e snervatrice.

Per chi esamina freddamente e profondamente le condizioni falle all'Italia risulla evidente che la causa di ogni male sgorga dalP esser retta la Nazione da un Governo — Partito. É per una tale ragione che la libertà è un'illusione, l'indipendenza non assicurata, l'unità precaria, e per la mancanza di Roma, incompleta; che il pubblico danaro è dilapidato e scialacqualo, che è reso impossibile un vero e reale controllo, che la responsabilità ministeriale è una parola vuota di senso; che regnano permanenti nelle amministrazioni il caos e le concussioni, e l'ignoranza e il pedanlismo nella pubblica istruzione; che la demoralizzazione dilaga universale, che ha invaso la rabbia frenetica dei subiti guadagni e dei pingui impieghi; che ci preme un cruccio doloroso per la confusione e i disastri di Custoza e di Lissa; che nella storia del risorgimento italiano si leggono pagine luttuose come Aspromonte, Fantina, Torino, Palermo, narranti fratricide e sanguinose tragedie; che il Governo stende la mano amica al nemico d’Italia e dell'umano progresso, al Pontefice, e si allea coi Paolotti rinterzandosi colle loro forze; che infine invece di prender cura del bene della Nazione, fa gl'interessi dei suoi partigiani.


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E quando un governo è di siffatta indole, ed ha cotesto passato e cotesta vita merita la fiducia della Nazione in guisa da porre in sua balia la libertà e la sicurezza dei cittadini?

Intanto siccome si addusse, a respingere le accuso e contestare la violazione della libertà consumata con la logge 17 Maggio 1866, l'assoluta necessità di così oprare, ascoltiamo come avrebbe dovuto agire un Governo veramente nazionale.

«In condizioni siffatte (nelle quali si trovava l'Italia quando dichiarò la guerra all'Austria) un governo nazionale avrebbe benedetto, adorando, al Dio dell'Italia, e accettata la vasta e santa missione. Un governo nazionale avrebbe inteso, sentito che l'Italia non esiste se non in virtù del Diritto di rivoluzione: ch'essa non conosce diplomazie, né trattati, né alleanze fuorché di popoli chiamati a conquistarsi libera vita: che la sua bandiera è quella di un principio, il principio della Nazionalità; e l'avrebbe arditamente spiegala in sugli occhi di tutti, amici e nemici. Un governo nazionale avrebbe inteso, che a non condannare il paese alfa rovina di guerre ripetute, a vincer l'Austria una volta per sempre, bisognava disfarla; che la necessità di disfarla additava il Danubio, Vienna, gli Slavi Meridionali come punti abbiettivi: avrebbe convocalo, se non fosse stato in quel momento raccolto, il Parlamento e gli avrebbe dello: vegliate alla sicurezza interna del paese; vegliale a tener aperta la sorgente dei mezzi e degli ajuti alla guerra sacra: vegliate su noi se, per debolezza o incapacità, fallissimo alla missione: avrebbe gittato un bando al popolo d’Italia per dirgli: Sii, finché andiamo innanzi, riserva minacciosa e pronta all'Esercito: Se retrocediamo prima di aver conquistato a libertà quante terre son nostre, puniscici.» Così scriveva chi ha il diritto d'insegnare libertà e morale agli Italiani, non escluso l'onorevole Francesco Crispi. Ma tutto ciò era incompatibile con il sistema, che da sette anni ci governa, e perciò dal Parlamento che andava in licenza fu votata la legge del domicilio coatto allo scopo di viemeglio tutelare l'ordine pubblico.

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Proveremo con fatti e documenti incontestabili che colla suddetta Legge si è colpito l'innocente a soddisfare partigiane vendette, che sarebbero rimaste ineseguite sotto l'impero della legge comune; che anzi si sono sorpassali, commettendo uno schifoso abuso, i poteri stessi conferiti dal Parlamento al Governo con la legge 17 Maggio N° 2907.

Ecco la Storia:

Quegli a danno del quale si è violata la legge e che si è procurato d'infamare pareggiandolo ai briganti, borbonici, camorristi, oziosi e vagabondi, è Romualdo Necci di Ferentino, città sottoposta ancora al dominio pontificio. Per una fortunata combinazione si posseggono i documenti, che ci servono a porre in chiaro ed indagare quale sia stata la sua vita e quali i principi politici che hanno dato norma a tutte le sue azioni dal 4848 fino ad oggi.

Il Necci nasce da onesta ed illustre famiglia di Ferentino ed è provveduto di un patrimonio, mediante il quale gli è possibile, benché emigrato, vivere indipendentemente e libero dalla catena, del sussidio governativo, che gli è stato più volte offerto e costantemente da lui rifiutalo. Egli, se avesse sposato la causa del papato, avrebbe potuto conseguire quelli onori e quelle dignità, che sotto il governo pontificio sono riservati esclusivamente ai nobili, ai ricchi ed ai partigiani della Chiesa e le due prime qualità non avrebbero fatto difetto al Necci come risulta dai seguenti documenti:

«1° Romualdo Necci della bon. me. Francesco è nato in questa Città da illustre e distinto parentado, discendendo da parte di donna dall'illustrissima e nobile famiglia Tibaldeschi.»

«Il medesimo appartiene alla classe dei possidenti, avendo oltre altri beni rustici ed urbani, un molino da grano, che gode coll'altro fratello sig. Domenico, da cui ritrae un annuo rilevante reddito da poter vivere con tutta proprietà.»

«Ha egli poi accudito a diversi appalti comunali sì per lavorazioni, sì per affitto dei Proventi, dei quali nel disimpegno, ha date sempre prove di onestà e galantomismo:

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ed abbandonò questa sua patria sui primi del 1860, ritirandosi nella Città di Napoli, correndo pubblica voce di essersi allontanalo in vista degli avvenimenti politici.

E per esser tutto ciò conforme al vero si rilascia il presente.

Dalla Segreteria Comunale di Ferentino li 16 Novembre 1866.

Il Gonfaloniere

Alfonso Giorgi.

2° Certifico io qui sottoscritto che l'Ill. mo sig. Romualdo Necci Filonardi Tibaldeschi, figlio della bo. me. di Francesco di questa Città di Ferentino, è un giovane di ottimi costumi ed ha l'origine da una delle più illustri e nobili famiglie, e posso dire che la casa Tibaldeschi, di cui è l'Erede, da più secoli occupò il Primato nel Comune di Ferentino; ebbe nella stessa Città nel 1555 un Vescovo nomato Aurelio figlio del nobilissimo uomo Giulio Cesare, Cavaliere dell'ordine di Malta, Nobile Romano, e Cugino Carnale di Papa Giulio III.

Nell'anno poi 1556 il Nobilissimo uomo Vincenzo sotto esso pontefice fatto prima colonnello, nel 1557 ottenne di essere capitano Generale di S. M. Chiesa; nel 1526 A bramo Tibaldeschi fu gran Maresciallo sotto Urbano 8°. Parla di si nobil casa Antonio Arcivescovo di Firenze f° 777 e nel Gap. 6 nel Bollano, Tomo primo, foglio 691. Il suddetto Romualdo è pure uno dei primari possidenti.

L'Ava del medesimo si era figlia di Girolamo Tibaldeschi e Rosa Ancarani figlia del Nobilissimo uomo Carlo, Nobile del sacro romano impero, oltredichè ebbe altri Vescovi e rispettabilissimi Cardinali, e per conoscere dette cose, come risultanti da Pubblici atti esibiti ed autentiche, qual Vice Gonfaloniere ho rilascialo il presente munito ee. In fede Ferentino 4° Gennajo 1848.

Pietro Pace Anziano

ff. di Gonfaloniere.

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Si è voluto citare questo documento non perché risulti dall'origine nobile (da lui tenuta in non cale) alcun merito personale per il Necci, ma perché si farà sempre più palese l'infamia delle accuse lanciategli contro, e che esporremo più sotto.

Ad esso dunque sarebbe stato agevole far parto della setta dei potenti; ma impaziente d'un giogo aborrito e forte sentendo la carità di patria sì dette fin da giovinetto a combattere la maledetta influenza dei preti, e prevalendosi della sua condizione sociale e dell'autorità di cui godeva la sua famiglia, si affaticò sempre a propagare nel popolo sentimenti liberali e patriottici. E così cominciò la lotta che dovea aver termine con danno dei suoi interessi, con una accanita persecuzione e colla prigionia scontata più volte nelle carceri pretesche, alla quale dovea far seguito quella inflittagli vergognosamente dal libero governo d’Italia e che egli allora per certo non invaginava di dover un giorno soffrire.

Sopraggiunse il 1848 ed egli visto che la patria aveva bisogno del braccio dei suoi figli corse ad arruolarsi nei volontari seco trascinando col suo esempio e con la sua parola moltissimi suoi concittadini. Fé parte del Battaglione Campano e, discioltosi questo, fu soldato nel Reggimento Unione; prese parte alle fazioni guerresche nel Veneto e vi compi il suo dovere; poscia tornato in Roma difese le mura della sua patria fino al luttuoso giorno, in cui la Repubblica Romana stremata di forze ed esaurito ogni argomento di difesa veniva strozzata dai berrovieri di un despota camuffato da Repubblicano.

Questo tratto di vita del Necci viene provalo dai seguenti documenti:

«1. ° Repubblica Romana.

Foglio di congedo per il sergente maggiore Necci Romualdo, che servì fedelmente, nel nono Reggimento di Linea 1° Battaglione 1a Compagnia Granatieri, la Repubblica Romana.

Il Comand. del Reggim.

P. Landi.

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2° Dichiaro io sottoscritto che il Cittadino Romualdo Necci attualmente sergente maggiore nel 1° Battaglione del Reggimento Unione, per lutto il tempo che ha servito col medesimo grado di sergente maggiore nella 4a Compagnia del Battaglione Campano, di cui io era Capitano Comandante, ha dato sufficienti prove di coraggio, subordinazione e zelo pel servizio militare, in fede di che ne rilascio il presente certificato ecc.

Roma 20 Giugno 1849.

C° Domenico Diamanti.

Roma 6 Luglio 1849.

5° È colla maggiore soddisfazione che il sottoscritto attesta che il sergente maggiore Necci Romualdo si è sempre comportato da egregio militare col dar prove distinte di coraggio nelle fazioni di guerra e nel servizio interno di capacità, attività e zelo. È in conseguenza del sopra esposto che Io scrivente siccome Comandante il Reggimento Unione propose il sergente maggiore Necci pel grado di Ufficiale, il che sarebbe avvenuto quanto prima, se il destino non si mostrava anche questa volta avverso alla nostra infelice patria. Tuttociò si attesta in omaggio della verità, ed anche per dare al sergente maggiore Necci una prova della stima, che ha saputo ispirare al sottoscritto.

Il già Comandarne il Regg. Unioni

Ferrara Colonnello.»

Sacrificata che ebbe Napoleone la Repubblica Romana al Papato per raggiungere l'Impero guadagnandosi il Partito Clericale di Francia e distruggendo le paure degli altri Coronati e dopoché il contaminato vessillo francese entrò in Roma spargendo manette, ceppi e tenebre, poiché vi si era appiccato un lembo di sottana gesuitica, si sciolsero gli

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ultimi avanzi dell'esercito Repubblicano. Il Necci compiuto il suo dovere fino agli estremi faceva ritorno alla sua città natia Ferentino, riunendo intorno al cuore tutta la sua virtù per sostenere e continuare la lolla interrotta per gli avvenimenti politici e che prevedeva dover ricominciare più accanita che mai. Difatti appena pervenutovi dal Governatore locale gli fu ingiunto un precetto comminatorio non solo di non poter circolare nella Provincia, ma di non sortire se non a uscita e tramonto di sole (1) dalla propria abitazione. Ma ciò per nulla valse a piegarlo, ch'egli restava fermo ed irremovibile nei suoi principi, che anzi scorgendo gli animi abbattuti per le recenti catastrofi si delle ad incuorarli nella speranza di futuro risorgimento. Questi maneggi non isfuggirono all'occhio vigile della Polizia, che vegliava di preferenza sul Necci, che sapeva pericoloso ed instancabile e quindi lo imprigionava. Tornato in libertà egli proseguiva la sua opera patriottica di far proseliti nel popolo alla Causa d’Italia e perciò veniva per la seconda volta gettalo in carcere. Uscitone nuovamente, dopo consumatovi il tempo stabilito, vi tornava egualmente fino a che aizzalo il popolo contro il Governo Pontificio e specialmente contro i Gendarmi, che allora soprammodo prepotevano, attaccò una sera una zuffa contro i medesimi e dopo varie fucilale in cui questi ebbero la peggio, il Necci rimasto illeso, dovette rifugiarsi nelle vicine montagne, ove ramingo condusse vita durissima per Ire anni consecutivi. A mezzo di potenti intercessioni poté tuttavia rientrare nel consorzio sociale, ma in via preventiva veniva rilegato a Roma e poscia a Frosinone colla proibizione di porre il piede in Ferentino. Dopo altre simili vicende, che sarebbe troppo lungo il narrare partitamente, egli fu costretto di nuovo a cercare rifugio nelle ospitali montagne e dopo otto mesi di vita errabonda e stentata gli

(1) Il Governo Pontificio obbliga sotto pena di carcere i ladri ed i politici a ritirarsi in casa quando tramonta il sole e a non uscirne se non quando è levato: questa punizione viene comunemente chiamata precetto e chi n'è colpito precettato, che suona per il volgo titolo d'infamia.

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riusciva di guadagnare il territorio napoletano divenuto libero per opera di Garibaldi.

Cotesta fiera lotta con tanta tenacia durata è comprovata dal documento, che qui sotto riportiamo, e che diventa tanto più prezioso in quanto che viene da gente divenuta avversa al Necci come si vedrà in seguito, ma che, richiesta, non ha potuto rifiutarlo, mentre sarebbe stato lo stesso che negare la luce del sole, poiché quanto sopra si è narrato e conosciuto da tutta intera quella provincia.

Ecco il documento:

«Noi sottoscritti per la verità richiesti certifichiamo, che il Sig. Romualdo Necci di Ferentino nel 4848 partì col Battaglione Campano per la guerra 'dell'Indipendenza, in cui servì in qualità di sergente maggiore, come apparisce dai Certificati dei Signori Comandante il Battaglione Ferrara e Capitano Diamanti, dando prova alla circostanza di gran coraggio e subordinazione, sciolto il quale si trasferì nel Battaglione Unione e combatté nella Venezia valorosamente, dove per i suoi meriti sarebbe stato promosso a Sottotenente, se la disgrazia non avesse anche allora impedito la liberazione d'Italia. Entrò poscia in Roma in servizio della Repubblica Romana, come dal Congedo del Maggiore Landi, ove pure si distinse pel suo patriottismo e valore. Si restituì quindi in Patria, e non appena giunto, dal Governatore locale gli fu ingiunto un precetto comminatario non solo di non poter circolare nella Provincia, ma di non sortire se non a uscita é tramonto di sole dalla propria abitazione; dové subire a degli arresti arbitrari relativi sempre a cause politiche, ma il nominato Necci non si lasciò mai intimidire dal Governo Papale, tenendosi sempre ferino nei suoi principii e facendone propaganda per ogni dove. Nel 1860 finalmente dopo otto mesi di stretta latitanza FU COSTRETTO AD EMIGRARE NEL NAPOLETANO PER... AVER AVUTO COLLOQUIO CON UN CERTO SPEDITO APPOSITAMENTE DAL COMITATO ROMANO, IL QUALE VENNE ARRESTATO IN FERENTINO INSIEME AD ALTRI OTTO SUOI AMICI.

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siamo constatare infine che il detto Necci è un ricco proprietario ed alla occorrenza ha esposto pel bene della Patria vita e sostanze.

Frosinone 22 Dicembre 1866

IL COMITATO NAZIONALE.»

Abbiamo avuto cura di porre in evidenza quella parte del citato documento che riflette il motivo della sua emigrazione, perché così viene ricacciata in gola all'onorevole signor Prefetto Gualterio la menzogna da lui pronunciata, quando essendosi recati alcuni ad intercedere a favore del Necci allora imprigionalo a Napoli rispondeva che questi non era emigralo politico. La stessa verità ed acume d'ingegno che risplende nelle famose Memorie storielle, di cui è maestro manovale, brilla in quest'affermazione.

Dal fin qui detto adunque e dai documenti addotti rimane incontestabilmente provalo che la. vita del Necci dal 1848 fino al 1860 fu tutta dedicata alla Causa Italiana, per il trionfo della quale egli subiva prigionie, persecuzioni e vessazioni d'ogni sorta, anche con grave jattura dei suoi privati interessi, che era costretto ad abbandonare spesso in mano di estranei. E quindi cotesto passato e cotesti antecedenti politici ci inducono già il convincimento che egli non poteva poscia divenir così nemico all'Italia e così pericoloso all'ordine pubblico da meritare l'odiosa punizione di essere imprigionato insieme ai preti reazionari ed ai borbonici, divenuti suoi compagni di carcere, e mandato, dopo cinque mesi di prigionìa nel Castel Capuano, a domicilio coatto nell'estremo Piemonte. Deve perciò sorgere gravissimo in ogni uomo di buon senso il sospetto che altra causa che non quella di tutelar l'ordine pubblico abbia prodotto la carcerazione del Necci e che abbia concorso in questo vergognoso fatto qualche privata vendetta di chi non ha mai avuto il pudore di far servire il potere a strumento dei suoi ignobili fini. Ma quando con documenti del pari incontestabili e della più grande autorità avremo provato, come ci accingiamo a fare, che la vita del Necci non si è mai smentita e che il più

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puro amor di patria lo ha sempre guidato in tutte le sue azioni dal 1860 al Giugno 1866, epoca in cui venne arrestalo, cotesto sospetto diverrà certezza e sarà per tutti aperto essere il Necci vittima d'ingiusti ed implacabili rancori di uomini appartenenti alla consorteria allora trionfante, i quali approfittarono, per isfogare il loro odio, dei poteri eccezionali: e vedremo come l'Autorità si è prestata compiacente a questi turpi maneggi.

Il Necci, allorché ebbe tocco nel Settembre 1860 il suolo libero, benché affaticato per lunga lotta sostenuta tuttavia a simiglianza di Anteo che col toccar la terra sentiva raddoppiar la sua forza, egli accrebbe, se pur era possibile, il suo odio per il despotismo clericale ed il suo amore alla libertà o quindi si diede con tutte le sue forze a cooperar virilmente alla morte dell'uno ed al trionfo dell'altra. E lo provò indubbiamente nel Decembre successivo allorché portatosi al confine con altri suoi amici concorse con la sua attività e con il suo ardimento alla fuga dei soldati pontifici e alla conseguente liberazione della Provincia di Pontecorvo. A dimostrare la verità storica di questi fatti addurremo un documento, che rivela pure la gratitudine dei cittadini Pontecorvesi per la nobile e patriottica cooperazione del Necci.

Esso è il seguente:

«St. mo Signore

Lo zelo, che la S. V. Ill.ma ha dimostrato per procurare a questa popolazione il bramato intento di essere annessa all'Italiana famiglia sotto lo scettro di Sua Maestà Vittorio Emanuele, é stato di piena soddisfazione del pubblico; ed è perciò che adempiamo al dovere di esternarle a nome di lutti i cittadini i sensi della più sincera gratitudine e di eterna riconoscenza. Intanto la preghiamo a gradire la Cittadinanza Pontecorvese, che a nome della Popolazione le offeriamo, come un tenue attestato dell'alta stima ed affezione somma che nudriamo per la sua degnissima persona.

Speriamo che si compiacerà accoglierla di buon grado


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e contestandole i sensi della nostra più sincera stima, passiamo a dichiararci

Di V. S.

Pontecorvo li 26 Dicembre 1860.

Devotissimi Servitori

I Pubblici Rappresentanti


Arcangelo Rocca Marc'Antonio Cerro
M.Prignano Giuseppe Amati
Salvatore Spirito Francesco Valentini
Cesare Meloccaro
Sig. Romualdo
Necci Pontecorvo.»

Compiuta quest'impresa, il Necci si ritraeva a vivere all'Isola, città limitrofa allo stato Pontificio, da dove proseguiva con una perseveranza indefessa ed instancabile a far propaganda di patriottismo nelle Provincie ancora soggette al dominio clericale, introducendovi giornali, stampe e quanto altro credeva confacente allo scopo; né basta, che facendosi centro organizzava una vasta associazione fra i patrioti! dell'accennate provincie, per preparare la rivoluzione. Ognuno agevolmente comprende come per operar tutto ciò occorrevano delle spese e non poche, ma il Necci tutto sagrificava di gran cuore per raggiungere il suo ideale, stato guida di tutta la sua vita cioè atterrare il governo clericale. E ciò si può anche rilevare dal seguente documento:

Caprera 9 Febbrajo 1863.

All'Associazione dei Comitati di Provvedimento per Roma e Venezia nella Provincia di Marittima e Campagna

Isola di Sora

Signor Presidente

Vi ringrazio e vi sono ben riconoscente degli augurii e delle felicitazioni, che a nome di coteste associazione mi inviate.

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Non sono ancora guarito, ma vado meglio, e diggià cammino coll'ajuto delle Gruccie.

Accettate un affettuoso saluto dal

Vostro

G. Garibaldi.

AI sig. Romualdo Necci

Presidente dell'Associazione dei Comitati ecc. ecc.

in

Isola di Sora

Ed intanto mentre menava una vita irreprensibile ogniqualvolta i, briganti infierivano in quei dintorni egli incuorando gli altri accorreva fra i primi o unendosi volontario alla Guardia Nazionale, ovvero formando una squadra dei suoi amici, si slanciava per dare addosso a' quei feroci assassini. Ed anche su ciò pubblichiamo un altro autorevolissimo documento, che ci descrive la sua vita fino al Giugno 1862.

Isola li 27 Giugno 1862.

 

Provincia di Terra di Lavoro

Amministrazione Municipale

di Isola

«La Giunta Municipale d'Isola

Certifica

Che il sig. Romualdo Necci di Ferentino, Provincia di Frosinone, di condizione proprietario, dimorante in questo Comune da circa due anni, ha sempre serbato una condotta lodevolissima e riguardato da tutti come onesta persona ed affezionata al paese.

Che egli ha dato pruova di attaccamento al nostro Governo col suo savio procedere non solo, ma tutte le volte che questo paese è stato minacciato dai reazionari e briganti,

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si è unito il primo alla Guardia Nazionale per abbatterli e massime quando qui non vi era la truppa Militare.

In attestato del vero si rilascia il presente certificato.

La Giunta

Antonio Sariu Achille Simoncelli
Luigi Pjzzitutto Giuseppe Pantanella
Generoso Mancini Giacomo Campoli Segr.

E che egli abbia proseguito ad adempiere al dovere di buon cittadino fino al Giugno 1865 lo proveremo con altri due documenti dai quali si rileverà sempre meglio la grande estimazione in cui egli era tenuto e come avesse saputo guadagnarsi, benché straniero, la simpatia generale.

«Isola 2 Luglio 4862.

Comando

della

Guardia Nazionale

di

Isola di Sora

1° Certifico io qui sottoscritto Capitano che il sig. Romualdo Necci di Ferentino in Provincia di Frosinone in tutto il tempo che ha qui dimorato ha serbato ottima e lodevole condotta non solo, ma ogniqualvolta il paese è stato minacciato dai Briganti, egli è stato sempre uno dei primi ad accorrere in difesa dello stesso unendosi a questa Guardia Nazionale.

In fede di che gli si rilascia il Presente

Il Capitano Comandante

Saverio Nicolucci.

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Amministrazione Comunale

di Isola

Regno d'Italia

Provincia di Terra di Lavoro             Circondario di Sora

Comune d'Isola

«2° II sottoscritto certifica, che il nominato sig. Necci Romualdo proprietario nativo di Ferentino, Provincia di Frosinone, stato Romano, emigrando dalla sua Patria nel 1860 portavasi in questo Comune e durante la sua dimora abbia sempre serbala condotta lodevolissima considerata sotto tutti gli aspetti... Come Cittadino, come si addice a persona onesta, ad un Galantuomo, come liberale da vero e disinteressato Patriota.

In compagnia del sottoscritto, che allora trova vasi legai mente Capitano della Guardia Nazionale, spontaneamente accorreva armato contro i Briganti, che tanto spesso minacciavano la nostra patria ed a sue spese manteneva una corrispondenza collo Stato (Pontificio) onde conoscere le mene e le vere notizie dei nostri nemici. Portatosi in Pontecorvo, ex-feudo della Chiesa, organizzava una rivoluzione a sue spese e col rischio della sua vita riusciva a compiere un Plebiscito ed a formare una Guardia Nazionale, cosicché, AD ONORE DEL VERO, POTRÀ DIRSI, PONTECORVO TROVARSI ANNESSA AL REGNO D'ITALIA PER OPERA E CORAGGIO DEL SIG. NEGO ROMUALDO.

Richiesto si rilascia il presente attestato da valere ove convenga.

Isola 4 Giugno 1863.

Il Sindaco

Giacomo Nicolamasi.»

Ora, se non andiamo errati, deve prodursi inevitabilmente in chi legge una grandissima meraviglia e un disgusto doloroso nel)'apprendere che quest'uomo, di cui tutti unanimemente comprovano con piacere il profondo patriottismo, il

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coraggio e l'abnegazione, sia stato poscia imprigionato come un malfattore, un borbonico, un uomo pericoloso all'ordine pubblico e sia stato fatto languire nelle carceri per cinque. mesi in compagnia di preti reazionari e manutengoli di briganti e poscia cacciato a domicilio coatto. Quest'uomo diciamo che non contento di aver lottalo per tanti anni con il despotismo clericale contribuiva dipoi potentemente alla liberazione di Pontecorvo, profondendo danari a tale scopo e che non si limitava soltanto ad unirsi alla Guardia Nazionale per combattere le orde brigantesche ma manteneva a sue spese una corrispondenza per iscoprirne le trame ed i movimenti. A noi sembra, dietro la esposta vita contenuta negli addotti documenti, di scorgere nel Necci uno di quegli uomini di fede inconcussa che assorbiti da una sola idea tutto sagrificano alla realizzazione del loro ideale, al trionfo del loro principe, che, come abbiamo veduto, consisteva per il Necci nella morte dei dominio dei preti e nella libertà dell'Italia. A riscontro di quest'anima nobile e patriottica porremo le bassezze e l'infamie dei suoi nemici e la condotta tenuta dall'Autorità a suo riguardo e lasceremo il giudizio di tutto ciò all'imparziale lettore.

Fino ad ora per formarci un criterio ed un' opinione sulla vita e sui principi del Necci abbiamo lasciato parlare o testimoni privati o autorità non governative; ma adesso chiameremo a dir la sua parola anche il Governo; che più ascolteremo in qual modo favellino su questo proposito l'Archimandrita dei moderali romani e lo stesso Comitato Nazionale ed altri di eguali principi, divenuti poscia, nemici del Necci; e siccome, ne siam sicuri, crescerà sempre più in chi legge la meraviglia per la prigionia del medesimo, porgeremo in fine la chiave del mistero, da) quale si rileverà che se la Compagnia di Gesù va spegnendosi per mancanza di alimento e per essersi cambiale le viziale condizioni, in cui dessa può solo svilupparsi, ne sorge però un'altra, che ne è la seconda edizione accuratamente riveduta e corretta, cioè la setta dei Consorti e Moderati.

Il documento che qui sotto trascriviamo mentre constata

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sempre meglio il disinteresse, il patriottismo e la febbre, da cui era animato il Necci, di combattere i nemici della Nazione, ci porge in pari tempo il destro di proporre il seguente dilemma all'onorevole sig. Gualterio 0 il Necci è un buon patriota ed ha prestato gratuiti servigi alta Causa Italiana e questa sua nobile qualità é notissima alla Polizia di Napoli e allora convien confessare che la sua carcerazione è effetto di un'ignobile persecuzione; o il Necci è effettivamente un nemico dell'Italia e allora si dichiara con ciò stupida, imbecille la sullodata Polizia, la quale lo raccomandava come persona notissima e come un appoggio dell'autorità politica nel confine. Sull'uno o l'altro di questi due corni scelga sedersi il Marchese autore delle Memorie Storielle si troverà sempre a disagio.

Ecco il documento:

Sotto-Prefettura

del

Circondario di Sora

Num. 41.

«Il sottoscritto certifica che il Dicastero di Polizia di Napoli in data del 9 Giugno 1864 raccomandò all'in allora sotto Governatore di Sora il sig. Romualdo Necci come persona notissima a quel Dicastero, la quale offeriva gratuiti servigi alla Causa Italiana e che veniva per appoggiare la suddetta Autorità Politica in questo confine.

Sora addì Il Giugno 1863.

Il Sotto-Prefetto

L. Berti.

Per ispiegore la natura di cotesti servigi e di coteste appoggio è mestieri richiamarsi alla mento l'impresa già compiuta dal Necci in Pontecorvo, la reazione fremente e non ancora interamente debellala e quanto egli andava operando allorché descrivemmo la vita da lui menata in Isola.

Ora ascoltiamo che cosa pensassero di lui e il Comitato Nazionale Romano e i suoi rappresentanti i quali lo hanno

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poi indicato come uomo avverso al paese e nocivo all'ordine pubblico, eccitandogli contro una accanita e sleale persecuzione, che per mezzo del sig. Gualterio, anima e strumento dei Consorti, e dei pieni poteri ha avuto termine con il carcere e il domicilio coatto. Per intendere il documento che qui sotto riportiamo è necessario conoscere che il Necci, appena letto il Proclama di Ficuzza, d'accordo con altri patriotti spediva in Roma l'emigrato Cesare Filibeck munito di idonei mezzi allo scopo di preparare con l'agitazione i Romani ad un movimento, che armonizzasse con la marcia di Garibaldi. Ora avvenne che il Filibeck giunto in Roma desse nelle reti tesegli dal Comitato Nazionale e improvvidamente, non avendo esperienza della natura dei moderati, si lasciasse illaqueare dalle molle e fallaci promesse fattegli dal Presidente del Comitato stesso: di guisa che di buona fede ma illuso s'indusse a ripartirsene e a lasciar loro la cura del movimento: che anzi dovendo egli insieme al Necci raggiungere Garibaldi, come eran d'intesa, assunse il compito di rappresentare il Comitato Nazionale presso lo stesso Generale. Tornato perciò a Napoli rimetteva al Necci la seguente lettera che a lui indirizzava il Comitato. Egli moveva lamento all'amico conoscendo fallita la missione, nessuna fede avendo nelle promesse dei moderati; ma non essendovi più rimedio al male fatto si recavano in Sicilia onde congiungersi alle schiere garibaldine.

Ecco la lettera:

«Sig. Necci

Roma 10 Agosto 1862.

Ella, sig. Necci, si è adoperata perché il sig. Cesare Filibeck fosse prescelto alla missione, che testé ha compilo in Roma. Questa missione che poteva esser seme di discordia è stata invece, mercé lo spirito intelligente e conciliativo (leggi mistificazione! vedremo in seguito con qual moneta ha il Comitato pagato il Filibeck di questo suo spirito conciliativo) di quel vostro operoso concittadino, e sarà, lo speriamo, feconda di quella concordia, di cui tanto

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è d'uopo a noi Italiani per compire la grande opera della nostra piena unificazione. Il sig. Filibeck le dirà in qual modo noi siam giunti ad intenderci. Voglia Ella intanto accettare i ringraziamenti di questo Comitato, il quale riconosce un amico in chiunque con attività e zelo si affatica pel bene della patria. Gradisca un saluto fraterno.

Per il Comitato Nazionale Romano

Ernesto.

Signor Romualdo Necci

Isoletta.

Dunque a confessione dello stesso Comitato Nazionale Romano il Necci nel 4862 era ancora un buon patriotta, poiché con attività e zelo si affaticava pel bene della patria. Avrebbe forse cessato di esserlo in seguito? Mai né: poiché nel Giugno 4864 ce l'assicura il Capo del suddetto Comitato, sig. Giuseppe Checchetelli, il quale chiamava carissimo il Necci, si diceva pienamente soddisfatto del suo operato, si compiaceva di indirizzargli lusinghieri elogi, lo pregava di conservargli la sua benevolenza ed infine stringeva la mano a chi dovea divenire per una miracolosa metamorfosi un brigante, un pugnalatore, un nemico d'Italia.

«Torino 12 Giugno 1864.

Carissimo Necci

Mi rallegro di cuore per tutto ciò che avete fatto e più per quello che sarete per fare. Raimondo vi dirà come qui si apprezza il vostro operato. Quanto a me non m'è giunto nuovo: uomini del vostro cuore riescono a quel che vogliono, lo spero non sia lontano il giorno che voi avrete la compiacenza di veder libera colle altre la vostra bella provincia, e di poter dire a voi stesso: io vi ho contribuito nella maggior parte. A Raimondo ho scritto qualche cosa riguardo alla nota... Secondo il sistema che sarà preferito qui da chi può meglio misurare cosa convenga più o provocare oggi la....... o.........

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toccherà a Voi, mio caro Necci, di adoprarvi all'uopo. Io convengo che questo sistema é fecondo di utilità: ma persisto nel credere che un saggio quale voi proponevate sarebbe pure utilissimo: anche per preparare il resto ad quando sia l'ora... Che ne dite Voi?

Per ora non vi dico altro se non che qui si pensa seriamente a Roma e si studiano sempre nuovi modi (la Convenzione di Settembre e il Progetto Dumonceau) per averla il più presto possibile. (Corre il 1867 e ne siamo oggi più lontani che mai: né è da sperare che il più presto possibile, debba realizzarsi per ora, poiché trattasi di moderati, che avanzano in modo «che le lumacce al paragon son veltri. ») E, vogliano o no gli abati colla Mitria e senza, l'avremo non così tardi come i loro partigiani presumono. Lavoro e prudenza: che i nostri nemici si trovino dinanzi a una forza inaspettata e saranno schiacciati.

Conservatemi la vostra benevolenza; salutate gli amici ed accettate intanto una stretta di mano dal

Vostro Aff. mo

Checchetelli.

E ciò fino al Giugno 1864. Nel periodo di tempo, che il Necci trascorse in Napoli, ove ricevette la citala lettera, le opere sue si possono riassumere in queste parole — Carità Fraterna — Infatti in ogni compagno di sventura egli ravvisava un fratello, e adoperavasi a tutt'uomo per porgergli aiuto, perorando spesse volle la sua causa presso le Autorità politiche, e di ciò chiamiamo a testimonio la stessa Questura di Napoli. E che i buoni lo stimassero ed amassero ne porge indubbia prova il fatto seguente. Allora che nell'anno passato si ritenne imminente il principio delle ostilità con l'Austria si produsse un fermento generale cagionalo dal desiderio di prender parte alla Guerra, che si reputava Nazionale; a questa commozione non rimasero estranei gli esuli romani che risiedevano in Napoli; ma siccome colà il Governo non avea ancora aperti gli Uffici di arruolamento, come avea fatto nel resto d'Italia, cosi ebbero luogo varie


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dimostrazioni dirette a protestare contro tale esclusione. Il Necci insieme ad altri emigrati pensò di convocare ad un'adunanza tutti i Romani por deliberare sul modo di prepararsi a concorrere alla Guerra e per promuovere la formazione di una Legione composta esclusivamente degli esuli di Roma sparsi per l'Italia affine di provare ancora una volta con tanto solenne affermazione di fatto essere i Romani nemici di ogni occupazione straniera. Per l'attuazione di sì nobile idea e per far le pratiche necessario l'Assemblea creò una Commissione. Il Necci riuscì eletto ali' unanimità, il che prova che egli godeva la stima e la fiducia dei suoi compagni ed anziché essere nemico d’Italia e pericoloso all'ordine pubblico, si adoprava invece a procurare il bene del paese. La Commissione eletta pubblicava e affiggeva in Napoli il seguente:

«Avviso all'Emigrazione Romana.

La Commissione sottoscritta, in esecuzione del mandalo ricevuto nell'Adunanza Generale tenuta la sera del 5 Maggio, e concordemente a quanto si è stabilito con la Presidenza dell’Associazione dei Reduci dalle Patrie Battaglie, avverte gli Emigrali Romani che al Vico Sergente Maggiore a Toledo N° 30 primo piano si é aperta la sottoscrizione preventiva per raccogliere le firme tanto di chi vuoi partire volontario sotto il Comando del Generale Giùseppe Garibaldi, quanto di chi, impedito dal partire, vuole ascriversi per la difesa interna del paese.

L'Ufficio sarà aperto dalle ore 8 ant. alle ore 9 pom. Napoli. 8 Maggio 1866.

La Commissione
Romualdo Necci Giuseppe Gigli
Luigi Mezzetti Ercole Monaci
Alessandro Castellani

Né a ciò soltanto si limitava l'opera della Commissione, poiché iniziava delle pratiche presso il General Biscaretti Presidente della Commissione Governativa per i volontari affine

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di ottenere la formazione della Legione Romana. Numerosi accorsero i giovani dalle provincie soggette al Pontefice e da Roma stessa per arruolarsi, e siccome le condizioni economiche di molti di essi erano assai infelici e la Commissione non poteva da se sola sopperire ai bisogni di tutti, così otteneva con insistenti uffici che venisse loro accordato per qualche giorno il sussidio stabilito per gli emigrati. Affluendo poi egualmente in gran numero i giovani delle Provincie Napolitane, e non avendo mezzi per mantenersi in Napoli cadevan nella più dura miseria, soffrendo la fame e. dormendo per le vie: allora la Commissione si rivolse al Municipio esponendogli questo stato di cose, ed otteneva locale e paglia per ricovrare questi giovani generosi, che durante il giorno si addestravano alle armi nei quartieri della Guardia Nazionale, avendo la Commissione assunta la responsabilità d'impedire qualunque disordine esercitando un'attiva sorveglianza.

Infine, essendo fallite le pratiche per la formazione della Legione, insieme al Comitato degli studenti, che aveano imitato l'esempio dei Romani, e alla Presidenza dell'Associazione dei Reduci si recava, seguita da turba immensa di popolo, dal Sindaco di Napoli, perché facendosi interprete del desiderio generale provocasse dal Governo l’apertura degli Uffici di Arruolamento, togliendo l'onta che veniva inflitta a Napoli con una sì vergognosa esclusione, mentre i volontari delle altre città d’Italia si trovavano già nei depositi, e ciò anche allo scopo di impedire serii disordini.

Il Necci intanto accorreva al confine onde accogliere e indirizzare gli emigrati e fomentare coi mezzi e le relazioni che possedeva la diserzione nei soldati del Papa di guisa che essendo questa già cominciata il Governo Pontificio rimpiazzava con gli Zuavi gl'indigeni. Ciò in linea politica. La sua onestà poi e la sua condotta, irreprensibile durante gli anni che trascorse in Napoli vengono comprovate da seguenti documenti:

«1° Il Cancelliere della Corte di Appello di Napoli certifica che essendosi perquisiti i registri criminali di

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Cancelleria esistenti nell'Archivio dell'abolita Gran Corte Criminale dal milleottocentotrenta fino al trenta Aprile milleottocentosessantadue, in essi non si è rilevato carico alcuno sul conto di Romualdo Necci fu Francesco di Ferentino in Frosinone nello Stato Romano di anni 40.

Napoli 22 Gennaio 1867

Specifica — Carta cent. 55, Certificato L. 1,20 Ricerca L. 1,50 Totale L. 3 cent. 25.

Ballarin.

Pel Cancelliere titolare

Il Vice Canc. aggiunto S. Cirinei.

Visto il Pubb. Min. La Volpe.

Quietanza N. 405 — A. P.

Esatto Lire Due e Cent. Settanta.

Il 22 Gennajo 4867.

N. Sjornia Vic. Canc.

2° Il Cancelliere del Tribunale Civile e Correzionale di Napoli certifica che perquisiti i Registri dei Crimini e delitti dal primo Maggio 1862 fin oggi sul conto di Necci Romualdo fu Francesco, anni 40, di Ferentino Provincia di Frosinone nello stato Romano, dimorante in Napoli, in essi non trovasi notato di carico alcuno.

Napoli 22 del 1867.

Collaz. Carumi.

Il Cancelliere Guerrieri.

Il Sost. Proc. del Re Subbia.

N. 2669 della quietanza dei 22 del 1867.

Esatto Lire Una adittata.

Mentre il Necci si preparava alla partenza per la guerra procurando di allontanare la sorella, che era corsa a Napoli per impedirgli l'andata, veniva perquisito ed arrestato. La perquisizione, come ognuno immagina, andò pienamente fallita, essendogli state rinvenute delle lettere, che costituivano invece un'altra prova del suo attivo e profondo patriottismo, come constatò il Delegato perquisitore, ma con tutto ciò dopo

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quattordici giorni di detenzione nella Questura veniva gettato nelle prigioni del Castel Capuano, ove si trovò per cinque mesi colla bella compagnia di preti reazionari e manutengoli di briganti. Scontata quest'infamante punizione era cacciato a domicilio coatto a Mondovi di Piemonte.

L'odio implacabile e le bieche ire, che ottennero il loro soddisfacimento con questa ingiustissima persecuzione, ebbero origine fin da quando egli ruppe ogni rapporto politico cogli uomini di parte moderata, essendosi avveduto che tutta la cura di costoro è diretta a porre il frenello ad ogni ardita e patriottica aspirazione e a subordinar tutto agli interessi della Consorteria. È vero che dopo ciò egli fu reo di aver indefessamente e costantemente combattuta la loro influenza nell'emigrazione. A questo scopo non volle associarsi all'accanita, sleale ed esagerata persecuzione da essi suscitata contro il Filibeck, di cui abbiamo parlato di sopra e col quale era il Necci legato col vincolo dell'amicizia. A toglier fede poi alle accuse da loro sparse contro di quello contribuivano due falli: primieramente niuno produceva le prove della terribile imputazione formulata contro di esso: secondariamente il sapersi come il Filibeck fosse caduto in disgrazia del Comitato Nazionale ed incorso nel suo sdegno implacato per aver tentato nelle imprese compiute in Roma di esautorarlo dopo aver inutilmente esaurito ogni mezzo per farlo uscire dall’inerzia. Per tutte queste ragioni dunque la Camarilla arse di sdegno contro l'audace che ardiva opporlesi, e vegliava attenta ad afferrar l’occasione per trame vendetta. Avvenne intanto che al Filibeck s'ingiunse il domicilio coatto, ma per lo stato della famiglia e dei suoi privati interessi rifiutò di obbedire e si rese latitante. Di ciò ne fu fatto aggravio al Necci, come se egli fosse responsabile delle azioni di quello. Al Filibeck riusciva di partire inosservato da Napoli insieme ai volontari, sperando che col prender parte alla guerra e coll'allontanarsi si sarebbe rallentata la persecuzione; ma i suoi calcoli andarono falliti, mentre risaputasi la sua partenza il telegrafo fu posto a disposizione dei persecutori e a Milano dovette far conoscenza coi custodi delle carceri.

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Tuttociò, come ognun vede, costituiva troppo futile pretesto per poter contestare la misura, che ad ogni costo volevasi prendere contro il Necci, quella cioè d'imprigionarlo; inoltre non eravi prova di sorta per asserire che egli fosse stato partecipe o istigatore della latitanza e partenza del Filibeck. Una tal cosa ben conobbe la cricca, e perciò con arte gesuitica si die a sparger calunnie di ogni specie e colore a carico del Necci; (come già si era praticato con il suo amico) ma, ad esempio dei Lojoliti, non veniva nettamente indicata nessuna delle accuse; bensì si accennavano in confuso e s'insinuavano con le mezze parole e con le reticenze.

Una fra le altre calunnie propagate a tal fine e che sopra ogni altra si procurava di far credere con un'infaticabile insistenza fu questa. Si citava una lettera, che da Napoli sarebbe stata scritta dall'emigrato romano Luigi Mezzetti ad un altro emigrato Giacomo Appolloni di stanza in Genova, nella qual lettera il Necci sarebbe stato gravemente accusato. Si affermava che la medesima era stata comunicata e consegnata dall'Appolloni ad un altro Romano di passaggio per Genova, il quale l'avrebbe spedita in Napoli: infine si vantava il possesso di essa, che poscia si diceva rimessa alla Polizia. Con questa infernale calunnia si voleva far ritenere per indubbia la reità del Necci, poiché se si possedeva una prova incontestabile che uno degli amici più cari di lui e che perciò dovea essere molto addentro nelle cose sue lo dichiarava colpevole, chi avrebbe più osato metterlo in forse? Inoltre il Mezzetti era fra i soldati di Garibaldi e quindi difficile che potesse venirne a cognizione e smentirli; arrogi che egli poteva anche rimanere fra' le gole del Tirolo: per il rendiconto poi, che la leggenda assicura dovrà farsi al cospetto di tutti gli uomini nella mistica Valle di Giosaphal, che cosa contava una calunnia di più alle tante già descritte nel passivo? E se fosse dopo qualche mese sopraggiunta la smentita a distruggere la codarda calunnia e se si fosse innalzala qualche voce a reclamare giustizia, Teff etto era già ottenuto, né eravi a temere cosa alcuna mentre l'impunità era assicurata per il potere nelle mani dei fratelli

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Consorti e per essere oramai provato che l’operato di Prefetture e Polizie è indiscutibile ed incensurabile. Altre cose di ben altra importanza che non avesse questa bazzecola era riuscita a soffocare la cricca. Né i calcoli andarono completamente errati, mentre solamente dopoché il Necci avea già subito la carcere ed era stato invialo a domicilio coatto si lesse nel Popolo d’Italia Anno VIII N. 25 del 26 Gennaio 1867 questa dichiarazione:

«Riceviamo da un nostro amico da Firenze la lettera seguente:

Pregiatissimo signor Direttore,

Siate cortese di pubblicare nelle colonne del vostro accreditato giornale la presente lettera tendente a smascherare calunnie inaudite nello interesse della giustizia e della verità.

Il mio amico Romualdo Necci, emigrato romano, venne imprigionato e cacciato in mezzo a borbonici e preti reazionari allorché furono così fatalmente accordati al Governo i pieni poteri dai retori del Parlamento. Fu effettuata cotesta carcerazione per isfogo di partigiane vendette, che sarebbero rimaste ineseguite sotto l'impero della legge comune. Siccome però i precedenti politici, la vita irriprensibile del mio amico e i servigi da lui resi alla Causa Italiana erano tali da escludere ogni qualsiasi pretesto ad inveire contro il medesimo, così i suoi nemici, che volevano perderlo, ricorsero alla solita arma della calunnia. Fra le altre codarde invenzioni si cita una lettera, che io da Napoli avrei scritto ad un emigrato romano, Giacomo Appolloni, che ha stanza in Genova, e nella quale avrei accusato gravemente il Necci. Cotesta lettera mi si dice che fu rimessa all'Autorità o le ne fu data cognizione e che fu la causa principale della prigionìa del medesimo.

Essendo partito per la guerra e non avendo fatto ritorno in Napoli, ora soltanto vengo a conoscere coteste

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infamie e perciò mi affretto a dichiarare nel modo il più formale ed assoluto pretta e scellerata calunnia la storia della suddetta lettera. Mi riservo di chiamarne gli autori a renderne conto dinanzi ai Tribunali: intanto respingo con tutte le forze dell'animo mio l'odiosa accusa dichiarandola sleale ed infame invenzione di coloro, che simili ai Gesuiti ricorrono alla calunnia per abbattere i loro nemici e novelli Rodin rappresentano l'amico accusatore dell'amico.

Credetemi

Vostro Affezionatissimo

Luigi Mezzetti

Oltre a ciò il Mezzetti allo scopo di provvedersi degli elementi necessari per intentare un processo contro l’autore della calunnia, se gli venisse fatto di rinvenirlo, provocava dall'Appolloni una risposta sull'oggetto, ed infatti ecco la lettera che riceveva dal medesimo. È necessario premettere che il Santini, di cui si parla, è l'individuo, al quale si affermava aver l'Appolloni letta e consegnata la lettera accusatrice.

«Caro Mezzetti

Genova 22 Febbraio 1867.

Riscontro la tua caris. ma del 19 p. mese, nella quale ti dò ricevuta di N° 7 Giornali. In quanto alle lettere che tu dici di avermi spedite ne ho ricevuta solo che una. Ora vengo a rispondere alle tue domande; prima d'ogni altra cosa devo dirti che FRA ME E TE NON VI È STATA MAI CORRISPONDENZA FINO A TANTO CHE SEI STATO IN NAPOLI, e non ho mai parlato con te del Santini se non che la prima volta a Bergamo! Col Santini poi ho parlato una sola volta, come ti dissi, dopo 5 anni nella circostanza che é passato per Genova prima della guerra, e ci parlai nell'Osteria del Giardino d’Italia in presenza di Felci, Ferrari ed altre persone e di tutto quello che abbiamo parlato ve ne sono cinquantamila persone, che possino fare testimonianza: solamente che il detto Santini per scolparsi

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dava a me un Opuscolo contro il Necci e il Filibeck, due persone che io non conosco, e poi non l'ho più veduto; mi meraviglio che abbiano fatto uso del nome mio SPECIALMENTE IN COSE CHE NON CONOSCO PER NIENTE AFFATTO.

Ricevi una stretta di mano dal

Tuo Amico

Giacomo Appolloni.

La più grave delle accuse dunque lanciate contro il Necci resta in tal modo luminosamente smentita e distrutta, e il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto delle altre, se fossero state formulate e se invece di agire inquisitorialmente si fosse iniziato regolare processo; ma l'Autorità era troppo interessata a togliere di mezzo e screditare il Necci, che avea avuta l'incredibile audacia di combattere fra l'emigrazione la malefica influenza dei consorti e di farsi iniziatore di nobili e patriottici divisamenti. Inoltre col raccogliere negli Atti della Polizia e della Prefettura le calunnie mosse contro di lui si costituiva una base e un fondamento per contestare l'inflittagli prigionìa e un addentellato per nuove misure arbitrarie, che si credesse opportuno di prendere in seguito contro di lui. E così è avvenuto di fatti: poiché dopo varii mesi di carcere e di domicilio coatto a Mondovì gli si faceva la grazia di poter dimorare in Firenze col divieto però di recarsi a Napoli, ove lo richiamavano imperiosamente i suoi affari e i suoi privati interessi danneggiati gravemente per la sua lontananza; ma dopo breve tempo veniva rinviato all'antico domicilio coatto dandogli appena l'agio di recarsi alla propria abitazione accompagnato dalle guardie per prendere il bagaglio. Quali erano le colpe commesse dal Necci per provocare un rincrudimento di persecuzione?

Primieramente era reo di aver firmato insieme ad altri Cento esuli romani una dichiarazione di sfiducia per il Comitato Nazionale: secondariamente di essere stato eletto in un'adunanza di Romani membro di una Commissione, il cui unico ed esclusivo scopo si può rilevare dalle seguenti parole del Verbale della seduta letto prima della chiusura della medesima:

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«Gli Esuli Romani residenti in Firenze riuniti ecc. hanno eletta una Commissione composta dei concittadini Romualdo Necci, Luigi Mezzetli, Antonio Patrecchi, Augusto Marini e Vincenzo Tonni perché si adoperi a riunire l'Emigrazione in una concordia di propositi onde possa cooperare efficacemente alla liberazione di Roma.»

L'ultima infine e più formidabile accusa è di avere il 19 Marzo in compagnia di altri amici fatto dei brindisi alla salute di G. Mazzini!!! Se altri ha dimenticato quanto deve l'Italia al Venerando Patriota e reputa delitto una dimostrazione di affetto verso di lui, non l'hanno però obliato i veri Romani, che si sentono più particolarmente a Lui legali dal vincolo della gratitudine, mentre portano incancellabilmente scolpita nel cuore l'epoca per loro gloriosa il quarantanove, e sanno com'Egli efficacemente si affatichi ad affrettar l'opera della redenzione della loro patria. Se questa tu colpa per il Necci, lo fu del pari per centinaia di Romani, i quali benché lontani fra loro erano uniti in quel giorno dalla santa idea di festeggiare l'onomastico del grande Cittadino.

Allorché si seppe la precipitosa partenza del Necci tutti ne rimasero profondamente sdegnati e addolorati. Il Nuovo Diritto nel N. 55 (23 Febbrajo 1867) moveva nei seguenti termini lagnanza di un tal fallo e domandava spiegazioni alla Polizia.

«Un fatto spiacevolissimo è accaduto questa mattina e in nome della libertà individuale inviliamo l'Autorità di pubblica sicurezza a dare spiegazioni.

Romualdo Necci, romano, patriotta benemerito per mille sacrifìzi compiuti a prò del paese, fatto cittadino italiano per avere alla testa di pochi patrioti liberato e dato all'Italia la piccola città di Pontecorvo, venne arrestato e, senza nemmeno lasciargli il tempo necessario a metter sesto ai suoi affari, invialo in Mondovì a domicilio coatto.

Perché?

Viviamo in paese libero (1): si dica dunque il motivo di questa misura coercitiva contro un uomo, che tutti chiamano onesto e distinto patriotta.»


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Ma la Polizia non si abbassò a giustificarsi trattandosi di un emigralo in genere ed in ispecie di Romualdo Necci. Gli amici però a consolarlo dell'immeritato e dispotico gastigo gli dirigevano la' seguente lettera:

«Carissimo e Rispettabile Amico

Appena giunti a cognizione del vostro arresto ed invio a domicilio coatto operato da questa Polizia, ci affrettiamo a dirigervi la presente per manifestarvi il comune dolore per l'ingiustizia commessa contro di voi, per attestarvi la nostra stima e per protestare infine contro Tatto illegale ed arbitrata rio perpetrato a danno di Voi, nostro caro Amico, della cui innocenza e patriottismo siamo tutti pienamente conscii.

Accettate gli attestati della nostra affezione e stima, mentre col più grande piacere ci dichiariamo

Firenze 21 Febbraio 1867.

Vostri Affezionatissimi Amici

EMIGRATI ROMANI

LUIGI MEZZETTI GIUSEPPE GENTILI
ACHILLE TURRIZZlANt AUGUSTO MARINI
ENRICO BIONDUCCI ALCEO LUCATELLI
GAETANO SCANNAVINO ACHILLE BUCCI
FILIPPO POLTINI GIOVACCHINO PANICALE
ANGELO LOMBARDI AUGUSTO MARCHI
GAETANO DALLA CASA VALBNT1NO MORICONI
DANIELS PROCACCIANTI CESARE MARCHI
CARLO CAROSI FILIPPO FANCELLI
ANTONIO BONACCI FILIPPO VETTURINI
GIO DARIO MAZZOCCHI ALFREDO CANDIDA
PIETRO PELOSINI ARTURO BUCCIARELLI
ACHILLE CHIODI FILIPPO BORZI
LUCIANO CARDINALI FILIPPO GUAGNI
CESARE DIADEI ENRICO ORLANDI
PIETRO DANNIBALE BONAVENTURA SEVERINI
GIOVANNI CAMAJANI ACHILLE PENTÌ
STANISLAO ROSSI FILIPPO ALESSANDRONI
IGNAZIO FONTANA CESARE TALIANI
GIOVANNI MARINELLISANTE QUAGLIARINI
ORLANDO STIGEOMARIANO CAMILLI
GIUSEPPE FAMA

Al Sig. Romualdo Necci

Mondovì»

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Ecco poi come la Sentinella delle Alpi, Giornale della Provincia di Cuneo, nel N° 49 del 26 Febbraio 1867 annunziava l'arrivo del Necci al suo domicilio coatto.

«L'emigralo romano Romualdo Necci venne per ordine del Questore di Firenze mandalo a domicilio coatto nella nostra città: siccome ci consta che è un vero italiano, speriamo dai Monregalesi sarà bene accolto.»

Ora che abbiamo accompagnato il Necci nella sua seconda involontaria peregrinazione, e che il Commendatore Amore oggi ex-Direttore Generale di Polizia dorme più tranquilli i suoi sonni per l'allontanamento di quel terribile nemico dell'ordine pubblico, osserviamo brevemente come le Autorità di Napoli commisero un turpe abuso di potere, sorpassando le facoltà accordate dalla legge stessa 17 Maggio e violandola cinicamente, allorché senza prima avergli intimato il domicilio coatto divennero ali' arresto del Necci. Noi ci passeremmo di questa prova se tutti fossero come noi persuasi che la Legge Costituzionale non ha vita se non in quanto piace e giova ai ministri; ma vi sono ancora taluni, che nella loro ingenuità o ignoranza reputano freno valevole e sicuro al potere esecutivo uno statuto strappato alla paura e che da vita ad un sistema, che si basa sopra una fatale finzione. Or veggano i credenti in esso con quanta indifferenza e cinismo vengano violate in Italia le leggi solennemente approvate dai poteri dello Stato. Sappiamo innanzi che probabilmente questa triste storia d'un ributtante sopruso non interesserà alcuno e farà a molti scuoter le spalle; in questo caso siamo costretti a desiderare che accada loro una prova di fatto, perché si persuadano che quando trattasi di libertà conviene rammentarsi dell'«Hodie mihi cras tibi!...»

Nel 1862 vennero con aperta violazione dello Statuto arrestati a Napoli dal Lamarmora i tre Deputati della sinistra: duranti le tempestose sedute della Camera avvenute dopo la catastrofe aspromontina in tutte le acerbe requisitorie fatte

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al Ministero Rattazzi l'accusa, che trovò di una concordia fenomale i Deputati di sinistra, destra e centro, bianchi, neri, e color di rosa, fu l'arresto dei loro tre confratelli, mentre dal Castel dell'Ovo aveano inteso giungere all'orecchio l'«Hodie mihi, cras tibi! Così in alcuni valse più il timore della personale sicurezza che lo sdegno della violata libertà; sapendo che l'Italia di vecchi arnesi di Despotismo ebeti e fauti come il Lamarmora non soffre sventuratamente deficienza.

Ma torniamo alla famosa Legge stigmatizzata dal popolo col brutto epiteto di «Legge del Sospetto e che pur sembrò inefficace ed insufficiente all'Illustre Marchese Gualterio, che con tutta la sua tronfia superbia e ridicolo spregio per il popolo, non ha sdegnato umiliarsi, stendendo oggi la mano per conservare il potere a chi nel 1862 gli recava grave e solenne sfregio, licenziandolo bruscamente dalla Prefettura di Perugia.

La Legge 17 Maggio stabilisce, che il Potere esecutivo è autorizzato ad infliggere la sola pena del domicilio coatto indipendentemente dai tribunali ordinarii: infatti l'art. 3 è così concepito. «Il Governo del Re avrà la facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno il domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, ai camorristi ed a tutte le persone ritenute sospette secondo le disposizioni del Codice penale del 20 Novembre 1859.

Le stesse disposizioni saranno applicabili alle persone per cui ci sia fondato motivo di giudicare che si adoprino per restituire l'antico stato di cose, o per nuocere in qualunque modo all'unità d’Italia e alle sue libere istituzioni.»

Perché dunque il Governo del Re potesse assegnare il domicilio coatto al Necci, era mestieri che egli avesse meritato o una delle qualifiche tassativamente descritte o contenute nelle disposizioni del Codice penale del 20 Novembre 1859 o dichiarate nell'alinea dell'accennato Articolo 3°.

Non poteva il Necci essere accusato come ozioso, perché

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provveduto di sufficienti mezzi di sussistenza; perché conduttore in società con altri di una Trattoria e Locanda e perché dedito ad altre imprese commerciali

non come vagabondo,

1° perché ha domicilio certo e mezzi di sussistenza,

2° perché non vaga da un luogo all'altro,

3° perché non fa il mestiere di indovinare, pronosticare o spiegare sogni per ritrarre guadagno dall'altrui credulità,

non come mendicante — non come persona sospetta

1° perché mai diffamato per crimini o per delitti, e singolarmente per grassazioni, estorsioni, rapine, furti e truffe;

2° perché non sottoposto alla sorveglianza speciale della pubblica sicurezza,

e non vi potea essere sottoposto

1° perché non condannato per reati contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato;

2° perché non condannato ai lavori forzati od alla reclusione per grassazioni, estorsioni, rapine o furti;

3° perché non condannato a pena criminale o correzionale pe' reati preveduti negli articoli 426, 428, 429 e 430 dell’associazione de’ malfattori,

non come camorrista

perché una tale accusa farebbe ridere tutti coloro che da vicino o da lontano hanno conosciuto il Necci,

non come una delle persone per cui ci sia fondato motivo di giudicare che si adoprino per restituire l’antico stato di cose,

1° perché più volte volontario si era unito alla Guardia Nazionale per combattere i briganti;

2° perché manteneva a sue spese una corrispondenza per conoscer le mene ed i movimenti della reazione;

3° perché avea contribuito a far togliere in Roma al Barone Cosenza ed al Commendatore Merenda le carte riflettenti la cospirazione borbonica;

4° perché sempre con i fatti e colle parole pubblicamente

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si era dichiarato nemico accanito del Borbone e dei suoi partigiani,

né per nuocere in qualunque modo all'Unità d’Italia e alle sue libere istituzioni,

1° perché da tutti i documenti addotti risulta all'evidenza quanto buon italiano fosse il Necci;

2° perché avea potentemente cooperato alla rivoluzione di Pontecorvo e alla conseguente di lei annessione al Regno d'Italia;

3° perché nei giorni, che precedettero il suo arresto, avea egli lavoralo attivamente perché tutti prendessero parte alla guerra e perché egli stesso si apprestava a partire.

Dunque nessuna delle cause richieste dal citato Art. 3° si verificarono e quindi impossibile applicarne il disposto a danno del Necci; perciò il Governo del Re senza una manifesta violazione della Legge non avrebbe potuto assegnargli il domicilio coatto; ma egli fece di peggio, mentre con un alto tirannicamente e sfacciatamente illegale ed arbitrario gl'infliggeva senza preventiva intimazione la pena del carcere e diciamo tirannicamente e sfacciatamente poiché il Governo del Re non ebbe neppure il pudore di salvare le apparenze attenendosi alle disposizioni di una Legge, che pur poneva in sua balia la libertà dei cittadini. Infatti perché potesse legalmente infliggersi il carcere era assolutamente ed essenzialmente necessario che si verificasse la condizione, che sola dava origine alla suddetta pena, cioè avesse avuto luogo il rifiuto di sottoporsi al domicilio coatto, come potrà ognuno rilevare dalle seguenti testuali parole dell'articolo: art. 4 — «In caso di trasgressione alle ingiunzioni date dall'autorità nei termini dell’articolo precedente, il tempo dell'allontanamento o del confino sarà convertito nella pena del carcere. Ma questo caso non poté certo verificarsi nel fatto del Necci, poiché non essendogli stata fatta congiunzione di sorte gli si rese perciò impossibile il trasgredirvi; dunque la legge venne anche in questa parte manifestamente violata. Ma ammettendo per un momento l'ipotesi che è la base

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dell'articolo precedente, cioè che al Necci fosse stato intimato il domicilio coatto e che vi si fosse rifiutato, neppure in questo caso poteva egli essere detenuto per cinque mesi in carcere senza ombra di giudizio e poscia mandato a domicilio coatto; invece per disposizione tassativa dell'art. 5 dovea aver luogo un regolare processo, anzi dal momento dell'arresto al potere esecutivo subentrava il giudiziario, al quale unicamente spellava il conoscere del reato costituito dal supposto rifiuto del Necci: ogni facoltà di più agire veniva interdetta al potere esecutivo, come chiaramente risulta dal citato articolo che qui integralmente riportiamo: art. 5° — «Il giudizio dei reati menzionati negli articoli 2 e 4 è devoluto ai tribunali correzionali.»

Oltre la ragione giuridica concorreva la ragion politica a far dettare quest'articolo, poiché costituisce una specie di diga al preveduto e quasi certo arbitrio governativo. Nella mente di chi Io dettava è chiaro che esisteva un serio umore che il Governo avrebbe calpestate le guarentigie dei cittadini, quindi col devolvere il giudizio del reato ad un tribunale ordinario si cercava di eliminare un tale pericolo; mentre la necessità d'un'inquisizione giudiziale e d'un processo induceva l'obbligo per il Governo di procedere meno arbitrario dovendo provare i fatti in modo cerio e positivo; ma anche in questo caso come sempre la legge fu elusa e prevalse l'arbitrio.

Ora a noi pare di aver fornito l'impresa: cioè di aver provata l'innocenza del Necci innanzi al Tribunale Supremo ed inappellabile della Pubblica Opinione, di aver dimostrato all'evidenza com'egli sia vittima di una tenebrosa e sleale persecuzione possibile solo là dove governa una setta; persecuzione terribile, perché assume aspetto di legalità e di bene pubblico e si compone di una rete d'intrighi, che difficilmente si possono smascherare.

Ripetiamo che non abbiamo nessuna speranza che si farà giustizia al Necci; anzi siamo quasi sicuri del contrario: il biasimo però non è del Governo che fa il suo interesse ben diverso da quello della Nazione; ma la colpa è di chi

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dovrebbe far sua l'offesa recata alla libertà ed ai diritti d'un concittadino; quindi non ci resta che desiderare con tutto il cuore che a cotesti Caini, che rispondono di non esser custodi del fratello, venga presto applicata la stessa pena e che il Governo li cacci quanto prima a domicilio coatto e così sia.












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