Eleaml


Alcuni amici storceranno il naso nel vederci pubblicare questo testo platealmente antiborbonico, ma lo facciamo - così come abbiamo fatto per altre opere - perché mette a disposizione una serie di documenti che non abbiamo trovato altrove. Ad esempio la protesta contro Proto degli elettori del suo collegio ci dà uno spaccato di cosa fosse l'Italia di quegli anni.

Il potere era saldamente in mano alla dinastia sabauda ed a i suoi accoliti meridionali ed ogni voce dissenziente non solamente non aveva spazio per esprimersi ma se solo tentava di farlo veniva tacitata. In questo caso dalle stesse persone che lo avevano eletto!

Gli unici rappresentanti ammessi nelle Provincie Napolitane erano i collaborazionisti, i membri di quella consorteria che ci sprofondò nel baratro.

"I sottoscritti elettori del collegio elettorale di Casoria intesero con somma sorpresa quanto venne costì operato dal loro rappresentante al parlamento nazionale, Francesco Proto, duca di Maddaloni, e stimano loro stretto dovere protestare nel modo più categorico contro la sua condotta.

Proposizioni e considerazioni che i sottoscritti riprovano, e che ascrivono puranco in opposto al mandato ricevuto, scandalezzarono giustamente la camera e la nazione: erano e sono dai sottoscritti ritenute come offesa alla opinione pubblica, come debiti di lesa patria di lesa sovranità nazionale.

Il collegio elettorale di Casoria compreso dal suo dovere, si rivolse a lui illustrissimo signor presidente, ond'ella manifesti alla camera, e per essa all'Italia intera la riprovazione che pubblicamente infligge al suo rappresentante." - Cfr. pag. 291

Altro passaggio interessante, ma ve ne sono tanti, riguarda i luogotenenti succeduti alla dittatura garibaldina.

"Il primo nostro Luogotenente fu Farini, che venne con ottimi auspici, cui poscia in vero non corrisposero i fatti; di tal che fra le insinuazioni del Ministero centrale, e l'esigenze del paese imbarazzato di troppo, fu costretto dimettersi, lasciato di se poco grato ricordo. Al Farini succedette il Principe di Carignano, luogotenente di diritto, di fatto non essendolo che il suo Segretario generale Commendatore Nigra, inabile bellimbusto: forse abile diplomatico, come lo si disse, ma incapacissimo amministratore. Al Carignano fu sostituito Ponza di S. Martino, conservatore fino alla nausea, che non conobbe il paese, ed agi sempre a ritroso di esso, e delle sue tendenze. Venne poscia il Generale Cialdini, con cui si abolì la Luogotenenza." - Cfr. pag. 51

Buona lettura.

Zenone di Elea – 3 Settembre 2011

Cronaca italiana contemporanea dalla proclamazione del plebiscito fino allo svolgimento della questione italiana compitata da Giuseppe Giuliano (volume primo) - ODT

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CRONACA ITALIANA

CONTEMPORANEA

DALLA PROCLAMAZIONE DEL PLEBISCITO

Fino allo svolgimento

DELLA QUESTIONE ITALIANA

compitata

DA GIUSEPPE GIULIANO

VOLUME PRIMO

NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO GIANNINI

Via Museo Nazionale 81

1870

(1)

CAPITOLO I - Sommario .....................pag. 8

CAPITOLO I - Documenti ...................pag. 27

CAPITOLO II - Sommario ..................pag. 36

CAPITOLO II - Documenti .................pag. 65

CAPITOLO III - Sommario .................pag. 82

CAPITOLO III - Documenti ...............pag. 129

CAPITOLO IV - Sommario ...............pag. 186

CAPITOLO IV - Documenti ...............pag. 247

INTRODUZIONE

Checchessia del nostro lavoro, delle forme da noi usate, dell'ordine da noi tenuto nella esposizione dei fatti, dei giudizii pronunziati sur essi, egli è indubitato, che questa nostra Cronaca documentata è destinata a formar l'archivio, anzi archivio e guida di chi voglia in giorni meno agitati, e tenebrosi scrivere uno dei più importanti periodi che s' abbia mai avuto la storia di Europa.

Si disse, e con ragione, i fatti storici essere come i corpi luminosi, scorgersi meglio, quanto più si guardan da lungi. Ciò non ostante, noi, giornalisti, per fino operatori alla nostra volta, e non mai disattenti o stracchi osservatori d'ogni politico movimento, noi confidiamo trasmettere non falsata la contemporanea impressione dei fatti, non sopprimere le più piccole cagioni di più o meno gravi conseguenze, non omettere documento, per poco di qualche interesse dai contemporanei reputato, non alterare la successione, la data degli e venti. £ tutto questo crediam fermamente che possa essere di ben solido appoggio agli Erodoti, ed ai Senofonti, che un giorno non mancheran certo all'Italia. Che se il giudizio calmo, «sereno è necessario allo storico, tal giudizio non si forma che sulle pagine di colui, che sa trasmettergli

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le impressioni dell'istante, e quel pingue complesso di fatti, che col trascorrer del tempo assottiglia.

Cominceremo dagli ultimi giorni d'una portentosa rivoluzione, e termineremo al definitivo scioglimento della quistione italiana, di cui per altro saremmo troppo fortunati, se potessimo fin da ora determinare il tempo, e le condizioni precise. Avremo d'innanzi i prodigi dell'insurrezione concorde, il prestigio di un uomo che rappresenta un principio, ed al cui apparire un esercito di cento mila uomini, terror di noi, dei figli, come dei padri nostri, diventa impotente, e si dilegua. Vedremo il fine luttuoso di chi regnò con le baionette, con l'inganno, e con lo spergiuro, vedremo la rivoluzione che governa con soddisfazione della pubblica coscienza, e delle aspirazioni comuni, e sulle macerie di un trono rovesciato scorgeremo scorazzar le passioni sbrigliate, ma non provocanti o riottose, ed ora calme, ora ardenti, ma sempre dirette ad un nobile intento dalla voce di un Dittatore adorato. Osserveremo ancora un governo normale sostituirsi alla rivoluzione, governi luogotenenziali, parziali, che rispettano le autonomie locali, ma che pur rispettando, distruggono or bene, or male, ed or bene, or male riedificano; osserveremo divergenze di opinioni tra rivoluzionarie e conservatrici, partiti cozzanti, ma non mai turbatori dell'ordine, dualità arcigna, ma fatta tosto compatta sempre che il comune nemico minaccia: osserveremo la reazione spietata, ma impotente, l'odio comune contro il nemico comune, gli sforzi unanimi, i sentimenti uniformi, la solidarietà di pensieri, di cure, di affetti. Scorgeremo in fine un perseverante lavorio di unificazione, che nel

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suo sollecito procedere incontra ostacoli non lievi, a traverso dei quali v'ha chi plaude e chi biasima, chi si conforta e chi teme, chi s'irrita, e chi si compiace. E fra tutti vedrem giganteggiarci d'innanzi due maggiori partiti, uniformi nello scopo, opposti nei mezzi, l'uno che vuol Roma con la forza, l'altro che non la pretènde che per via di diplomatici accordi.

Se il periodo storico che ci facciamo a descrivere è importante per le sue condizioni interne, al certo non lo è meno per le sue esterne influenze.

La rivoluzione italiana è l'intima all'attuazione del principio di nazionalità per tutti i popoli di Europa; e la Polonia, e gli Stati Slavi corrisposero già alla sua voce, e quella e questi son solidali con l'Italia ne' loro destini. Le sorti dell'Ungheria, non men che quelle dell'Oriente, dipendono dalle sorti d'Italia: uniforme è l'intento, comune il nemico. La Grecia, la Spagna non potranno tardare a rispondere anch'esse al grido di redenzione dagl'Italiani elevato. L'Italia sarà scuola ed esempio alla gran rivoluzione germanica, che pur si va maturando.

La rivoluzione italiana in somma sembra esser l'anello che deve unire la vecchia alla nuova Europa, è il punto di transizioni tra la Monarchia ereditaria e l'elettiva, è il complemento delle rivoluzioni del 1830, e del 1848.

Noi non faremo i giornalisti: sarà ben altra, e ben superiore la nostra missione. Noi non narreremo avvenimenti isolati, non giudicheremo fatti senza nesso, senza addentellato, senza conseguenze;

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ma con sintesi potente abbracceremo una serie di eventi, ne indagheremo un principio unico che gl'informa, e li riporteremo ad esso, gli agglomereremo sotto di esso. Noi esporremo il periodo, non il fatto isolato, e dislegato dai suoi concomitanti: noi vedremo l'avvenimento nella sua implicazione, e nella sua esplicazione. Il giornalista narra tutto ciò che accade; noi narreremo tutto ciò che doveva accadere come conseguenza di un fatto unico, primitivo, iniziatore. Il giornalista non omette nulla, noi sentiremo il dovere di omettere tutto ciò che non è degno della memoria dei posteri: egli alimenta la curiosità, noi la ragione. E quindi dalla cronaca alla storia è breve e spianata la via, mentre che traeffemeride e la storia esiste un vuoto immenso, il quale non si colma che a forza d'ingegno, ed in tal dose da non essere che il patrimonio di pochi eletti.

Ma non è solo innanzi alla storia che noi apriamo una ricca miniera; implica gl'interessi di tutti la nostra Cronaca, quando essa accenna le leggi, ed i più importanti regolamenti e decreti dell'epoca, e ne indaga le cagioni determinanti e gli effetti prodotti, e le impressioni suscitate, quando sugli uomini, e sugli avvenimenti consagra i giudizii dei primi Pubblicisti di Europa, quando di dritto pubblico, e privato, e di Dritto internazionale fornisce documenti a dovizia. E qual classe di cittadini non troverà il suo interesse nel nostro lavoro? Italiani, la vostra Cronaca contemporanea è narrazione di errori, e di colpe, di abnegazioni sublimi, e di vilissimo egoismo, essa è l'esplicazione de' più solenni veri politici, e civili. Studiatela, se volete conoscere il vostro avvenire, e non ignorare la vostra missione.

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CAPITOLO PRIMO

Sommario

Sguardo retrospettivo. - Nuovo Ministero. - Dissensi intorno al Plebiscito. -Mazzini e Mazziniani. - Indirizzo al Re. -Intervento piemontese - Fatti d'armi presso Capua. - Presa della Fortezza. -Plebiscito, e proclamazione del Regno italico.

Nel giorno 21 ottobre del 1860 avveniva nelle Provincie meridionali d'Italia la votazione del Plebiscito, e la solenne proclamazione del Regno italico. Pria però d'intrattenerci su questo grandioso avvenimento, complemento di secolari aspirazioni, crediamo indispensabile dar breve retrospettivo uno sguardo, e narrare quali le condizioni del Napoletano in quel tempo si fossero.

Divenuto ormai incompatibile con un governo rivoluzionario, egli che aveva servito l'espulso Borbone, Liborio Romano dimettevasi qual Presidente dei Ministri, e gli succedeva il Conforti. Al Pisanelli sostituivasi Scura nel Ministero di Giustizia: al Ciccone de Sanctis in quello di Pubblica istruzione: nell'altro dei Lavori Pubblici Giura surrogavasi al d'Afflitto: alle Finanze rimaneva ancor per qualche tempo Scialoja, e poscia succedevagli il Coppola: Cosenz rimaneva alla Guerra: nella Marina Anguissola prendeva il luogo di Scrugli. Tutto questo accadeva nel giorno 27 settembre di quell'anno.

Garibaldi, che serbava a se la Dittatura suprema delle Provincie meridionali, aveva seco due Segretari Generali, uno per gli affari esterni, Crispi, l'altro per gl'interni, Bertani. Per attendere alle faccende della guerra presso Capua, ov'erasi ritirato il Borbone con le truppe che gli eran rimaste fedeli, quali gli furono fino all'estremo, Garibaldi aveva nominato un Prodittatore nella persona del marchese Pallavicino Trivulzio, veterano fra i martiri della libertà, superstite dello Spielberga, il quale era succeduto al Generale Sirtori, obbligato a dimettersi dalla stessa carica onde portarsi anch'egli sul campo presso il Volturno.

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Cosi stavan le cose, quando sul Continente (1), non men che in Sicilia (2), surse divergenza tra la rivoluzione ed il governo, tra Garibaldi ed i suoi, che rappresentavano la prima, ed il Ministero, che rappresentava il secondo, altrimenti, tra glicosi chiamavasi allora, come sempre furon detti dappoi, quelli che volevano fare l'Italia con l'opera esclusiva della rivoluzione, e gli, come si dissero, e si dicono tuttodì, coloro che alla iniziativa della rivoluzione volevano sostituire la iniziativa del governo, ai volontari garibaldini l'esercito: dualismo fatale che a danni maggiori sospingea l'Italia! Garibaldi, co' suoi 60 mila volontari, intendeva procedere verso Roma, e poscia, sempreppiù ingrossando il suo esercito, non quetare, non proclamare il Regno italico, non deporre la Dittatura nelle mani di Re Vittorio; in nome del quale aveva sempre combattuto, e promettea combattere, se non quando Italia fosse tutta intera dallo straniero sgombra, se non quando potesse tutta intera, e con reciproco aiuto, unificarsi. I Mazziniani, e Mazzini stesso, che in quest'epoca, tra occulto e palese, trovavasi in Napoli, deposto ogni concetto repubblicano in Italia, e pur divenutipromettevano, ed eran larghi di assicurazioni, e proteste, voler anch'essi cooperare con Garibaldi, e prestare sinceramente tutta l'opera loro per la completa unificazione della Penisola sotto casa Savoja. Ed a tranquillare gli spiriti, e meglio disperdere ogni apprensione di repubblica, i capi di quel partito, i più intimamente amici politici del Mazzini, Zuppetta, Libertini, Ricciardi, Saffi, de Boni, con appositi manifesti, affissi ai cantoni, e diffusi a larga mano fra la gente, dichiaravano il loro intento, ed essi non sostenere, aggiungevano, che il programma di Garibaldi, si affidasse pure la maggioranza dei cittadini (3). E Mazzini stesso assicurava desister egli dall'esser repubblicano in Italia, e nel suo famoso opuscolo «né» (4) faceva la sua solenne profession di fede; e se non essere apostata de' suoi principii dichiarava, ma smetterli ben vero in Italia onde non si renda rubelle. Ma ciò nulla manco, il governo teme dei Repubblicani, e con esso temono gli, o meglio, più che temere, il fingono, onde creare avversi al Mazzini, ed ai suoi, ed abbrancare esclusivi la somma delle cose.

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Essi giunsero per fino a provocare una manifestazione di popolo contro l'esule illustre, nella quale fu gridato morte al martire onorando, del che Garibaldi s'ebbe dispiacenza non lieve, ed amaramente sen dolse con sentite parole dal loggiato del palazzo, al cospetto d'immensa massa di popolo, che in vero ne fu pentita, e disillusa. Ma dalle apprensioni non si rimane, e Pallavicino Trivulzio vien per fino indotto a scrivere ingenerosa lettera al Mazzini, con la quale lo invita ad uscire dal Continente (5), al che quegli, che sentiva tutta la lealtà dell'animo suo, risponde con nobile, dignitoso, logico rifiuto.

Intanto i Ministeriali sempreppiù arrabbattansi; indirizzi dirigono al Re, che di numerose firme van coprendo, merito a ricchi stipendi, che s'ebber poscia fedelmente e tosto. Chiedevano che il Re incedesse subito, il Continente napolitano al più presto occupasse, l'anarchia spegnesse, alle dilapidazioni riparasse.

Ciò nulla manco, i prodi di Garibaldi, generosi sempre, e sol di patria teneri, versavano il loro sangue presso Capua, e per non diffonderci a narrarne tutti i prodigi di valore, ci limiteremo a descriver soltanto le due memorabili giornate dell'1 e 2 ottobre; e noi potremmo far meglio che con le stesse parole del prode condottiero di quella strenua gente:

«- Il 1° ottobre fu giorno fatale e fratricida, ove gli Italiani combatterono sul Volturno contro Italiani, con tutto l'accanimento che l'uomo può portar contro l'uomo.

«Le baionette dei miei compagni d'armi incontrarono anche questa volta la vittoria sui loro passi da giganti.

«Con egual valore i coraggiosi campioni dell'indipendenza italiana portarono i loro prodi alla zuffa.

«A Castel Morrone, Bronzetti, emulo degno del fratello, alla testa d'un pugno di cacciatori ripeteva uno di quei fatti che la storia porrà certamente accanto ai combattimenti dei Leonida e dei Fabi.

«Pochi, ma splendidi dell'aureola del valore, gli Ungheresi, i Francesi, gl'Inglesi, che fregiavano le file dell'Esercito meridionale, sostennero degnamente la fama guerriera dei loro connazionali.

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«Favorito dalla fortuna, in ebbi l'onore nei due mondi di combattere accanto ai primi soldati, ed ho potuto persuadermi che la ; ho potuto persuadermi che quegli stessi soldati che noi combattemmo nell'Italia meridionale, non indietreggeranno davanti ai più bellicosi, quando saranno raccolti sotto il glorioso vessillo emancipatore.

«All'alba di quel giorno, in giungeva in S. Maria da Caserta, per la via ferrata. Al montar in carrozza per S. Angelo, il generale Milbitz mi disse Il nemico ha attaccato i miei avamposti di S. Tammaro».

«Subito fuori di S. Maria, verso S. Angelo, udivasi una viva fucilata, e, giunto ai posti di sinistra della detta posizione, li trovai fortemente impegnati col nemico.

«Un cocchiere ed un cavallo delle vetture del mio seguito furono ammazzati. Potei passare però liberamente, grazie al valore della, Divisione Medici, che occupava quel punto, e che respinse coraggiosamente il nemico. Giunsi così all'incrocicchio delle strade di Capua e S. Maria, centro della posizione di S. Angelo, e vi trovai i Generali Medici ed Avezzana, che, col solito coraggio e sangue freddo, davano le loro disposizioni per respingere il nemico incalzante su tutta la linea.

«Dissi a Medici: «Vado sull'alto ad osservare il campo di battaglia, tu ad ogni costo difendi la posizione». Procedevo appena verso le alture che ci stavano alle spalle, quando mi accorsi esserne il nemico padrone. Senza perder tempo, raccolsi quanti soldati mi capitarono alla mano, e ponendomi alla sinistra del nemico ascendente, cercai di prevenirlo. Mandai nello tempo una compagnia di bersaglieri Genovesi verso il monte S. Nicola per impedire che il nemico se ne impadronisse. Quella compagnia e due compagnie della brigata Sacchi, ch'io avevo chiesto e che comparivano opportunamente sulle alture, arrestarono il nemico.

«Movendomi in poi verso destra, sulla sua linea di ritirata, il nemico principiò a discendere ed a fuggire. Solamente dopo qualche tempo in venni a sapere che un corpo di cacciatori nemici, prima del loro attacco di fronte, erasi portato alle nostre spalle, per un sentiero coperto, senza che nessuno se ne accorgesse.

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«Intanto la pugna ferveva nel piano di S. Angelo, ora favorevolo a noi, ed ora obbligati di ripiegarci davanti al nemico, assai numeroso e tenace.

«Da vari giorni non equivoci indizi mi annunziavano un attacco, e perciò non m'era lasciato allettare dalle diverse dimostrazioni del nemico sulla destra e sulla sinistra nostra; e ben ci valse, poiché i regi impiegarono contro di noi nel primo ottobre quante forze disponibili avevano, e ci attaccarono simultaneamente su tutte le posizioni.

«A Maddaloni, dopo varia fortuna, il nemico era stato respinto. A S. Maria parimenti; ed in ambi i punti aveva lasciato prigionieri e cannoni. Lo stesso avveniva a S. Angelo dopo un combattimento di più di sei ore; ma essendo le forze nostre in quel punto inferiori d'assai al nemico, egli era rimasto con una forte colonna padrone delle comunicazioni tra S. Angelo e S. Maria; di modo che per portarmi alle riserve, ch'io avea chiesto al Generale Sirtori da Caserta sii S. Maria, in fui obbligato di passare a levante dello stradale che da S. Angelo conduce a quell'ultimo punto. Giunsi in S. Maria verso le due p. m. Vi trovai i nostri, comandati dal bravo Generale Milbitz, che avevano valorosamente respinto il nemico su tutti i punti.

«Le riserve chieste da Caserta giungevano in quel momento. Le feci schierare in colonna d'attacco sullo stradale di S. Angelo. La brigata Milano in testa, seguiva la brigata Eber, ed ordinai in riserva parte della brigata Assanti. Spinsi pure all'attacco i bravi Calabresi di Pace, che trovai nel bosco sulla mia destra, e che combatterono splendidamente.

«Appena uscita la testa della colonna dal bosco, verso le 3 p. m., fu scoperta dal nemico che cominciò a tirare delle granate; il che cagioné un po' di confusione allo spiegamento, dei giovani bersaglieri milanesi, che marciavano avanti. Ma quei bravi militi, al suono di carica delle trombe, si precipitarono sul nemico che principiò a piegare verso Capua.

«Le catene dei bersaglieri milanesi furono tosto seguite da un battaglione della stessa Brigata, che caricò impavidamente il nemico, senza fare un tiro.

«Lo stradale che da S. Maria va a S. Angelo, forma, colla direzione di S. Maria a Capua, un angolo di circa quaranta gradi;

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in guisa che procedendo la colonna sullo stradale, lo spiegamento di essa doveva esser sempre sulla sinistra ed alternato in avanti. Quindi, impegnata che fu la Brigata Milano ed i Calabresi, in spinsi al nemico la Brigata Eber sulla destra della prima.

«Era bel vedere i veterani dell'Ungheria marciare al fuoco, colla tranquillità di un campo di manovra e collo stesso ordine. La loro impavida intrepidità contribuì non poco alla ritirata del nemico.

«Col movimento in avanti della mia colonna, e sulla destra, in mi trovai ben tosto a congiungermi colla sinistra della divisione Medici, che aveva valorosamente sostenuto una lotta ineguale tutta la giornata. I coraggiosi carabinieri Genovesi, che formavano la sinistra della divisione Medici, non aspettarono il mio comando, per ricaricare il nemico. Essi, come sempre, fecero prodigi di valore.

«Il nemico, dopo aver combattuto ostinatamente tutta la giornata, verso le 5 p. m. rientrò in disordine dentro Capua, protetto dal cannone della piazza.

«- 2 - Reduce la sera del 1° in S. Angelo, in ebbi notizia che una colonna nemica di 4 a 5000 uomini trovavasi a Caserta Vecchia.

«Ordinai per le 2 della mattina ai carabinieri Genovesi di trovarsi pronti, con 350 uomini dei corpo di Spangaro, ed una sessantina di Montanari del Vesuvio. Marciai a quell'ora su Caserta, strada della montagna e S. Leucio. Prima di giungere a Caserta, il prode Tenente Colonnello Missori, ch'io avevo incaricato di scoprire il nemico, con alcune delle valorose sue guide, mi avvertì che i regi trovavansi schierati sulle alture, da Caserta Vecchia a Caserta, il che potei verificare in stesso poco dopo.

«Mi recai a Caserta per concertarmi col Generale Sirtori, e non credendo il nemico sì ardito da attaccare quella città, combinai collo stesso Generale di riunire tutte le forze che si trovavano alla mano e di marciare ai nemico pel suo fianco destro, cioè attaccarlo per le alture del Parco di Caserta, mettendolo cosi tra noi e la Divisione Bixio, a cui avevo mandato un ordine di attaccare dalla sua parte.

«Il nemico teneva ancora le alture: ma scoprendo poca forza in Caserta, aveva progettato d'impadronirsene, ignorando, senza dubbio,

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il risultato della battaglia del giorno antecedente; e perciò lanciava circa la metà delle sue forze su quella città. Mentre adunque in mi trovavo marciando al coperto sul fianco destro del nemico, questo attaccava di fronte Caserta, e se ne sarebbe forse reso padrone, se il Generale Sirtori, colla sua consueta bravura, ed una mano di prodi non lo avessero respinto.

«Coi Calabresi del Generale Stocco, e quattro compagnie dell'Esercito Settentrionale, in procedevo intanto sul nemico che fu caricato - resisté poco e fu spinto quasi alla corsa sino a Caserta Vecchia. Ivi un picciol numero di nemici si sostenne per un momento, facendo fuoco dalle finestre e dalle macerie, ma presto fu circondato e fatto prigioniero. Quei che fuggirono in avanti, caddero nelle mani dei soldati di Bixio, il quale, dopo d'aver combattuto valorosamente il 1° a Maddaloni, giungeva come un lampo sul nuovo campo di battaglia. Quelli che restarono indietro capitolarono con Sacchi, a cui avevo dato ordine di seguire il movimento della mia colonna; dimodoché, di tutto il Corpo nemico, pochi furono quelli che poterono salvarsi.

«Questo Corpo pare esser quello stesso che aveva attaccato Bronzetti a Castel Morrone, e che l'eroica difesa di quei valoroso, col suo pugno di prodi, aveva trattenuta la maggior parte del giorno, ed impedito quindi che, nel giorno antecedente, ci giungesse alle spalle.

Il Corpo di Sacchi contribuì esso pure a trattenere quella colonna al di là del Parco di Caserta, nella giornata del primo, respingendola valorosamente».

Intanto, mentre i volontari italiani raccolgono i loro allori presso il Volturno, altri, non men gloriosi, sotto gli ordini del Generale Cialdini, ne mietono le truppe stanziali nelle Marche, e nell'Umbria, per quindi riunir tra non guari le loro forze ad intento comune, e redenzione della patria di tutti. Cialdini, Fanti, Persano, de Sonnaz, Bartolè Viale, Brignone, Cugia, Cadorna, Savoiraux, della Bocca, Masi, Menabrea, de Revel, Mattei sono i principali nomi che quelle campagne illustrarono. Castelfidardo, ove le armi nostre riportarono la più splendida vittoria, generosa vittoria, dopo la quale 4000 prigionieri, accozzaglia straniera, si lascian liberi pei rispettivi paesi, onorando triofo,

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che insegna ad uno dei più valorosi ed intelligenti Generali dell'universo, che mal si difende una causa ingiusta, e che sul valore italiano gl'impone quella opinione ch'egli forse non s'ebbe mai. Ed è meraviglioso ad udire come in 18 giorni, dal 10 al 29 settembre, il prode esercito italiano avesse potuto conquistare sei piazze, Pesaro, cioè, Urbino, Perugia, Spoleto, S. Leo, ed Ancona, con non altra perdita che 579 uomini, tra morti e feriti. Ancona, cui la notte del 18 settembre erasi rifuggito per le strette gole della marina il generale Lamoricière con 2000 uomini, pareva dovesse resistere per mesi, ma che bloccata, e bombardata per mare dall'ammiraglio Persano, e per terra assediata e combattuta dal generale Cialdini, cede fra le 48 ore, parlamentarii, e segnatarii della capitolazione, per parte del governo pontificio, Manzi e Lepri. Lasciava in potere del nemico 154 pezzi di cannoni, 180 cavalli, 100 buoi, 250, 000 miriagrammi di farina, 25, 000 razioni di foraggio, e viveri d'ogni specie, 2 vapori, 3 trabacoli, magazzini di carbone, di oggetti di vestiario, di armi, ed 1. 25, 000 franchi. E Lamoricière, da cui tanto s'imprometteva la reazione europea, chiude il suo dramma, esclamando a bordo del vascello italiano, dove Persano gli offre gentile, e magnanimo asilo».

A tali trionfi altri tengon dietro lunghesso la marcia del prode esercito italiano verso Napoli. A Macerone, presso Isernia, Cialdini batte il Generale borbonico Scotti, lui fa prigioniero con 800 de' suoi, ed il resto diperde ed insegue fino al ponte del Volturno. Finalmente le truppe stanziali giungono presso Capua, e congiunte le armi loro a quelle dei volontari, e fatte le opere di assedio, comincia l'attacco di quella piazza, che i Borboni reputarono sempre come uno de' più saldi baluardi del loro dispotismo. Ne narreremo i particolari con le parole di un corrispondente dal campo.

Ai vari ragguagli che le saranno giunti sul bombardamento e la resa di Capua forse non le sarà discaro aggiungere i seguenti dettagli attinti sul teatro stesso degli avvenimenti.

I preparativi pel bombardamento essendo pressoché compiuti si fissava alle 4 pomeridiane del di il cominciamento del fuoco.

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V'erano in varii punti e distanze dalla piazza sei batterie per bombardarla (senza contare le molte altre costruite con diverso scopo), di cui quattro dell'artiglieria dell'esercito settentrionale, armate, due, ciascuna di 2 mortai, una terza da pezzi da 40 rigati, sistema, e una quarta di pezzi da 12 pur rigati: due altre batterie dell'artiglieria dell'esercito meridionale sotto gli ordini del generale Orsini erano armate, l'una di 3 mortai da 11, comandata dal maggior Virgilii napoletano, l'altra, armata d'un mortaio da 12 e uno da 9, e comandata dal maggiore Locascio, pur napoletano; un terzo mortaio non potette per la malagevolezza del terreno esser collocato a tempo in batteria. Il generale Orsini, con vari distinti uffiziali napolitani e d'altre parti d'Italia, assistette a questa batteria durante varie ore del bombardamento. Alle quattro precise la bandiera rossa inalberata sull'ultimo controforte di Santagelo diè il segnale del fuoco.

A quel segno il Generale Garibaldi, il di cui nobilissimo animo avea sempre ripugnato da quella misura estrema, sebbene ne riconoscesse l'efficacia eia pronta riuscita, non volendone essere spettatore, scese dal monte Santangelo e si ritirò in Caserta. Cominciava intanto il fuoco simultaneamente da tutte le batterie. In poco più di due ore si lanciarono sulla piazza varie centinaia di bombe. Dalla batteria ov'era il Generale Orsini sene scagliarono una cinquantina, di cui 4 o 5 sole scoppiarono in aria o deviarono; quelle dell'artiglieria settentrionale erano pure con bella precisione dirette. Al nostro fuoco i borbonici rispondevano con mirabile accuratezza e velocità. Sulla batteria anzidetta del Maggior Locascio molte granate colpirono nel parapetto: una ferì mortalmente un nostro artigliere morto oggi della sua ferita; e questi fu il solo che morisse in tutta l'azione: due altri artiglieri feriti vi furono in tutte le altre batterie. Nella notte il nemico alzò un fanale bianco in segno di voler capitolare; ma non fu osservato, o non se ne fece caso. Di buon'ora ai mattino del 2 il Maggiore Negri venne come parlamentario al general della Rocca, chiedendo a capitolare; ma voleva gli si accordassero poche ore per informarne Francesco a Gaeta, e la dimanda fu recisamente negata: gli si accordò un'ora precisa per decidersi. Allo spirar di quel termine un secondo parlamentario venne, e questa volta si conchiuse la capitolazione.

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Le condizioni furono: la guarnigione prigioniera di guerra con gli onori militari, i soldati tutti, sino ai graduati sergenti e forieri, si imbarcheranno immediatamente per Genova, ove saranno incorporati nell'armata italica. Agli uffiziali non si fece promessa alcuna: ma credo si proponga loro che fra otto giorni decidano se vogliono restare al servizio. Coloro che si negheranno, verranno per sempre esclusi da ogni impiego civile e militare.

Fatta nota la capitolazione, la gente cominciò ad affluire verso Capua: ma la sera del 2 nessuno poté entrarvi: i nostri presero possesso delle porte con alcune compagnie. All'alba del giorno d'oggi i nostri cominciarono ad entrare in Capua e prender possesso di tutto. I Generali Cosenz e Sirtori vi si recarono in carrozza verso le otto. Il Generale Milbitz vi era già andato di buon'ora. Cominciò verso le 8 lo sfilare de' prigionieri: uscivano dalla porta di Napoli armati, quindi a piè degli spaldi lasciavano le armi in fascio e sfilavano in mezzo a due file dei nostri che facevano siepe alla via. Verso le 9 il generale Orsini, dell'artiglieria, si recava nella piazza: erano con lui, del suo stato Maggiore, molti distinti uffiziali dell'artiglieria e del genio che o in Sicilia o all'entrata di Garibaldi nel regno si misero, come di ragione, ne' ranghi dell'armata Nazionale e si battettero bravamente: v'erano fra questi i Maggiori de Benedictis e Ferrarelli, e i Capitani Adrogna, Mastrillo, Vacca ed altri del regno, i Maggiori Zizzi, Zaino, Jovene, Locascio, dell'artiglieria, e altri otto o dieci uffiziali pur Napolitani, e alcuni Siciliani, che tutti fecero degnamente il loro dovere. Qual differenza fra costoro, che entravano lieti da vincitori e con la gran soddisfazione di aver servito, degnamente la patria, e coloro che dimessi, avviliti, prigionieri fra que' fratelli d'arme e quel popolo ch'essi non ripugnarono dal voler trucidare per imporre alla patria loro una sozza tirannia! Basta, non ragioniam più di loro. Si entrava in Capua. La città non avea sofferto molto, sebbene le tracce lasciate dalle palle ne bastioni facevano fede della terribile precisione de' tiri dell'artiglieria rigata dell'esercito settentrionale. Il quartiere S. Girolamo e quello di S. Maria soffersero alquanto: in altre case i danni erano più interni che esterni.

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Una bomba era, fra le altre, caduta sulla casa del Maggiore Jovene, ch'aveva moglie e figli in Capua, ed egli era nella batteria dove si trovava il generale Orsini e puntò egli stesso uno de' mortai.

Questo bravo uffiziale aveva in Capua la moglie e due figli eppure non gli mancò l'animo e compi con cuore da soldato patriota un penosissimo dovere. Vari altri uffiziali avevano pur nella piazza parenti e proprietà; pure tutti gareggiarono di coraggio ed abnegazione.

I Capuani, e sopratutto le donne, erano ancor pallide e sparute pei terrori sofferti, men pel bombardamento che per le minacce delle orde borboniche che, specialmenteultima sera, ebbri di vino, e satolli di cibo, per le provvisioni della piazza abbandonate loro, minacciavano di saccheggio e violenze gl'inermi abitanti. A quest'ora una folla immensa di curiosi continua ad affluire verso Capua per godere dello svariato ed interessante spettacolo; e noi, avendo ormai curiosato abbastanza, ci ritiriamo e conchiudiamo questa lettera.

Il giorno 2 novembre avvenne la capitolazione della piazza di Capua, che il Generale della Rocca riceveva, e nel giorno 3 ottomila uomini di quella guarnigione, che avean deposto le armi sugli spaldi della fortezza, si spedivano a Napoli per essere imbarcati per Genova.

I Garibaldini vi si distinsero, ed il Generale della Rocca, d'ordine dei Re, manifesta al loro duce la sovrana, non che la propria soddisfazione (6)

Mentre le truppe italiane, espugnata Capua, disponevansi ad assaltare Gaeta, ove con l'estreme forze erasi concentrato il Borbone, e dal Volturno procedevano verso il Garigliano, in tutte le Provincie meridionali alacramente davasi opera alla votazione del Plebiscito, che doveva riunire altri nove milioni di abitanti alla Monarchia di Savoja. Un Decreto dell'8 di ottobre lo aggiorna pel di 21 di quel mese stesso, e la formola ne prescrive, e le qualità dei votanti, i modi di votazione e di scrutinio ne determina. Ed un altro decreto, in data degli undici del medesimo suindicato mese, indica le forme speciali di votazione e di scrutinio pei singoli Comuni, in considerazione che la votazione per Circondario potrebbe trovare ostacolo nella lontananza dei Comuni

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dal capoluogo circondariale. né mancarono regolamenti pei cittadini assenti, per la formazione delle liste, e per quanto le tessere potea risguardare.

Una Circolare ai Governatori delle Provincie, contrassegnata dal Prodittatore Pallavicino, e da tutti i Ministri, così si esprime sul proposito.

«Signor Governatore,

«Ella ha ricevuto per mezzo de' telegrafi il decreto che convoca il popolo per accettare o rigettare il seguente plebiscito: «Il popolo vuole l'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele e suoi legittimi discendenti». L'importanza di questo grande atto, che deve decidere delle nostre sorti ed integrare la Nazione, è visibile e manifesta, ed in crederei offendere il patriottismo della Signoria Vostra, se spendessi molte parole a dimostrarlo.

Ho creduto però mio debito esporle alcune considerazioni in proposito, affinché sia noto all'universale che il Ministero sente e conosce i supremi doveri, che gli impongono le presenti necessità. Ella quindi trasmetterà a tutt'i pubblici funzionari da lei dipendenti e diffonderà in tutt'i luoghi della sua giurisdizione la presente circolare.

Questa nobilissima parte della Penisola, che si dicea Reame di Napoli, fu sequestrata finora dalla vita Nazionale. Un feroce dispotismo, che non ha riscontro nelle storie, aiutato da forze mercenarie, e dalle arti più inique e più vili, comprimendo fortemente il popolo, era un potente ostacolo alla restaurazione della Patria Italiana. Ma un eroe, seguito da un pugno di prodi, con una serie di prodigi, che hanno sorpreso il mondo, rompea quel fascio di forze che sostenea l'oscena tirannide, e ci liberava. Innanzi e dietro i passi dell'uomo straordinario le nostre popolazioni insorsero, e la Monarchia, fuggitiva cogli ultimi avanzi del suo esercito, appena ebbe tempo di nascondersi nei propugnacoli di Capua e di Gaeta.

Infrante le nostre catene, risorto il popolo a vita novella, acquista ora il prezioso dritto di pronunziarsi intorno a' suoi futuri destini. Bisogna quindi signor Governatore, che ella faccia altamente sentire che ora appartiene al popolo di queste Provincie continentali di accertare per sempre la sua redenzione e quella della intera Italia.

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La sentenza che uscirà dall'urna nel di 21 del corrente mese rivelerà alle nazioni, se la terra del Sannio e della Magna Grecia, ove si adi per la prima volta il nome santo d'Italia, ed ove sorse la prima civiltà d'Occidente, sia degna di far parte della gran famiglia Italiana.

Il Ministero ha la fiducia, che le genti Napolitano per italianità e fermezza di proposito non si mostreranno minori di quelle della Toscana e dell'Emilia, e che esse compiranno l'opera stupenda del patrio risorgimento, fondando con libero voto la grande Monarchia Italiana.

Signor Governatore, Ella adotterà i più efficaci provvedimenti, affinché sia rispettato il dritto che hanno tutte le opinioni di manifestarsi liberamente. Impedisca qualunque violenza che, sotto qualsiasi pretesto, possa turbare la coscienza de' cittadini, né permetta che con minacce ipocrite o faziose sia alterato l'atto solenne.

Il Re magnanimo è alle nostre porte. Invitato dal Dittatore, egli non viene sospinto da ambizione di nuovi domini, ma dall'ambizione nobilissima di rendere l'Italia agli Italiani.

Egli viene a capo del possente esercito, che in pochi giorni liberava dalle orde mercenarie due altre nobili Provincie.

La più bella accoglienza che noi possiam fargli, si è quella di proclamarlo con libero ed unanime suffragio Re d'Italia. Cosi il popolo di questa meridional parte della Penisola avrà la gloria di suggellare il patto d'amore, che già stringe con modo indissolubile Italia e Vittorio Emmanuele.

Giorgio Pallavicino - Raffaele Conforti- Luigi Giura-Pasquale Scura - Amilcare Anguissola - Giacomo Coppola.

E quindi chi volesse descrivere ai posteri, ed all'Europa tutta il giorno 21 ottobre del 1860 nelle Provincie Meridionali d'Italia, noi potrebbe altrimenti che coi seguenti termini. - Napoli ha offerto all'Europa uno spettacolo di cui possiamo andare orgogliosi. L'affluenza de' cittadini a votare fu maravigliosa, maggiore per avventura di quello che poteva attendersi da un popolo ancora nuovo all'esercizio de' dritti politici.

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Né solo le classi più colte, ma eziandio le illetterate, gli operai, i giornalieri, i braccianti, vi si recarono con uno slancio, con una ansia indicibili, quasi temessero di non giungere in tempo a concorrere col loro voto alla grande opera della ricostituzione nazionale.

La milizia cittadina avea ordine di recarsi a' rispettivi posti fin dalle 4 e mezzo a. m., sicché già in quell'ora mattutina la città presentava un'aria di movimento e di entusiasmo che da più tempo non si era osservata. Ma quell'attività non era scompagnata da una calma e una serietà, vuolsi pur dirlo, insolite fra noi, e che attestavano come i napoletani fossero compresi dell'alta importanza dell'atto a cui si accingevano.

La Guardia Nazionale, i cui servigi pel mantenimento dell'ordine l'han resa si degna dell'ammirazione e della gratitudine del paese, superò sé medesima per operosità e per zelo. I battaglioni, numerosi più che non mai, furono i primi a dare il voto, recandosi in drappelli successivamente ai siti designati per ciascuno sezione. Indi si dividesero in picchetti e pattuglie, e gli uni ad assistere alle operazioni de' comizi e le altre a percorrere in tutti i sensi le strade, sicché la loro attitudine dignitosa e risoluta tenesse in rispetto gli affezionati al dispotismo.

Ma si sarebbe potuto dire che i Borboni non avessero un solo amico fra le cinquecento migliaia di anime che in sé chiude la vasta metropoli; tanta fu la tranquillità che regnò, tanta l'esultanza che si leggea in volto ad ognuno.

Le vie tutte, principali, secondarie, e fino a' più umili chiassuoli, erano sfolgoranti di bandiere da' bei colori italiani, sposati alla gloriosa croce sabauda. Riccamente addobbato se ne mostrava ai balconi ed alle inferriate il palazzo di Città e la strada Monteoliveto, al cui ingresso da Toledo sventolava un immenso vessillo, con le scritte:, 21 1860,

La Sezione San Ferdinando aveva opportunamente scelto per la votazione il vestibolo della chiesa di S. Francesco di Paola. Alle colonne del fronte era raccomandata la leggenda a caratteri cubitali:, e sulla porta maggiore della chiesa, con intendimento che avremmo voluto imitato in tutte le Sezioni, un cartello dell'ampiezza stessa di quella, con la scritta:

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- Il Popolo vuole l'Italia una e indivisibile- Con Vittorio

Emmanuele - Re Costituzionale - E suoi legittimi discendenti? - Decreto 8 ottobre

Il largo Montecalvario fu il sito destinato alla votazione di quel quartiere, e fu teatro di scene singolarissime. La Sangiovannara, (a) alla quale per una onorevole eccezione fu concesso il dritto del voto, andò a deporre nell'urna il suotenuta a braccio da Silvio Spaventa, e seguita da una sterminata moltitudine di popolani di quel rione, il cui liberalismo data già dal 1848. Andovvi pure in portantina il maggiore de Petris, d'anni, il quale, mal reggendosi in piedi, fu preso in dorso dall'eroina della Pignasecca, e trasportato fin presso ai banco della votazione, in mezzo all'emozione ed applausi degli astanti.

Vi furono dei voti negativi? Diremo che vi fu un numero impercettibile; e pure vuol giustizia che si divulghi essere stata la libertà del suffragio pienamente rispettata. Un sol caso vi fu che potrebbe farne giudicare altrimenti, ed anziché tacerlo, vi richiamiamo l'attenzione dei lettori, i quali ci preme sien bene istrutti delle circostanze del fatto. Appunto nel quartiere Montecalvario, un uomo in arnese assai dimesso si avvicinò al banco, prese con particolare ostentazione une prima di lasciarlo cader nell'urna, disse a voce sonora:Un fremito d'indegnazione si levò tra il popolo, ma il contegno fermo della Guardia Nazionale e l'invito fatto con autorità di lasciar ciascuno arbitrio della sua opinione contenne il primo moto. Senonchè a quello sconsigliato tenne dietro, nel partirsene, una mano di popolani che si lasciò andare a maltrattarlo. Deplorabile eccesso, ma provocato dalla sfida che quell'insano avea voluta gittare al sentimento universale.

Del resto, quest'unica e poco badabile eccezione non valse a turbare la gioia della giornata, che fu splendidissima del più puro sereno e si chiuse colle solite luminarie e col passeggio il più brioso della sera.

Non vi mancò l'arrivo del Dittatore da Caserta, il quale, festeggiato al suo passaggio per Toledo verso l'una p. m., fu poi acclamato con frenetiche dimostrazioni sul cader del giorno all' d',

(a) Popolana insu i quarantann'anni, di condizione cantiniera, eccitatrice di popolo a movimenti rivoluzionari, ed a diserzioni i soldati borbonici bazzicanti nella sua cantina.

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ove avea pranzato presso un uffiziale Ungherese, e da un balcone del quale pronunziò le seguenti parole:

-

«I napoletani hanno forse troppo entusiasmo; ma con questo entusiasmo noi faremo l'Italia».

La pubblicazione ufficiale del Plebiscito veniva fatta nelle forme, che, a meglio rilevare l'entusiasmo di quei giorni, ci determiniamo a fedelmente riprodurre.

Promulgazione del Plebiscito

La promulgazione del plebiscito, la quale, fissata pel 6 Novembre, il Governo avea fatto ogni opera perché fosse anticipata, ebbe luogo ieri nella piazza S. Francesco di Paola alla presenza di un popolo innumerevole.

Già un'ora prima del mezzodì forti drappelli di tutti i 12 battaglioni della Guardia Nazionale erano schierati sopra tre lati della piazza. Sul quarto lato, di rincontro alla reggia, sorgeva in emiciclo un palco tappezzato a tre colori italiani e fregiato superiormente da più scudi col glorioso stemma Sabaudo.

Alle 12 veniva inalberata la bandiera nazionale fra le salve de' castelli a cui rispondevano le salve dei bastimenti stanziati nella rada, pavesati a festa, e gli applausi fragorosi della popolazione, di cui la piazza era gremita.

Intorno all'una p. m. giungevano sul luogo le carrozze coi membri della Corte Suprema di Giustizia, che pochi istanti dopo occupavano i seggi in mezzo al più profondo silenzio.

Allora il rispettabile presidente consiglier Niutta levatosi in piedi, con voce profondamente commossa, pronunziò un analogo discorso, che conchiuse così:

«Bene ho ragione di congratularmi con questo popolo che nel presente giorno, il più bello della mia e della mia magistratura, mi sia dato promulgare il voto delle popolazioni di tutte le continentali sul plebiscito: -

La Corte Suprema di Giustizia si è occupata dello scrutinio generale delle operazioni delle Giunte provinciali, e le à trovate eseguite in piena regola ed ai termini della legge.

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Sopra 1,321,376 votanti, hanno votato pel 1,302,064; pel 10,312.

La Corte Suprema di Giustizia dichiara esser questo il risultato generale della votazione; e poiché esso importa piena ed assoluta accettazione del Plebiscito, vi è luogo a proclamare, come in proclamo, che il popolo delle provincie continentali dell'Italia Meridionale

É questo il voto solenne del popolo, a cui ogni cuore farà plauso col grido di

Questo discorso fu a quando a quando interrotto da entusiastiche approvazioni, e al suddetto grido tre volte ripetuto, con cui l'onorevole oratore vi ponea termine, risposero come un sol uomo, fra un tuono di applausi, le molte migliaia di cittadini d'ogni ceto, i quali, più avventurati di quanti la piazza non ne avea potuti capire, aveano assistito al sublime atto che lascerà in essi fino alla più tarda vecchiezza indelebile e cara rimembranza.

Il risultamento del Plebiscito fu quale trovasi qui appresso indicato.

Provincie Si No

Napoli 185, 468 1, 609

Avellino 67, 353 1, 269

Terra di Lavoro »» »»

Foggia 57, 288 0, 996

Molise 58, 372 0, 307

Bari 127, 007 063

Lecce 94, 570 0, 929

Potenza 98, 202 0, 110

Salerno 196, 511 042

Cosenza 108, 877 063

Reggio 99, 907 081

Catanzaro 78, 811 0, 615

Chieti 63, 621 1, 837

Aquila 43, 231 0, 143

Teramo 42, 403 096

Benevento 6, 970 »»

N. B. per la Provincia di Terra di Lavoro manca il risultamento

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del Plebiscito, perla ragione che quando questo vota vasi, essa trovavasi ancora in parte occupata dalle truppe borboniche, in parte sotto la influenza di autorità ligie al Borbone.

Fu sorpresa il vedere come un Raffaele Jovino, di anni 80, fattosi sostegno il braccio del figliuol suo, si recasse all'assemblea per deporre nell'urna il suo voto di unificazione; come un Carmine Maestri si facesse recare in carrozza, ed inabile a salire le scale per giungere alle sale del Comizio, mandasse a pregareEletto, onde scendesse a ricevere il suoe fu fatto; e come in fine, per tacere di altri siffatti nobili esempi, un cieco chiedesse il si, e si facesse tosto appressare all'urna per de porvelo.

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DOCUMENTI

(1) Al popolo di Palermo

- Vicino o lontano sono con te, bravo popolo di Palermo, e con te per tutta la vita!....

Vincoli d'affetto - comunanza di fatiche, di pericoli, di gloria mi legano a te con legami indissolubili; commosso dai profondo dell'anima mia-colla mia coscienza d'Italiano - in so che non dubiti delle mie parole.

Da te mi divisi nell'interesse della causa comune-e ti lasciai un altro me stesso-Depretis!....

Depretis è affidato da me al buon popolo della Capitale della Sicilia; e più che mio rappresentante, egli è il rappresentante della santa idea nazionale «Italia e Vittorio Emanuele». Depretis annunzierà al caro popolo della Sicilia il giorno dell'annessione dell'isola al resto della libera Italia.... Ma è Depretis che deve determinare - fedele al mio mandato, ed all'interesse dell'Italia - l'epoca fortunata!..,.

I miserabili che ti parlano di annessione oggi, popolo della Sicilia, sono quegli stessi che te ne parlavano, ti suscitavano un mese fa... Dimando loro, popolo... se in avessi condisceso alle loro individuali miserie... avrei potuto continuare a combattere per l'Italia, avrei in potuto mandarti oggi il mio saluto d'amore dalla bella capitale del continente meridionale Italiano?,

Dunque, popolo generoso, ai codardi che eran nascosti quando tu pugnavi sulle barricate di Palermo per la libertà dell'Italia 1. tu dirai da parte del tuo Garibaldi - Che l'annessione ed il Regno del Re Galantuomo in Italia- noi proclameremo presto ma, sulla vetta del Quirinale, quando l'Italia potrà contare i suoi figli allo stesso consorzio, e liberi tutti accoglierli nell'illustre suo grembo e benedirli!..

G. Garibaldi

(2) - Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro alla Nazione intiera.

Decreto

Che le Due Sicilie, le quali al sangue Italiano devono il loro riscatto. e che mi elessero liberamente a Dittatore, fanno parte integrante dell'Italia una ed indivisibile, con suo Re costituzionale Vittorio Emmanuele ed i suoi discendenti.

Io deporrò nelle mani del Re, al suo arrivo, la dittatura conferitami dalla Nazione. I prodittatori sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto.

S. Angelo 15 ottobre 1860.

G. Garibaldi.

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Ed a tranquillare gli animi il cosi comenta.

-

Questo decreto non cambia per nulla la situazione. Il plebiscito avrà irrevocabilmente il suo effetto per decisa volontà del Dittatore il di 21 del corrente mese, e tutto indica che aduna immensa maggioranza uscirà dall'urna il voto della unificazione italiana. Il Dittatore col precitato decreto non ha fatto nulla di più di quello che ha tante volte significato con altri decreti, qua i costantemente ha intitolati - Vittorio Emmanuele Re d'Italia. Infine il Dittatore ha voluto esprimere in questa forma il suo voto che fu il pensiero di tutta la vita.

Associazione Nazionale Unitaria

-

Una libera riunione di cittadini, di ogni parte del regno, tenuta li 27 settembre, scorgendo la necessità di concorrere allo sviluppo di tutte le forze materiali e morali della nazione per vincere i nemici interni ed esterni, per suscitare nel popolo la coscienza dei suoi diritti e dei suoi obblighi, e per ordinare un mezzo d'espressione legale e perenne dei voti, dei pensieri e delle volontà del paese, istituiva l'

Essa ha per intento:

1° di raggiungere l'unità nazionale, aiutando con tutte le sue forze il pratico compimento del programma del generale Garibaldi, l'unità nazionale con Roma per capitale;

2° di raccogliere ed esprimere con tutti i mezzi legali possibili i voti del paese pei suo ordinamento interno ed esterno:

3° di promuovere l'educazione politica e sociale delle classi operaie.

Il Comitato direttore annunzia tal fatto a tutti i cittadini, sperando nell'approvazione e nel concorso di tutti. Se dura il fascio delle volontà, chi potrà romperlo? Il Comitato dichiara in nome dell'Associazione aa lui rappresentata, che ad altro non tenderà per quanto i suoi mezzi assentiranno, se non a fare la nazione libera ed una, re d'Italia, in Roma, Vittorio Emanuele, a desiar nel popolo nostro coscienza di sè, e a compierne l'educazione politica e sociale.

Armi e reciproca coscienza.

Napoli, ai 2 ottobre 1860

Pel Comitato Direttore

L. Zuppetta G. Libertini G. Ricciardi.

Comitato di Provvedimento:

Considerando i benefici effetti dei Comitati di Provvedimento nell'Italia settentrionale, che si consacrarono a raccogliere e spedire nomini ed armi, a sostenere il Generale Garibaldi nella sua impresa;

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Considerando la necessità del paese, che ha l'obbligo di armarsi e sviluppare tutte le sue forze per accrescere l'esercito dell'Italia meridionale;

L' nella sua tornata del primo ottobre eleggeva un nei signori Giuseppe Libertini. Aurelio Saffi, Giuseppe Ricciardi, Filippo de Boni, profess. Zuppetta.

Il Comitato si propone: di aprire arruolamento nella città di Napoli e nellevincie;

2 di raccogliere mezzi pecuniari ed armi al medesimo scopo; 3 e, d'accordo colle autorità e colla cittadinanza, di armare e spedire i cittadini inscritti sul campo.

Italiani 1

Per diventare liberi cittadini dobbiam farci soldati. Ancora si pugna, e Garibaldi ci guida, In nome della patria comune, scongiuriamo tutti ad aiutarci nella santa, ma difficile opera.

Napoli, 2 ottobre 1860. n. 6.

Libertini, Saffi, Ricciardi, De Boni, Zuppetta.

né Apostati né Ribelli

- La diffidenza cieca, come la cieca fiducia, è fatale alle grandi imprese. I maneggiatori politici del moto Italiano peccano in oggi della prima, e vi aggiungono l'ingratitudine; il popolo d'Italia pecca della seconda.

Della necessità che il popolo d'Italia non segua passivamente servile l'ispirazione che scende dalle sfere governative, ma senta la vita iniziatrice che ha in sè, e la svegli, e provveda più che non fa, con l'opere proprie, colle proprie sorti, ho parlato soventi, e riparlerò. Parlo oggi per conto mio, e de' miei amici repubblicani, della diffidenza sistematica, che perseguita di calunnie e di stolti sospetti essi e me. né parlerò perch'io creda debito nostro il giustificarci o difenderci con gli uomini che distendono quelle calunnie o alfettano di nudrir quei sospetti: nei più tra essi calunnie e diffidenze non sono sincere, ma solamente calcolo basso politico e codardo; guerra d'uomini meschini contro uomini che paventano, a torto, rivali possibili sul campo dov'essi mietono: però non li stimiamo. né parlo pei molti che credono senza aprare, e sperdono cosi la speranza d'una concordia che nell'intimo cuore desiderano; pei molti che ineducati a scegliere tra le cose messe loro innanzi, travedono pericoli ove non sono e credono, ingannati, non colpevoli. salvare il paese vigilando sospettosi su noi ed allontanandoci da un campo che aprimmo pel primi in Italia.

Davanti al popolo non v'ha dignità offesa che comandi il silenzio. Giovammo - e questo lo confessano gli stessi avversi - alla causa del suo avvenire.

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Vogliamo giovarla ancora, tentarlo almeno, e per questo bisogna intenderci. Agli accusatori sistematici vorrei ricordare soltanto che le ingiuste diffidenze generano ingiusta ire, traviano l'opinione Europea su le cose nostre, scemano le forze della Nazione, e cacciano i germi di quel sistema che contaminò sessantasette anni addietro la Rivoluzione francese e finì per affogarla nel sangue.

Da quali fatti muovono i sospetti che oggi ancora si accumulano contro i repubblicani? Per quanto in cerchi, non ne trovo uno solo che non sia un'assurda calunnia smentita dieci volte da pruo ve documentate.

Ebbe luogo, in un sol punto d'Italia, un solo tentativo di sommossa repubblicana? Fu trovata, fu letta, negli ultimi due anni, una sola linea scritta pubblicamente o privatamente da noi, dagli uomini che più o meno rappresentino il principio del partito, che accenni a repubblica? Fu mai promossa da noi, dal primo svolgersi del moto d'Italia, la quistione di forma di istituzioni politiche?

No; e mi smentisca co' fatti chi può. Prima della pace di Villafranca, parecchi tra noi protestarono contro il commettersi de' nostri fati alle armi straniere ed armi dispotiche: sapevamo d'antico che nessuna Unità Nazionale s'era fondata a quel modo; e la subita pace, e lo smembramento di Nizza e Savoia vennero poi a giustificarne l'antiveggenza. Dopo la pace di Villa franca, appena l'emancipazione italiana rimase opera di menti e braccia italiane anche quei che non avevano fatto, se non astenersi. senza badare alla bandiera che padroneggiava il moto, si affrettarono a unirsi. Il programma di Garibaldi fu il loro. Le file di Garibaldi son piene di repubblicani. Essi pugnarono, vinsero, morirono lietamente sotto di lui. né prima né dopo l'infausta pace esci dalle loro labbra altro grido che quello dell'Unità, di quella unità alla quale i loro tentativi, i loro scritti, le loro associazioni, i loro martiri avevano educato l'Italia. Ovunque fu pericolo onorato da corrersi per promuoverla, là furono. La sola sfera nella quale i loro nomi non si trovano o si trovano più che rari è quella degli impieghi lucrosi. Sdegnati, calunniati, respinsero le calunnie, senza una parola che riconducesse l'antica quistione sul campo. Perseguitati oggi, sorrisero, e il dì dopo giovarono, come fu loro dato, alla causa della Patria e dell'Unità. I più tra loro promossero, stimandola giovevole, l'annessione combattuta delle Provincie del centro. Taluni si tennero, in Toscana segnatamente, a contatto col governo per rassicurarlo e appoggiarne più validamente le mosse quando tendessero all'Unità.

Io che scrivo dichiarai sull'onore e pubblicamente, che se mai nuovi smembramenti di terra italiana, o il rifiuto deliberato dell'Unità da parte

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dei Reggitori ci ricondusse, disperati di altre vie, alla nostra vecchia bandiera, noi lo annunzieremmo anzi tratto con la stampa agli avversi.

Può un partito dar pernii più solenni di questi? Può spingere più oltre, per amore della concordia, l'abnegazione? Può la riverenza alla sovranità dell'opinione nazionale esigere altro da noi?

Il popolo d'Italia, lasciato alle proprie aspirazioni non traviato da calunnie, risponderebbe:I raggiratori, che strisciano intorno alla piramide dal potere, vorrebbero più. Diseredati di fede e veneratori materialisti dell' e della forza, essi vorrebbero rapirci la nostra. Non basta ad essi che da noi si chini riverente il capo alla sovranità dell'opinione dei più; vorrebbero che dichiarando di aver errato nel passato, noi ci dicessimo credenti nella fede monarchica. Vorrebbero che l'anime nostre si prostituissero a manifestazioni intolleranti d'un entusiasmo non sentito. Vorrebbero che non fossimoma della dottrina che in oggi domina. Non lo vogliamo né lo possiamo. La nostra è fede; possiamo tacerla per un tempo, rinunziare ad ogni tentativo d'attuarla; non rinnegarla e dirla falsa per l'avvenire.

Né Ribelli, né Apostati: in queste parole si compendia la nostra condizione dell'oggi. Non possiamo andar d'una linea più in là. Essere non significa per noi cessare di essere uomini.

Cittadini onesti e leali, accettiamo, purché guidi all'unità della Patria, la Monarchia dal consenso dei più: non tendiamo di sostituire alla sua bandiera la bandiera repubblicana. Che volete di più? Abolire la coscienza? Siate allora inquisitori e tiranni: non vi fregiate del santo nome di libertà.

La libertà esige la coscienza della libertà. Volete servi non liberi alleati all'impresa? Raccoglierete una menzogna di libertà e nuova servitù poco dopo. Preferireste averci cortigiani, ipocriti e gesuitanti all'averci cooperatori leali noi, e salvo il pudore dell'anima, salva la dignità d'uomini noi? Qual pegno avrete del nostro non tradirvi domani?

Movendo all'emancipazione delle Marche e dell'Umbria - emancipazione che voi dichiaravate inopportuna e pericolosa cinque giorni prima di compierla con l'armi vostre - noi innalzavamo la bandiera dai tre colori d'Italia senza lo stemma Sabaudo. Con qual dritto avremmo noi, pochi iniziatori e semplici cittadini, detto alle popolazioni alle quali imprendevamo di portar libertà: non dovevamo aspettare che la volontà dei nostri fratelli, come altrove, si dichiarasse?

Non rimase la bandiera (pura d'ogni stemma) in Toscana prima che il voto popolare a favore dell'annessione si rivelasse? Innalzarono altra bandiera che l'Italiana gl'insorti della Sicilia,

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quando per sei settimane Rosolino Pilo, e i compagni di lui tennero vivo, aspettando Garibaldi, il combattimento? perché voler noi, noi soli repubblicani, usurpatori della Sovranità del popolo? Non bastava a voi la promessa che il nostro grido repubblicano avrebbe taciuto? Che avremmo accettato il vostro vessillo dal primo libero Municipio che l'avrebbe - e non v'era dubbio - innalzato? perché pretendere che ci mostriamo in sembianza di iniziatori monarchici? L'Italia impari a rigenerarsi convincendosi che non l'è partito, entro i suoi confini, capace di vedere o calpestare la propria fede, e, non di meno, capace di sacrificarne la realizzazione immediata all'opinione dei concittadini e all'Unità della Patria.

Scorrete le file dell'esercito di Garibaldi. Là, tra quei forti, che numerano i giorni con le battaglie, voi trovate il repubblicano a fianco della monarchia. Nessuno diffida del compagno; nessuno sospetta ch'egli covi un pensiero d'insidia nell'anima. perché non è lo stesso nei ranghi della vita civile? perché non potremo parlare di Patria e Unità, senza che voi diciate: intendono parlar di Repubblica?

Né Apostati, né Ribelli. Noi serbando fede al nostro ideale, ci serberemo il diritto di non apporre il nome nostro in calce di Inni monarchici; di non dire oggi ai nostri concittadini:; di esprimere pacificamente, conquistata l'Unità della Patria, davanti al Paese le nostre credenze; d'astenerci dagli uffici che altri si contenderanno; di ripigliare taluni tra noi la via dell'esiglio. Oggi chiediamo di essere ammessi, senza calunnie, senza sospetti villani, senza interpetrazioni maligne, date ad ogni nostra parola, senza testimonianze d'ingratitudine che a noi, securi nella coscienza, importano poco, ma che disonorano la patria nostra, a lavorare noi pure per l'Unità, a combattere qualunque straniero o Italiano la avversi, lasciando al popolo ogni decisione su la forma che deve incarnarla.

Ma il diritto di lavorare per l'unità importa diritto di consiglio e di questo intendiamo usare liberamente quant'altri; come uomini ai quali l'Italia è patria, e che hanno operato costantemente a fondarla.

Non vi è tra noi contesa sul fine dell'oggi; accettiamo tutti il voto della maggioranza; la contesa è su i mezzi di raggiungere sollecitamente l'Unità che tutti vogliamo. Su quel terreno comincia il dissenso. Chi pretende impedirci di esprimerlo è intollerante esclusivo, settario; continua con nomi diversi il sistema di padroni che i nostri sforzi hanno rovesciato.

Chiediamo libertà per dire, non che la repubblica è il miglior de' governi, ma che noi, 25 milioni d'Italiani, dobbiamo essere in casa nostra padroni; che possiamo essere tali, se tutti vogliamo; che la nostra libertà sta su la punta delle nostre baionette e nella ferma determinazione delle anime nostre, non nei consigli o nei cenni di Francia o delle Aule diplomatiche;

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che volerla far dipendere dal beneplacito di Luigi Napoleone, (o d'altri che sia) è un prostituirla, un immiserirla anzi tratto, un metterci a rischio di perderla nuovamente; dichiarandocene immeritevoli.

Chiediamo libertà per dire, che tra il programma di Cavour e quello di Garibaldi, scegliamo il secondo, ché senza Roma e Venezia non v'è Italia; che eccettuata la guerra del 1859, provocata dalla Russia e sostenuta, a prezzo di Nizza e Savoia, dall'armi dell'Impero Francese, eccettuata l'invasione delle provincie Romane (provocata da noi, dalla necessità che creammo noi) nessuna iniziativa d'emancipazione Italiana appartiene al programma Cavour, che Roma e Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l'insurrezione e la guerra dei volontari non le conquistano a libertà.

Chiediamo libertà per dire, che non si fonda la Patria libera ed una annettendo una o altra provincia al Piemonte; ma confondendo Piemonte e tutte provincie nell'Italia, in Roma che n'è core e centro; che l'annessione immediata delle provincie conquistate a libera vita, (ponendole sotto il dominio del programma di Cavour e sottraendole a quello di Garibaldi), arresta il moto, toglie le forze del Paese dalle mani di chi vuole usarne per darle a chi vuole condannarle all'inerzia, e cancella per un tempo l'idea dominatrice.

Chiediamo questo e non altro. Confutateci, ma non calunniate. Non ripetete sempre stoltamente o di malafede che noi lavoriamo ora per la repubblica, quando tacciamo di repubblica da due anni, Non v'ostinate a giudicarci senza leggerci. Non ripetete, servi ciechi d'ogni gazzetta ministeriale, affermazioni smentite cento volte dai fatti. Non aizzate contro noi perfidamente con la menzogna le passioni d'un popolo che deve a noi in gran parte quanto ei sente, quanto ha conquistato della propria Unità. La menzogna è l'arte dei tristi codardi. La credulità, senza esame, è abitudine d'idioti.

Giuseppe Mazzini.

Al chiaro siq. Giuseppe Mazzini.

- L'abnegazione fu sempre la virtù dei generosi. in vi credo generoso, ed oggi vi offro un'occasione di mostrarvi tale agli occhi de' vostri concittadini. Rappresentante del principio repubblicano, e propugnatore indefesso di questo principio, voi risvegliate, dimorando fra noi, le diffidenze del re e de' suoi ministri. Però la vostra presenza in queste parti crea imbarazzi al governo e pericoli alla nazione, mettendo a repentaglio quella concordia che torna indispensabile all'avvanzamento ed al trionfo della causa italiana.

Fate dunque atto di patriottismo, allontanandovi da queste provincie. Agli antichi aggiungete il nuovo sacrificio che vi domanda la patria; la patria ve ne sarà riconoscente.

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Ve lo ripeto; anche non volendo, voi ci dividete; e noi abbiamo bisogno di raccogliere in un fascio tutte le forze della nazione. So che le vostre parole suonano concordia, e non dubito che alle parole corrispondano i fatti. Ma non tutti vi credono; e molti sono coloro che abusano del vostro nome col proposito parricida d'innalzare in Italia un'altra bandiera. L'onestà v'ingiunge di metter fine ai sospetti degli uni ed ai maneggi degli altri. Mostratevi grande, partendo, e ne avrete lode da tutt'i buoni.

lo mi pregio dirmi

Vostro devotissimo

Giorgio Pallavicino.

Risposta.

Al sig. Giorgio Pallavicino

Credo d'essere generoso d'anima, e per questo rispondo alla vostra lettera del 3, che oggi soltanto leggo nell'con un rifiuto. S'io non dovessi cedere che al mio primo impulso e alla stanchezza dell'animo, partirei dalla terra ch'io calco per ridurmi dove la libertà dell'opinioni è sacra ad ogni uomo, dove la lealtà dell'onesto non è posta in dubbio, dove chi ha operato e patito pel paese non crede debito suo di dire al fratello che ha egli pure operato e patito:

Voi non date ragione della vostra proposta, fuorché l'affermazione ch'iovi darò le ragioni del mio rifiuto.

Io rifiuto, perché non mi sento colpevole né artefice di pericoli al paese, né macchinatore di disegni che possono tornargli funesti, e mi parrebbe di confessarmi tale, cedendo: - perché Italiano in terra italiana riconquistata a libera vita, credo di dovere rappresentare e sostenere in me il che ogni Italiano ha di vivere nella propria patria quand'ei non ne offende le leggi, e il di non soggiacere a un ostracismo non meritato: - perché dopo avere contribuito ad educare, per quant'era in me, il popolo d'Italia al sacrificio, mi par tempo di educarlo col l'esempio alla coscienza della dignità umana troppo sovente violata e alla massima dimenticata da quei che s'intitolano predicatori di concordia e; che non si fonda la propria libertà senza rispettare l'altrui: - perché mi parrebbe, esilian, domi volontario, di fare offesa al mio paese che non può, senza disonorarsi agli occhi di tutta Europa, farsi reo di tirannide, al Re che non può temere d'un individuo senza dichiararsi debole e mal fermo nell'amore dei sudditi, agli uomini di parte vostra che non possono irritarsi della presenza d'un uomo dichiarato da essi a ogni tanto solo e abbandonato da tutto quanto il paese, senza smentirsi:-perché il desiderio viene, non come voi credete, dal paese,

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dal paese che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne i Garibaldi, ma dal Ministero Torinese, verso il quale non ho debito alcuno e ch'io credo funesto all'Unità della Patria: da faccendieri e gazzettieri senza coscienza d'onore e di moralità nazionale, senza culto, fuorché verso il potere esistente qual ch'esso sia, e ch'io per conseguenza, disprezzo; e dal vulgo dei creduli inoperosi che giurano senz'altro esame, sulla parola d'ogni potente, e che io, per conseguenza, compiango: - Analmente, perch'io, scendendo, ebbi dichiarazione, finora non revocata dal Dittatore di queste terre, ch'io era libero in terra di liberi.

Il più grande dei sacrifici che in potessi mai compiere, l'ho compiuto, quando, interrompendo, per amore all'unità e alla concordia civile, l'apostolato della mia fede, dichiarai ch'io accettava, non per riverenza a ministri o monarchi, ma alla maggioranza - illusa o no poco monta - del popolo italiano, la monarchia, presto a cooperare con essa, purchè fosse fondatrice dell'Unità, e che se mai mi sentissi un giorno vincolato dalla coscienza a risollevare la nostra vecchia bandiera, in lo annunzierei lealmente anzi tratto e ad amici e nemici. Non posso compirne altri spontaneo. Se gli uomini leali, come voi siete, credono alla mia parola, debito loro è d'adoperarsi a convincere, non me, ma gli avversi a me, che la via d'intolleranza per essi calcata è il solo fomite d'anarchia esistente in oggi. Se non credono a un uomo che da trenta anni combatte come può per la Nazione, che ha insegnato a balbettare il nome d'Unità a' suoi accusatori e che non ha mai mentito ed anima viva, tal sia di loro. L'ingratitudine degli uomini non è ragione per ch'io debba soggiacere volontariamente alla loro ingiustizia e sancirla.

Napoli 6 ottobre.

Vostro con sensi di stima

(6) - S. E. Il Generale della Rocca ha partecipato al generale Sirtori avere Sua Maestà determinato che i sotto uffiziali, caporali e soldati dell'esercito meridionale, i quali rientrano nelle loro famiglie, abbiano a ricevere una indennità di un semestre di paga invece di un trimestre, come era dichiarato nell'ordine del giorno del 13 andante,

Lo stesso generale della Rocca ha inoltre partecipato al generale Sirtori l'ordine di Sua Maestà di fare le proposte per ricompensare, mediante medaglie al valor militare e decorazioni dell'ordine militare di Savoja, quelli fra gli ufficiali di ogni grado, sotto uffiziali, caporali e soldati che ebbero occasione di maggiormente distinguersi nelle diverse fazioni della presente guerra.

(Gior. Uff.)

CAPITOLO II

Sommario

Ingresso del Re in Napoli - Ultimi fatti di Garibaldi, e sua partenza. - Gaeta. - Blocco. - Bombardamento. - Capitolazione. - Politica francese. - Francesco II, e sua condotta. - Luogotenenza. - Consiglio di Luogotenenza. -Amministrazione. -Nuove leggi. - Spirito pubblico.

Tutti attendono il Re, che l'opinione pubblica qualificava con l'epiteto di, e che la stampa periodica da dodici anni andava annunziando come il più leale, e più popolare fra i Re. Non solo egli soddisfa alle aspirazioni della democrazia unitaria ma del pari ai desideri delle masse, che, stanche già troppo dal dispotismo borbonico, concepiscono le più vaste speranze dell'arrivo del nuovo Sovrano, ed ogni specie di benessere si attendon da lui. Il 29 settembre si annunzia partito da Torino, il 12 ottobre si dice giunto a Giulianova, il 19 a Chieti, il 24 ad Isernia, ove si accora, e torce inorridito lo sguardo alle tracce di sangue, e di rapine lasciate dalla recente reazione borbonica. Deputazioni, indirizzi, acclamazioni, feste dappertutto. Finalmente il giorno 7 novembre, sotto una pioggia dirotta, il novello Re d'Italia faceva il suo solenne ingresso nella capitale del già Regno di Napoli; ed il dì innanzi Garibaldi per lo primo annunzia vaio al popolo, dicendo - Domani Vittorio Emmanuele, il Re d'Italia «eletto dalla nazione, comparirà qui tra noi. Accogliamo degnamente il mandato dalla Provvidenza, e spargiamo sui suo passaggio, come pegno del nostro riscatto, e del nostro affetto, il fiore della concordia a lui cosi grato, ed all'Italia cosi necessario. Non più colori politici, non più partiti! Non più discordie! L'Italia una, come la segnano saviamente i popolani di questa Metropoli, ed il Re Galantuomo siano simboli perenni della nostra rigenerazione, e della grandezza, e della prosperità della patria.

La stampa ufficiale, la meno veridica fra quante politiche effemeridi abbian mai visto la luce, la stampa ufficiale di Napoli

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non mentiva al certo quando scriveva essere adempiuto il desiderio dei popoli di queste meridionali provincie, l'invocato da si lungo tempo esser giunto finalmente tra noi, tutti dimenticare, al suo giungere, il lungo aspettare: egli il Re soldato, il Re galantuomo: gli archi di trionfo esser ben degni di lui: aver tutti ben donde trovarsi un cantuccio per le vie, e sui balconi, da cui ammirare l'Eroe di Palestro, e di S. Martino; non esservi privato cittadino, che non cercasse dimostrare con atti esterni di tripudio il contento che ha nel cuore pel pago desio.

Oltre il ministro Farini, accompagnavano il Re il Cav. Suserna d'Angrogna, Barone Salaroli, Gav. Morrozzo della Rocca, Cav. Martini de Cigala, Conte di Saintfront, Cav. Nasi, Cav. de Biller, Cav. Saquer, Marchese Cocconito, Cav. Castiglione, Conte Litta Modignani, Marchese Pallavicini, Cav. Veglio, Conte Casati, Marchese Corsini, Conte de Bobilant, Cav. Savoiroux, Cav. Mettar di, Cappellano, Cav. Adami, Medico.

Non mancarono i soliti programmi di feste (1), e quindi i solenni, le, i maritaggi, i balconi arazzati, i festoni per le vie, le luminarie, gli evviva, i preti che benedicono, le congreghe che ricevono, i corpi municipali, e quelli della magistratura, che presentano gli omaggi, le milizie cittadine che fanno ala, e corteo in parata.

Il proclama del Re non tardò a vedersi affisso per le mura della città. Piacque, ed esaltò maggiormente gli spiriti - «Il suffraggio universale, diceva, mi dà la sovrana potestà di queste no bili province. Accetto quest'altro decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d'Itaano. Crescono i miei, crescono i doveri di tutti gl'Italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia, e la costante annegazione. Tutti i partiti debbono inchinarsi di voti innanzi alla maestà dell'Italia, che Dio solleva. Qua dobbiamo instaurare governo che dia guarentigia di viver libero ai popoli, e di severa probità alla pubblica opinione. in faccio assegnamento e sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge ha freno il potere, e presidio la libertà, ivi il governo tanto può pel pubblico bene, quanto il popolo vale per la virtù.

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All'Europa dobbiamo addimostrare, che se la irresistibile forza degli eventi superò le convenzioni fondate nelle secolari sventure d'Italia, noi sappiamo ristorare, nella nazione unita, l'impero di quegl'immutabili dommi, senza de' quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta.»

Volgersi alla pubblica istruzione fu il primo atto del nuovo Sovrano: fece d'incoraggiarla, di promuoverla e n'ebbe benemerenza, e plausi. -Giunto in questa città, scriveva egli al Luogo tenente Farini il 14 novembre, volti essere informato intorno alle condizioni, ed ai bisogni delle classi meno fortunate, e fui dolorosamente commosso nel sapere come siano stati finora poco curati gl'Istituti d'educazione popolare. L'istruzione, l'educazione religiosa e civile del popolo furono l'assiduo pensiero del mio regno. in so che per esse si aumenta l'operosità, la moralità di tutta la nazione. Le istituzioni liberali largite da mio padre, e da me custodite, per essere utili a tutte ti, devono essere intese da tutti, e far del bene a tutti. Son sicuro che ella sarà interpetre fedele delle mie intenzioni. Ma all'incremento dell'educazione popolare, che mi sta tanto a cuore, voglio in stesso concorrere personalmente. Per questi motivi dispongo, che dalla mia borsa particolare sia presa la somma di duecentomila lire italiane da distribuirsi in questa beneficenza delle menti, e degli animi. Nello impiego di questa somma ella vorrà tener presente il vantaggio che deriva in una grande città dalla istituzione degli Asili popolari per la infanzia. Ella darà inoltre le opportune disposizioni, perché anche nelle provincie sia studiato il grave argomento della educazione del popolo. Desidero che i rappresentanti del governo, la autorità municipali, le associazioni cittadine siano, per opera sua, incoraggiate, ed aiutate nel promuovere quest'opera di progresso cristiano e civile, alla quale, e come uomini, e come a governanti, dobbiamo ogni sollecita cura.»

Garibaldi depone i poteri nelle mani del Prodittatore Pallavicini, prende comiato dal Re, cui rifiuta il cordone dell'Annunziata, ed al quale raccomanda i suoi compagni d'armi, mette fuori il suo proclama di congedo da coloro, con cui ha diviso le glorie (2), ed imbarcatosi sulparte per la solitudine della sua Caprera. Avevalo presentito il popolo, ed il giorno innanzi, e per le vie,

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e sotto i, balconi della di lui abitazione, prorompeva in clamorose dimostrazioni, onde ancor seco rimanesse; ed egli raccomandava chetassero, intorno al Re si stringessero, e nella sua determinazione rimaneasi saldo.

Dopo un'Amministrazione si vasta delle più ricche provincie d'Italia, dopo si splendide conquiste, che cosa Garibaldi portava seco nell'isola di Caprera? Fu visto, e narrato da tutta la stampa periodica di quel tempo: un sacco di castagne, un altro di patate, un sacchetto di caffè, un altro di zucchero, una balletta di stokfish, una cassa di maccheroni, e cento napoleoni d'oro, tolti ad imprestito.

Si disse, per preparargli una dolce sorpresa il Re avergli fatto trovare l'isola trasformata in un Eden beato, giardini all'inglese, giuochi d'acqua, cantine, eleganti biblioteche, sale bene a dobbate, e simili piacevolezze. Fu fiaba della stampa ufficiosa, fu dolce illusione, per quanto crudel disinganno.

Per l'armata meridionale, a tutto ottobre 1860, furono spese 12, 448, 919 lire. A questa somma, pagata direttamente dall'Intendenza degli eserciti, bisogna aggiungere altri 300, 000 lire circa pagate dai banchi di Napoli e di Sicilia. La spesa totale della guerra adunque, dallo imbarco a Genova fino allo scorcio di ottobre, per competenza in danaro a soldati ed uffiziali, viveri, vestiario, ed armamento, materiale di artiglieria, fortificazioni, spedali, ambulanze, cavalli, trasporti, e simili, non supera i 20,738,919 lire. Da questa cifra per altro dovrebbe a tutto rigore dedursi una somma di circa 100, 000 ducati, erogata per spesa affatto estranea all'esercito, la quale, per la condizione eccezionale del paese, ove fu combattuta la guerra, fu messa a carico dell'Intendenza. Sicché in complesso si può asserire che la guerra di emancipazione per la Sicilia, ed il Continente non costasse più di 20 milioni di lire.

Garibaldi lasciava il più ardente desiderio di se: egli erasi elevato ad un grado di adorazione nelle provincie meridionali. Nel l'amministrazione egli aveva proceduto franco, e con tutta la foga di quella innovazione, e di scrollamento del passato, che da popoli oppressi, e compresi da odio profondo verso il distrutto governo ardentemente si desidera.

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Pegni rilasciati gratuitamente vantaggio della misera gente, sei milioni di ducati destinati a distribuzione fra i daneggiati politici, i monisteri soppressi, i beni ecclesiastici, quelli delle mense vescovili incorporati allo Stato, il lotto abolito, ed istituite in vece delle casse di risparmio, nuove leggi sulla pubblica istruzione, e sull'organamento delle Università, Asili infantili decretati, compensi e pensioni a tutti i martiri della libertà, tutti i vecchi satelliti della tirannide destituiti dai loro impieghiFuron questi gli atti del Governo Dittatoriale, che, soddisfacendo alla pubblica coscienza, aprivano il cuore degli Italiani alle più liete speranze. E dopo che il Governo Luogotenenziale succeduto al primo, si arrestò nell'opera della rigenerazione, ed annunziò fusione di elementi, e conciliazione di partiti, allora la memoria di Garibaldi divenne sempreppiù cara, e s'ebbe merito maggiore l'opera sua.

È d'uopo volgere il nostro sguardo verso Gaeta, a cotesta piazza formidabile, che forte delle sue basti te, della sua cittadella, e del castello fattovi erigere da Alfonso d'Aragona, il quale seppe resistere a Consalvo dopo la vittoria del Garigliano, non che, quantunque meno onoratamente, a Taltenboch ed a Tshudi, va compresa fra le più difficili ad espugnarsi di quante si abbia l'Europa. La batteria della Trinità ha cinque ordini di cannoni quella della Regina 60 obici da 60, che la difendono. Ed onde possiate farvi una idea delle sue opere di difesa, eccovi l'enumerazione de' suoi bastioni, e delle sue batterie. Oltre i due che abbiamo accennato, vi sono i bastioni Philipstadt, Breccia, S. Andrea, Cappelletti, Cittadella. Vi sono le batterie di S. Antonio, Annunziata a due ordini di fuoco, Favorita, Ferdinando, S. Giuseppe, S. ' Maria, del Porto, Guastaferro, Torrion francese, Trabacco, Carolina, Duca di Calabria, del Fico, di Conca, e Falsa bracca. Vi sono quelle del trinceramento di porta di Terra, dei la Controguardia della Cittadella, ed altre della Gran Guardia, e quelle della Poterna. Da questa enumerazione sarà facile lo immaginare il numero dei cannoni, degli obici e dei mortai, che guarniscono quelle bastite. Rinserrata ad un attacco dalla parte di terra, (come avvenne a Massena nel 1860, ché gl'Inglesi d'allora, come i francesi d'oggi, impedivano di assalirla per mare)

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l'armata italiana si trova a fronte di tali difficoltà, che solo sul luogo si possono apprezzare. In sostanza Gaeta è da reputarsi una seconda Gibilterra. Sebbene sia insignificante come piazza militare, perché separata dal continente, e non dà, né chiude l'accesso ad alcuna strada rilevante, come piazza forteGaeta è importantissima. Ogni sovrano, da Carlo in poi, ha voluto aggiungere opere alla fortezza, donde derivò che ogni punto può esser validamente difeso. Negli assedi memorabili del 1707, del 1734, del 1806, 1815 e 1821, essa ha sempre opposto la più salda resistenza. Ferdinando II ne ha posteriormente fortificati i siti giudicati più facili alle offese, e l'ha resa veramente formidabile. - Dal lato di terra Gaeta presenta una stretta fronte di attacco con tre ordini di batterie, innanzi alle quali si stende una spianata di arena. I monti che le stanno di dietro, e dai quali la si potrebbe dominare, sono scogli erti e dirupati: e d'uopo scavarvi fatigosamente la strada onde poter trascinare su quelle alture le artiglierie di assedio, e recare in oltre da luoghi molto lontani la terra per far le trincee. Finalmente Gaeta è armata con settecento pezzi di artiglieria.

In questa fortezza trovasi rinchiuso Francesco II, donde pratica gli estremi disperati sforzi per salvare il suo trono, che ormai tutti, amici, e nemici suoi, reputano irremissibilmente perduto. Egli ha seco trenta mila uomini, ma perché gli avanzano alla difesa della piazza, né ha di che nutrirli, parte, non più che sette mila, ne rinserra seco, ed a sua difesa nella fortezza, parte ne spedisce in Terracina in difesa del Papa, de' quali battaglioni interi, anziché recarsi colà in balla dell'evento, preferiscono miglior destino, quello di presentarsi ai Generali Piemontesi che comandano intorno alla fortezza, parte man man caccia fuori del forte a pretesto di sortita, e poscia chiude loro dietro le porte per non più riaprirle, e, si buttassero in mare, risponde alle insistenze. Dentro par che la polvere, e le palle abbondino, anzi vi sorgano. - Da sei giorni, si scriveva da colà in data del 16 novembre, il fuoco della piazza assediata è divenuto più frequente, e l'eco delle circostanti convalli va ripetendo, quasi ad ogni ora del giorno e della notte il lungo rimbombo delle artiglierie borboniche. Ad onta di questo, direi quasi inutile, cannoneggiare, non avemmo finora a lamentare perdite di rilevanza.

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Qualche lavoratore, qualche bersagliere leggermente feriti, e nulla più. Non cosi dei poveri abitatori del Borgo, quattro de' quali furono uccisi allo scoppio d'una bomba nella giornata di sabbato. Quest'opera inutile di distruzione dimostra come Francesco II tenga a provarci, che il soprannome ereditario del padre non gli fu ingiustamente applicato. Distruggere una borgata, nella quale non son postate che poche centinaia di bersaglieri, costringere l'intera popolazione di pescatori a riparare nei vicini monti, rovinare case disabitate, la è opera propriamente degna del successore di Ferdinando II.

Non è lieve ben vero lo sgomento. Il timore cresce ogni giorno più: Francesco II, il Conte di Trapani, ed i Conti di Trani, e di Caserta ormai non osano oltrepassare i bastioni. Gli uffiziali son disperati per aver abbracciato una causa perduta. I soldati più non ubbidiscono, e si ammutinano ad ogni momento. Il disordine regna dappertutto. Le Principesse, e la giovane Regina son desolate, e non si odono che lamenti, e doglianze da tutte le parti. I soldati, sconfortati nella loro situazione, abbassano le armi, e si è costretti a mandarli fuori: non v'ha alcun mezzo per ottenere dei viveri. I Generali Salzano, Barbalunga, Colonna, e Polizzy danno le loro dimissioni; ed il Colonna aggiunge, che se non si accetta la sua, egli passerà dalla parte dei Piemontesi con le sue truppe.

Son tali però le orgogliose velleità del Borbone, i deliri rimasti in lui dopo la perdita del potere, da conferire alla situazione il suo lato ridicolo, per quanto l'ha desolante. - Un Ministero è. formato a Gaeta: Carbonelli, Ulloa, Casella, Canofari, del Re ne sono i componenti. Un giornale ufficiale vi si pubblica, ove si emanano ordini, si fanno decreti, e circolari all'estero (3), e per fino si decreta un prestito di cinque milioni di ducati (4). Le suppliche degl'illusi affluiscono verso la Maestà decaduta e con esse si accordano grazie, ed impieghi per meriti nefandi (5) Di quante iniquità poi fosse ricolmo il governo di Francesco II sulle contrade non ancora occupate dalle truppe italiane, e sventuratamente ancora al suo dominio soggette, noi narreremo inorriditi e dolenti.

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Francesco II di Borbone, dopo di essere stato scacciato dal trono e da quasi tutto ilsi ridusse in Gaeta, infestando con gli avanzi del suo esercito quel breve tratto delle provincie napoletane, che è fra la fortezza di Capua e di Gaeta, e poche altre contrade vicine. Ivi creò una specie di governo, ed è giustizia che la storia registri i nomi de' sudi ministri che spogliarono quel principe dell'unico conforto che può rimanere a chi perde un trono, ossia dell'onore e della dignità nell'estremo pericolo. Sono questi ministri, Pietro Ulloa, per l'interno, polizia, grazia e giustizia; il tenente generale Francesco Casella, per la guerra; il retroammiraglio Leopoldo del Re, per la marina; Giuseppe Canofari, per gli esteri, e B. Carbonelli, per le finanze. Questi sciagurati abbassarono il loro principe sino alla complicità dei più vili assassini, e rinnovarono di questi giorni quegli errori e quelle scelleratezze politiche che non si rinvengono che nella storia di questa stessa dinastia al finir dell'altro secolo.

Vano sarebbe il ricordare come facessero man bassa su tutte le case d'instituzione privata dei comuni, di Beneficenza, dei Monti di pegni e delle Chiese, quali enormi balzelli levassero, come facessero la guerra; ma ben mette il pregio di ricercare qual governo abbiano fatto delle infelici popolazioni restate a loro soggette, o che temporaneamente sono state invase dalle loro truppe. Messa in istato di assedio tutta la contrada, e distrutta qualsiasi guarentigia di libertà, il sciolse tutte le Guardie nazionali e disarmò tutti gli onesti cittadini, ed in vece armò, in gran parte anche assoldando, la più bassa e corrotta plebe; promettendo impunità, favori e premi per qualunque delitto si commettesse per sostenere la causa del re.

Comandanti militari investiti di poteri illimitati, gran numero di gendarmi, massime travestiti, e moltissimi uomini di perduta morale forniti di, rilasciati dal ministro Ulloa, che autorizzavano a commettere qualsiasi atto, sono stati gl'istrumenti principali, con cui, e apertamente e segretamente, si sono attuate queste pessime arti di governo; i risultamenti delle quali sono stati lo sfrenamento delle basse plebi contro tutti gli onesti uomini e contro le loro proprietà, e quindi i saccheggi, gl'incendi ed i più nefandi eccidi per ogni dove, ed il rendere anche più abborrito il nome di una dinastia che tante sventure ha cagionato a queste Provincie italiane.

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Né a ciò contento, quel governo arruolava, sotto il nome di battaglioni volontari, i condannati per omicidi e furti, traendoli dalle galere, prigioni ed isole, in cui erano rinchiusi e rilegati, e questi battaglioni, per }e infinite ruberie che van commettendo, son comunemente designati col nome diE per meglio eccitare la plebe alla rapina ed agli eccidi, gl'incitatori e capi della reazione davano, a chiunque volea con lor parteggerò, un piccolo pezzo di carta, affermando esser quelle , che il re Francesco inviava loro da Gaeta, e che chiunque avea di quelle carte per otto mesi da ogni specie di delitto francheggiato fosse.

In Isernia, radunatosi un gran numero di contadini e non pochi gendarmi travestiti, ad un'ora data, misero a scaco tutte le case dei signori, incendiarono il palazzo del Jadopi, già deputato al Parlamento napoletano nel 1848, e trucidarono e fecero a brani, dopo avergli strappato gli occhi ancor vivo, un figliuolo di esso Jadopi di circa 22 anni, un ricco ed onesto gentiluomo, Cosmo de Bagis, e molti altri. Il giudice di Isernia campò la vita, perché restò tramortito, e fu creduto morto per cinque gravissime ferite ricevute alla testa. Da un processo istituito in Isernia a questi giorni fu raccolto che fra gli autori di queste atrocità erano stati non pochi contadini, i quali con petizione s'indirizzano a Francesco II, perché loro somministri nuove armi, munizione e grano. Nella qual petizione, fra le altre cose, que' contadini ricordano aver recentemente arrestato un giudice, un sacerdote e vari altri, che tenevano nelle prigioni di Isernia e di Forlì. Ed il Re di sua mano scrivea sopra quella supplica. -

È pubblica voce per tutte queste contrade, che acquista credito dalla passata storia della dinastia, e da tutti gli ordini emanati da Gaeta, per portar i reazionari le mozze teste de' liberali a Gaeta, ed esservi in quella reggia chi le paghi alla ragione di ducati 50 (fr. 220). Ma il certo si è che come questi manigoldi, che coi saccheggi, cogl'incendi e colle stragi han desolate queste contrade, son sopraffatti, si rifugiano in Gaeta, e che moltissimi onesti cittadini, presi da questa plebaglia reazionaria, sono stati da loro condotti a Gaeta, ove sono tuttora imprigionati.

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Non si può più comprendere come l'Europa incivilita abbia potuto tollerare sino a questi giorni simili atti di stupida ed inumana barbarie.

Una flotta francese è nelle acque di Gaeta, e d'appresso alla fortezza, comandata dall'ammiraglio Barbier de Tinan. Questa flotta impedisce ai legni italiani di agire liberamente, protegge delle barche, che, cariche di viveri, s'immettono nel porto di Gaeta mette condizioni al bombardamento dalla parte di mare, neutralizza gli effetti del blocco, quantunque formalmente notificato il 20 gennaio 1861. Né ciò basta. Alla inqualificabile condotta dell'Ammiraglio si aggiunge quella non meno incomprensibile del Generale Govon. A rimuovere ogni timore che le operazioni di assedio contro Gaeta potessero venir turbate, distrutte dalla reazione, e per guardare la frontiera del vicino stato pontificio, il Generale Cialdini veniva nella determinazione di fare occupare Terracina. Epperò l'ordine veniva dato a de Sonnaz di marciare a quella volta con due sezioni di artiglieria, tre battaglioni di fanti, ed un reggimento di lancieri. Giunto il de Sonnaz a Terracina, arriva messo di Govon, che a nome di lui gl'intima o di ripassare la frontiera, o deporre le armi. L'intimazione era precisa, ogni spiegazione ricusata, domandata l'esecuzione immediata dell'ordine. Sventuratamente ella è antica legge che alla forza conviene pur cedere, ed al de Sonnaz convenne piegare. Incominciano fin da ora le incoerenze della politica francese, che dovevano poscia cotanto agitare l'Italia, Ed a ciò alludevano le parole del Generale Menabrea, che, nel fervore del bombardamento, ed esaltato dai felici risultamenti di esso, esclamava «che la flotta francese rimanga pure dov'è, noi sapremo mostrare ai protettori di Francesco Borbone che Gaeta si può prendere anche senza il concorso della Marineria».

Con mirabile arte, ed in breve tempo, non ostante i rigori della stagione, le operazioni di assedio, e l'esterne fortificazioni furon compiute, ed il bombardamento cominciava, quando, con la mediazione del governo francese, Re ottenne un armistizio. Tutte le Potenze allora fecero valere i loro buoni uffici presso lo sciagurato sovrano, onde spontaneo si fosse indotto ad abbandonare l'ultimo rifugio, nel quale ogni resistenza credevano,

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e dimostravano inutile; avesse ceduto, insistevano, senza ulteriore e vano spargimento di sangue, avesse eletto a beneplacito un luogo qualunque di sua residenza ove potesse securo attender gli eventi, disponesse di loro, e. dei loro navigli. Fu vano ogni consiglio. Francesco II si mostrò determinato alla più ostinata resistenza. Allora il bombardamento fu ripreso, e la piazza reggeva, e v'era chi sosteneva, non bombardata da mare, poter resistere ancor lungo tempo la piazza, bisognava attendere le provigioni finissero, e prenderla per fame, ma ciò non essere facile, né opera da breve periodo, perché di tanto in tanto, tra furtivo e palese, con la protezione della bandiera francese riceveva delle provigioni la piazza, e senti vasi infatti ora in un luogo, ora in un altro catturata una barca, or di farina carica, or di vini, or di formaggi, ed appariva chiaro, e spesso rivelavasi netto, da chi la conduceva, a Gaeta esser diretta. Non eran al certo ben confortati gli spiriti, chè ognun rammentava nella tal epoca aver resistito nove mesi la piazza, nella tal altra sei e cose simili, e reputava ognuno convinto l'opera difficilissima, senza bombardamento dal mare, e senza blocco rigoroso, quando, sia caso, sia malizia, sia naturale effetto del bombardamento, scoppia una polveriera nello interno della fortezza, il suolo tutto copre di rovine, come gli uomini di spavento, ed apre una larga breccia alle truppe assedianti. Atterrito il Borbone domanda tregua: si accorda con obbligo di non ricostruire il distrutto; non tiene il patto, e ricostruisce di notte: dalla violazione la ripresa delle ostilità, ma queste, nella prostrazione in cui erano gli spiriti, e nel facile accesso alla piazza, non potevano esser lunghe, e noi furono, ché parlamentarii ben tosto si spedirono, ed una capitolazione fu proposta. Fu accettata, e sottoscritta in 23 articoli, e del Borbone non rimase che un'esecrata memoria.

All'alba del giorno 14 febbraio 1861 Francesco II s'imbarcava sul naviglio francese la per alla volta di Civitavecchia a Roma. Era l'orgoglio umiliato, il dispotismo impotente. Preso tenero comiato da tutti, stretti al cuore i più affettuosi de' suoi uffiziali, accompagnato dai suoi Ministri, e da pochi nobili, fra i quali il Principe Ruffiano, il Duca di S. Cesario, il Conte di Capaccio, cav. Ulloa, Monsignor Gallo, Generali Ruitz, Bosco, Schumacher, Pasqua, Tenente Colonnello Besio, Maggiore Winspeare,

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lo spodestato Sovrano lasciava quella terra che lo aveva temuto, amato non mai, ed annunziava a tutti il suo ritorno fra un anno. Cialdini spediva immediatamente il battaglione dei bersaglieri a prender possesso della piazza. Lo sfilare della guarnigione, composta di undici mila uomini, cominciava il giorno 15, e veniva annunziata da una scarica di cannoni dalla flotta, e dalle batterie di terra. Cialdini marciava alla testa della brigata Regina, che precedeva i prigionieri. Levavasi da essi un puzzo cadaverico, disgustevole per l'esalazioni putride, di cui i loro abiti erano saturati. L'aspetto della città era orribile: tutto ruina dalla parte di terra, e le macerie che ingombrano le vie erano sparse di schegge di bombe, e pezzi di mitraglia con grandissima profusione. Non si poteva reggere al fetore ch'esalava dalle ruine. Alcune compagnie di pionieri furono occupate a disotterrare i cadaveri. Il palazzo reale era tutto sfondato, la bellissima chiesa di S. Francesco di Paola vedeasi colpita da sette bombe; la miseria era immensa, i più ricchi proprietari non avevano di che vivere. Le bestie eran carcami, e scheletri, con crini, e code scambievolmente rose per fame, Sulla spianata di Montesecco, sfilando innanzi alla brigata Regina, la guarnigione deponeva le armi al cospetto del Generale Casanova, lurida, cenciosa, ma non isbaldanzita. - I cannoni trovati nella fortezza furono 700, 50 in 60 mila i fucili. I nostri tirarono 55 mila colpi di cannone, e consumarono 90 mila quintali di polvere, cioè un terzo della munizione apparecchiata per l'assedio. Nella fortezza erano 28 Generali, de' quali tre seguirono il loro Sovrano, e venticinque furono fatti prigionieri. I borbonici tirarono 70 mila colpi.

Dove sono Italiani che combattono non mancano degli atti eroici, e l'assedio di Gaeta ricorda anch'esso i suoi. La Pirofregata, comandata dal prode cavaliere Galli della Mantica, era a Mola di Gaeta, traendo su quelle fortificazioni; in quel mentre cade una bomba a bordo, fa tre sbalzi sulla tolda, rotola poscia in vario senso, e si arresta a poca distanza dal comandante. Il momento era terribile, la vita del valoroso comandante, non che di molti altri uffiziali e marinai era minacciata.

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Ma ecco che un giovane marinaio si stacca dal pezzo che serviva, e, ratto come un fulmine, abbraccia, il proiettile, sputa per isprezzo sull'accesoe maledicendo a Re Bomba II, lo slancia in mare, e ritorna, al suo posto. L'austero cavaliere Mantica, cosi parco di lodi con tutti, poiché ha per massima che un militare che combatte bene non fa che il suo dovere, non poté a meno di ammirare la prontezza di spirito, ed il sangue freddo del giovine marinaio, a cui battendo con la mano sulla spalla, ebbe a dirgli «bravo, hai fatto una nella azione, ti farò dare la medaglia». - Quel bravo giovane col suo valore se n'era già guadagnata un'altra ad Ancona.

Sulla medesima pirofregata un macchinista si lacerava una mano fra gl'ingranaggi della macchina; sale in coperta con le dita pendenti in cerca del chirurgo, il quale, veduta la impossibilità di salvare quella mano orrendemente stritolata, gli annunzia doversi amputare. , risponde del suo dialetto il paziente, s'E cosi dicendo, si fa dare un sigaro acceso da un suo camerata, e posando la mano sulla culatta di un cannone, subisce l'amputazione senza profferire un ahi, solo mordendo a quando a quando il sigaro che aveva fra denti.

Francesco II chiude l'ultima scena del suo breve dramma di Re con circolari alla diplomazia europea, con proteste presso le Potenze straniere, con proclami agli Abruzzesi (a), con solenni promesse ai Siciliani.

(a) «Abbruzzesi,

«Mentre lo straniero minacciava di distruggere le fondamenta della nostra patria, mentre ei nulla risparmiava per annichilire la prosperità del nostro bel reame e farci suoi schiavi, voi mi deste prove della vostra fedeltà. In grazia della vostra severa e nobile condotta, voi avete scoraggiato il nemico comune, e rallentato il procedere rapido della rivoluzione che aprivasi una strada per mezzo della calunnia, del tradimento e di ogni genere di seduzione.

«No, in non l'ho dimenticato!

«Leali Abruzzesi, ritornate ciò che foste; che la fedeltà, l'amore del vostro suolo, l'avvenire dei vostri figli armino ancora il vostro braccio. Noi non possiamo per un sol momento lasciarci prendere dalle insidiose perfidie di un partito che vuole rapirci ogni cosa. Noi non ci sottomettiamo

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Atti tutti, che, strano innesto di orgoglio o di impotenza, da un canto, non possono risultar che ridicoli, e che, dall'altro, tendendo a giustificare fatti ingiustificabili, non possono altrimenti giudicarsi dai posteri, come dai contemporanei, che come atti calunniosi ed iniqui; É l'impotenza che si dibatte nella tardiva emenda d'una potenza abusata, e convertita in tirannide.

Nell'epoca in cui Francesco II lasciava Gaeta, si faceva la seguente statistica borbonica. Dei 74 discendenti di Luigi XIV 55 sono in esilio, ossia dei Borboni di Napoli re Francesco, cinque fratelli, e quattro sorelle; gli zii di essa maestà, principe di Capua, e due figli, conte di Aquila, e due figli, conte di Trapani, e cinque figli; la prozia di detto Francesco, ossia la già regina Maria Amalia, vedova di Luigi Filippo; la duchessa di Berry; la duchessa di Salerno;e da ultimo una cugina germana, la duchessa di Aumale: totale ventisei. - Dei Borboni di Spagna, ossia, l'infante Don Giovanni, e due figli: totale tre. - Dei Borboni di Francia, cioè il conte di Chambord, la duchessa di Parma, ed i suoi quattro figli: in tutto sei. -Dei Borboni di Francia della branca orleanese, vale a dire il conte di Parigi; il duca di Chartres; il duca di Nemours co' suoi quattro figli, il principe di Joinville, e due figli; il duca di Aumale e due figli; il duca di Montpensier con sei figli; totale venti. - Diciannove Borboni non sono in esilio; cioè: quelli della famiglia reale di Spagna, in tutto sedici; l'Imperatrice del Brasile (nata principessa di Napoli), la duchessa Augusta di Sassonia-Coburgo-Gota (nata principessa Orleans), ed il duca Carlo III di Parma, infante di Spagna, il quale abdicò.

Al Governo Dittatoriale successe il Luogotenenziale, e quali ne fossero i concetti governativi, quale l'indirizzo amministrativo, quali le burocratiche innovazioni, quali le leggi principali, fino a qual punto distruggesse o conservasse il vecchio edifizio, come e fino a qual punto l'autonomia delle nostre provincie mantenesse, è appunto ciò

alla sua volontà, rivendichiamo piuttosto la libertà delle nostre leggi, del nostri usi, della nostra religione.

«I miei voti vi accompagneranno sempre dovunque. Il cielo benedirà le vostre azioni.

«

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che noi ora ci faremo a narrare; e quanta maggiore importanza vadano ora acquistando i nostri racconti non v'ha chi non vegga.

In data dell'8 novembre 1860 veniva istituito un Consiglio di Luogotenenza, composto di Consiglieri incaricati di uno o più Dicasteri. Vi erano inoltre non più di tre Consiglieri di Luogotenenza, senza incarico di Dicastero. Il Consiglio aveva un Segretario col titolo di Segretario del Consiglio di Luogotenenza. L'ordinamento organico dei Dicasteri fu mantenuto in conformità delle leggi preesistenti, salvo le modificazioni che potevano occorrervi. Il Luogotenente Generale convocava, e presiedeva il Consiglio di Luogotenenza. - Furono nominati Consiglieri di Luogotenenza ed incaricati dei Dicasteri i seguenti signori, cioè: del Dicastero dell'Interno e Polizia Ventimiglia Gaetano; di quello di grazia e giustizia, ed Affari Ecclesiastici Pisanelli Giuseppe; dell'altro delle Finanze Scialoja Antonio; del Dicastero della Istruzione pubblica Piria Raffaele; e dei Lavori Pubblici d'Afflitto Rodolfo, Marchese di Montefalcone; d'Agricoltura e Commercio Devincenzi Giuseppe. - Furono poi nominati Consiglieri di Luogotenenza senza incarico di Dicastero i signori Mancini Pasquale Stanislao, Ferrigni Giuseppe, Caracciolo Camillo, Marchese di Bella. - Segretario del Consiglio di Luogotenenza fu Bonghi Ruggiero. - Ai Consiglieri di Luogotenenza venne assegnatala mensuale indennità di ducati quattrocento: al Segretario del Consiglio di Luogotenenza quella di ducati dugento. - Il paese per tanti anni oppresso aveva bisogno di tutto, e quindi l'esigenze eran moltiplici, incalzanti, cui non potendo sempre soddisfare gli assediati Consiglieri, e spesso non volendo per alimentare certe speciali predilezioni, andavano incontro alle più aspre censure, alla più violenta opposizione della stampa periodica, e qualche volta per fino alla minaccia, ed alla violenza, onde eran costretti a dimettersi per dar luogo ad altri, cui avveniva lo stesso, di tal che il governo Luogotenenziale fu un continuo alternar di Consiglieri; ed i nomi di de Sanctis ed Imbriani si succedettero nella Pubblica Istruzione, quelli di Avossa e Pironti nel Dicastero di Giustizia, quelli di Romano e Spaventa nella Polizia, di Laterza e Sacchi nelle Finanze; e cosi sempre al tornando, senza però mai uscire dagli uomini dell'emigrazione, che fin da quel tempo cominciarono a distinguersi col nome di

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Il primo nostro Luogotenente fu Farini, che venne con ottimi auspici, cui poscia in vero non corrisposero i fatti; di tal che fra le insinuazioni del Ministero centrale, e l'esigenze del paese imbarazzato di troppo, fu costretto dimettersi, lasciato di se poco grato ricordo. Al Farini succedette il Principe di Carignano, luogotenente di diritto, di fatto non essendolo che il suo Segretario generale Commendatore Nigra, inabile bellimbusto: forse abile diplomatico, come lo si disse, ma incapacissimo amministratore. Al Carignano fu sostituito Ponza di S. Martino, conservatore fino alla nausea, che non conobbe il paese, ed agi sempre a ritroso di esso, e delle sue tendenze. Venne poscia il Generale Cialdini, con cui si abolì la Luogotenenza. Egli si atteggiò a democratico, perché vide la necessità di rinfrancare il paese, blandendone l'elemento liberale; e per tal suo divisamento fu accetto, quantunque in amministrazione nulla avesse operato meglio, o più che gli altri,

Il Luogotenente Farini esordisce la sua amministrazione con una relazione al Re che fu avidamente letta per quanto veniva ansiosamente attesa. Egli prometteva conservar le autonomie, dar lavoro con grandi opere pubbliche, migliorare le condizioni della pubblica istruzione, istituire opere di beneficenza (6); e tutto questo piacque, e ciascun s'impromise bene da lui. Ma quando egli parlò di concordia, di conciliazione, di fusione di tutti i differenti elementi, allora esistenti in questa nostra sconvolta, e corrotta società, allora ognuno cominciò a temere che il putrido dei vecchio governo sarebbe, almeno in gran parte, rimasto nel nuovo, che bisognava transigere con la corruzione, e tutto questo non faceva al certo molto ben presentire dell'avvenire.

I Consiglieri di Luogotenenza sfoggiavano zelo e dottrina, e ciascuno alla sua volta sciorinava la sua relazione al Luogotenente, in cui proponeva quanto potea concepire di meglio in fatto di riforme amministrative e finanziarie, per nulla pensando che l'opera dell'unificazione doveva ben tosto distruggere tutto l'edifizio ch'essi andavano innalzando.

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Scialoja propone una riforma in fatto di Dazi di Consumo (a), di cui sentirai pienamente il bisogno nelle provincie napoletane. Altra riforma propose per l'amministrazione del Banco (b);

(a) Al cessare dell'antico governo il dazio di consumo in Napoli si trovava in condizioni gravosissime. Su generi di prima necessità, come grano, granone, fave, ceci, pane, semola, riso, gravitava tale un dazio da rendere per 680 mila ducali annui; cioè più di quindici carlini a testa. otto ducati per ogni famiglia, computandola in medio a cinque individui. Ed è da notare, che tale dazio rendevasi assai più grave pel proletariato che per la gente agiata, poiché quello consuma maggior quantità di farinacei che questa. Ma questa verità, si chiara nel tempo della Luogotenente, divenne di niun conto dopo la totale unificazione; per modo che i dazii i consumo con nuove tariffe divennero assai più gravi di quel che non furon mai in questa città.

(b)-La Direzione l'Amministrazione centrale del Banco, secondo che da' Regolamenti esistenti trovasi stabilito, sono confidate a un Consiglio di Amministrazione, composto da' presidenti e vicepresidenti del Banco, e da un Censore incaricato d'invigilare all'osservanza de' regolamenti e agli interessi del banco e de' terzi, nelle materie sottomesse alla deliberazione del Consiglio.

Al Consiglio di amministrazione presiederà uno de' presidenti del banco colla qualità e col titolo di presidente del Consiglio di amministrazione. Ed egli assonnerà pure le funzioni, ed eserciterà le attribuzioni stabilite dai regolamenti esistenti per la carica di reggente che rimane soppressa.

Le funzioni del presidente del Consiglio di amministrazione avranno la durata di un solo anno.

11 presidente che ne è rivestito godrà, durante l'esercizio delle medesime, il doppio dell'onorario annesso alla sua carica.

In ogni anno il presidente, che deve esercitare le funzioni di presidente del Consiglio di amministrazione, sarà scelto fra tre presidenti per libero suffragio nel seno del Consiglio di amministrazione, del quale faranno parte, in questa sola occasione, anche i governatori ordinari dei banco.

Nel caso che sia confermato il presidente che le abbia esercitate nell'anno precedente. la conferma dovrà necessariamente esser approvata dal dicastero delle finanze, il quale potrà ordinare che si proceda a novella elezione.

Non vi potrà essere conferma che per una sola volta.

Il Consiglio di amministrazione, nel modo detto nell'articolo precedente, ai riunirà il quindici dicembre prossimo per procedere alla elezione del presidente, che dovrà assumere pel primo anno le funzioni di presidente del Consiglio di amministrazione.

Il censore sarà nominalo del Governo con apposito decreto.

Egli riceverà un onorario di annui ducati ducentoquaranta, se è un funzionario o impiegato di altra amministrazione, e di annui ducati seicento, se non ha altro pubblico uffizio.

L'intervento del censore è richiesto in tutte le riunioni del Consiglio di amministrazione.

Il suo volo sarà solamente consultivo. Dovrà essere però espressamente registrato nel processo verbale. Sarà egli presente nel tempo della votazione e deliberazione del Consiglio.

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provocò l'autorizzazione di un prestito a vantaggio dei Comuni di venticinque milioni di lire estinguibile per via di annualità, e con la garenzia del governo; e finalmente immaginé la ristrizione della burocrazia, che costituiva, come forma ancora oggidì, una delle più dolorose piaghe del nostro paese.

Non meno ampie furono le riforme portate dal Pisanelli nel ramo di Grazia e Giustizia. Vi fu una vastissima riforma nel personale della magistratura, fu abolito il censo nell'alunnato di giurisprudenza, fu assegnato un soldo ai Cancellieri ed altri impiegati nelle Cancellerie dei tribunali, fu promulgata nelle nostre la legge sulla stampa in vigore nel Piemonte, e simili altre disposizioni, che fecero in certo modo sentire la nuova vita a queste nostre provincie.

Devincenzi nel Dicastero di Agricoltura e Commercio, e Lavori Pubblici non si mostra meno operoso. Raccomanda alacremente a tutti i governatori la costruzione delle strade provinciali, e mette a loro disposizione 200, 000 ducati (c);

Il censore potrà corrispondere anche direttamente col dicastero delle finanze per gli affari relativi all'andamento generale dell'amministrazione e del servizio.

Il Consiglio d'amministrazione si riunirà ordinariamente in ogni settimana. Il presidente del Consiglio di amministrazione potrà convocarlo straordinariamente, semprechè il bisogno lo ricbiegga.

Rimangono in vigore le prescrizioni delle leggi e de' regolamenti esistenti in tutto ciò che non si oppone al presente decreto.

(c) Quel che fece il Devincenzi sorge dalle seguenti circolari ai Governatori delle Provincie.

Chiamato a reggere un Dicastero, che tanto intimamente si connette colle fonti principali della ricchezza pubblica e privata e col benessere nazionale, è mio debito di venir cercando gli svariatissimi bisogni di queste provincie ed i mezzi come provvedervi. Or che abbiamo la ventura di esser rientrati nella gran famiglia italiana, e che siamo retti da un glorioso Principe, destinato dalla Provvidenza a ritornar l'Italia alla sua antica grandezza, noi dobbiam fare ogni opera per ravviare queste provincie a quella floridezza e prosperità, cui son destinate da natura. Ho rivolto le mie prime cure alle vie di comunicazione, perché la loro mancanza e il maggiore ostacolo che ora si oppone al progresso dell'Agricoltura, delle Industrie e del Commercio, ed alla prosperità civile in queste provincie. Strade ferrate, porti, strade ordinarie, tutto sventuratamente fra noi è da fare, e sollecitamente dobbiamo venirvi provvedendo.

Ma mentre stiam facendo ogni opera per animare la cooperazione dell'industria privata nelle granai intraprese delle strade ferrate e dei porti che dovranno ridonare novella vita a queste contrade, fa mestieri che ci rivolgiamo alacremente alle strade ordinarie, che immediatamente potranno portare per ogni dove la prosperità ed il benessere. Le condizioni in cui si ritrovano quasiché tutte queste provincie quanto alle vie di comunicazione sono deplorabilissime:

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né con minor fervore raccomanda costruzioni, ed ampliamenti dei Porti, dovunque i Governatori stessi lo credano necessario (d). Fra tutto merita particolare attenzione la legge sulle Poste.

vi ba delle estensioni immense di territorio senza strade; vi ha fin delle città principali senza una via che vi meni. Evvi ancora alcuna provincia in questa parte meridionale d'Italia, ove sopra una superficie di circa 3,000 chilometri quadrati, e con una popolazione di 880, 000 anime, non si rinviene che 76 chilometri di strade, cioè che vi ha un chilometro di strada per ogni 39 chilometri quadrati di territorio e per ogni 4210 abitanti, quando vi sono altre provincie in altra

Sarte d'Italia ove vi ha un chilometro di strada per ogni chilometro qua rato di territorio e per ogni 100 abitanti. Queste cifre son pur troppo desolanti, ma tanto più e' impongono il dovere di provvedere per ogni modo a queste stringenti necessità per cui sempre urgentemente, ma vanamente, sono stati reclamati provvedimenti da queste popolazioni. Richiamo dunque, signor Governatore, tutta la sua cooperazione su questo ramo principalissimo di pubblico servizio Ho già disposto che franchi 800, 000 (ducati 800, 000) siano per ora immediatamente spesi dal Tesoro dello stato non solo per le strade regie, ma ancora per le strade provinciali, affin di dare un aiuto alle provincie; Dovrà esser sua cura di metter mano immantinenti ai lavori, e se mai vi fossero dei fondi provinciali addetti alle opere pubbliche non ancora spesi curerà che siano impiegati senza alcun ritardo. né così solo darem opera alle strade, ma verremo in soccorso delle classi bisognose coll'unico mezzo con cui vi si può efficacemente, ossia coll'accrescimento della dimanda del lavoro.

«E perché il governo possa venir provvedendo secondo la vera importanza della cosa, è necessario che Ella. signor Governatore, mi mandi quanto più presto può, tutte le notizie che in le chiedo cogli annessi stati intorno alle strade, sia compiute, sia in costruzione, sia in progetto. Inoltre, Ella, signor Governatore, dovrebbe unitamente alla deputazione provinciale, Tacendo tesoro degli avvisi degli uomini più intelligenti della provincia, e tenendo presenti i voti emessi dai passati Consigli provinciali ricercare e farmi conoscere quale sarebbe la miglior rete di strade di cui potesse esser ricoverta cotesta provincia, facendo che non vi sia alcuna contrada o centro di popolazione che abbia a difettare di strade, e provvedendo ad un tempo al commercio speciale dei Comuni e della Provincia ed agl'interessi generali dello Stato. Un sistema beninteso di strade è la principale sorgente della prosperità di un paese, ed in reclamo non solo la sua attenzione, signor Governatore, e quella della Deputazione Provinciale, ma l'attenzione di tutti, e specialmente quella de Municipi e delle Società Economiche e de' più intelligenti cittadini su questo importantissimo argomento. In uno Stato libero è debito di ogni cittadino di concorrere secondo le proprie attitudini al bene della cosa pubblica, ed ognuno dev'essere persuaso che un governo veramente libero non è che il risultamene come della volontà, cosi della cooperazione dell'universale.

Sarà mia cura poi, avvalendomi de' consigli e dell'opera dei nostri eminenti ingegneri di Ponti e Strade, di ordinare tal rete stradale per tutto queste provincie, che ne possa derivare la nostra maggiore prosperità.

(d) Fra gli obbietti che hanno più vivamente richiamato la mia attenzione nel torre il carico di questo Dicastero, è stata la costruzione di ampli e sicuri porti, quali si domandano dalle nuove condizioni d'Italia. Dappoiché la loro importanza in queste provincie è cresciuta a dismisura

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Innovazioni a colluvie, nuove leggi, riforme d'ogni specie furono operate dal Ministero dell'interno e della polizia. Spaventa fu innanzi tutti i governanti di quel tempo operosissimo nello imprimere un nuovo marchio sulla faccia del paese. Le più vaste riforme furono operate nel personale burocratico, e quello della

dacchè siam passati a far parte di un grande Stato; di guisa che se prima poteva esser lode della pubblica amministrazione caldeggiare e promuovere queste opere sovra ogni altra grandiosissime, ora u trasandarle sarebbe gravissimo fatto, perché varrebbe nulla meno che sconoscere i nostri futuri destini o fattirne la meta. Chi può infatti pensare che cosa diverrà l'Italia quando unita, potente e forte avrà compiute le sue grandi vie di comunicazione e sarà dotata de' porli, alla cui costruzione natura rese così propizia la sterminata sua costa? Il commercio e la navigazione mai non trovarono un campo più vasto all'esercizio della loro benefica azione di porti e di strade.

Son certo di non aver bisogno di raccomandare alle sue speciali cure questa natura di opere, e confido che dovunque se ne trovino in corso nell'ambito di codesta provincia, faranno pel suo zelo ed operosità i maggiori progressi. Animo mio è di qui informarla che, per meglio studiare la grave e vitale quistione de' porti da costruire in preferenza, in ho voluto innanzi tratto circondarmi ai una Commessione composta de' più valorosi uomini dell'arte, e dal loro sapere ed esperienza non posso che attendere i migliori risultamenti. Ma perché questa Commessione possa essere in grado di fornire il suo còmpito con quella piena cognizione di causa che in tanto affare si conviene, fa mestieri che chiunque abbia in pregio e desideri il bene del paese le appresti dal suo canto tutti gli elementi e dirò quasi gli aiuti che sieno in suo potere. Con questo intendimento in mi rivolgo in prima a lei, Signor Governatore, perché voglia farmi intendere in pronta risposta quali sieno i porti progettati, in costruzione o già compiuti nella provincia da lei amministrata. Per ciascuno di essi si compiacerà riferirmi l'ultimo stato in cui si trova, i lavori finora eseguiti, la spesa erogata ed i fondi disponibili in cassa fino alla data della sua risposta. Mi trasmetterà in pari tempo tutti i progetti, stati estimativi, i disegni, le piante, le memorie delle rispettive commessioni ed ogni altro di simil fatta che si trovi per avventura presso di lei o dell'ingegnere direttore provinciale, corredando il tutto delle sagge osservazioni che avrà avuto l'agio di fare e della particolare opinione che avrà potuto formarsi di alcuna di quelle opere dacché ha assunto il governo di codesta provincia. Darà poi alla presente la maggior pubblicità ne' comuni della sua provincia. affinché tutte le persone intendenti, le quali abbiano zelo per fa cosa pubblica, possano in tanta opera prestare il concorso de' loro lumi e della loro esperienza, che in gradirò sempre ricevere per meglio indirizzare le mie determinazioni colla fida scorta della pubblica opinione.

La commissione ha cominciato a riunirsi in questo Dicastero fin dal 14 andante. Ond'ella ben vede quanta premura debba darsi per farle sollecitamente pervenire cosiffatti elementi che potranno servir di base alle sue gravi deliberazioni.

Napoli dicembre 1860.

Il Consigliere di Agricoltura, Commerciò e Lavori Pubblici.

evincenzi

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polizia fu del tutto cambiato, ed il paese gliene seppe il buon grado. Fu istituito unfu organata una cooperazione di pubblica sicurezza, ed una legge analoga venne promulgata (e). In quel tempo la Guardia Nazionale fu ampliata ed armata, meglio organati gli archivii, data migliore amministrazione ai fondi di beneficenza, conferita maggiore indipendenza ai Comuni, conceduto il diritto di riesportazione agl'importatori di grano, e depositatolo in pegno, autorizzata la cassa di sconto ad anticiparne il prezzo.

Nel Ministero degli Affari Ecclesiastici Ferrigni provocò un decreto che richiamava in pieno vigore l'articolo 21 del Concordato, obbligando i preti a fornire il sacro loro patrimonio in conformità di detto articolo, e vietando ch'essi potessero avvalersi di dispensa, in virtù della quale con soli 25 ducati di rendita potevano abbracciare lo stato sacerdotale, onde questo ne scadde, ed invili. Vacavan dei posti nel Ministero di sua dipendenza, e secondando la pubblica opinione, volte provvedervi per concorso, quantunque i prevalenti fossero stati poscia obbliati, e negletti.

(e) Questa legge sulla Pubblica Sicurezza, che ha data dell'8 gennaio 1861, e che si compone di 139 articoli, venne a soddisfare uno dei più sentiti bisogni del paese, e lo fece in guisa da sfuggire ad ogni censura. Essa è la legge dei popoli civili.

Secondo questa legge, l'amministrazione della Pubblica Sicurezza è affidata ai Prefetti, Sotto-Prefetti, Questori, Ispettori, Delegati, Segretarii, ed anche ai Sindaci.

I proponimenti cui mira sono l'osservanza delle leggi, il mantenimento dell'ordine pubblico, il prevenire i reati, il sovvenire ai pubblici e privati infortuni, il comporre pubblici e privati dissidi: il tutto senza veruna opposizione alle leggi vigenti. Leggi come questa non sono che il risultamelo e l'espressione della civiltà.

Per la Città di Napoli l'amministrazione della Pubblica Sicurezza è affidata al Questore in luogo del Prefetto. Nel comune ove non è Delegato agisce il Sindaco.

Dall'articolo 15 fino all'articolo 26 trovansi contenute le più sagge, e minute disposizioni, Ed han questo di proprio, è d'uopo dirlo, le leggi che ci vengono dal Piemonte, un'analisi minuta dei fatti, che tal fiata si spinge fino al pedantismo, una vasta comprensione di usi, che va per tino alla ridondanza. Ciò ben vero formolato in un linguaggio improprio, non tecnico, e spesso barbaro.

Con gli articoli 27 e seguenti sono istituiti per coloro che servono.

Con gli articoli 42 e seguenti si provvede a coloro ch'esercitano il commercio ambulante.

In seguito è provveduto ai venditori, ai distributori, agli affiggitori, ai viandanti, agli atti di passaggio, alle inumazioni. agli assembramenti, agli oziosi, ai vagabondi, a coloro che van questuando per la città, cui si vieta del tutto tal sistema di vivere. Ed a questa legge segue un Regolamento non men saggio della legge stessa. Non vi sarà dato scerner lacuna di sorta, né in questo né in quella.

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Si diè colpa al Ferrigni di aver richiamato in Napoli il Cardinale Riario Sforza, il quale erane partito spontaneo, onde non far atto di adesione al nuovo governo. E fu colpa non lieve, poiché il reduce Prelato venne a fomentar la reazione fra noi, di tal che fu d'uopo obbligarlo novellamente a partire.

Nel Ministero della Pubblica Istruzione una vasta riforma universitaria fu operata, nuove cattedre furono create, e nuove corporazioni di vigilanza istituite, nuovi professori nominati; un sistema d'istruzione popolare fu organato, alla istruzione secondaria fu provveduto, collegi, scuole magistrali, scuole tecniche, e veterinarie, scuole gratuite serali per gli adulti delle classi povere, ed asili infantili furono decretati (f).

(f) Una delle più gravi cure del nuovo Governo esser dovea quella di organare fra noi la pubblica Istruzione, cui fino a quel tempo aveva tenuto luogo l'abbrutimento; né ciò fu trasandato, e molte leggi all'uopo furono fatte, quantunque poscia, nello incalzare degli eventi e dei dissidi, negletta se ne fosse l'attuazione.

L organamento della Istruzione pubblica in Italia non si tenne in dietro a quello delle più culle nazioni di Europa; e per quanto si maledisse alla negligenza delle pratiche, altrettanto si fé plauso all'ampiezza, ed allo spirito informatore delle leggi. - Consiste in ciò.

L'istruzione d divisa in primaria e

La primaria è divisa in due gradi, inferiore e superiore.

L'inferiore comprende l'insegnamento religioso, la lettura, la scrittura, l'aritmetica elementare, il sistema metrico; e la lingua italiana. Il grado superiore comprende le regole della composizione, la calligrafia, la contabilità, la geografia elementare, l'esposizione di fatti più notevoli della storia nazionale, i doveri sociali, le prime nozioni di scienze naturali.

Il corso inferiore, ed il superiore si compiono ciascuno in due anni.

L'istruzione elementare è data gratuitamente in tutti i Comuni, ed in ogni comune ve ne dovrà essere almeno una pei fanciulli, ed un altra per le fanciulle.

Le scuole elementari di grado superiore maschile dovranno stabilirsi in tatti i Comuni, che hanno oltre abitanti.

A cominciare dall'età di 6 anni nessun fanciullo può mancare alla scuola, ed i genitori sono in obbligo di mandarveli, o provare provveder essi altrimenti alla istruzione di quelli.

L'istruzione secondaria classica è destinata ad aprir l'adito agli studi speciali, che menano al conseguimento dei gradi accademici. Essa è distinta in due gradi. Quella del 1. grado si compie nello spazio di cinque anni: quella del secondo nello spazio di tre.

Nel corso del primo grado s insegnano: Principi di letteratura, Lingua italiana, Lingua latina, Lingua greca, Aritmetica, Geometria, Geografia, Storia, Archeologia.

Nel corso del secondo s'insegnano: Filosofia, Algebra, Trigonometria, Fisica, Chimica, Letteratura, Storia, Geografia.

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Ma a tanto largheggiar di decreti poco corrisposero l'opere, e non s'ebbe mai a compiacersi gran fatto dello stato della pubblica istruzione nelle meridionali provincie. - Altra istruzione in quest'epoca decretata, e non eseguita fu quella delle Casse di risparmi (g).

Riforma più di tutte preziosa ed importante, più di tutte reclamata dalla civiltà dei tempi, e dalla libertà delle istituzioni, fra quante in quest'epoca ebber luogo fra noi, fu l'organamento amministrativo Provinciale, e Comunale (h).

Gl'istituti nei quali si danno gli studi di primo grado si dicono Ginnasi; quelli del secondo Licei. Ove entrambi i gradi sono uniti nel medesimo stabilimento si appellano Licei ginnasiali.

Oltre a ciò, furono istituite scuole gratuite serali per gli adulti, e scuole speciali per gli artigiani. Per le prime il Re largì un fondo di 200, 000 franchi, e di questi 80, 000 furono distinati alla fondazione di dodici asili infantili nei dodici quartieri della Città.

Deputati a vigilare sull'insegnamento primario e secondario furono istituiti gl'Ispettori degli Studi: uno generale, tre speciali, e tanti distrettuali quanti i distretti.

(g) L'istituzione della Gassa di risparmio in Napoli non fu mai più che un decreto. E non poteva essere altrimenti in un paese ove il lavoro manca, ove tutti gli stentali risparmi dell'operaio sono assorbiti dal lotto dove in fine lai cassa non poteva sorgere con un fondo maggiore di 800, 000 lire eh erano un'altra prelevazione delle 200, 000 largite dal Re con sua lettera del 14 novembre 1860.

L'essenziale di questa legge consiste nelle istituzioni di un Consiglio comunale, e di una Giunta municipale, ambe libere, non imposte e sol create dal libero soffragio dei cittadini: consiste nel rendere indipendente l'esecuzione del bilancio da qualsiasi autorità superiore: è la vera amministrazione di famiglia che sfugge ad ogni estranea ingerenza.

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Presso noi, già da lunga pezza, a similitudine della Francia imperiale, tutt'i poteri

A ciò sapientemente provvedeva il progetto Minghetti, di cui non possiamo dispensarci dal riportare qui alcuni brani.

«La riforma deve avere per fine di stabilire e consolidare l'unità politica, militare e finanziaria del Regno e discentrare al possibile l'amministrazione. I Commissari avranno sempre presente all'animo il primo di questi due intenti, siccome quello che è essenziale e supremo, eperò, dando nelle loro proposte alla iniziativa dei privati e delle minori aggregazioni civili tutta fa larghezza possibile, non dimenticheranno mai che le varietà locali, per quanto si fondino sulla tradizione, sulle abitudini e sui desiderii, non debbono affievolire, ma afforzare l'unità nazionale.

«Pertanto il discentramento amministrativo non potrà operarsi che intorno alle attribuzioni di quattro Ministeri, cioè. Interno. Istruzione pubblica, Lavori Pubblici: Agricoltura e Commercio. Dal primo può togliersi tutto quanto riguarda beneficenza, opere pie, igiene, sanità» teatri, caccia e pesca, monumenti pubblici; dal secondo, l'insegnamento medio ed il; tecnico, le università ed accademie di belle arti, dal terzo, le acque, strade e porti secondarli; dal quarto l'agricoltura, boschi e statistica.

Verrà giorno forse, in cui anche la pubblica sicurezza e le carceri di pena possano essere amministrate dalle Autorità locali, ma ora lo vietano le condizioni presenti d'Italia e la pubblica opinione.

Quanto alle modificazioni che di necessità verranno alle finanze, comecché rilevanti, non saranno che accessorie, e non debbono alterare il sistema dei tributi.

Il discentramento può farsi in due modi: o delegando ai rappresentanti del Governo nelle varie parli del Regno molte facoltà che sogliono essere proprie dei Ministri, owero spogliando il Governo di queste facoltà ed attribuendole ai cittadini.

La riforma che in propongo accetta entrambi questi modi. Mantenendo in generale la circoscrizione delle Provincie italiane quale si trova, non solo vorrei attribuiti ai Capi di esse o Prefetti più ampi poteri di quelli che abbiano al presente, ma vorrei assegnate eziandio alle Provincie stesse molte ed importanti prerogative che la Legge del 23 ottobre 1859 ha loro diniegato. Imperocché il principal carattere di quella Legge, per quanto riguarda la Provincia, si e di averla destinata alla tutela dei Comuni e delle Opere pie. anziché a provvedere di per sé medesima a quegli interessi mediani che né possono restringersi nella cerchia municipale né«estendersi a tutta la nazione. Obbietto della presente riforma sarebbe adunque di dare o restituire alla Provincia l'amministrazione di quegli affari che sono ad essa connaturali, permettendole di agire indipendentemente dall'Autorità governativa, salvo quella vigilanza suprema che lo Stato e s e re ila sopra ogni Corpo morale. É questo il punto capitale della proposta, oserei dire il solo che mi sembri essenziale.

«Ma ciò parmi non bastare ancora al fine che ci proponiamo per le ragioni seguenti.

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trovavansi riuniti nel centro dello Stato, ed alle elezioni era stato

«Appresso queste considerazioni generali, passo ad avvertenze particolari.

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«Commendando ed ecceltando la Legge comunale, credo però che debba in alcune parti accessorie chiarirsi e modificarsi. L'esperienza ha mostrato qualche menda da correggere e qualche lacuna da riempiere.

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Il Comune avrà la facoltà d imporra e per conseguenza di esigere le rendite seguenti:

1. Il dazio consumo murato;

2. Una tassa sulle vetture private destinate al trasporto delle persone,

3. Una tassa sul peso e sulla misura pubblica;

4. Una tassa per l'occupazione degli spazi e delle aree pubbliche ragguagliata all'estensione del luogo occupato ed all'importanza della posizione;

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sostituito un sistema di nomine fatte dal Governo, di tal che la vita politica dei Municipi era da reputarsi spenta del tutto.

5. Una tassa sai bestiame e sugli altri animali da tiro, da sella e da soma, e sui cani che non siano specialmente destinati alla custodia degli edifici rurali e delle gregge;

6. Una tassa personale che percuota tutti i non indigeni. Sebbene essa non sia da confondere colla tassa mobiliare, pure potrà dividersi in cinque classi.

«Se queste tasse potessero bastare alle spese comunali, sarebbe ottima cosa togliere intieramente ai Comuni la facoltà di aggiungere centesimi addizionali alle imposte dirette. Che se la Commissione stimerò necessario lasciare loro questa facoltà, e specialmente ai Comuni che non hanno dazio-consumo murato, attribuirà nondimeno al Consiglio provinciale il diritto ed il dovere di determinare massimo che la sovr'imposta comunale non possa eccedere.

«Siccome in dissi, la riforma provinciale è il punto capitale del disegno che il Governo di S. M. si propone di presentare al Parlamento. La circoscrizione delle Provincie nella più parte d'Italia risponde alle tradizioni storiche, ad un collegamento verace d'interessi, ad antiche e naturali ragioni di essere. Laonde, riservando, quelle modificazioni che uno studio ulteriore e speciale sarà per indicare, si può ritenere che la estensione della maggior parte delle Provincie d Italia non sarà sostanzialmente mutata.

«L'autorità governativa nelle Provincie è delegata al Prefetto.

«La Commissione studierà se sia conveniente il lasciare nei Circondari un centro amministrativo, o se possa bastarvi un ufficiale di pubblica sicurezza; nel primo caso avrà cura di semplificare l'Ufficio governativo di Circondario, e determinerà con maggior precisione le relazione fra i Delegali mandamentali, quelli di Circondario e quelli di Capoluogo di Provincia.

Il contenzioso amministrativo verrà deferito ai Tribunati ordinari. Per gli affari, d'imposte occorrerà studiare un sistema conveniente: qui accenno soltanto per modo di esempio all'aggregazione di assessori al tribunale quando esso debba giudicare simigliami materie.

«La commissione studierà se appresso questi mutamenti debbano conservarsi ancora i consigli di Prefettura, o con quali attribuzioni; ovvero se debba sopprimersi la distinzione degli impiegati di carriera superiore ed inferiore, e riunire nella Segreteria tutti gii uffici della prefettura provinciale.

«La provincia, come ente morale, avrà le seguenti attribuzioni:

1. Tutte le strade che non sono comunali, consortili, né regionali;

2. I porti che non sono dichiarati nazionali. Questo punto dovrà essere studiato accuratamente dalla Commissione rispetto alla necessaria ingerenza governativa;

3. L'istruzione pubblica secondaria e tecnica;

4. La beneficenza, in quanto non è d'istruzione privata o comunale; i manicomi e gli esposti;

5. La pubblica igiene e sanità:

6. La cura e vigilanza su i boschi sotto le regole generali stabilite dallo

7. I regolamenti per l'esercizio della caccia e della pesca;

8. La spesa delle caserme dei Carabinieri; a seconda dei regolamenti della Real Arma;

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La nuova legge, pubblicata in quest'epoca, restituisce i Municipi alla loro antica indipendenza, gli emancipa, li fa liberi.

9. Il fornimento dei locali e mobili per gli uffizi degli agenti governativi e giudiziari.

«Tutto ciò che riguarda i Consigli provinciali e la Deputazione provinciale la elezione loro ed il modo di deliberare e di eseguire, potrà essere conservato conforme alla Legge attuale. Salvochè il prefetto non avrà più la presidenza della deputazione, ma solo la tutela e la vigilanza sovra gli atti di essa e dei Consiglio.

«La provincia provvederà alle proprie spese:

l'imposta di rivendita, in talune Provincie chiamasi, dazio forese, gabellario

2. Coll'imposizione di una tassa sulle bevande;

«Le regioni sono un consorzio permanente di provincie.

«In ogni regione havvi un governatore.

«Il governatore ha nella sua diretta dipendenza i servizi politici, di sicurezza pubblica e di amministrazione che sono competenza del. ministero dell'interno, e vi provvede in conformità delle istruzioni del Ministero.

«Egli compie inoltre quegli atti, nell'interesse dei servizi dipendenti dagli altri ministeri che gli fossero attribuiti da leggi speciali o delegati dai ministri.

«La Regione, come consorzio permanente delle provincie, formerà un ente morale, avente due particolari fini, che sono i seguenti:

1. Il mantenimento delle strade che finora ebbero il nome di nazionali, gli argini ed altre opere occorrenti alla difesa dei fiumi le quali non siano amministrate da consorzi o da comuni. Sarà stabilito per legge quando lo Stato debba concorrere alla costruzione o al mantenimento di alcune principali strade, e similmente alla difesa di taluno dei principali fiumi.

«Per le strade e fiumi che interessano più regioni ed i confini dello Stato, il Governo determina le discipline e decide i conflitti.

«Le strade ferrate, le poste, i telegrafi spettano interamente allo Stato.

2 Gli istituti d'istruzione superiore, le Università ed accademie di belle arti, riservando allo Stato le norme superiori direttive, l'approvazione degli statuti organici e tutte le discipline per gli esami e la collazione dei gradi, come pure la ispezione sulle scuole di ogni genere.

«Non s'intende con ciò di escludere lo stato dall'avere istituti esemplari d'ogni maniera; similmente è riservata la libertà d'insegnamento nei modi che saranno stabiliti dalla legge.

«L'amministrazione di questi due importantissimi servizi pubblici è affidata al governatore e ad una Commissione regionale. Questa si compone di commissari eletti nel proprio seno per ciascun Consiglio provinciale. Il numero dei commissarii potrà proporzionarsi al numero delle province consociale, in guisa però che non oltrepassi mai il numero di venti.

Se il progetto Minghetti si fosse attuato probabilmente si sarebbero evitati tutti quegli umori ricalcitranti, e quelle incomode posizioni che nacquero dalla fatale e repentina distruzione d'ogni autonomia.

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A proposito della riforma amministrativa, non possiamo astenerci dal far menzione del piano presentato alla Camera dal Ministro Minghetti. L'importanza di questo documento non può sfuggire a chiunque attentamente l'esamini.

La fusione dei già moltiplici Stati italiani in un solo è ella una idea veramente attuabile, o, cessata la preoccupazione della indipendenza, e della nazionalità, dovrà temersi che gl'interessi, le tradizioni, le abitudini preesistenti divengano altrettanti ostacoli alla compiuta unificazione, sicché s'abbia poi a riconoscere che ben s'apponevano coloro i quali non vedeano possibile per l'Italia che la forma federativa? Il problema è niente meno che questo, e se altro ve ne sia che valga maggiormente ad attirare la pubblica attenzione da un capo all'altro della Penisola, l'affermi chi può. Or questo problema, la cui soluzione sarti la chiave di volta del novello edifìzio, è formolato appunto nelle parole, parole d'uso ordinario quanto altre mai, ma che nella presente occasione, di quelle che rarissimo occorrono alla Storia, hanno una portata affatto straordinaria. Sarà egli da adattare puramente e semplicemente alle provincie di nuovo aggregate il congegno amministrativo che reggeva le antiche provincie? Sarà da prender per tipo l' organismo che presentano del pari, salvo differenze accessorie, tutt'i grandi Stati già costituiti in Europa? Ovvero sarà da cercare un sistema essenzialmente originale, il quale, emergendo dalle condizioni peculiari all'Italia, abbia il men che si possa di artificiale, e trovi guarentigie di riuscita, e di stabilità, non già in un infatuamento passeggiero, né tampoco nella violenza, che nulla fondò mai di durevole? Fu questa una delle prime quistioni che il Parlamento italiano fu chiamato a risolvere, e che risolvette contro il progetto Minghetti.

Diremo qualche cosa dell'armata dei volontari, di cotesti benemeriti della patria, cui era rivolta l'attenzione universale, e per i cui futuri destini ognuno prendeva il più vivo interesse. Ad essi fu provveduto col decreto del 12 novembre 1860, che prende in considerazione uffiziali, e sottouffiziali, e semplici individui, non che i dimissionari, ed i mutilati. E con altro decreto del 16 gennaio 1861 furono posti sul piede di accantonamento, ed assegnate ai vari corpi le loro diverse sedi.

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All'armata regolare borbonica fu provveduto con decreto del 20 dicembre 1860: fu disposto che in designato termine dovrebbero trovarsi sotto le armi tutti quei soldati che formavano parte delle leve dal 1858 al 1860; a coloro che avevano finito il termine fu dato congedo, a tutti gli altri permesso illimitato, obbligo di dover marciare a qualunque chiamata.

Quale fosse la situazione, quale lo spirito pubblico in questo periodo di crisi, e di transizione, in cui gli animi fervono, e si slanciano con ardore verso un avvenire, da cui attendono la completa loro felicità, noi diremo per sommi capi.

Infinite leggi, scarsa o niuna esecuzione: riforme molte, ma inattuate, o inattuabili. La somma delle cose in mano degli uomini dell'emigrazione, e quindi tutti gl'impieghi conferiti ai loro parenti, ai loro amici, ed agli amici degli amici loro. Da ciò la guerra al governo locale, e tantopiù aspra e virulenta, in quanto che non v'ha uomo che non aspiri ad impieghi, ed infiniti son quelli che pretendono ristoro di danni sofferti dalla cessata tirannia. Onde la stampa è virulenta, la piazza agitata, e spesso in disordine per dimostrazioni; ed i governanti non potendo contentar tutti, s'imbarazzano: spesso si dimettono, altre volte cedono agl'importuni, e commettono nuovi errori, contro cui nuove rampogne, e nuove recriminazioni. Il commercio è in ristagno, e quindi i commercianti non molto soddisfatti del nuovo stato di cose. Gli operai che non han lavoro, e che speravano che la rivoluzione avesse versato dei tesori per essi, gli operai si sconfortano, si disilludono. In somma il nuovo periodo che abbiamo descritto ci presenta, da una parte, un popolo oppresso ed ammiserito, che ha bisogno di tutto, che da se non sa, e non può provvedere a niente, e che tutto attende dal governo; e dall'altra parte un Governo che non può contentar tutti, non sa contentare una parte, e non ha forza di reprimere, non arte per temporeggiare. Questo periodo si traveste, ed assume forme novelle all'abolizione della Luogotenenza; e ciò vedremo nel seguente capitolo.

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DOCUMENTI

(1) Programma per lo solenne ingresso del Re Vittorio Emmanuele nella Città di Napoli.

Nel giorno destinato da S. M. al suo ingresso in Napoli, e nei due giorni consecutivi, la città farà festa. Le Amministrazioni, i Tribunali, ed ogni altra officina sospenderanno le loro occupazioni - I militari vestiranno la gran tenuta -La città nelle tre sere sarà illuminata negli Edifici pubblici, nei Teatri, ne' Larghi, ed i Cittadini sono inviati a fare altrettanto, sia nelle Botteghe, che debbono stare aperte, sia nello esterno delle rispettive abitazioni.

Appena la M. S. giungerà nel sito, ove il Corpo di Città rimane a riceverlo, tutte le Castella, ed i Legni in rada, appartenenti alla Marina Militare, debitamente pavesati, faranno la salva, che continuerà fino a quando la M. S. non sarà giunta a Palazzo; e nei due giorni consecutivi praticheranno altrettanto nell'alba, a mezzogiorno, ed alla sera.

Al primo colpo di cannone le Campane di tutte le Chiese suoneranno a distesa, ossia a Festa, per mezz'ora continua.

La Guardia Nazionale di tenuta di gala, con le rispettive bande, e la Truppa dell'Esercito Meridionale che si troverà in Napoli, formeranno ala dal sito del Grande Albergo de' Poveri, lungo il Largo delle Pigne, Studi, Largo del Mercatello, Portalba, S. Pietro a Majella, Strada Tribunali, fino al Vescovado - Ed a mano a mano, che avanzerà il Regio Corteo, la Guardia Nazionale, e le Truppe, che son rimaste dall'Albergo de' Poveri a Portalba, si situeranno da questo ultimo sito, per Toledo, fino al Palazzo Reale.

Al di sopra del Tunnel, che sovrasta il cominciamento del cammino ferrato da Napoli a Caserta, sarà formato un Padiglione elegante, ove la M. S. si fermerà un momento, per accoglie i re gli omaggi del Corpo di Città, Decurionato, e Notabili di tutte ' le classi, che saranno invitati.

Ciò terminato, si avanzerà il Regio Corteo per la strada Arenaccia fino all'Albergo dei Poveri, e di là pel Duomo, percorrendo le strade suindicate, su le quali è situata a cordone la Guardia Nazionale - Precederà un Drappello di Guardia Nazionale a Cavallo, e faran seguito il Comandante Generale di essa Guardia, e suo Stato Maggiore, e tutti gli Uffiziali Superiori dell'Esercito Meridionale.

Il corpo di città, per via più breve si porterà al Duomo, per ricevere la M. S. Ivi converranno pure, e prenderanno posto in Chiesa una Deputazione di distiate Signore, ed altre Deputazioni, che rappresentino le Notabilità del Paese in tutte le classi, che invitansi dal Municipio.

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Tutti vestiranno indistintamente sottabito nero lungo, frak, e cravatta bianca, all' de' Militari, che terranno la propria divisa.

Nel largo avanti la Porta Maggiore del Duomo si schiererà un Battaglione della Guardia Nazionale in giro.

Nel largo medesimo sarà disteso un tappeto in tela d'oro, su del quale si fermerà il regio Corteo.

Ivi si troveranno il corpo di Città e gli Ecclesiastici - S. M. sarà accompagnata da quel sito fino alla Porta della Chiesa, ove il capo Clero porgerà alla M. S. l'acqua benedetta, ed indi lo accompagnerà insieme al Corpo di Città fino al sito, in cui è preparato il Trono, dal lato dell'Evangelo.

A drittta, ed a sinistra del Trono si situeranno il Corpo di Città, il Decurionato, ed i Generali della Guardia Nazionale e dell'Armata.

Terminata che sarà la Benedizione del Santissimo, S. M. accompagnata nell'istessa guisa fino alla Porta della Chiesa, s'avvierà col suo Corteo, come innanzi designato, per le strade Tribunali, Port'Àlba, e Toledo, alla Reggia, ove troverà convenuti tutti i corpi costituiti dello Stato.

Gli Edifici lungo le vie, per le quali passerà la M. S. saranno ornati di festoni, bandiere, arazzi, damaschi, e quanto altro saprà praticare il Popolo Napolitano in questa avventurosa congiuntura.

Nel secondo giorno la Città, il Decurionato, i Corpi costituiti, le Commessiòni che rappresentano tutte le classi de' cittadini appositamente invitate, si aduneranno nella Chiesa Nazionale di San Lorenzo, per un solenne in musica, in rendimento di grazie all'Altissimo, per aver benedetto il desiderio, che da tanti secoli annida nei cuori degl'Italiani.

Dopo di ciò saranno estratti a sorte 168 maritaggi, destinati a donzelle della Città, povere ed oneste, vale a dire 14 per ogni Sezione, alla ragione di ducati 60 per ognuno.

Nel terzo giorno saran preparati pel popolo le cosi dette o nel Largo delle Pigne, S. Teresa, Largo del Castello, Mercatello, Mercato, e Corso Vittorio Emmanuele, con premi ciascuno di duc.70.

Nella sera il popolo godrà lo spettacolo di svariati fuochi di artificio, preparati su la collina della Certosa S. Martino.

Sarà il pubblico avvertito con altro avviso del giorno dello arrivo della M. S.

Dal Palazzo Municipale 27 ottobre 1860

Il Cancelliere Maggiore Il Sindaco

Luigi Moltedo

A. Colonna

- Ieri il maestoso tempio di San Lorenzo Maggiore, illustre per monumenti d'arte e per istoriche memorie, si apriva alla più imponente cerimonia religiosa che mai vi si fosse compiuta.

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Bella chiesa sorta per voto fatto da Carlo I d'Angiò quando ebbe vittoria sopra Manfredi nel 1265; dove sono le tombe di Carlo I di Durazzo e di Caterina d'Austria prima moglie di Carlo duca di Calabria; dove Alfonso I d'Aragona facea celebrare il riconoscimento a suo successore al trono di Napoli del figlio suo naturale Ferrante d'Aragona, monumenti ed episodi d'un passato per noi inglorioso e infelice, in quella chiesa medesima rendevansi ieri solenni azioni di grazie all'Altissimo per aver esaudito il nostro e il voto di ventisei milioni d'Italiani, per aver dato all'Italia un principe degno della elezione nazionale e alla nazione ispirata tal senno e tanta concordia di voleri da rendere imponente ogni velleità avversa dell'astioso ed invido straniero.

Il tempio decorosamente ornato de' tre colori italiani, presentava in alto pendente dal soffitto l'effigie del Galantuomo, a cui parevano far corteggio le molte bandiere che veggonsi sospese lateralmente e che sono i drappelli votivi offerti alla Madre del Signore dalle ventinove ottine del popolo in occasione della peste onde Napoli era travagliata.

Il vi fu cantato a piena orchestra e da considerevole numero di voci su bella musica del maestro Pistilli, coll'intervento del Ministero, e del Municipio, de' Corpi costituiti, e dei capi dell'esercito, nonché di cittadini d'ogni ordine e forestieri di distinzione.

Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni; il di cui compimento assegnò la Provvidenza e. questa generazione fortunata.

Si, giovani l'Italia deve a Voi un'impresa che meritò il plauso del mondo.

Voi vinceste; - e voi vincerete - perché voi siete ormai fatti alla tattica che decide delle battaglie!

Voi non siete degeneri da coloro che entravano nel fitto profondo delle falangi Macedoniche e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell'Asia.

A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruolato che appartenne agli anelli delle sue catene.

All'armi tutti! - tutti: e gli oppressori - i prepotenti sfumeranno come la polvere.

Voi, Donne, rigettate lontani i codardi essi non vi daranno

Che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie.

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Questo popolo è padrone di sé. Egli vuoi essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi colla fronte alta: non rampicarsi, mendicando la sua libertà. - egli non vuol essere a rimorchio d'uomini a cuore di fango. No l No! No!

La provvidenza fece il dono all'Italia di Vittorio Emmanuele. Ogni Italiano deve rannodarsi a lui -serrarsi intorno a lui. Accanto al re Galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una volta in vi ripeto il mio grido: all'armi tutti! Tutti! Se il marzo del 61 non trova un milione d'Italiani armati, povera libertà, povera vita italiana.... Oh l no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 61, e se fa bisogno il febbraio, ci troverà tutti al nostro posto.

Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, d'Ancona; di Castelfidardo, d'Isernia e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile, tutti, tutti serrati intorno ai glorioso soldato di Palestre, daremo l'ultima scossa, l' ultimo colpo alla crollante tirannide!

Accogliete, giovani volontari, resto onorato di dieci battaglie, una parola d'Addio! in ve la mando commosso d'affetto dal profondo della mia anima. Oggi in devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L'ora della pugna mi ritroverà con voi ancora- accanto ai soldati della libertà italiana.

Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno ancora nei loro focolari col consiglio e coll'aspetto delle nobili cicatrici che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All'infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.

Napoli 8 novembre 1860.

G. Garibaldi.

(3) - Ecco una Nota del ministro degli affari esteri di Francesco, indirizzata ai rappresentanti del Re presso le Corti estere:

Gaeta, 15 Novembre 1860.

«Col mio dispaccio del 8 ottobre, vi ho fatto conoscere come il Governo rivoluzionario di Napoli spogliò il Re, nostro padrone e tutta la famiglia reale, della loro fortuna privata, e aggiungeva la calunnia alla violazione di tutte le leggi. Non bastava essersi impadronito delle immense ricchezze artistiche, le quali S. M., benché gli appartenessero per eredità, ha sempre voluto lasciare a disposizione del suo popolo, facendo affluire cosi

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alla capitale tutte le intelligenze; non bastava confiscare arbitrariamente i maggioraschi dei Principi, le doti delle Principesse, le risorse delle orfanelle, i legati fatti ai poveri da Ferdinando II. L'eredità della santa Principessa di Savoia, madre adorata del Re, nostro padrone; bisognava obbedire alla logica dell'anarchia, distribuendo la fortuna privata della famiglia reale agl'individui, che da dodici anni non cessarono di congiurare contro la dinastia, il trono, l'ordine sociale, e contro tutt'i principi costituenti la base del diritto universalmente riconosciuto.

«Voi comprenderete, signore, non essere gli uomini di sincera opinione, quelli che hanno combattuto e sofferto nella lotta contro il Governo stabilito, ché approfitteranno di tale disposizione sovversiva. Le persone oneste, non importa la loro opinione, respingeranno con indignazione ogni partecipazione a quest'atto di rapina. La rivoluzione trionfante dee fare le sue elemosine ai rivoluzionari indomabili, agli agitatori per condizione, per mestiere. Dopo la glorificazione e la rimunerazione del regicidio, coloro, che si vantano aver più volte giurato l'assassinio di Ferdinando II, devono avere una parte preponderante nel bottiüo delle ricchezze della sua famiglia. La giustizia della rivoluzione vuole che i figli siano costretti a rimunerare gli attentati commessi contro i loro parenti.

«Nel decreto qui incluso, notate il considerando e la data, a Vi si dice che il giorno 15 maggio 1848, Ferdinando II ruppe il patto giurato, empi la città di terrore e di sangue, sostituti l'arbitrio e la violenza alle leggi, e che da allora incominciarono le persecuzioni politiche.»

«Se un governo ebbe mai diritto alla resistenza, fu in quel giorno. Per la prima volta, i rappresentanti dei popolo si riunivano, secondo la costituzione giurata dal sovrano e dalla Nazione, quando, ad impedire la pacifica inaugurazione dei lavori parlamentari, scoppiò la rivoluzione. Tutto il mondo sa che il Governo prese tutte le misure della conciliazione innanzi a quelle della forza e che, dopo la compressione, ed il successo, ei si affrettò a convocare secondo la stessa Costituzione, una nuova Camera, Si può giudicare differentemente gli avvenimenti posteriori, ma la condotta tenuta dal Governo in quel giorno, non era in nulla attaccabile.

«Il decreto in discorso è sottoscritto dal Re Vittorio Emanuele, come gli altri; che la data del 23 ottobre è posteriore di due giorni al plebiscito, che attribuiva a Vittorio Emanuele la sovranità delle Due Sicilie, e di undici giorni alla determinazione, presa dal Re di Sardegna, di non attendere neppure il plebiscito, e di passare la frontiera del Regno, per impadronirsi colla forza degli Stati posseduti dalla Casa di Borbone.

«L'oltracotanza di questi atti è evidente; poiché il Re di Sardegna ha cospirato contro il trono del Re delle Due Sicilie, e, violando le leggi divine

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ed umane, si portò in persona a consumare un'odiosa aggressione, ed oggidì presta il suo nome, la sua autorità, la sua forza armata all'esecuzione di questa enormità, ed egli osa prenderne la responsabilità innanzi all'Europa ed alla posterità.

«Ho creduto mio dovere volgermi a voi signore, perché facciate conoscere al Gabinetto, presso cui siete accreditato, in qual modo di Governo del Re considera i fatti, e perché protestiate formalmente e solennemente, da parte di Francesco II, contro il decreto rivoluzionario del 23 ott. ultimo.

«Vogliate lasciar copia di questo dispaccio al ministro degli affari esterni, e accusarmene ricevuta.»

«CASELLA.»

- Riproduciamo dalla

la seguente comunicazione fatta dal Ministro Segretario di Stato degli affari esteri a tutti i rappresentanti delle Corti estere accreditate presso S. M. (D. G.)

Continuando la carriera delle sue inaudite usurpazioni, il Generale Garibaldi ha pubblicato dopo la sua entrata nella città di Napoli, tra diverse disposizioni, tre decreti su i quali il sottoscritto Ministro della Guerra, provvisoriamente incaricato del portafoglio degli affari esteri, ha l'onore di chiamare per ordine del suo Augusto Sovrano l'attenzione del sig.... inviato straordinario e Ministro plenipotenziario di S. M...

L'uno di tali decreti, in data del 7 dello andante, contiene testualmente le seguenti parole: «Tutti i bastimenti da guerra o mercantili appartenenti allo stato delle due Sicilie, arsenali, materiali di marina sono aggregati alla squadra del Re d'Italia Vittorio Emmanuele, comandata dall'ammiraglio Persano.»

I due altri dei 9 sono concepiti nei seguenti termini: «Tutti gli atti della pubblica autorità e della amministrazione dalla giustizia saranno emanati ed intitolati in nome di S. M. Vittorio Emmanuele Re d'Italia - I suggelli dello Stato, delle pubbliche amministrazioni, ed i pubblici uffiziali, avranno lo Stemma della Real Casa di Savoia con la leggenda di Vittorio «Emmanuele Re d'Italia.»

Quando sul principio della spedizione, che l'Europa attonita, ma impassibile vede da quattro mesi, il gabinetto di Napoli domandava delle spiegazioni al Governo Piemontese, il conte di Cavour rispondeva in nome di S. M. Sarda, che quelli attentati contro il diritto delle genti si facevano contro i suoi ordini, e dichiarava espressamente che nel prendere la bandiera di Sardegna e assumere il nome di Vittorio Emmanuele, il generale Garibaldi commetteva un atto di manifesta ed onnina usurpazione. Ma malgrado queste esplicite dichiarazioni, le imprese piratiche continuano a prepararsi nel territorio piemontese.

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Dai 6 di maggio ultimo sino a questo di, più di 25 mila uomini, legni, vapori, ed anche artiglierie sono usciti pubblicamente dai porti di Genova, Livorno e Cagliari. Uffiziali dell'armata Sarda, membri del parlamento di Torino venivano a dirigere le operazioni militari e politiche del condottiero della invasione. Numerosi comitati agivano senza mistero tanto a Torino quanto a Genova per provocare e mantenere la insurrezione del nostro territorio. La forza straniera si combinava con la rivoluzione interna eccitata potentemente da questo aiuto. La occupazione della Sicilia, e l'invasione di una parte del continente napoletano sono state le forzose conseguenze della inconcepibile tolleranza del Piemonte! massime dopo la dichiarazione del conte di Cavour del 26 magg.

E mentre che i porti degli Stati Sardi servivano di asilo inviolabile a questa scandalosa pirateria, mentre che la bandiera del Piemonte ne copriva le bande, le fortezze ed i legni, le relazioni tra i gabinetti di Torino e Napoli erano pacifiche ed un ministro del Re di Sardegna accreditato presso S. M. assicurava ogni giorno, e fino all'ultima ora il Sovrano delle Due Sicilie delle amichevoli disposizioni del Sovrano.

Conciliante fino all'ultimo momento, desideroso ad evitare nuovi conflitti all'Italia, appoggiandosi nel suo incontrastabile diritto, S. M. siciliana sperava respingere la invasione e finir la guerra senza aggiungere alle difficoltà interne le (mistioni internazionali. Ma le cose son venute ad un punto in che è forza fare appello alla ragione, alla giustizia e all'interesse il più legittimo di Europa.

Le bande organizzate nei porti di uno Stato amico hanno occupata una parte considerevole di questo Regno e la sua capitale.

La rivoluzione non precedeva affatto la loro marcia, ma la secondava e la seguiva.

Il Capo della invasione, assumendo la dittatura, fa un dono della flotta napoletana a quello stesso Sovrano, la mette sotto gli ordini di un suo Ammiraglio, comanda che si renda la giustizia nel suo nome e gli attribuisce tutti i titoli della sovranità in una antica Monarchia che costituita da solenni trattati, forma parte degli Stati indipendenti di Europa.

Nel protestare nella forma più decisa ed esplicita in nome del Re suo Augusto Signore contro questi atti di usurpazione e di violenza, il sottoscritto crede suo dovere chiamare l'attenzione di S. E.... sul nuovo dritto pubblico che tali fatti tendono a stabilire nella culta ed incivilita Europa. Il governo di S. M. spera ancora che il Re di Sardegna si affretterà a respingere con la indegnazione che si conviene alla lealtà questo regalo offensivo al suo onore della flotta e del territorio di un sovrano amico, fattogli da un uomo che egli stesso ha chiamato usurpatore.

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Il governo di S. M. crede che in vista dei disastri e dei mali prodotti dalla eccessiva ed inesplicabile tolleranza del governo Sardo, il Re di Sardegna non permetterà più, che il suo nome e la sua bandiera servano ad invasione di uno stato pacifico, allo spargimento di sangue innocente, al conculcamento dei trattati che formano il diritto pubblico Europeo.

Né lascerà pure di protestare contro questo nuovo titolo di Re d'Italia proclamato aal generale Garibaldi, che fa supporre la distruzione di ogni diritto riconosciuto ed il completo assorbimento degli Stati indipendenti che restano ancora nella penisola.

Ma in ogni caso, il governo di S. M. Siciliana protesta di nuovo contro i mentovati decreti del generale Garibaldi, dichiarandoli nulli, irriti, illegittimi e nulle od illegittime le loro conseguenze, appellando alla giustizia di Europa, contro una condotta che facendo del Mediterraneo, mare del la civilizzazione e del commercio, un campo aperto alla pirateria, lascia ad una nazione tutto il profitto di una conquista, senza la responsabilità ed i pericoli della guerra.

Il sottoscritto prega S. E. di portare questa comunicazione a conoscenza del suo Governo e coglie con piacere questa opportunità di rinnovarle gli attestati della sua più distinta considerazione.

(4) - La del 25 ha due reali decreti l'uno de' quali apre un credito a carico dello Stato per la somma di cinque milioni di ducati napolitani, affine di sopperire alle spese della guerra: e l'altro esenta dal dritto di tonnellaggio e lanternaggio, tanto nel Porto di Gaeta che sulla spiaggia del Borgo Castellone e Mola di Gaeta per la durata di mesi sei, tutti i bastimenti mercantili di qualunque portata o denominazione con carichi di vettovaglie e coloniali.

Lo stesso foglio officiale poi ha il seguente documento.

S. E. il ministro della guerra, incaricato provvisoriamente del Portafoglio degli Affari esteri, ha diretto, in data del 24 andante, la seguente comunicazione ai rappresentanti di S. M. il Re(D. G.) all'Estero.

Le informazioni successive ricevute in cotesta Legazione da questo Real Ministro, e le pubblicazioni che si sono fatte recentemente in Europa han dovuto metterla in grado di conoscere la politica adottata intorno ai deplorabili avvenimenti del Regno tanto dal Governo di S. M, quanto dalle principali Potenze in Europa.

Dal momento in cui il re, N. S., sali sul trono, cominciò la rivoluzione a cospirare ed a lavorare apertamente contro i suoi diritti.

La pace di Villafranca lasciava nell'ozio tutti gli uomini irrequieti e tutti gli spiriti ardenti di Italia.

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Gli avventurieri di tutte le nazioni che cercavano uno scopo per la loro attività nella guerra della penisola si sono uniti ad essi, per scegliere come campo delle loro future invasioni il Regno delle Due Sicilie.

La rivoluzione preparava per mezzo d'intrighi, di sedizioni, di tradimenti il trionfo che le rendeva possibile il potente ma allora nascosto aiuto di una Nazione importante d'Italia.

Non si fece mai illusioni il re N. S. sulla gravità dei fatti che scoppiavano in Sicilia. Sapeva che il disbarco della ridetta banda di Garibaldi era soltanto il preludio di più formidabile invasione. -Il corpo di armata di quell'avanguardia erano i corpi franchi che avevano fatto la guerra in Lombardia, i volontari Italiani, Inglesi ed Ungheresi, antichi o moderni soldati della rivoluzione; e la riserva si trovava in caso necessario negli arruolamenti pubblicamente fatti nella Lombardia.

Comprendendo la sua situazione sotto il suo vero e minacciante aspetto, S. M. il re si affrettò a far fronte a quel gravissimo pericolo; militarmente, riunendo in Sicilia un'armata di 30 mila uomini, politicamente, anticipando con le riforme amministrative e col riprìstinamento della Costituzione del 1848 le istituzioni liberali del Regno; diplomaticamente, denunziando a tutte le Potenze di Europa l'imminenza del pericolo, provando che la sua causa era una causa comune di tutte le monarchie e di tutti i governi, e proponendo al Piemonte, invece della sua alleanza colla rivoluzione, un'alleanza intima col Regno delle Due Sicilie, che fondata sulla similitudine delle istituzioni poteva assicurare la pace e l'avvenire d'Italia.

L'Europa sa come sono state accolte le misure preveggenti del Re.

La sua armata in Sicilia, dopo avere molte volte combattuto rientrava per salvar Palermo da rovina; le porte del continente sono state aperte alle bande di Garibaldi. La libertà politica, che non ha avuto il tempo di stabilirsi, ha servito solamente di scudo e di garanzia a tutti i cospiratori; e l'Europa ha veduto con iscandalo un ministro di S. M. vantarsi di avere organizzato durante il suo Ministero la rivoluzione che dovea strapparle la corona. - Alle gestioni diplomatiche del Governo del Re si è risposto da importanti gabinetti che S. M. dovea combattere la rivoluzione colle sue proprie forze, facendole sperare che i vantaggi militari ottenuti dalle sue truppe avrebbero potuto essere un ponto di appoggio per l'aiuto e le simpatie dell'Europa.

Questo ha fatto il Re nel momento in cui, per evitare le calamità della guerra alla sua capitale, rinunziò volontariamente ai vantaggi ed alle risorse di ogni specie che fornisce a colui che la possiede quella ricca e popolata metropoli. Il mondo ha veduto come da un mese e mezzo le ardite truppe che ha lasciato il tradimento al legittimo Sovrano,

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Dai bollettini pubblicati dai generali di questo condottiero, l'Europa ba saputo che vi è una legione ungherese, che ci sono truppe di diverse nazioni riunite, come la legione dei volontari inglesi che è sbarcata nell'ultima settimana in Napoli. Il pubblico ha veduto che battaglioni di bersaglieri piemontesi sono accorsi in favore di Garibaldi nella battaglia del l'ottobre.

Malgrado ciò, il Re era preparato per vincere le truppe della rivoluzione e di Garibaldi, ed aveva la fiducia di riuscire. Ma impreveduta e possente riserva è giunta già in azione. Il Re di Sardegna alla testa della sua armata ha passato la frontiera napolitana, e percorre e sottomette colla forza le provincie fedeli del Regno, dopo avere spedito per mare in Napoli fanteria ed artiglieria.

Malgrado forti tradimenti e sventure, il Re era preparato a combattere la rivoluzione interna, il mazzinismo di fuori, le bande italiane di Garibaldi e gli avventurieri di tutte le nazioni che si sono riuniti alla sua bandiera. Ma non era preparato, né poteva esserlo, per combattere, oltre questi nemici, l'armata regolare dei Piemonte. E non poteva esserlo, non soltanto per l'insufficienza dei suoi mezzi materiali per attendere tanti pericoli dopo le perdite sofferte e l'abbandono della capitale, ma pure (ed è questa la prima di tutte le ragioni) perché S. M. viveva come ogni Sovrano sotto la protezione del diritto pubblico, e confidando nella parola del re di Sardegna, non poteva aspettarsi che venisse alla testa della sua armata per invadere e impadronirsi dei suoi Stati, senza pretesto di rottura, senza dichiarazione di guerra, e quando esistono ancora i rispettivi ministri accreditati presso le due Corti.

Innanzi a questo inqualificabile attacco, forse saranno schiacciate le truppe del re e soccomberanno l'indipendenza e la sovranità di questo paese, la sua antica e riconosciuta monarchia; ma soccomberanno del pari tutti i diritti, tutti i principi, tutte le leggi su cui riposano l'indipendenza e la sicurtà delle nazioni. L'esempio delle Due Sicilie mostrerà al mondo, che è lecito calpestare ogni sentimento di lealtà e di giustizia, per portare prima la rivoluzione nel territorio di un Sovrano amico e impadronirsi pòi in piena pace dei suoi Stati, senza riguardo a nessun diritto e nessun trattato, disprezzando gli interessi più legittimi, e sfidando l'opinione pubblica d'Europa.

Sua Maestà desidera ch'ella faccia valere queste considerazioni presso codesto governo, lasciando al ministro degli affari esteri la copia di questo dispaccio.

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(5) - I documenti che seguono meritano esser riprodotti onde conosca semprepiù qual era questa tirannide selvaggia che faceva scempio di tanta parte d Italia, e quali i suoi strumenti e fautori, che negli estremi aneliti di quella subiscono un'esaltazione di ferocia e viltà insieme che sente di cretinismo.

Ministero e Segreteria di Stato dell'Interno - Ramo Polizia n. 521.

Al sig. Sottintendente di Isernia.

Le rimetto due suppliche di Pietro Venditi e Vincenzo di Ciurcio, onde ella se ne informi pel contenuto in quelle, e me ne faccia rapporto. Quindi sarà compiacente restituirmi le dette suppliche.

Il Ministro Segretario di Stato della Polizia.

Cav. P. Ulloa.

A Sua Sacra Real Maestà

FRANCESCO II

Re del Regno delle Due Sicilie.

S. R. M.

Sire

Pietro Venditi fu Giuseppe del Comune di Carpidone, Calzolaio, divotamente l'espone quanto appresso.

Il petente nel giorno 4 stante funzionava da Capo Urbano in detto Comune, e venti paesani di mia fiducia, feci arrestare undici rivoltosi e li consegnai al Tenente di gendarmeria in Isernia, nel giungere i Garibaldini furono posti in libertà.

Il giorno 5 corrente ammazzai un Tenente Garibaldino, e lo disarmai, ed il fucile con la baionetta per ordine del Maggiore Gardi lo consegnai al Comandante d'Isernia. Il petente a tal bravura non può più avvicinarsi alla sua famiglia, temendo di perdere la vita, e rimanere la sua famiglia desolata in mezzo di una strada di tenera età (sic); un figlio solo potrebbe dare un tozzo di pane alla famiglia, ma rattrovasi al servizio della M. S. nel Reggimento di Artiglieria nella decima ottava Compagnia.

La beneficenza della M. S. mi dia ordine onde poter arrestare coloro che si rattrovano latitanti, che sono rivoltosi contro la Real Corona, e mi limiti una forza per agire con i medesimi.

La clemenza della M. S.; mi fa la grazia di potermi lucrare un tozzo di pane per la famiglia, sarebbe la seguente:

In Carpione un venditore patentato di sale e tabacco rattrovasi arrollato coi Garibaldini, e non può più far parte della M. S. il petente bramerebbe occupare un tal posto per sostenere la sua famiglia, se la M. S. li fa la grazia. Tanto supplica e lo avrà.

Sangermano 15 ottobre 1860.

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Signor Sotto Intendente

Per effetto di sovrane prescrizioni veniva imposta una tassa di guerra in duc. cinquecentomila nei distretti di Mola e Piedimonte, giusta i Beali Decreti che le compiego.

Posteriori disposizioni espresse nella ministeriale delle Finanze del l'corrente n. 511 estendono la giurisdizione, de1 miei poteri ed'Isernia, la quale sollecitamente e sotto la speciale sua responsabilità, deve introitarsi con le seguenti norme.

(Seguono le norme)

Sire

Il contadino Vincenzo di Ciurcio Pagano d'Isernia fedelissima, suddito divotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua (D. G.)espone che egli ha mossa la popolazione e messosi alla sua testa, non escluso I artigiano signor Raffaele Senape, che molto si è cooperato, si assaltò li 30 a sera il Corpo della G. N.: vi si tolsero le armi, si disarmarono per le case le Guardie nazionali: si ruppero le corde elettriche: e si pose la Pubblica Sicurezza in mano dei contadini per opera dell'esponente.

Il giorno seguente, 1° ottobre, la popolazione distrusse qualche individuo della Maestà Sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei Garibaldini da esso esponente, il quale fece pure aprire il commercio dei generi per Capua stato impedito dai detti Garibaldini onde far morire di fame i Regi: ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica: attivò il servizio al numero di circa mille scelti tra i migliori, pagando grana venti il giorno per ognuno di danaro tolto dalla Cassa che si sapeva essere stata fatta per mantenimento del Corpo della Guardia nazionale: accompagnò due ufficiali, un soldato ed un signore di Sulmona già presentatosi alla Maestà Sua, liberati dalle carceri da lui, fino in Venefro al Comandante delle Reali truppe, da cui l'umiliante fu nominato Capo Urbano, e fece accompagnare anche da Venafro dagli Urbani volontari otto Gendarmi che erano stati arrestati in quartiere per molti giorni.

Nei giorni due e tre ha vegliato a mantenere la pubblica sicurezza, specialmente la sera del tre in cui venne una forza di aiuto di cento Gendarmi.

Nel giorno quattro si è cantato l'Inno Ambrosiano in onore di Sua Maestà, ed il popolo era pieno di gioia, quando alle ore diciannove giunse una Colonna di circa mille Garibaldini a piedi ed a cavallo, e fu attaccato fuoco circa due miglia fuori l'abitato particolarmente dall'esponente, dal nominato signor Senape, dai Gendarmi e dagli Urbani volontariamente; fuoco proseguito sino alle ore 23 circa dentro il paese,

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allorché finita la munizione si dovette retrocedere ed essere in Venafro per avere forza maggiore dalle Reali truppe.

Nel giorno cinque queste ultime aiutate dall'esponente, dal detto sig. Senape da costui"nominato Sotto Capo Urbano, con firmato anche dal sig. Maggiore Gardi Comandante Superiore delle truppe qui riunite, e dagli Urbani volontari; si fugarono i Garibaldini nella massima parte; altra parte fu arrestata e spedita alla Maestà Sua insieme ai sospetti del paese, ed altra parte fu ammazzata, lasciandosi in pace i contadini, pochi artigiani, e pochi galantuomini stati Fedeli alla Maestà Sua; cose che sono durate sin oggi dal giorno 6, nel quale si stabilirono anche gli avamposti e sono rimasti fissi dieci Urbani volontari che si pagano col detto denaro della Cassa Nazionale ritrovata dall'esponente e dal detto Sotto Capo Urbano, che è prossima a terminare, e non si sa come pagare in appresso.

Ora è pregata la lodata Maestà Sua dare gli ordini necessari su ogni punto umiliato, e più di tutto come deve farsi per gli esiti urgenti dei Corpi Guardia disarmati, e se si compiace Sua Maestà che l'esponente col Sotto Capo proseguano nel loro impegno come pure se in caso di bisogno possano ottenersi altre Truppe Reali.

Umilmente le bacia i reali piedi, Isernia Il ottobre 1860.

Manifesto

In nome del Re N. S. (D. G.) ordino quanto segue:

Verranno formali dei battaglioni volontari comandati da uffiziali del Reale esercito. Tutti quelli che vorranno arrotarsi per la causa dell'ordine, si presenteranno ai sottoIntendenti di Mola, Sora, e Piedimonte che li spediranno al Deposito Generale in S. Germano.

Ad ogni Volontario sarà corrisposto gr. 12 al giorno. L'età dei medesimi dovrà essere dai 17 ai 40 anni.

Coloro che si ascrivono come Volontari potranno dichiarare se loro piace di voler poi prendere servizio regolare nelle milizie. In tal caso avranno un premio d'ingaggio di ducati 120. vai dire ducati 30 nell'atto della loro regimentazione e ducali 90 finito l'ingaggio.

Riconquistate le provincie da' Volontari verrà loro contato come servizio militare tutto il tempo che avran servito comelontari.

S. Germano 8 ottobre 1860.

Il maresciallo di Campo - Commissario del Re con Alter Ego - Conte Luigi Scotti Douglas.

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Le petizioni che seguono, e che noi qui trascriviamo con alcuni accessori, bastano di per sé sole per imprimere il più vergognoso marchio sopra chiunque riguardano.

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«A. S. R. M. Francesco II, re dei Regno delle Due Sicilie.

«Sire,

«Antonio Lilli e Nicola Onorato, fu Pasquale ed altri di Guardia, comune di Forlì, provincia di Molise, distretto d'Isernia, umiliano alla M. S. quanto segue:

«I rimostranti nel dì l'del corrente mese, con altri, disarmarono il Corpo di Guardia gridando viva, armarono le popolazioni e disarmarono i galantuomini; arrestarono il giudice Calopai, perché questi si è dichiarato nemico della M. S., e fu condotto ad Isernia con altri.

«Più, sapendo per notizia certa, dal gendarme di cavalleria, Pietro di Rosa, che la M. S. avrebbe salito al trono il 3 corrente, l'Onorato si recò in Castel di Sangro, e parlò con molti di quel paese, però del popolo basso, dicendogli che avessero preso l'esempio di Forlì, e cosi facendo il ¡giudice con due liberali, un palazzo, disarmando tutti, dicendo:

axx Sacra Beai Maestà,

Gli oratori implorano che sieno guardati con un occhio benigno, implorando grazia di qualche impiego, perché il Lilli tiene tre teneri figli, e non agiato; e prostrati a terra, col baciare i piedi della M. S., si segnano, esponendo la vita V. M.

Forlì 5 ottobre 1860.

«Antonio Lilli - Nicola Onorato.»

E Francesco II di scrive su questa supplica:

8 1860. - Ed il Ministro dell'Interno, cav. Pietro Ulloa, con ufficio dell'11 ottobre, da Gaeta, rimette questa supplica al sottintendente d'Isernia perché affinché S. M. possa

Abbiamo sotto gli occhi una lettera di A. di Francesco, soldato delle truppe borboniche, il quale da Venafro, Il ottobre scrivendo a sua madre in Aquila, dice (sic): ci dovete conoscere che in mi trovo in Venefra e sono stato in Sangermano, vicino a Sora di Campagna....; spero venire dentro otto o dieci giorni, perché andiamo facendo il disarmo; siamo cominciati da Teano, e quanto prima verremo in Aquila, e faremo lo stesso disarmo. Mare ( a quello che non consegna l1 arme; il nostro Sovrano ha dato al popolo basso, ed il popolo basso fa sii stragi degl'innocenti agli rivoltosi.»

Delle innumerevoli prove e degl'infiniti casi, che son venuti a nostra conoscenza net pochi giorni che abbiamo dimorato in queste contrade, ci faremo qui a menzionare solo alcuni, ma tali che chi ci leggerà non potrà fare a meno di accoglier nell'animo la stessa tristissima convinzione da cui siamo oppressi.

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in Roccaguglielma, comune del distretto di Gaeta, i reazionari, composti dalla plebaglia e da gendarmi, saccheggiarono e bruciarono vari palazzi di signori, ed arrestando tutte le persone civili, le menarono a Francesco li a Gaeta, ove sono ancora imprigionate. Durante quegli orrori, decapitarono dopo crudelissime sevizie i due fratelli baroni Roselli, e per molti giorni tennero esposte le loro teste sopra picche alla porta del Corpo di guardia. L'autorità giudiziaria vanamente tentò di procedere contro i carnefici dei baroni Roselli, perché il governo di Francesco II interdisse ogni procedimento, anzi ordiné che in nome del Re si assoldassero tutti popolani, che aveano preso parte a quelle stragi, a quegl'incendi ed a quei saccheggi, a grani venticinque il giorno (fr. 1, 12) mercede che al momento che scriviamo stanno ancora ricevendo.

nelle provincie napolitane a S. M.

Sire

É piaciuto alla Maestà Vostra di affidarmi il Governo di queste nobili provincie nel momento solenne in cui esse entrano, anche pe' rispetti politici e sociali, in quella comune vita italiana alla quale apportarono in tutti i secoli largo tributo di glorie intellettuali.

Nell'adempiere all'officio del quale fui onorato, in prenderò per guida le massime che la Maestà Vostra espresse ne' suoi Manifesti, i quali furono per tutta la nazione il programma e l'inviolabile promessa del Principato Italiano; prenderò ad esempio que' modi di governo che, col plauso delle genti civili e colla gloria di cosi meravigliosi risultamenti, furono tenuti nelle vostre antiche provincie, che soprattutto vi sono riconoscenti dell'essere state, per opera vostra, lo strumento principale della liberazione d'Italia.

Gli Italiani conoscono, o Sire, come si eserciti quella autorità la quale s'intitola nel Vostro Nome. Il vostro Governo chiama in aiuto la libertà e la civiltà, perché la patria nostra tanto più presto sarà prospera e forte guanto maggiore sarà il progresso morale e sociale del popolo. Esso è sollecito della istruzione e della educazione religiosa del popolo, degli incrementi del sapere e di quelli della industria e dei traffici, pe' quali crescono il benessere e la soddisfazione delle popolazioni. Nel tempo stesso il vostro Governo fa opera costante per rinnovare in tutta l'Italia la tradizione e vivificare lo spirito militare, che non è soltanto un elemento di forza, ma si ancora d'educazione morale, perché tempra le nazioni alla virtù della disciplina e ai culto del dovere.

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Ma l'ordinamento di un governo liberale e civile non è il solo fine che oggi gli Italiani debbono, con ogni studio, raggiungere. Essi debbono anche consociare in unità di stato, le sparse membra della comune famiglia.

La vita italiana fu variamente divisa secondo i dolorosi destini della nostra storia, ma le separate provincie diventarono, per la naturale virtù della schiatta, altrettanti centri gloriosi di civiltà e di morali tradizioni. La lunga esistenza degli antichi Stati d'Italia creò molti speciali interessi. Queste tradizioni e questi interessi devono essere rispettati in tutto ciò che non offende e non debilita l'unità.

L'Italia la quale sa di non poter trovar pace e prosperità durevoli se non sia unita sotto la Vostra Dinastia, è da un provvido istinto avvertita di conservare, come una guarentigia di civiltà e di libertà, contro le usurpazioni di una centralità soverchia, il tradizionale sviluppo della vita locale.

Questo duplice intento della politica italiana in nessuna parte si mostra cosi spiccante come nelle provincie napolitane, e per la importanza dello Stato che prima costituivano, e pel sistema di forte centralità che le reggeva, e perché sono rappresentate in una splendida capitale che è una delle più popolose ed illustri città dell'Europa.

In questa condizione di cose appare manifesto che se il Governo, che s'instaura nel nome e per l'autorità della Maestà Vostra, deve tosto pigliare l'indirizzo da' que' sommi principi, ai quali s'informa il Vostro principato civile, l'assetto terminativo di queste Provincie, nell'ordinamento generale d'Italia appartiene di dritto alle decisioni ed alle deliberazioni di quel parlamento che rappresenterà la Nazione.

Non sarà impossibile alla intelligenza ed al senno pratico degli Italiani il costituire ordini pe' quali le grandi provincie d'Italia rimangono libere di amministrare i particolari interessi loro pur conservandosi strettamente collegate nella forte rappresentanza dello Stato.

Grazie a cosiffatti ordini, il patriottismo e l'operosità civile potranno sempre manifestarsi nella triplice sfera dello Stato, della provincia e della città: e le varie capitali d'Italia accresceranno di splendore in ragione della comune vita nazionale, resa dappertutto più efficace e vigorosa.

Questa è l'opera riserbata al parlamento, e che il solo parlamento può compiere perché esso è il supremo rappresentante della volontà di tutti, e perché in un paese retto a libertà, è giusto che il Governo lasci alla libertà il merito e l'onore di avere dato alla nazione le sue fondamentali istituzioni.

L'autorità affidatami dalla Maestà Vostra sarà da me esercitata col principale intendimento di compiere le preparazioni necessarie perché, nel più breve tempo possibile, queste provincie sieno convenientemente ordinate per l'atto solenne delle elezioni.

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Sarà mio debito frattanto di rassodare l'ordine materiale e morale, che non tanto soffri alterazione pel naturale effetto delle mutazioni politiche, quanto per la mala e corrompitrice opera della caduta signoria. Faranno sicurtà alla pubblica coscienza di giusto ed onesto governo quelle guarentigie di libertà e di pubblicità che non tolgono, ma accrescono forza ad un'amministrazione riparatrice. Grandi sono i bisogni di un paese dove gli stessi materiali interessi furono negletti per avere balla maggiore di impedire lo sviluppo intellettuale e morale. Ad alcuno ai questi bisogni si potrà prontamente soddisfare; molti altri benefizi dovranno aspettarsi dall'effetto spontaneo delle nuove istituzioni, dalla libertà, dalla virtù operosa dei popoli. Farò tosto e diligentemente studiare i disegni delle grandi opere pubbliche e delle strade che devono agevolare le comunicazioni, ravvivare l'agricoltura e la industria; farò studiare i modi pei quali va riformata la pubblica istruzione popolare, la quale ha virtù di unire in più intima communione le varie classi della società, e volgerò il pensiero alla pubblica beneficenza, che non è degna di questo nome se non dispensa al povero, insieme col pane, l'educazione morale e il sentimento della umana dignità.

Io non sarei il degno interpetre delle intenzioni della Maestà Vostra, se, nel rispetto di tutte le coscienze e di tutte le oneste opinioni, non informassi il mio governo a quello spirito di concordia che a nessuno può essere più caro che a Voi, o Sire, che siete il simbolo della concordia italiana.

Io prenderò per norma le nobili parole che la Maestà Vostra pronunziava nell'aprire quel parlamento nel quale per la prima volta si trovavano riuniti i rappresentanti di undici milioni di Italiani, e mi rammenterò che delle antiche lotte altro non deve rimanere, che la memoria delle comuni sventure e della comune devozioni all'Italia.

Io sento quanto sia arduo l'assuntomi ufficio, pel quale chiedo e spero quella cittadina cooperazione senza cui ogni governo riesce impotente a fare il bene.

Io desidero di essere confortato dai consigli di tutti i buoni. Necessario mi è il concorso di alcuni fra quei prestanti uomini e chiari patrioti dei quali abbondano queste provincie. Essi serviranno a me di consiglio e, nel tempo stesso, reggeranno quei dicasteri nei quali si divide la regolare amministrazione del paese e prepareranno quelle innovazioni legislative che saranno reputate indispensabili.

Si degni la Maestà Vostra manifestarmi se le idee qui sopra accennate incontrino la sua Reale approvazione.

Napoli 8 novembre 1860.

Farini

CAPITOLO III.

Sommario

Ancora di Garibaldi, e di Lamoriciére. - Quistione di Unità e di Annessione. - Garibaldi, Fanti, e l'Armamento. - Proteste, e reazioni borboniche. - Lettera di Re Vittorio a Borbone. - Muratismo. - Dissidi tra Garibaldi e Cialdini. - Protesta della Corte Pontificia. - Giudizi della stampa sulla invasione delle Marche e dell'Umbria. - Elezioni dei Deputati. - Natura del primo Parlamento italiano. - Politica Napoleonica in Italia. - Quistione veneta. - Discussioni: Opuscoli. - Quistione romana; e politica bonapartista intorno ad essa. - Opuscolo di Laguerronière, risposta di Antonelli. - Discussioni nel Senato francese intorno alla quistione italiana. - Larochejachelein. Petri. Il Principe Napoleone. Dupantoup. Methica. Giulio Favre. - Simpatie per la causa italiana: in Inghilterra: in Prussia: nella Spagna. - Di nuovo in campo Murat.

L'attento viaggiatore che per avventura s'imbatta in un delizioso villaggio, l'osserva d'occhio complessivo, e patetico, ma non appena varcatolo ch'ei si reca sul sito donde possa averne intera la prospettiva, ed i punti più incantati ne rileva, sia nella mente, sia sulla carta. Non diversamente farem noi. Osservati complessivamente i casi degli ultimi mesi del 1860, ed i primi del 61, ci volgeremo indietro per trattenerci ancora un poco sui punti più culminanti di quest'epoca. Cotesti punti culminanti che noi, guardando indietro, scorgiamo nell'epoca già da noi descritta, e che crediamo ancor degni di qualche altro tratto della nostra attenzione, sono Lamoricière e Garibaldi, la condotta di Francesco II, e quella della Curia romana, quella del Governo piemontese, divenuto italiano, il giudizio della diplomazia, l'opinione della stampa sulla invasione delle Marche e dell'Umbria.

Garibaldi e Lamoriciere rappresentano i due principi opposti: la rivoluzione luno, la reazione l'altro: l'uno la libertà, l'altro l'assolutismo; e quindi vediam l'uno coverto della gloria de' suoi trionfi, l'altro giacente umiliato sotto il peso della sua sconfitta: luno che dalla serena solitudine di Caprera riscuote,

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e ricambia con soavi parole gli omaggi di riconoscenza e di affetto, l'altro che, ramingando, lancia documenti giustificativi per rendere meno ignominiosa la sua caduta. Alla indisciplinatezza dell'accozzaglia straniera da lui comandata, e specialmente dei corpi irlandesi, essersi d'attribuire la sua sconfitta, egli dice, alla scarsezza di pecunia, al niun valore, alla poca fedeltà delle stesse truppe papaline. Ed appare due opinioni aver formato il suo inganno, l'impreveggenza dell'aggressione piemontese, la sicurezza del soccorso francese. Infelice politico a Roma, per quanto valente generale a Costantina, egli che lasciavasi illudere dai dispacci provegnenti dalla Tuileries prodighi di promesse a' Romani, per quanto larghi di minacce verso i Piemontesi nella ipotesi d'una invasione degli Stati romani (1)! Egli che non seppe intendere quanto al Bonaparte interessasse alla iniziativa della rivoluzione italiana sostituir la iniziativa del governo piemontese! - Non si creda inesplicabile come il repubblicano del 1848 sia divenuto il sostenitore dell'autocrazia papale del 1860. Quantunque nelle sue lettere egli parli di compensi leggieri e delle poche speranze che s'abbia quaggiù (2), pure in scopo di Lamoricière pare non essere stato altro che quello di reclutare tutto il legittimismo europeo sotto il vessillo della croce a vendetta del Bonaparte. Ecco una fusione di tutti gli elementi avversi all'Impero ch'egli intendeva fare in nome del Papa, e della Religione. Il suo piano avrebbe prodotto la restaurazione, non è a dubitarne, ma ogni altra specie di assolutismo, che sostenuto non fosse da un Napoleonide, non avrebbe potuto ottener lunga durata in Francia, e quindi dalla restaurazione sarebbe di leggieri e subito, secondo parci aver pensato Lamoricière, scaturita la Repubblica. Ma egli, dodici anni dietro, aveva detto nella Camera legislativa francese: , e sans, e queste parole non poteansi lasciare inulte dal Presidente della Repubblica divenuto Imperatore dei Francesi. Onde la spedizione di Boma fu consentita e confortata a Lamoricière a fine di gittare nel fango l'eroe dell'Algeria.

Garibaldi, modesto nella solitudine, coltiva la terra della sua Isola, ma non manca di confortare gli uomini alla totale redenzione d'Italia, e tener desti gli affetti per la patria,

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e pei fratelli oppressi (3). Risponde agli omaggi di riconoscenza e di affetto: rende conto della sua salate agli amici, che il chieggono: raccomanda concordia, ed armamento: prega amore pel Re, e fiducia in lui; promette prossima l'opera sua per la totale redenzione d'Italia: accetta la presidenza delle diverse associazioni democratiche che gliela offrono, e man mano si vanno organando: induce a diffidar della diplomazia, e non fidare che nelle proprie forze, e con 500 mila uomini, conchiude, l'Italia sarà, ad onta di tutti i prepotenti.

In quest'epoca si parlò, e non senza grave preoccupazione degli spiriti, e della pubblica stampa, di dissensi insorti fra Garibaldi, ed il primo Ministro Cavour; e fra i Pubblicisti surse quistione di ed Annessione. quest'ultima non dovea portare, com'era logico, che ingrandimento del Piemonte, egemonia dello stesso su tutta l'Italia, annessa a lui, leggi piemontesi applicate a tutti ì diversi Stati italiani, sistemi piemontesi generalizzati per tutta la Penisola. L'altra, l'non dovea produrre che del tutto opposti effetti, quelli appunto cui aspirava ogni sensato Unitario, e che costituivano il vero scopo dell'Unità italiana, cioè eguaglianza di tutti gli Stati fra loro, e non egemonia di alcuno fra essi sugli altri, nuove leggi applicabili a tutta l'Italia, e degne del nuovo regno, nuovo organamento amministrativo, quale veniva reclamato dai bisogni collettivi e generali, nuovi sistemi finanzieri e giudiziari adattati al grado di civiltà del nuovo regno. In somma, secondo il sistema, il Piemonte dovea sparire per dar luogo al Regno d'Italia, quello doveva incorporarsi in questo, ed abbassarsi al livello di ogni altro stato, e subire le leggi comuni. Secondo il sistema, tutta l'Italia diveniva Piemonte, quella si fondeva in questo, le leggi piemontesi divenivano leggi italiane, e tutta l'Italia per siffatta guisa rendevasi- Ognun vede chiaro che la quistione ben meritava esser discussa, e, se non per indagare da qual lato si trovasse il vero del principio ed il bene della nazione, poiché non v'ha chi non vegga esser tanto razionale il principio dell'unità, quanto illogico e dannoso quello dell'annessione, almeno la discussione non meritava esser trasandata onde ottenerne, in opposizione dei municipalisti ed egemoniaci, il trionfo del sistema unitario su quello annessionista.

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- Cavour parve tendesse per l'annessione, ed in vero fu colpa di tutti i Ministri che lo seguirono, Garibaldi voleva apertamente, e propugnava da forte l'Unità. Fu questo il primo germe d'una divergenza che occupò seriamente, ed in gravi collisioni sospinse l'Italia, e di cui meglio vedremo lo svolgimento, tenendo dietro alle discussioni avvenute nella Camera legislativa.

Altri dissidi agitaronsi fra lo stesso Garibaldi, ed il Ministro della Guerra, Fanti. L'un voleva si armasse, e tosto, 300 mila uomini immantinenti sorgessero, dell'esercito borbonico si profittasse, istruendolo, moralizzandolo; e più ancora chiedeva l'esercito meridionale si conservasse, quelli fra essi che voleansi rimanere, non si respingessero, gli uffiziali in gran parte si riconoscessero. L'altro i soldati borbonici congedava, i Garibaldini con sei mesi di paga mandava a casa, e negli uffiziali condizioni d'idoneità richiedeva, ed uno scrutinio ed un esame prescriveva. - Conservare tutto l'esercito meridionale alla rinfusa non potevasi al certo, ma che si potesse armare con maggior sollecitudine, ed in più vaste proporzioni, fu cosa di cui ogni sensato patriota convenne, e che dichiarò colpa non lieve del Ministro Fanti il non averlo fatto.

Volgendoci a Roma, vi troviamo ancora quel Borbone, che nel capitolo precedente vi abbiamo lasciato. I suoi propositi son sempre identici, sempre egualmente tristi: incorretta, ed incorreggibile cotesta genia, come ben si disse di essa. Primo alto del Borbone, appena giunto in Boma, fu quello di protestare, e ben potete immaginare contro di quante cose protestasse, quante iniquità, quante violenze, e tradigioni si affacciassero alla sua mente, e commovessero il cuore del suo Ministro Casella in quel momento. Le iniquità di un congiunto, le cospirazioni di un governo amico ed alleato, le invasioni non giustificate da qualsiasi causa, i voti imposti, le violenze, le sopraffazioni, le ingiustizie d'ogni maniera: ecco le amenità di cui era ripiena la protesta di Francesco II (4), che da Boma si spediva presso tutte le Potenze europee.

Dietro la protesta esiste un proponimento molto più tristo e positivo, quello cioè di agitare il perduto reame con una reazione

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organata su vaste proporzioni, e di cui Borbone, facendo residenza a Gaeta, aveva impiantato germi nelle duecie di Terra di Lavoro, e Campobasso. E di qual natura cotesta reazione si fosse, con quali norme, con quali propositi, per quali vie, e con quai mezzi procedesse narreremo con le parole di on rapporto del commendatore Farini al Ministro Cavour:

«Francesco II, dopo essere staio scacciato da quasi tutto il suo Regno, ed essersi ritirato con una parte delle sue truppe nella provincia di Terra di Lavoro, tra Capua e Gaeta, cominciò col mettere in istato d'assedio tutti i paesi da lui occupati e fece su tutte le casse di beneficenza comunale ed private; impose gravissime tasse, distrusse qualunque libertà, licenziò la guardia nazionale, disarmò la borghesia, e vi sostituì un accozzaglia di plebe armata, servendosi, riguardo a quelli che infestavano le strade, di gendarmi travestili per promettere a tatti eguali impunità per qualunque furto, assassinio o delitto che potessero commettere in nome di S. Maestà.

«Infatti, appena s'istallò il governo borbonico a Gaeta, incominciarono la reazione, gli assassinii, le spogliazioni, gl'incendi, i quali evidentemente erano eccitati e ordinati dal governo.

«Degli innumerevoli fatti venuti a nostra conoscenza durante il breve tempo che è durato il nostro soggiorno, noi citeremo i seguenti:

» 1° Francesco II con decreto 6 ottobre investiva dei più estesi poteri, col titolo di, il maresciallo Luigi Scotti Douglas, e quest'ultimo, alla testa di 1200 soldati e più migliaia di contadini da lui arruolati ed armati, percorse il distretto di Piedimonte e d'Isernia, sollevando dappertutto l'infima plebe contro la borghesia, ciò che prova la terribile reazione che si è manifestata ad Isernia e nei paesi limitrofi al momento stesso del suo passaggio.

«Egli medesimo attaccò i Piemontesi sul Macerane e completamente battuto in poco volger di tempo, si rese prigioniero al generale Cialdini con un gran numero di ufficiali e parecchie centinaia di soldati.

«1° Il governo di Gaeta ha arruolati in tre battaglioni, per o pera dello stesso generale Scotti, una massa di gente detta, che si componeva in gran parie di usciti o fatti uscire dai bagni dello Stato e di confinati nelle isole di Ponza e Ventotene.

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«Questi battaglioni, tanto per la loro origine, quanto per le loro azioni, principalmente nei distretti di Sora ed Avezzano, comunemente chiamati, e gli ufficiali borbonici stessi li distinguevano con questo titolo, per non andar confusi sotto il medesimo stigmate d'infamia.

«I furti, gli assassinii, gli incendii, commessi da questi battaglioni sono innumerevoli.

«3. Dal ministro di Francesco II, Pietro Ulloa, fu emesso un gran numero di e distribuiti alla feccia del popolo rotta ai delitti, dando ai portatori il diritto di chiedere l'appoggio dell'autorità e della forza pubblica, e ben si conosce che da questi uomini derivarono tutte le reazioni.

«É ancora un fatto pubblicamente constatato che questi medesimi uomini distribuirono ai contadini, abusando della loro credulità, dei piccoli pezzi di, assicurandoli che erano stati inviati da Francesco II, il quale accordava loro per otto mesi, in virtù di questa carta, la facoltà di commettere in

4. La città d'Isernia è stata il teatro delle più grandi atrocità. Si riunì un gran numero di contadini e di gendarmi, che, ad un'ora fissata, non solo saccheggiarono tutte le case dei borghesi e bruciarono il palazzo del sig. Jadopi, stato deputato al Parlamento nel 1848, ma pugnalarono e fecero a pezzi suo figlio dell'età di 21 anni circa, dopo avergli tolto gli occhi ancora vivo.

«Nella stessa notte furono trucidati Cosimo di Bagis, ricco ed onesto proprietario ed altri molti. Il giudice del circondario si salvò solo, perché perduti i sensi, cadde a terra dopo cinque gravi ferite ricevute alla testa.

«Simili carneficine ebber luogo nel tempo istesso in altri paesi circonvicini, e specialmente a Forlì e Civitanuova, nella qual terra un onorevole sacerdote fu tagliato a pezzi.

In un processo sommario istruito da noi ad Isernia, due testimoni oculari, Francesco Taradisori e Desimone ci hanno fatto raccogliere i nomi degli autori di tale atrocità; questi nomi sono precisamente quelli che sono notati in margine in una supplica diretta da essi a Francesco II, nella quale domandano armi e monizioni,

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e narrano come il 1.° ottobre svaligiarono due vetture ed inviarono il prodotto del furto al palazzo, di Gaeta; che inoltre essi avevano arrestato parecchi individui tra i quali un giudice ed un prete, ch'essi tenevano rinchiusi nelle prigioni di Forlì».

«La concordanza dei nomi pronunciati da detti testimonii con quelli notati nella detta supplica, in cui si legge inoltre la scrittura autografa di Francesco II, prova ad evidenza donde sieno partiti gli ordini di tutti codesti orrori.

«6 Nella istruzioni del detto processo fu interrogato un malvivente di Civitanova, uno tra i capi della reazione, accusato di aver messo in brani il corpo di un sacerdote, come sopra si disse. Questo colpevole nomato Solideo Ricci nella deposizione che ha firmato, assicurò che il vescovo d'Isernia, ora fuggiasco, proclamato aveva dal pergamo i diritti illimitati che S. M. Francesco II accordava ai suoi fedelissimi sudditi per la difesa della pro propria causa.

«La supplica indirizzata da Antonio Lelli e Nicola Onorato di Forlì a Francesco II, nella quale, dopo aver rammentato come essi disarmassero la Guardia Nazionale del loro paese, ed imprigionassero il giudice ed altri molti, armarono in seguito il popolaccio e si recarono a Casteldisangro per eccitare il popolo contro i borghesi, e invitarlo ad imitareesempio di Forlì.

«Essi aggiungono che quella plebe obbedì alle loro istigazioni, ferì il giudice del luogo Antonacci e due altri liberali, e incendiò un palazzo alle grida di viva Francesco II. Per questi motivi i supplicanti domandano un impiego a Francesco II.

«Questi di propria mano l'8 ottobre segnò con matita a tergoistanza per la remissione di essa al Ministero dell'Interno, dal quale con decisione dell'11 ottobre in data di Gaeta, indirizzata al sotto-luogotenente d'Isernia, n. 257, rinviossi l'instanza medesima perché si facesse rapporto in merito sui postulanti, onde poter dare alla loro richiesta la debita evasione.

«8. A Teano il generale Alfieri di Rivera, l'11 settembre, alla testa delle sue colonne, mentre passava in vicinanza dell'abitazione del prete D. Tommaso Fumo, uomo benemerito per aver mantenuto

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l'ordine nel paese, eccitò a tal punto la truppa e la plebe, che la casa del detto Fumo ne andò saccheggiala e incendiala, e minacciale di morte tutte le oneste persone che trovarono solo scampo nella fuga.

«9. A Roccaguglielma i reazionari, composti di gendarmi e della feccia del popolo, s'impadronirono del barone Rosselli e del fratello di lui: dopo averli sottoposti a mille torture, li decapitarono, e per più giorni tennero le loro teste affisse a picche innanzi alla caserma. In pari tempo bruciarono il palazzo di Rosselli e quello di Footesone; e dopo aver arrestati tutti i cittadini li condussero a Gaeta ove sono ancora in prigione.

«Il giudice di Roccaguglielma ha tentato invano di procedere contro i carnefici dei Rosselli, poiché n'ebbe divieto da Francesco II, oltre a ciò tutte le persone che avevano preso parte a tali eccessi furono arruolate col soldo di 45 grana per giorno, che ricevono tuttora.

«Ma oltre alle prove sopra dette, ciò che meglio fa comprendere che tutti siffatti orrori traggono origine dagli ordini di Francesco Il emanati da Gaeta, è il fatto dell'imprigionamento di gran numero di onesti uomini, che sono stati condotti a Gaeta, dove sono di presente, dai medesimi paesani armati che commisero gli incendi ed i massacri.

Teano, 28 ottobre 1860. Cotesti nuclei primitivi s'impinguano, e si estendono con i soldati rifuggiti nello Stato romano. Costoro vengono restituiti ai loro paesi, e con particolari istruzioni, e bene armati si mandano a disposizione dei parroci, dei vescovi, e di qualche nobile. Il danaro si fornisce da tutti i legittimisti di Europa; e l', che si va raccogliendo presso tutto il cattolicismo, non ha uno scopo diverso. Uffiziali superiori, e generali spagnuoli e belgici son destinati a dirigere e comandare questo movimento di distruzione. La Regina madre n'è il principale ¡strumento. Le di Aquila, e di Terra di Lavoro, comechè vicine allo stato romano, e quindi più facili ad esser soccorse, ne formano i centri principali.

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Tutti gli scioperati delle Provincie meridionali, gl'imputati di reati, coloro che aborrono da ogni specie di lavoro, i soldati congedati del disciolto esercito, i galeotti, cui riesce evadere dai bagni, i ladri, i truffatori, tutta la bruzzaglia in somma più sozza del paese corre ad ingrossare le fila della reazione borbonica. Nello interno non mancarono arruolatori occulti, comitati segreti, e cospiratori d'ogni specie.

Protagonista di questo dramma ferale, per ora, fu un tal Giorgi, di cui non vogliamo omettere di presentare ai nostri lettori alcuni brevi cenni biografici.

Giacomo Giorgi nacque in Tagliacozzo, distretto di Avvezzano e divenne avvocato. É facile immaginarsi la lealtà e la buona fede, con cui il Giorgi nei circonvicini tribunali esercitò l'ufficio di Procuratore, ossia diSpesse volte egli difese ambedue le parti litiganti, difendendo apertamente il sacrificato, e sotto finto nome il sacrificatore. Per motivi d interesse propiné nella minestra il veleno al suo fratello Domenico, il quale, di ciò avvedutosi, si separò d'interessi e d'abitazione. Avido quindi di pingue dote, sposò la signora Maddalena Villa di Civitella Roveto, appartenente ad onesta famiglia, la quale però ebbe a soffrire i più brutali trattamenti. Notte tempo scalò la casa del sig. Onofri, ove era alloggiato il sig. Marj, pubblico ricevitore, a cui rubò varie centinaja di ducati. Alla famiglia Vetuli in Tagliacozzo, che aveva nel suo granajo cento e più some di grano, il Giorgi, avendo in affitto il sottoposto locale, coi trivelli bucò il soffitto di semplici tavole, ed ebbe dall'alto oltre la metà del riposto grano. Miracolo proprio dei sanfedisti!! Il Giorgi diresse per molto tempo la celebre banda dei ladri Tagliacozzesi, intenta a rapinare i cavalli stanziali principalmente nell'agro romano, e provincia di Campania. Oltre ai moltissimi cavalli, il Giorgi, colla sua banda, rubò cinque o sei vacche svizzere. Non dirò poi i ladronecci commessi dal Giorgi con chiavi false e colla falsificazione delle scritture pubbliche e private. Ne volete una prova? Pochi anni or sono, attesi i continui reclami, il Giorgi perfin dal Governo borbonico fu esiliato dal distretto di Avezzano, e relegato a Chieti. É pubblico poi e notorio, che il Giorgi costringesse sua moglie a prostituirsi al signor Tommaso Mancini suo compare,

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da cui ottenne premii e pienissima fiducia per la direzione degli affari giudiziali e stragiudiziali. Non ostante ciò, alla morte del Mancini, il Giorgi era debitore per tenuta amministrazione di quattromila ducati, pei quali dové rilasciare analoga obbligazione. Per esimersi dal risultante debito, il Giorgi esibì un testamento di poche linee, in cui si leggeva: e Istituisco eredi i «miei fratelli Aurelio e Giuseppe Mancini, con obbligo di paga e re a Giacomo Giorgi quattro mila ducati». Ma il testamento fu accusato di falsità, ed il Giorgi dové tacere, rinunciando alle pretese disposizioni di Tommaso Mancini. Restava però l'obbligazione, che il campione di Gaeta volte soddisfare nei trascorsi mesi. Imperocché il Giorgi, dopo avere colle notissime bande dei reazionarii taglieggialo la famiglia dei signori Mancini per ducati ventimila, volte che gli fosse restituita la sua obbligazione colla quietanza in calce: ed affinché non potesse mai e poi mai nascer sospetto di dolo o di usata violenza, volte che il Mancini nella quietanza apponesse l'antidata dell'anno 1859. - Ma cessiamo ormai dall'enumerare i delitti di un uomo cotanto scellerato. Chi sarà curioso di conoscere gli altri suoi delitti, o aver la prova di quei che furono accennati, potrà a suo bell'agio rovistare le cancellerie criminali di Avezzano, ove troverà essere stato il Giorgi per e più volte accusato.

Veniamo ai fatti recenti. Il Giorgi, mentre da locandiere ed oste travagliava colla sua moglie in uno sconcio locale posto sulla strada di Civitella Roveto, e mentre ai passaggieri ivi presentava il comodo di varie meretrici, sentì palpitarsi il cuore pel suo Re e protettore ristretto in Gaeta. Vi accorse, ed ottenne dal Re il titolo di Conte, come anche una squadra di cento galeotti e di alcuni soldati siciliani. Allora inalberò la nota bandiera, la quale da una parte presentava il ritratto di Maria Cristina, e dall'altra l'immagine dell'Immacolata Concezione. Orrendo contrasto tra un sublime mistero di religione cogli assassini, che al solito se ne fanno giuoco!! - Il Giorgi coll'ottenuta ciurma di galeotti e Siciliani tornò nel distretto di Avezzano, ove commise stragi e saccheggi; ove sciolse il freno alle sue ed alle altrui vendette. Saccheggiò Civitella Roveto. Minacciò arresto e fucilazione al parroco del Tufo, e quando lo supplicava a nome della popolazione

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Il Giorgi parti quindi dal circondario Carzolano, trasmettendo i suoi poteri a due zingari di puro sangue, e primarii grassatori del Carzolano. Venne in Roma, ove complimentato dal Duca di Trani e da Maria Cristina, come anche carezzato dal governo pontificio, con tumida fronte passeggiava nei principali convegni. Ma il popolo romano, che di questi e simili fiori di virtù è ormai stanco ed impaziente, nella domenica (27 gennaio) sulla via del Corso eoo abbondantissimi fischi accolse il Giorgi; il quale, vergognatosi per la prima volta di sé e delle sue nequizie, fuggi nella vicina locanda. Il masnadiero, ricevuti gli onori del trionfo in Roma, portossi in Tagliacozzo, ove trovò seimila ducali raccolti ulteriormente dai suoi sanfedisti. - Se tali son le virtù di Giacomo Giorgi, chi potrà ideare i pregi degli altri campioni satelliti del re di Gaeta?

In quest'epoca, a dimostrare quanto il Borbone, per effetto della sua ostinazione, e della sua cecità, si fosse reso degno del suo destino, fu pubblicata una lettera direttagli dal Re Vittorio dopo la battaglia di Solferino, e che noi crediamo ben degna di essere qui riprodotta.

Sarebbe inutile che vi facessi rimarcare la condizione politica della penisola dopo le grandi vittorie di Magenta e di Solferino, che hanno messo termine alla influenza dell'Austria nel nostro paese. Gli Italiani non possono ormai essere condotti dai loro sovrani, come trent'anni fa, a simiglianza d'un branco di pecore. Essi hanno piena conoscenza dei loro diritti e dippiù possedono la saggezza e la forza necessaria per difendersi.

D'altra parte, l'opinione pubblica ha sancito il principio che ogni nazione ha incontestabilmente il diritto di governarsi come le piace. Schiacciala una volta l'influenza tirannica dell'Austria, era affatto naturale che gl'Italiani si sbarazzassero dei loro sovrani d'ordine secondario e che cercassero di costituirsi in nazione forte ed indipendente.

Siamo arrivati a un'epoca in cuiItalia deve esser divisa in due Stati potenti, uno al Nord, l'altro al Sud, la cui missione sarà quella di prestare il proprio concorso, adottando una politica identica alla grande idea che predomina in Italia, all'idea di unità.

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Ma per ciò in credo assolutamente necessario che Vostra Maestà abbandoni immediatamente la fatale politica seguita fino ad ora.

Se resistete a questo consiglio che mi è inspirato unicamente, credetelo, dalla sincera affezione che nutro per voi e dall'interesse che prendo alla prosperità della vostra dinastia -se rigettate la mia propostone da amico, potrebbe venir tempo in cui mi trovassi nella terribile alternativa o di compromettere gl'interessi più serii della mia corona, o di diventare il principale istrumento della vostra perdita. Il principio del dualismo stabilito con successo e messo in pratica onestamente assicura la felicità nostra e quella del nostro paese, e può ancora essere accettato senza ripugnanza dagli Italiani.

Se lasciate scorrere alcuni mesi senza profittare del mio amichevole avviso, secondo ogni probabilità voi sentirete l'amarezza di queste parole «è troppo tardi», come la sentì nel 1830 un membro della vostra famiglia. Gli Italiani concentrerebbero allora in me tutte le loro speranze e ci sono dei doveri che da un principe italiano debbono soddisfarsi assolutamente per quanto dolorosi potessero riuscire. Adopriamoci assieme ad un'opera nobile, insistiamo presso il S. Padre sulla necessità di accordare riforme, congiungiamo i nostri stati rispettivi con un legame d'amicizia effettiva che originerà indubitatamente la grandezza della patria.

Accordate ai vostri sudditi una costituzione liberale, riunite attorno a voi gli uomini stimati soprattutto per aver sofferto di più a prò della causa della libertà, dissipate i sospetti del vostro popolo un'eterna alleanza sia cementata fra i due più potenti Stati della penisola.

Allora ci studieremo assieme di assicurare al nostro paese il controllo dei proprii destini. Voi siete giovane e generalmente l'esperienza non è l'attributo della gioventù; permettetemi dunque di insistere sulla necessità di seguire l'avvertimento che vi do in qualità di parente prossimo e di sovrano italiano.

Aspetto ansiosamente da Vostra Maestà una risposta soddisfacente al ritorno del corriere confidenziale, che è incaricato di recapitare questa lettera. Credetemi di Vostra Maestà

L'Affezionatissimo Cugino

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In questo medesimo tempo cominciò a far capolino una pretesa che aveva tutto il carattere, ed avrebb'anche potuto avere tutta la forza, d'intorbidare la vagheggiala Unità. Luciano Murat in una lettera scritta ad un certo Duca (5), il quale non si conobbe mai chi fosse, e quindi non senza buona ragione si suppose un essere immaginario, sporgeva delle pretensioni sul Regno di Napoli, qual figlio del defunto Gioacchino, ed In ciò era ben insito il concetto d'una Confederazione, concetto che nella sua espressione non andò mai scompagnato dalle apprensioni degli Unitali puri, molto più che del Trattalo di Zurigo fu condizione precipua co testa temuta Confederazione. A quando a quando il Murat ritornò sull'argomento con le solite lettere al

Avvenne un altro incidente in quest'epoca che merita tutta la nostra attenzione, come meritò quella della pubblica stampa, di qualunque colore si fosse, ed i comenti di tutti gli uomini interessati nei destini della patria loro. - Sia nobile emulazione, sia imprudente insinuazione venuta da seggi elevati, sia irritazione prodotta da parole in Parlamento profferite dall'uno nelle quali l'altro credette scorgere offesa ai deputati, ai Ministri, e più ancora all'esercito, sia pure ingenua convinzione, surse deplorabile controversia fra Cialdini e Garibaldi, la cui spiacevole manifestazione avvenne in una lettera diretta dal primo al secondo (6). La rottura fra i due grandi fa reputata sventura nazionale, onde non mancò la mediazione di patrioti influenti per la bramata conciliazione; ed avvenuta, fu soddisfazione comune, manifestala con lettere, e con indirizzi di numerosissime firme forniti, diretti al generale Garibaldi (7). La stampa tutta, tanto nazionale che estera gravemente si occupò dell'avvenimento, andò chiarendo i torli e le ragioni, diè colpa e merito, secondo la propria missione, sospinse alla conciliazione bramata. Lailla Presse, il, ill'ciascuno alla sua voi la, non mancò manifestare la sua opinione (8).

Detto del Borbone, non bisogna lacere della Corte pontificia. Antonelli protesta presso tutte le Potenze europee contro la invasione piemontese nelle Marche e nell'Umbria;

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e la Curia romana che nei suoi documenti sotto le forme della stizza, e dell'irritazione non ha mai mancato di esagerazioni, di contumelie, di calunnie, e di minacce, qui ne manca ben meno, comechè vede più grave la lesione de' suoi materiali interessi. Ma questa protesta era stata già prevenuta da una lettera del Conte Cavour, nella quale il valente politico si duole dell'accozzaglia straniera che tutto manomette, delle sanguinose repressioni che il governo piemontese non poteva guardare impassibile, dei soldati di ventura, al cui arbitrio vede abbandonati onore, averi, e vita degli abitanti d'una nazione civile; e che sciolgano subito, conchiude, le orde di avventurieri famelici, e lascino manifestare il sentimento nazionale.

Vediamo come la stampa straniera giudicasse la invasione delle Marche e dell'Umbria.

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La stampa inglese tutta, a qualunque partito e frazione appartenesse, approvò completamente la risoluzione adottata dal Governo Piemontese di intervenire nelle Marche e nell'Umbria. Questa conformità di giudizio l'abbiamo già fatta conoscere, alloraquando riferimmo i commenti della stessa sul proclama di Vittorio Emmanuele. Però, siccome essi continuano a trattare con molta assennatezza questo argomento, non riescirà discaro il conoscere tutto quello che i giornali inglesi pubblicarono a questo riguardo -

Il, avendo dimostrato che dal 1815 in qua le Marche non hanno appartenuto che nominalmente alla Chiesa, e che il potere reale è stato d'allora in poi quasi sempre in mano dei generali austriaci, si fa anch'egli a commentare le parole del proclama reale nella maniera seguente:

É uso lodare li linguaggio ambiguo dei Sovrani, perciò il proclama del Re Vittorio Emmanuele sembrerà poco conveniente ad un re per questo rispetto. Sarebbe difficile sorpassarne l'energia e la semplicità ad un tempo: peccato imperdonabile agli occhi della diplomazia! Ma è veramente degna di un re, nel senso antico della parola, la calma disdegnosa di quelle frasi con cui egli dichiara che non fa guerra per vendicar ingiurie od insulti a sé stesso ed all'Italia, ma per interporsi fra gli oppressori e la furia del popolo, e per insegnare il perdono delle offese e la cristiana tolleranza al crociato mercenario che paragoné la fede patriottica d'Italia all'Islamismo.

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Vittorio Emmanuele fa un appello alla coscienza d'Europa quando promette liberare l'Italia centrale da una causa continua di turbamento e di discordia. Cosi è pronto dare al capo della Chiesa ogni guarentigia di quel l'indipendenza e sicurezza, cui Antonelli comperava da cospiratori stranieri e da sicari prezzolati. E questa è l'ambizione di cui egli è accusato, di ristabilire cioè l'ordine morale in Italia e preservare l'Europa da pericoli continui di rivoluzione e di guerra. E una guerra impresa per tale causa rende l'ambizione virtù. Tutta I1 Inghilterra, noi non diciamo la protestante, ma la cristiana, la liberale Inghilterra, prega per la liberazione d'Italia, e per la pronta e decisiva vittoria del suo re. Se fu mai santa quella guerra che fu combattuta nell'interesse della umanità e della civiltà, questa lo è certamente. Per buona ventura l'esito non sarà dubbio, se l'Italia sola avrà da deciderlo. Stretto da ogni lato dalle popolazioni insorte, incalzato dalle forze dell'Italia libera, non sarebbe che per un vero e grande miracolo, se Lamoricière potesse sfuggire dall'armata piemontese, che lo stringe e lo serra. noi vogliamo supporre che la nazione francese si terrà ferita nel suo amor proprio, perché un rinnegato, già uno dei gloriosi suoi generali, ora raccoglie i meritati frutti sotto la uniforme papale.

- Il

giudica come segue l'invasione degli Stati Romani dalle truppe del re Vittorio Emmanuele.

«La Sardegna ha abbandonato la politica di temporeggiamento che aveva adottata indi all'armistizio di Villafranca. Non esita più essa, ma si gitta risolutamente nella via della rivoluzione italiana. La politica ha fatta la sua opera; tutto ciò che si è potuto fare in negoziando, vacillando, temporeggiando, si è fatto; non resta più al presente che risolvere la quistione con la sorte delle armi. Agevolmente si comprendono i motivi che hanno spinto la Sardegna a questo decisivo partito.

«Ben da lunga pezza ch'essa ed il suo Re erano i soli rappresentanti riconosciuti del movimento italiano, poteva credersi libera di pensare alla propria sua sicurezza ed attendere tranquillamente il progresso degli avvenimenti; ma il movimento italiano non è più sotto la esclusiva direzione del governo sardo.

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Vittorio Emmanuele ha in Garibaldi un uomo tagliato sul modello dei grandi e trionfanti conduttori delle sollevazioni popolari, un uomo disinteressato di tutto, ed incapace di lasciarsi influenzare dai motivi che guidano ordinariamente la condotta del comune dei mortali.

«Il conquistatore di Napoli e della Sicilia è ben deciso a non arrestarsi alle frontiere degli stati romani. Il prestigio che ba acquistato sembra sufficiente di fargli sormontare ogni resistenza degli Stati della Chiesa, e per condurlo, d'un colpo violento, in collisione con la potenza dell'Austria a Venezia. Ora, il governo sardo non è mica preparato ad una consimile conclusione. Vede esso chiaramente che se le cose continuano a camminare ancora qualche altro poco di tempo come vanno, potrebbe essere spinto il Piemonte non meno che tutto il resto dell'Italia in una lotta contro l'Austria, e forzarlo a correre il rischio di perdere tutto ciò che ha guadagnato, in una occasione in cui le sorti de' saccessi fossero contro. Bisognava dunque, ad ogni costo, che il Piemonte si rendesse padrone ancora una volta della rivoluzione. Deve appartarla, per non essere astretto di seguirla. Deve porre in rivoluzione gli Stati del Papa, affin d'essere nella posizione di arrestare un pericoloso movimento rivoluzionario contro la Venezia. Ha esso delle ragioni per credere che in un recente abboccamento l'imperatore dei Francesi è stato'indotto a giudicar le cose a questo punto di vista, e che non v'ha pericolo a temere dalla parte della Francia.

«Questi motivi sono sufficienti per spiegare del tutto il deciso movimento di Vittorio Emmanuele. Egli vive in un tempo di rivoluzione, ove lo spirito di conservazione s'eleva al disopra di ogni considerazione, e sarebbe puerile d applicare alla sua situazione le massime della legge internazionale, che sono applicabili ai periodi di quiete.

«Tali essendo i motivi che hanno spinto il Piemonte a sguainare la spada; resta a noi il vedere per quali ragioni giustifica esso questa risoluzione.

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«Questi motivi sono al numero di due: il sistema vizioso ed oppressivo del governo papale, e la presenza di bande considerevoli di mercenari stranieri, che opprimono il paese e spargono terrore. Lo scopo che proclama il Piemonte è di dare al popolo l'occasione d'esprimere le sue vedute e di ristabilire l'ordine civile. Il Re promette di rispettare la sede del capo della Chiesa ciò che significa, senza dubbio, la città di Roma e de' suoi contorni; ma accordando in tutto tale assertiva, il manifesto parla del Papa e dei suoi consiglieri in termini d'amicizia e d'acrimonia, che s'impiegano raramente a' nostri giorni, anche in una dichiarazione di guerra. Esso insegnerà al popolo il perdono delle offese, e la tolleranza al Papa ed al suo generale. Esso denuncia i consiglieri inetti del Pontefice ed il fanatismo della maligna setta che cospira contro la sua autorità e le libertà delle nazioni. È questo un severo parlare, dal quale assai chiaramente s'interpreta l'invio d'un'armata di 50, 000 uomini negli Stati della Chiesa.

«Noi non ci abbiam fatto scrupolo di confessare i motivi che spingono il re del Piemonte ad invadere il territorio d'un vicino, né ci facciam scrupolo puranche confessare che auguriamo con tutto il cuore il successo del Re.

. a Abbiamo per ciò non poche ragioni. Nello Stato attuale dell'Italia del nord e del sud, è impossibile assolutamente d'impedire un popolo oltraggiato e tiranneggiato, come i sudditi del Papa, di tentare in un tempo tanto ravvicinato una insurrezione prematura e disperata, se non si tien conto che delle loro proprie forze. A Fossombrone l'insurrezione è stata repressa dalla forza, ed il telegrafo c' informa di essersi rinnovate le scene di Perugia. La guerra aveva cominciato tra il Papa ed i suoi sudditi pria che Vittorio Emmanuele oltrepassasse la frontiera, e noi sappiamo in qual modo facciano la guerra i soldati della Croce.

«Noi non desideriamo di vedere Lamoricière ed i suoi condottieri portare il ferro ed il fuoco in tutt'i possedimenti del Papa, e giustificare il governo del Vicario del Cielo con atti che l'inferno istesso si vergognerebbe di adoperare.

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«Questa banda di mercenari è una minaccia ed un insulto pel resto d'Italia. Non è stata creata che per opprimere i sudditi del Papa, e per ¡schiacciare la nascente rivoluzione con la forza delle armi: noi non vediamo perché le potenze, contro di cui quest'armata è stata formata, attenderebbero che questi liberi uomini, saturali da rapina e da strage negli stati del Papa, s'avvisassero di andare a far il loro mestiere in Toscana o nelle Legazioni. Vi ha cosi l'oppressione intollerante del governo del Papa. La pruova migliore di questa oppressione è che il Papa non ha confidato nelle armi de' propri sudditi, e che, come Dionigi di Siracusa, esso si colloca nelle mani di mercenari stranieri.

«Lo spettacolo di un popolo ridotto all'obbedienza con simili mezzi è un oltraggio per la civilizzazione del secolo, ed un pericolo benanche d'una minaccia sul resto dell'Italia. Cosi quando si avrà ristabilito al centro dell'Italia un governo che possa mantenersi senza il concorso di 10, 000 baionette francesi, e di 25 mila mercenari stranieri, è da sperare invano la pace. Ammettiamo volentieri che questa sola estremità del male giustifichi il partito che prende la Sardegna; ma noi contiamo che esso lo giustifichi. Il male non poteva guarirsi da sé stesso.

«Le cavallette non partono infino a che vi resta un filo d'erba a divorare, ed i mercenari avrebbero restati lungo tempo infino a che la fortuna, la viltà e la vendetta avrebbero ad essi offerte le loro tentazioni. Per lui le queste ragioni, noi pensiamo che il Re di Sardegna ha dritto alla simpatia degl'Inglesi nella guerra che egli ha intrapresa. Noi gli auguriamo di tutto cuore un successo rapido e decisivo.

Il signor Boniface nel parla cosi: L'invasione del territorio napoletano per parte dell'armata Piemontese, è ornai fatto compito; noi vogliamo esaminare con una scrupolosa imparzialità il carattere e la portata di questo avvenimento.

Qui il sig. Boniface stabilisce i principii fondamentali dell'indipendenza dei popoli garantita dalla sovranità degli stati; onde la interna libertà ed il principio di non intervento, sanzione di questi principii di reciproca garanzia. Scendendo poi all'applicazione di questi principii alla quistione italiana, deduce dalla libertà interna il diritto nei Siciliani e napoletani di fare la rivoluzione in casa loro,

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e secondo il principio di non intervento afferma non appartenere al Piemonte, più di quello che appartenga all'Austria d'immischiarsi nei loro affari interni, chiamando questa ingerenza politica un intervento armato; ed ecco come spiega la sua distinzione:

Tra l'intervento di Garibaldi e quello dell'esercito piemontese, vi è una differenza che colpisce troppo gli animi. Garibaldi non era che un uomo di parte; prima di imbarcarsi avea resa al suo sovrano la sua spada di comandante; obbediva a ciò che egli considerava come la sua missione personale, ed i suoi alti non impegnavano che lui. Se è vero che fra i volontari arruolati nella sua impresa, vi fossero degli stranieri, non per questo erano meno venuti in nome d'Italia, come un Italiano, per sollevare e dirigere una rivoluzione interna negli Stati del re di Napoli. Non era certo colle sue bande che ei poteva conquistare un popolo di dieci milioni di abitanti; null'altro poteva che comunicar loro la propria pressione, e trascinarli col prestigio che si attaccava al suo nome, in una lotta suprema contro un governo colpito d'impopolarità.

L'invasione piemontese ha ben altro carattere. Essa costituisce l'ingerenza di uno stato regolare in uno stato indipendente. Essa è per conseguenza un attacco portato contro la sovranità del reame, e come se tutto dovesse essere strano ed anormale in questa situazione, l'invasione Piemontese ebbe luogo senza dichiarazione di guerra, mentre il rappresentante del re di Napoli era a Torino.

Ma la condotta del Piemonte non è soltanto in opposizione col diritto delle genti; essa è anche in contraddizione con tutti i principi che ha invocati esso stesso e che ora disconosce. Infatti quando parve che il governo romano avesse intenzione di fare appello all'intervento napoletano per proteggerlo contro le minacce della rivoluzione, il gabinetto di Torino non esitò a dichiarare che considerava l'entrata dell'armata del re di Napoli negli Stati della Chiesa, come una violazione della di lui neutralità.

Recentemente ancora ha contestato al Papa stesso il diritto di comporre una forza pubblica con elementi stranieri, ed è perché il Sommo Pontefice si è rifiatato di aderire ad una ingiunzione che lo invitava a sciogliere questa forza, che i suoi Stati furono invasi.

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Per quale strana inconseguenza il Piemonte che rivendicava in guisa cosi minacciosa il principio di neutralità contro un governo che voleva proteggersi, in viola oggi con questo ardire, contro quei governi medesimi, per ¡spodestarli?

Vi è ancora di più. Quando il conte di Cavour volte giustificare nel suoinvasione degli stati della Chiesa, ba fatto intendere chiaramente che il Piemonte voleva prevenire l'irruzione rivoluzionaria, e che quest'atto, cosi grave da parte sua, era una specie di colpo di Stato militare, diretto principalmente contro l'influenza di Garibaldi.

Ora, oggi, intervenendo negli Stati napoletani, forse che il Piemonte va a combattere Garibaldi? Evidentemente no! Egli va ad aiutarlo. Non è contro Napoli, sibbene contro Gaeta che devono rivolgersi gli sforzi dell'esercito piemontese.

Così dunque da qualunque punto di vista che uno si metta, non può a meno di deplorare la condotta del Piemonte. L'invasione degli stati della Chiesa e quella degli stati napoletani gli creano una responsabilità che sarebbe inutile di attenuare; essa si caratterizza da sè.

Il Piemonte è responsabile davanti all'Europa dell'iniziativa che ha presa.

Il sig. Boniface conchiude, appellando al Sindacato dell'Europa di questa, che a lui pare, violazione del diritto pubblico. Ma la del 12 prendendo ad esaminare il giudizio del signor Boniface sulla politica del gabinetto di Torino, comincia dal contestare quasi al il carattere semiofficiale, che tolti gli riconoscono.

Ecco la risposta del sig. Mathias:

Il pubblico ha preso da qualche tempo, non si saprebbe al cerio perché, l'abitudine di accordare una qualche attenzione agli articoli delLe numerose smentite che il governo e i fatti hanno inflitto a questo foglio, ristringono di molto ai nostri occhi l'importanza delle sue dichiarazioni.

Ilstabilisce un parallelo fra gli atti del conte di Cavour e gli atti di Garibaldi. Ei si pronunzia caldamente i n favore di questi ultimi.

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Che si stabilisca a Napoli un governo puramente rivoluzionario e dittatoriale, nulla di meglio: agendo cosi Garibaldi non impegnava che lui stesso, ma che' ad uno stato di cose provvisorio, violento, che eccita tutte le passioni, che trascina tutte le speranze, e, conseguentemente tutte le inquietudini, si faccia succedere un regime legale, regolare, costituzionale; che si rimpiazzino le bande sollevate in nome dell'indipendenza con forze disciplinale; ecco ciò che il sig. Boniface non può ammettere.

Il dice che Garibaldi agisce nell'interesse dell'Italia; noi crediamo che il conte di Cavour non agisca altrimenti.

Faremo notare al che il Piemonte accetta perfettamente la responsabilità dei suoi atti; e ne appella al sindicato dell'Europa, colla medesima sincerità del sig. Boniface.

A proposito della qualificazione dell'intervento armato, faremo notare che il diritto d'intervento armato appartiene in questo momento più al Piemonte che all'Austria. Il sig. Boniface dimentica che per aver tentato diciotto mesi or sono di esercitare il medesimo diritto, passando il Ticino, l'Austria fu messa al bando dell'Europa, e ricevette le severe lezioni di Magenta e Solferino. II Piemonte, al contrario, non pare che abbia a temere che proteste più o meno officiose, il che stabilisce fra la sua posizione e quella dell'Austria una differenza abbastanza grande.

Anche ilin un articolo firmatoprende a discutere il giudizio del signor Boniface, e combatte la qualificazione d'intervento armato, facendo osservare che l'esercito piemontese interviene come amico, invitato, acclamato dalle popolazioni; definisce la sovranità popolare col diritto di costituirsi la sovranità che più le piace, quindi Napoli e le Sicilie essere in diritto di acclamare Vittorio Emanuele; e conchiude alla sua volta:

Il Piemonte resta fedele alla missione che si è assunta. Rappresenta la nazionalità italiana, e copre della sua possente egida de' popoli che troppo a luogo oppressi sono unanimi nelle loro aspirazioni. I loro nemici erano i suoi. Quando la gloriosa rivoluzione delle Romagne era minacciata, il suo dovere era di difenderla e di impedire ad un monarca assoluto di comprimerla.

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Quando le bande straniere si radunavano per combattere la volontà degli Italiani, era suo dovere di protestare, ed è questa stessa volontà che gli impone il dovere di entrare nel regno delle Due Sicilie. Se uno si mette al punto di vista di questa liberazione d'Italia cominciata con tanto splendore dalla Francia, non si può che applaudire a Vittorio Emmanuele. Il deplorarlo è far causa comune coi partigiani della legittimità che vorrebbero ammutinate contro di noi le potenze del Nord e predicono il giorno in cui, per servirmi delle espressioni poetiche dell'

Union

, i Titani saranno fulminati.

L', in un articolo del signor Guerault, non la pensa altrimenti, e giudicaarticolo del come lo giudicano la ed il

Il, nel suo bullettino politico, dice dissentire apertamente dall'opinione del

- Leggiamo nella Rivista politica dell'

del 13, relativamente all'articolo del le seguenti parole: a Se noi valutiamo bene la condizione delle cose, e crediamo di bene apporci, questo articolo del non ha altro scopo, che di dare una certa soddisfazione agli scrupoli del sig. Thouvenel; gl'Italiani non se ne daranno pensiero e né avranno assolutamente torto, se, come noi lo pensiamo, la politica generale della Francia relativa alla questione italiana rimane quale è stata fin qui.

Il giornale belga ora citato, tornando a parlare delle tre potenze del Nord, Austria, Russia e Prussia contro il Piemonte, dice ciò esser certo soltanto dell'Austria, e dubbio in quanto alla Russia, ed alla Prussia. Ecco che cosa dice il su tal proposito: e Ammettendo pure la possibilità anzi la probabilità di rimostranze per parte dei gabinetti di Pietroburgo, di Berlino, e di Vienna, noi ricusavamo di credere, almeno in ciò che concerne la Russia, all'autenticità di un atto che 'tale qual è annunziato, avrebbe per una grande potenza che si rispetta una forza obbligatoria che interessi maggiori e nazionali possono soli decidere un governo a mettere in opera.

«Dobbiamo rallegrarci noi stessi delle nostre riserve. La notizia in questione non è vera; le tre potenze del Nord non hanno rivolto nessuna protesta al governo Sardo.

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Niente ci prova che non gli abbiano fatto delle osservazioni, ma ciò che ci basta di sapere, si è che uno sbaglio simile a quello che implicava la notizia in questione, non è stato commesso da quella fra le tre corti del Nord i di cui atti c' interessano in modo più particolare».

Comunque sia di tal questione, che queste proteste esistono o no, la politica moderna, cosi la, sembra farne tanto poco caso che si possono considerare come una formola d'etichetta internazionale. In generale esse dicono molto per avere un pretesto di fare pochissimo:

Ed onde i nostri lettori possano formarsi una idea più netta intorno alla politica francese sulla questione italiana: riportiamo il seguente articolo dall'

- L'importanza del noto Articolo del

, di cui abbiamo dato già il commento dell', ci ha persuaso ad aggiungervi anche il seguente articolo dell'

Non è lontano il giorno che vide queste popolazioni festeggiare fra le acclamazioni della più frenetica gioia l1 Imperatore d'una possente nazione, duce dell'armate liberatrici; ma rapida come il lampo svaniva quella indescrivibile popolarità. Un programma nobile e generoso al di là delle aspirazioni d'allora degli Italiani fu, senza lor colpa, troncalo al bel principio, e la pace di Villa franca gettò un velo di duolo e di terrore dove prima brillava la più sincera confidenza. Allora gli Italiani appresero, che se c'era salvezza per la loro patria, non poteva trovarsi che nella fermezza e nella loro unione. Invano da quell'epoca tentossi di giustificare e di render popolare la politica imperiale; i principi, i gabinetti dissimularono; gli ingenui continuarono a sperare; ma il buon senso dei popoli non poté superare un istinto di diffidenza, quantunque ogni individuo in particolare sentisse un bisogno di gratitudine per il nobile eroismo dei soldati francesi. Questo sentimento di diffidenza si trovò talmente aumentato dall'ambiguità della politica delle Tuileries, e da tutti i suoi atti avversi all'unità italiana, che l'eco ne risuonò nelle aule di quella reggia, al segno di provocare una recente giustificazione nella stampa semiufficiale di Parigi.

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Da questa risulta chiaramente, che non è Napoleone che ha ingannato gli Italiani, ma che essi si sono delusi volontariamente nel credere al di lui interesse per la loro causa.

La politica imperiale, secondo la confessione dell'interprete semiufficiale di Napoleone, non poteva né secondare in sviluppo dell'indipendenza italiana alla quale egli stesso ci aveva solennemente invitali, né opporvisi apertamente, aumentando la reazione, senza compromettere, seguendo luno o l'altro di questi partiti, o i suoi più incontestabili principi di dispotismo temperato dal suffragio universale, o i suoi interessi più essenziali d'ingrandimento della Francia, cui tendono le idee napoleoniche. Ecco il sunto delle mire dell'Imperatore dei Francesi abilmente avvolte nelle circonlocuzioni semiufficiali. Per lui l'Italia non è mai stata, e non è una nazione palpitante sotto il giogo dell'oppressione clericale e straniera, ed ansiosa di vivere della vita dei popoli indipendenti; essa non è che uno dei campi sui quali, sintanto che è sommossa, può esercitarsi l'autorità morale della Francia e!a sua influenza, che egli considera come un elemento dell'Equilibrio Europeo. Noi non perderemo il nostro tempo a provare che i preziosi vantaggi di questa influenza per la pace e sicurezza degli Stati Europei, è manifestata da una si straordinaria diffidenza, che gli armamenti, le fortificazioni, le flottiglie più esorbitanti, e rovinose per tutti gli Stati sembrano inferiori al bisogno di difesa contro la Francia sola. Ci contentiamo di prender alto dello scopo della politica di Napoleone, per il quale la nazione italiana poteva e può essere uno strumento d'influenza, di grandezza o d'interesse francese; ma la cui prosperità non entrò, né poteva mai entrare nei suoi progetti.

È assurdo, in politica, rimproverare al capo supremo di una nazione, di agire conforme a ciò che crede il di lei interesse, ma è molto più assurdo il parlare di simpatia e di riconoscenza verso chi non cura che il proprio vantaggio. L'intervento francese a Roma, a Viterbo e nella Comarca, contro il desiderio degli Italiani, è una misura che contraddice le professioni di equa imparzialità di quel governo; l'aumento dell'armata d'occupazione nel nostro paese non può essere considerato senza avversione da chi la propria patria; e nessun Francese ili buona fede potrà approvarlo.

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L'Europa non ha bisogno di apprendere da nuove proteste e da nuove emigrazioni in massa quanto è abbonito e detestabile il regime pretesco; e la diplomazia stessa ne avrebbe riconosciuto il tramonto come un fatto compiuto, se l'intervento straniero non si ostinasse ad imporcelo per forza per undici anni consecutivi. Il territorio al di d'oggi occupato dalle truppe francesi equivale quasi a quello della Lombardia, ed il governo che sostengono non è per nulla migliore di quello dell'Austria.

Quale vantaggio dunque ha recato la Francia all'Italia, se, non ostante il sangue sparso, la cessione di territori ed il pagamento di tanti milioni come compenso all'Austria per la Lombardia, gli stranieri calpestano la stessa estensione del suo suolo, ed aiutano ad opprimere i suoi figli? Se il governo francese avesse dato l'esempio dell'esecuzione del non intervento, lasciando gl'Italiani liberi della loro sorte, il partito clericale stesso avrebbe dovuto sottomettersi a questo principio adottato dalle potenze, invece di rinfacciare a Napoleone la duplicità di un aiuto inefficace, al quale niente lo obbligava. Allora si che gl'Italiani riconoscenti per l'impulso da lui ricevuto verso l'indipendenza, avrebbero riunito per sempre la loro bandiera alla gloriosa bandiera della» Francia su tutti i campi di battaglia. Ma non è colpa nostra, se una politica dubbia ed ambigua seminando diffidenze, raccoglie avversione. Il popolo italiano continuerà a trattare con fraterna gratitudine tutti i compatrioti degli eroi di Magenta e di Solferino; ma riguarderà con avversione ogni straniero armato che a suo dispetto viene ad imporgli un governo abborrito.

- Lemoinoe nel

giudica nel modo seguente l'intervento piemontese: Dopo il giorno in cui una guerra che abbiamo approvata nel suo principio e che continuiamo ad approvare nelle sue conseguenze, ha liberato gli Italiani dalla pressione straniera ed ha loro restituito l'uso del libero arbitrio, noi non abbiamo cessalo di dimandare che si lasciassero fare ad essi stessi i proprii affari. Anche oggi ciò è tutto quello che domandiamo. Noi comprendiamo benissimo che un governo regolare non voglia punto sanzionare, fosse anche colla presenza del suo rappresentante, degli atti che non sono all'intuito conformi alle regole ordinarie, ma noi crediamo che s'ingannino

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coloro i quali vorrebbero trasformare un semplice rifiuto di concorso in una minaccia di repressione. Noi siamo convinti che il principio di non intervento, che è intimamente legato al principio della sovranità nazionale, continuerà ad essere rispettato, ed abbiamo la ferma speranza che i rapidi cangiamenti di cui l'Italia è il teatro non ne condurranno de' più grandi e dei più gravi in Europa. Naturalmente noi non parliamo che del momento attuale; noi siamo convinti che gl'Italiani sapranno al bisogno arrestarsi nell'istessa guisa che han saputo camminare allorché conveniva, e che essi saranno ab bastanza prudenti ed avranno troppo spirito e chiaroveggenza per andare da una parte ad attaccare la bandiera che loro è servila tempo fa di segnale ed oggi serve loro di protezione, e dall'altra provocare un'aggressione contro la quale essi non sono ancora abbastanza preparati. Ma, in questi limiti, la loro azione è legittima, ed essi non danno a chicchessia il dritto o il pretesto d'immischiarsi ne' loro affari.

Sappiamo che rivendicando il principio del non intervento, ci esponiamo a sentirci dire che noi entriamo in un circolo vizioso. Ci si può dire che la Francia ha fatto la guerra d'Italia. Ma noi risponderemo che essa l'ha fatta precisamente per ristabilire e far rispettare questo principio che noi mettiamo per base. L'Italia si trovava allora in una situazione contraria a tutti i diritti delle nazioni; essa era o occupata da forze straniere, ovvero governata da principi di cui il potere non riposava che all'ombra della protezione straniera. L'atto della Francia è stato quello di liberare i prigionieri, di slegare le loro braccia e dir loro:Ed è ciò appunto che essi fanno.

Ci si potrebbe anche dire che il Piemonte, entrando negli Stati che lo chiamano, fa un alto di intervento. Un tal ragionamento è un sofisma che sarebbe tempo di condannare. Dire che il Piemonte interviene in Sicilia, a Napoli, negli stati romani, è lo stesso se si dicesse che gl'Italiani intervengono in Italia. Noi non diciamo il contrario. Essi intervengonoEssi sono nel paese proprio: essi combattono per le loro case, pe loro altari, pe' proprii focolari. L'Italia è degl'Italiani, come la Francia è dei Francesi, l'Inghilterra e degl'Inglesi, la la Spagna degli Spagnuoli;

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noi eravam per dire come Roma dei Romani, ma si pretende che essa è di tutto il mondo, quindi ci arrestiamo innanzi ad ostacoli sui quali non vogliamo punto argomentare.

Domando io, qual uomo di buona fede o quale individuo di buon senso si persuaderà che Garibaldi, andando alla guerra con 800 nomini, rappresenta ciò che chiamasi in termini di melodramma un1 orda straniera? Quando egli sbarca sulla terra di Sicilia o di Calabria, ei mette il piede sul suolo del suo paese, sulla terra d'Italia, egli parla italiano, e gli si risponde italiano, e quando getta il grido della liberazione, l'eco di tutti i monti, di tutte le rive, di tutte le mura gli rispondono nella lingua indigena. Le orde straniere erano quei mercenari di ogni paese che da tanti anni erano accampati e fortificati nelle principali città d'Italia che straziavano le orecchie nazionali con le loro lingue barbare, e comunicavano col popolo per mezzo dei dragomanni, come i Turchi. Vi bisogna, in vero, un singolare travolgimento d'idee per pretendere che in Italia gl'Italiani sieno stranieri e che gli Svizzeri ed i Bavaresi sieno nazionali; ma si è talmente abituato nell'istoria a far dell'Italia una preda, che gl'Italiani hanno l'aria di prendersi il bene altrui quando essi rientrano nel possesso della loro patria.

Convien dunque rinviare a chi li merita i rimproveri d'invasione, di violazione di dritti internazionali, e simili paroloni con cui si pretende spaventare. I primi violatori del dritto sono quelli appunto che occupano un paese contro la sua volontà. Or come si potrebbe dubitare della volontà degl'Italiani vedendo l'immenso ardore col quale si precipitano verso l'unità? Ciò che avverrà in prosieguo, noi sappiamo; ma ciò che vediamo si è che l'idea irresistibile, invincibile dell'unificazione, s'è impadronita dell'Italia, imperocché essa ha compreso che questo era il solo mezzo di affrancarsi. Garibaldi è una spada, ma a capo di questa spada vi ha un'idea e quando anche la spada venisse a spezzarsi, l'idea sarà raccolta nel sangue e seguirà il suo corso. Chiamare la spedizione di Garibaldi un'invasione è un insulto al più volgare buon senso. Egli è probabile che non avrebbe, co' suoi 800 volontarii, preso possesso di un regno di parecchi milioni di uomini, se questi milioni d'uomini non in avessero voluto,

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ed è ben diverso il conquistatore a mano armata da colui che entra solo nella capitale del paese conquistato, senza correre altro pericolo che quello di rimanere oppresso sotto i fiori. Non è Garibaldi che è andato a Napoli, ma è Napoli che si è recata a lui, è il Vesuvio che è andato a Maometto.

Questa tendenza dell'Italia verso l'unità è talmente pronunciata, talmente universale che, nella posizione attuale delle cose, l'intervento del Piemonte, riguardato come un atto rivoluzionario è, secondo noi, un atto controrivoluzionario. Il re Vittorio Emanuele ed il conte di Cavour fanno, al momento opportuno, un atto di reazione. Il movimento che avrebbe portato Garibaldi fino alle porle di Roma sarebbe stato troppo forte, perché egli stesso avesse potuto dominarlo, ed allora la sorte non solo dell'Italia, ma dell'Europa, era posta di nuovo in quistione. La soluzione presa dal governo piemontese, che ha tutte le apparente d'un movimento in avanti, è per l'opposto una soffermata; è anche una diga frapposta per ora al movimento italiano. Se qualcuno ha dritto a compiacersene, è appunto il partito che voleva l'unità completa dell'Italia; ma quelli che trattano Vittorio Emmanuele ed il conte di Cavour da rivoluzionarii, commettono una grande ingiustizia, perocché l'occupazione delle Marche e dell'Umbria dalle truppe regolari del Piemonte è precisamente ciò che può arrestare la rivoluzione in Italia e la guerra in Europa.

Per l'Italia ¡stessa questa soffermata è senza dubbio il partito più saggio. Essa lascia ancora nelle mani del nemico una delle più belle perle della sua corona, la perla nera dell'Adriatico, ma il rapitore l'ha stretta in tali forzieri di ferro che vi bisognerà molto di tempo, di uomini, di sangue e di argento per ripigliarla. Il giorno forse verrà. Mentre aspettano, quel che han dì meglio a fare gl'Italiani, si è disciplinarsi, organizzarsi, unirsi sempreppiù, bruciare i cadaveri di tutte le piccole autonomie sul l'altare della grande autonomia italiana; e noi confidiamo che tra poco non vi sarà più re di Piemonte, ma un re d'Italia coronato a Firenze.

- Ecco in quali termini in

noto organo di lord Palmerston, si esprime a riguardo delle troppe piemontesi negli Stati del Papa:

- 110 -

Il proclama col quale il re Vittorio Emmanuele informa le sue truppe, l'Italia e l'Europa che egli è sol punto di prender possesso delle Marche e dell'Umbria, non ha dovuto punto sorprendere un osservatore attento su di ciò che avviene in Italia.

Da qualche tempo, se siamo ben informati, il generale Cialdini, il cui corpo d'armata stanziava nella Cattolica, avea ricevuto istruzioni le quali, nel tempo stesso che gli prescrivevano di passar la frontiera e di battersi col generale Lamoricière, lasciavano alla sua discrezione la scelta del momento opportuno per questa operazione.

Il generale Cialdini è uno dei più abili e più leali uffiziali dell'armata sarda. Nato a Modena, egli lasciò ben presto la sua patria per andare a mettersi in Ispagna al servizio del partilo liberale, ed entrò nel l'armata sarda verso la fine del regno del re Carlo Alberto. Egli pervenne al grado di Generale di divisione e comandava l'avanguardia allorché gli Austriaci comandati da Giulay fecero la loro aggressione intempestiva contro il Piemonte. Cialdini passò la Sesia innanzi a tutta l'armata austriaca, e si distinse soprattutto per l'abilità strategica colla quale, negli scontri che per due giorni di seguito ebbero luogo a Palestro, e gli menava alla vittoria le truppe del re Vittorio Emmanuele.

La causa della libertà civile e dell'indipendenza nazionale non poteva essere meglio rappresentata, e l'onore militare della Sardegna non poteva esser confidato a mani più sicure. Quindi il re gli ha dato il comando superiore di tutta l'armata d'occupazione nell'Umbria e nelle Marche.

La missione di quest'armata d occupazione è in parte civile, in parte militare, in parte didattica. La sua missione civile è: preservare l'ordine, la legge e la pace in una popolazione furiosa, esaltata e spinta alla vendetta contro i suoi tiranni clericali dal ricordo di alti innumerevoli di crudeltà. La sua missione militare è necessariamente di stabilire una linea non interrotta di comunicazioni, tra le forze nazionali dell'Italia settentrionale e quelle dell'Italia meridionale, di combattere e di mettere in rotta questi avventurieri e questi mercenari che bruciano, violano e massacrano in nome della fede cattolica.

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Il proclama di Vittorio Emmanuele ci fa sapere quale sia la

missione didattica dell'armata di Cialdini: essa è incaricata di dare una lezione allo stesso generale di Lamoricière.

Il

cosi si esprime sci proposito:

Le nostre previsioni si sono realizzate. Il re Vittorio Emanuele non ha potuto rimanere testimonio impassibile delle insensate provocazioni del generale Lamoricière e dell'oppressione alla quale sono in preda la sventurate popolazioni delle Marche e dell'Umbria. Egli ha accondisceso ai loro voti.

Non è per fare conquiste che il re di Piemonte entra nelle Marche: si è per far cessare un vero stato d'intervento estero, e il peggiore degli interventi, quello delle truppe mercenarie che nessun vero interesse autorizza ad insanguinare il suolo italiano. Entrando nelle Marche, il re Vittorio Emanuele non dichiara la guerra al Papa. Egli rispetterà la sua sede pontificale; egli rispetterà nel Papa il capo di una grande religione, il protetto della Francia. Egli la libererà da quelli che l'opprimono, e che vogliono perdere la religione, rendendo odioso il suo capo.

Checché ne sia, l'importanza di questa decisione non sfuggirà ad alcuno; essa comincia una nuova fase della questione d'Italia.

Noi facciamo i voti più ardenti affinché l'intervento d'altronde si legittimo del Piemonte non chiami alcun intervento di sorta.

11 piano della controrivoluzione Italiana era precisamente di forzare, con i suoi eccessi, il Piemonte a prender una posizione. figli prende quest'oggi questa posizione colla sua ordinaria cavalleria. Fra lui e gli avventurieri di tutte le nazioni che si sono assoldali per la controrivoluzione Italiana, la questione non può esser dubbia.

Molti domanderanno se non era meglio lasciare che le popolazioni si liberassero da per sé stesse, e non offrire alcun pretesto d'estero intervento. Ma l'Europa fu spettatrice dell'accaduto. Essa sa chi ha paragonato la rivoluzione all'islamismo, e chi ha paragonato la crociata contro la liberazione d'Italia.

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Noi speriamo ch'essa saprà tener conto delle necessità che tao te provocazioni hanno creato a Vittorio Emanuele e dei pericoli che l'ordine italiano ed il cattolicismo avrebbero corso se un governo regolare non avesse prevenuto la lotta disordinata che stava per ¡scoppiare.

Si sparge d'altronde che certe potenze avrebbero consigliato l'intervento del re. Esso sembrerebbe di tal natura a conseguire più presto un accordo europeo.

Altrimenti non si impiegherebbe perché il Piemonte non abbia pazientemente aspettalo che la forza delle cose facesse nascere un conflitto fra le truppe di Garibaldi e quelle di Lamoricière. Egli poteva, dicono gli egoisti, restar spettatore di questa lotta e profittarne. Bisogna che interessi morali ben pressanti lo abbiano deciso ad intervenire. Gli avvenimenti ci spiegheranno questi interessi.

Intanto con ben giusto orgoglio nazionale ognuno attendeva con ansia l'elezione dei Deputati al primo Parlamento italiano, e questo giorno, che per ogni buona ragione non doveasi di molto differire, si fece ben poco attendere, poiché con Decreto del di 3 gennaio 1861 fu disposto che i Collegi elettorali sarebbero convocati pel giorno 27 del corrente mese, ed il 3 del vegnente si destinava ad una seconda votazione, qualora occorresse.

In generale, senza tema d'ingannarci, possiam dire che le elezioni caddero per la maggior parte sopra rispettabili persone. Ogni notabilità non fu omessa, e ben si tenne conto dei martirii e delle persecuzioni sofferte, e dei sagrifici fatti alla patria. Chiunque nella perpetrala rivoluzione, nelle cospirazioni, nei comitati o nell'emigrazione aveasi qualche fama acquistato non fu obliato dal pubblico suffragio. Chiunque si fosse per poco macchiato nella rivoluzione del 48, o, peggio, che fosse rimasto in carica dopo il famoso 15 maggio del 49, quand'anche per un giorno solo, o che per poco avesse avuto relazioni di sorta col Borbone, o col suo governo, di tutti costoro fu delitto profferire il nome in un Collegio elettorale. Quindi con universale compiacimento si videro risultati a Deputali un Guerrazzi, un de Boni, Saliceti, Libertini, Crispi, Ricciardi, Avossa, Ramano, Ranieri, Cavour, Rattazzi, Cialdini, Depretis, Monticelli, Lamarmora, Persano, Pettinengo, Mamiani, Minghetti, Ricali, Peruzzi, Brofferio,

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Mordici, Bertani, Saffi, Mancini, icotera, Musolino, Medici, Braico, Avezzana, Sirtori, Menabrea, Ferrari, ed altri molti di símil natura che tralasciamo per brevità. Per modo che non si può dire in generale che dalle elezioni la Camera risultasse eminentemente conservatrice e realista, qual si mostrò poscia: gli elementi contemperavansi giudiziosamente. Ma quali influenze determinata l'avessero a divenir cotanto conservatrice quanto fu poscia, e più realista dello stesso Ministero, noi cercheremo ora d'indagare.

Nell'epoca in cui adunavasi il primo Parlamento italiano, alla Presidenza del Consiglio sedeva Cavour. Egli passava per uno dei primi politici di Europa, e forse lo era, ma certo in aveva accreditato come tale il buon governo da lui fatto in Piemonte, e più di tutto l'iniziativa che credevasi avesse egli dato all'Unità italiana. Checché ne sia, con tali precedenti Cavour esercitava un potente prestigio sulla Camera. E fu cotesto Cavour che col prestigio del suo senno politico, e mostrandosi più che mai, e più di tutti caldeggiatore dell'Unità della patria, ed assumendo sopra sé tutta la responsabilità di sciogliere i voli della nazione, di soddisfarne le aspirazioni generose, però appena che l'opportunità il consentisse, appena la patria meglio costituita fosse, la diplomazia non avversasse, fu cotesto Cavour, dicevamo, che con tali pratiche, mettendo innanzi e convenzioni, e trattati, e note diplomatiche, e progetti di accordo col Papa, fu lui che con tali arti seppe temperare gli ardori della Camera intorno alle più vitali quistioni del tempo, e man mano sostituire la iniziativa del governo a quella del popolo sino al punto da incatenar la volontà di quest'ultimo nella persona de' suoi Rappresentanti. Arrogi la gran fiducia nell'Imperatore dei francesi, il quale universalmente reputavasi allora come lo svisceralo protettore dell'Uni là d'Italia, e come colui che soprammodo la migliore costituzione politica ne curasse, e quindi generalmente ritenevasi non esservi salvezza che ne' suoi cenni, ed esser rovina di patria, ingratitudine nefanda il non dipender da lui, in alterarne per poco le sentile simpatie, le cordiali relazioni. Arrogi ancora la gran fiducia nel Re Vittorio, come in colui che reputavasi aver rischiato la sua corona per costituire in Unità l'Italia, come in colui di cui fosse voto remoto e tradizionale cotesta Unità.

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Ed in fine non omettere di aggiungere il desiderio grandissimo nei Deputati di migliorar la propria condizione e quella dei loro parenti, amici, ed adepti, i quali tutti una volta conseguiti dal governo i mezzi di che impinguare, splendere, e lussoreggiare, dovean di necessità divenirgli ligi, il ginocchio genuflesso, la bocca imbavagliata, senza poter mai più gustare un istante d'indipendenza in cui potessero fargli sentire il rimprovero della patria indignazione, il rabbuffo del generoso, cui la grettezza di un governo meschino tarpa le ali. In generale, in molti fu fidanza troppa negli altri, poca in sé stessi, obliando che le patrie non si fan mai fidando, ma oprando, in altri fu egoismo, fu interesse privato anteposto al pubblico interesse. Furon queste le cause che impressero un carattere eminentemente conservatore alla prima Camera legislativa italiana, Camera, che quantunque uscita dalla rivoluzione, quantunque composta in gran parte di elementi rivoluzionari e garibaldini, doveva esser tutt'altro che l'Assemblea della fiducia, e della passività. La colpa dunque non è negli Elettori, ma negli Eletti. Chi mai avrebbe potuto sopporre che un Medici, un Bixio, un Cosenz, un Sirtori, un Avezzana, e tanti altri fervidi campioni della rivoluzione avessero preso posto fra i ministeriali, e vi si fossero sopra gli altri distinti per energia? Ben si può dire quali sieno stati i principi di un uomo finoggi, ma chi può mal garentirli per lo dimani? Si può mai fidare sull'uomo quando l'ambizione e la ricchezza vengono ad intrecciargli d'innanzi la danza dei piaceri (a)?

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rivoluzione italiana ebbe un doppio carattere: uno tutto nazionale nei pochi eletti negli uomini dell'ideale e del principio: on altro tutto economico in tutte le rimanenti classi dei cittadini. Sotto il primo aspetto voleasi senza remora, ed in ogni costo completare l'Unità italiana con Roma e Venezia; sotto il secondo riguardo chiedevasi lavoro, incoraggiamento al commercio, ferrovie, divisione dei beni demaniali, istituzioni di credito, migliore amministrazione dappertutto, chiedevansi casse di risparmio, banche nazionali che avessero sottratto l'operaio dagli artigli degli avidi e numerosi usurai, bramavansi pure indennizzi ai danni sofferti, ed impieghi: era in somma una popolazione famelica d'ogni classe, commercianti, borghesi, operai, paltonieri, e perfino professori che chiedevano istantemente dalla rivoluzione più di quello ch'essa poteva dare, ma che in sostanza poi non diede neanche quello ch'era in obbligo di concedere, in conclusione lavoro, indennizzi, uomini nuovi nelle amministrazioni, e nuovi principi informatori di esse, guerra a tutta oltranza al Papato, ed all'Austria, erano questi i voti ardenti, tormentatori dei governanti come dei governati in quel tempo. La Camera legislativa si trovò a fronte di tutte queste esigenze impetuose del paese, e fidando troppo in un Ministero, ed in un Allealo che non seppe mai comprendere, fidando troppo in chi avea tutto interesse a mantenere saldo l'antico edilìzio, circoscrive odo il più possibile il trionfo della democrazia, la Camera legislativa, dicevamo, si trovò ben tosto in opposizione della opinione pubblica, e colpita dall'anatema del paese.

Lasciamo ora la Camera, ma per ritornarvi tosto, e seguirla nelle più importanti discussioni legislative, ed occupiamoci dello stato che verso la metà dell'anno 1861 presentavano le due più vitali quistioni che si avesse il paese, quella di Roma e quella di Venezia.

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Imperò noi non potremmo mai intendere le condizioni precise, senza pria spiegarci quale in rapporto all'Italia la politica napoleonica si fosse.

Napoleone era disceso in Italia con un programma che doveva farla libera dalle Alpi all'Adriatico. Dopo splendidi trionfi, e quando un altro solo conato poteva espugnare il formidabile quadrilatero, e far l'Italia padrona della Venezia, sonda le acque in Toscana per una confederazione, là è trovata avversa la pubblica opinione, segna la pace di Villafranca, e fa salvi i dritti dei principi spodestati alla loro restaurazione. La determinazione inattesa rende attonita l'Europa, ed insoddisfatto tanto il partito retrogrado che il liberale, dolenti tanto gli uomini delle tradizioni che quelli delle aspirazioni. Si dolgono i primi, perché al Papa le occupate provincie non tornino, perché l'Italia all'ombra della Francia l'opera continui della rivoluzione, si dolgono del plebiscito, che hanno come esempio scandaloso, della Lombardia annessa al Piemonte, ed in fine del sanzionato principio del non intervento. Schiamazzan gli altri pel mentito programma, e perché senza Roma e Venezia credono avere invano sparso il loro sangue, invano sparso il sangue della Francia. Gli uni accusano il Bonaparte come complice del Papa, e dell'Austria, gli altri veggono in lui complicità con la rivoluzione. La pace non distrugge la diffidenza dei cattolici, come la guerra non ha reso contenta la democrazia. Ristabilite, gridano gli uni, con mano risoluta, il trattato di Villafranca, intervenite onde non esser trascinato; restituite al Papa le sne provincie, ai principi i loro troni, all'Italia le pristine condizioni della sua esistenza politica, e voi ricopererete tostamente la confidenza dell'Europa, che avete perduta, e la gratitudine del Papa che vi siete avversato. Dall'altra parte si tiene un linguaggio opposto, e si esclama: voi avete preso in mano la causa dell'Italia, e poi l'avete abbandonata: fu la vostra iniziativa che indusse gl'Italiani a slanciarsi verso la loro nazionalità, e questo slancio avete voi stesso, e ben tosto agghiadato in Villafranca. Vorreste forse arrestare l'idea italiana, vorreste abbandonarne la causa?

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Non c'¡scoraggite con le vostre riserve, impegnatevi ancor più francamente dove le simpatie, e gl'interessi vi chiamano, non prolungale a Roma un'occupazione che irrita il sentimento nazionale delle popolazioni, e non vi sottrae all'ingratitudine del governo papale.

L'Imperatore, qui risponde ai primi la stampa officiosa della Francia, l'Imperatore non può dimenticare d'essere stato eletto al trono quale rappresentante delle idee della nuova società, e di tutti i progressi dello incivilimento. Può egli tradire le origini del suo nome, e la missione che gli fu affidata dalla confidenza del popolo francese? L'Imperatore non intende che rendere benevolo ai popoli il principio della sua autorità, e della sua influenza, e soltanto i suoi nemici possono consigliargli il contrario. Se il trattato di Villafranca fu sottoscritto, i sovrani che lo segnarono non ebbero mai la pretesa d'imporre con la forza i dritti che erano nel medesimo riservati. La Francia doveva ella succedere nella parte che aveva tolta alla casa di Asburgo? Doveva ella imporre all'Italia il proprio dominio, dopo aver distrutto quello dell'Austria? Le sue promesse di liberazione dovevano riuscire a tanta menzogna?Imperatore non poteva ristaurare gli antichi governi per abbandonarli l' indomani alla reazione inevitabile dello spirito nazionale.

La Francia, continuano a rispondere i giornali officiosi francesi, volgendosi ai secondi, la Francia non poteva dar mano ai movimenti disordinati della rivoluzione, essa che seconda i voli legittimi dei popoli, ma mira sempre a prevenirne le conseguenze estreme. Se maggiormente noi avessimo incoraggiato il Piemonte, noi l'avremmo rolla con la Russia e con la Prussia, saremmo caduti in diffidenza, e saremmo stati spinti ad una guerra universale, e l'Imperatore, facendosi il capo di un partito, avrebbe compromessi gl'interessi generali della Francia. Questa dunque non poteva rappresentare in Italia la parte dell'Austria, né servire alla rivoluzione. Essa del pari non doveva favorire le annessioni rivoluzionarie, né le reazioni assolutiste. L'Imperatore vuole la indipendenza della penisola, non l'anarchia.

Tal era il linguaggio della stampa officiosa francese; ma Napoleone con questa politica a doppia faccia s'imponeva al partito liberale ed al partito retrogrado, dominava ad un tempo clero e democrazia,

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la rivoluzione ed il papato, ed a questo contrapponeva quella, a quella questo, e l'uno spaventava con l'altra, l'altra con l'uno, e cosi faceva suoi e stringeva in un pugno i destini dei conservatori, e dei progressisti. In siffatta guisa teneva egli lotta l'Europa a bada, l'obbligava a strisciare sotto la sua potenza, a sentire il peso di tutta la influenza sua.

Sotto l'influenza d'una simile politica agitavasi allora la quistione della Venezia. Molti opuscoli sul proposito furono allora pubblicati, ed avidamente letti, fra i quali il più importante sembrò quello che ha per titolo (9). Reputaronsi tutti, ed a buon diritto, espressione della volontà imperiale, che voleasi bandire ed insinuare all'Europa per mezzo del solito imperiale banditore, Laguerronière. Era di tutti essi argomento una conciliazione fra l'Italia e l'Austria, la mercé di una cessione spontanea e per via d'indennizzi che luna farebbe all'altra della Venezia. Gli argomenti eran potenti, e tali da. imporne certamente alla Corte imperiale di Vienna, qualora ben vero avesse potuto essa prescindere dai suoi principi tradizionali e politici, e non avesse voluto por mente che ai semplici interessi materiali. - L'Austria non ha che sperare, argomentano gli opuscoli, e Graodguillot nel la Francia per suo conto è stata fedele alle stipulazioni di Villafranca: non fu peccato suo se le altre parli contraenti le hanno reciprocamente violate, ma ella intende esigere che sieno rispettale almeno in quanto a se. Ciò vuol dire che la Francia non sopporterà giammai un ritorno offensivo dell'Austria in Lombardia. Ci va del suo interesse, ed ella non può permettere che le teste delle colonne austriache vengano a porre il campo a due marce de Grenoble. Ci va del suo onore, ed ella non può lasciare riprendere ciò che ha liberamente donato. L'Inghilterra, dal canto suo, ha troppo parlato dell'unità italiana per trovarvisi moralmente impegnata. L'Austria non dimentichi che ha cessato di essere il soldato continentale della Gran Brettagna. -Restano la Russia, e la Germania. Ignoriamo se il gabinetto di Vienna ha in questi ultimi tempi credulo seriamente alla possibilità d'una nuova alleanza fra lai ed i gabinetti del Nord; in ogni caso la riunione di Versavia deve averlo ben crudelmente disingannato.

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La Russia pare assolutamente decisa di far subire all'Austria la pena del taglione. Sembra che il gabinetto di Pietroburgo voglia regolare esattamente la sua condotta su quella del governo di Vienna, e voglia fare per l'Austria in Italia, ciò che l'Austria ha fatto per essa in Crimea. - La Prussia non ha simili risentimenti, ma dessa nutre forse qualche speranza che non osa ancora manifestare. È penoso, ma pur necessario il dirlo: un nuovo affievolimento dello impero servirebbe troppo bene l'interesse del suo reame, perché si possa credere ch'ella possa vederlo a malincuore. - Quanto al resto dell'Alemagna, per quanto ostili sembrino al movimento italiano alcuni piccoli governi, sarebbe sciocchezza contare sopra un loro concorso attivo. Non è più tempo, in cui si metteva innanzi come assioma politico che la schiavitù d'Italia è necessaria alla sicurezza dell'Alemagna. Non vi ha, oltre il Reno, un uomo di guerra, il quale non sappia che la linea del Mincio non è per nulla necessaria alla difesa della patria comune. Verona non è affatto una difesa per la Confederazione, è tutto al più una minaccia per l'Italia. Quand'è cosi perché respingere una transazione che salverebbe ad un tempo gl'interessi e l'onore dei due popoli? - Qual è di presente la condizione finanziera dell'Austria nella Venezia? La Venezia conta una popolazione di 2, 400, 000 abitanti. Il prodotto delle imposte ascende a 70 milioni di franchi: il suo debito speciale è di 7 milioni. Dedotte le spese ordinarie, che si rimane per sopperire ad una occupazione militare, che sul solo territorio veneto non esige meno di 150, 000 nomini? Il tesoro imperiale, già in deficienza nelle circostanze normali, può sopportare questo peso enorme? E non per tanto è forza inevitabilmente che se lo addossi, poiché calma all'interno non si può in nessuna fatta guisa sperare. In mancanza di credito, sarà necessità sopraccaricare le imposte al di là nelle forze dei contribuenti, rovinare tutte le altre

cie dell'impero, e spingerle verso una catastrofe finanziera. Il possesso della Venezia non compromette soltanto le finanze dell'Impero, ma indebolisce ancora la sua potenza militare. Di un contingente di 600, 000 soldati, Venezia contribuisce per un quindicesimo circa: essa dà dunque all'Austria 40, 000 soldati d'una

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Al contrario l'Austria è costretta portare l'esercito di occupazione a 150, 000 uomini, scelti fra i suoi migliori soldati. Sono dunque 150, 000 uomini che l'Austria è nella impossibilità di far marciare sia per la difesa delle sue frontiere, sia in soccorso della Confederazione, in caso di guerra continentale. La Venezia non è dunque che una causa di rovina per l'Austria. Se all'opposto questa ne facesse cessione all'Italia mediante una indennità di 5, o 6 cento milioni, quali vantaggi non ritrarrebbe essa da una tale transazione? La Banca di Vienna pagherebbe i suoi debiti, la riduzione dell'esercito permetterebbe alleggerire le tasse, rimettere l'equilibrio negli Stati discussi, e destinare delle somme considerevoli allo sviluppandolo dei lavori pubblici.

Si è risposto che un Re non era un barattiere, che potesse vendere i suoi popoli. La sola parola danaro vi umilia, riprendono gli organi imperiali. Ciò prova che avete molto orgoglio, e poca memoria. Dimenticate certamente che nel 1815 la maggior parte dei principi tedeschi hanno sollecitato ed ottenuto indennità di egual natura. Rileggete i trattati di Vienna, e vi troverete fino a diciassette di questi casi. Vi potremmo citare una casa regnante che accettò centomila scudi per la cessione d'una intera provincia. Ma quando poi la parola danaro sembra cotanto dura, noi offriamo compensi territoriali. Avremmo da dare la Moldavia, la Valachia per portar l'Austria fino al Mar Nero, e garentirla dal pericolo di vedersi un giorno bloccala dalla Russia. Avremmo ancora l'isola di Candia, e l'Erzegovina da ricambiare.

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regolando il trattalo e facendolo opera de' suoi maneggi avrebbe potuto vie meglio, e sempreppiù sostituirsi all'influenza austriaca in Italia, ma quel eh è più, e sembraci che in ciò fosse riposta la principale sua mira, mediante l'Austria, e la cessione del Veneto avrebbe potuto trascinare l'Italia a stipulare delle condizioni favorevoli al papato, ed alla Confederazione. In somma il Bonaparte mediante una cessione incruenta della Venezia par che sperasse ravvolgere maggiormente l'Italia in tal rete da non potersene distrigare che con larghe concessioni al papato, o con condizioni tali che avrebbero sempreppiù reso facile e possibile la confederazione. E non è possibile in fatti il supporre che l'Austria nel cedere la gemma più preziosa della sua corona non avesse preteso sottoporre l'Italia a condizioni di simil natura. Oltre a ciò, la cessione del Veneto avrebbe rinforzato l'Austria e posta in caso di reprimere i moli rivoluzionarli di Ungheria, e scongiurar quelli che sembravano prossimi negli Stati danubiani.

Passiamo ora alla quistione romana.

La quistione romana ha un interesse ben più grave che non s'ebbe mai la quistione veneta. Se Napoleone in faccia a quest'ultima volte arrestarsi spontaneo, innanzi all'altra fu costretto a far sosta tra la spontaneità, e la forza delle circostanze. La quistione romana va considerala sotto triplice aspetto: in quanto all'occupazione materiale, circa il suo carattere morale, ed in rapporto alla influenza ch'essa esercita sopra dugento milioni di cattolici. Nella eventualità d'una rivoluzione in Italia, nelle contingenze di moti rivoluzionarii in Oriente, Napoleone non poteva ritirare le sue truppe da Roma. Pel carattere morale che la quistione ha in se stessa, il Bonaparte non poteva bruscamente reciderne il nodo. Ei non poteva, perché il Papato è assolutismo, e Napoleone è assolutista, i due uomini son complici e solidali. Come l'Impero della Francia avrebbe potuto non temere le conseguenze che sarebbero derivate dall'istantaneo trionfo riportalo dalla democrazia sul potere temporale del Papa? Era conceder troppo alla rivoluzione e Napoleone dovea temerne per se.

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Circa l'influenza morale che il papato esercita, nel dimezzarne i poteri, v'era a temer l'irritazione del cattolicismo, od almanco delle potenti prelature, e delle masse fanatiche; poiché, non è d'uopo lusingarsi, l'Italia nelle grandi sue masse non trovasi punto disposta ad una riforma religiosa, lo tale stato, e poiché la rivoluzione non seppe spingersi tant'oltre da raccogliere gli estremi risultamenti del suo programma, a Napoleone non rimaneva che temporeggiare in su le parti di conciliatore; conciliazione impossibile, ma che pur bastava a guadagnargli tempo, ed a cui se per avventura avessero potuto rassegnarsi le parli, egli avrebbe fatto il suo gran prò, poco importaodogli che la quistione in sostanza rimanesse integra. Diversamente operando, che cosa avrebbe potuto sperare Napoleone? Fuori l'oscillare ambiguo non gli rimaneva che darsi in braccia del partito liberale o del partito clericale e legittimista. Appoggiarsi a quest'ultimo era fomentar le rivoluzioni in luogo di spegnerle, era mentire a quello scopo per lo quale Napoleone erasi posto alla lesta dei movimenti popolari, era tradir le origini proprie, caducar le speranze che le nazionalità europee aveano posto in lui, infine aprir la strada alla restaurazione. Abbandonarsi del tutto in balia della rivoluzione valeva darle tanta uggia, ed allargarne talmente i limiti da minare, ridurre in frantumi lo impero. Non gli rimaneva dunque che anguillar fra i partiti. Ma fino a quando? fino ad una guerra europea, quando a Napoleone avrebbe potuto riuscire d'imporre con la forza e con trattati ciò che ora manteneva con le promesse e con gli artificii diplomatici. Che qualora egli poi avesse potuto assettar l'Europa fra il vecchio ed il nuovo edilizio, qualora facendo sbollire gli ardori dei popoli avesse potuto tutte le istituzioni europee a quelle della Francia uniformare senza venire ad una guerra, e con la semplice prudenza politica, allora Napoleone III avrebbe dato alla storia la soluzione del più grande problema. Se dunque i popoli non intendono il concetto napoleonico, e non lo combattono, se l'Inghilterra non fa tanto per accendere gli ardori popolari, quanto Bonaparte fa per spegnerli, un vasto impero francese, ma tutto morale e potenziale sarà stabilito su tutta l'Europa.

Da principii conformi a cotesta politica veniva dettato un novello opuscolo del banditore napoleonico, Laguerronière,

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Chi ben guardi nelle Camere legislative della Francia, e ben ne rammenti le discussioni, vedrà in esse il riflesso preciso della politica imperiale. Ivi hanno i loro rappresentanti tanto il clero che la democrazia, tanto il legittimismo che la libertà, tanto il papato che la monarchia elettiva, i due partiti appunto fra i quali il Bonaparte vuole ondeggiare, rimanendosene in mezzo, senza che l'uno lo tragga verso se più che l'altro. Larochejaquelein, Heckeren, Dupantoup, Matbieu vi rappresentano il clero, ed il papato: il Principe Napoleone, Pietri, Giulio Favre son per la libertà e per la causa italiana. A che il famoso Larochejachelein nel Senato, Larochejachelein idrofobo legittimista e ben noto all'Europa intera come tale, a che, se Napoleone non avesse desideralo trovare opposizioni in Senato alla sua politica liberale? A che un Dupantoup, se Napoleone non avesse voluto essere arrestato nella sua marcia favorevole alla causa italiana? E perché la causa della libertà è tanto gradita, per quanto avversata quella del servaggio, cosi quella causa lieta e lusinghiera vi viene rappresentata dal congiunto, e dall'organo consueto, dall'amico intimo dello Imperatore, da Pietri.

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Nel Parlamento prussiano la causa italiana s'ebbe uno strenuo propugnatore nel Deputato Vincke, il cui emendamento scosse l'Europa e provocò le più sentile manifestazioni di riconoscenza degl'Italiani tutti.

Per fino nei Parlamento spagnuolo non mancò di difensori la causa italiana, e ne divenne glorioso il nome del Deputato Rivera.

La razza latina, egli esclama nella tornala dell'undici Marzo, aspira all'Unità. La Spagna deve mostrar simpatia alla causa dell'Unità italiana, perché la Spagna potrà un giorno trovare in quella un punto di appoggio per l'Unità iberica. L'Unità dell'Italia è una conseguenza necessaria della sua libertà e della sua indipendenza. cotesta nazione deve voler l'Unità per accrescer la sua forza, e potere in caso di bisogno servir di barriera da un lato alla Francia, che può minacciarla dalla Savoia, e dall'altro all'Austria, sempre disposta a passare il Po. L'Italia ha più di qualsivoglia altra nazione il dritto a costituire la sua Unità.

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Essa fu la culla del dritto, della scienza, della civiltà, dell'arte nei tempi moderni. La sua scienza è italiana; la sua lingua è comune a tutte le parti del paese; le sue abitudini, i suoi costumi, i suoi sentimenti portano l'impronta generale della sua nazionalità. Stando le cose in questi termini, le idee di parentado, e di famiglia gl'interessi personali di un orfano, e i trattati imposti alla nazione dell'Europa da congressi di re sono cose meschine e puerili. Il potere temporale dei papi si oppone ancora all'Unità dell'Italia. Tale potere è divenuto a di nostri una calamità per la chiesa, e nel tornaconto medesimo della chiesa deve sparire per sempre. Senza di esso il cattolicismo conterebbe parecchi milioni di anime di più, perché il potere temporale è l'unico ostacolo alla riconciliazione colle varie sette del cristianesimo.

Continuando il Rivera, si volgeva ai ministri, dicendo e La vostra origine è rivoluzionaria: senza la rivoluzione non sareste usciti dall'oscurità, né sareste i consiglieri d'una regina, che non cinge la corona, se non in virtù del principio della sovranità nazionale. Voi vi chiamate liberali, ma le più ardenti vostre simpatie furono sempre per gli oppressori. In niuna congiuntura mai voi non avete manifestato un sentimento di pietà per gli oppressi.

Voi non aveste una parola di elogio pel Re d'Italia, non una per l'Eroe che alla testa d'una mano di guerrieri invase la Sicilia, non una neppure pei martiri dell'indipendenza, che soccumbettero gloriosamente nelle battaglie di Palestra e di S. Martino. Allora tutte le simpatie vostre erano per l'Austria, e presente» mente ancora voi nutrite la ridicola speranza che l'Austria finirà tosto o tardi per gittare i suoi battaglioni sull'Italia, e schiacciare la libertà e l'indipendenza sua. Voi ben sapete che in dico il vero; epperò mi fate pietà, perché la vostra condizione è deplorabile, e siete, alla guisa di tutti i partili che non sanno nulla, che non imparano nulla, che non tengono in conto alcuno gl'insegnamenti della storia, vi siete condannati a morire. - Qual politica è dunque la vostra? A Napoli son vincoli di famiglia, è un re, il quale ha davvero resi servigi grandissimi alla sua augusta cugina Donna Isabella li! Se questa è sul trono, si è perché il già sovrano delle Due Sicilie non poté gittarnela giù. Se Napoli fosse stata potenza di prim'ordine, avrebbe suscitato una guerra europea, e Donna Isabella non sarebbe assisa sul trono di Castiglia.

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Dopo la guerra civile tutti i Carlisti, tutti i nemici della re gioa hanno trovato un asilo a Napoli. - A Parma un fanciullo è l'augusta sua madre trassero a sé le simpatie del governo. Ora voi a questo sentimento poerile avete sagrificato la libertà e l'indipendenza d'Italia, la grande nazionalità della razza latina.

Il signor Rivera, dopo qualche interruzione, continua in questi accenti: Signori, quale spettacolo si presenta ai nostri occhi? L'Italia libera, una, indipendente. E voi, liberali, pensate che in luogo di essa si dovesse difendere quella monarchia, dalla quale, se fossero stati soddisfatti i desideri, nessuno di noi siederebbe qui? Ricordatevi, signori, l'opuscolo del signor Gladstone, letto il quale un uomo di stato ha detto: É un'onta per l'Europa sostenere il governo napoletano. E voi che vi chiamate liberali sostenete questo governo? - Vi è una parte insignificante di territorio in Italia data in prima alla ingrata sposa di Napoleone, quindi ai Borboni: in questo paese esiste l'assolutismo, e voi lo difendete? - E voi, uomini della maggioranza, applaudite alla politica del governo in Italia? A quella politica che difese il re di Napoli, perché parente della regina, mentre se la regina è sul trono, egli è perché il suo illustre parente non ha potuto scacciamela? Napoli fu il rifugio di tutti i Carlisti. Chiedo sapere se ponendo da un lato l'unità, la grandezza, l'indipendenza, la libertà d'Italia, e dall'altro l'illustre parente di Napoli, e l'infante di Parma, il ministro di Stato doveva essere incerto nella scelta! Il governo ha impiegato tutte le sue risorse per impedire l'unità d'Italia, tutte le sue simpatie, tutti i suoi sforzi, tolti i suoi elogi furono per gli oppressori; nulla ha fatto per il popolo italiano, per quel gran re che ha guadagnato nelle battaglie di Palestra e Solferino la corona di re d'Italia, nulla per questo eroe d'una nuova Iliade, che ha dato tanto impulso al movimento italiano.

Però è da por mente che nella Camera spagnuola contro Rivera sorgono Figueroa, Mena, Zorrilla, Volerà, Martinez della Rosa: contro Vincke, nella Camera prussiana sorge Berg: contro Russel sorge Hennesy nella Camera inglese.

Figueroa si oppone alle annessioni, perché non regolate d'alcun codice, si oppone all'unità perché la crede un'utopia; e difende il potere temporale del Papa.

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Hennesy accusa il governo piemontese di atrocità, e d'ingiustizia.

Tutto ciò che cosa vi dimostra? Che l'Italia non poteva farsi altrimenti che con la rivoluzione, la sola capace d'imporre silenzio ai partiti, e che la diplomazia doveva sommamente trovarsi impacciata nell'aringo: vi dimostra che Napoleone anguillando, ed esitando, consolida il suo potere, ed inferma le libertà dei popoli.

E più oltre, conchiudendo, così si esprime «Siccome non volti fare inciampo alla unificazione italiana, cosi non consentirei che a altri facesse inciampo ai disegni del nostro regno, vincolandoci e ad imprese seducenti, ma rovinose. Custodirei, come tesoro, la vostra indipendenza, e con un Parlamento dividerei la parte e più preziosa del regio ufficio, quella cioè di promuovere l'attività sociale, i commerci, i grandi lavori, le arti, le scienze, ogni elemento di educazione, e di progresso nazionale».

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Il pubblico, che non si era mai occupato granfatto delle pretese del principe Marat, credette che l'incidente non avesse avuto seguito, quando la Patrie annunziò che l'Imperatore si era mostrato molto mal contento della condotta tenuta dal principe Luciano, e ohe gli aveva per via di lettera manifestato il suo risentimento. Posteriormente fu scritto dai giornali che, sentito il Consiglio di famiglia, l'Imperatore aveva esiliato il principe per sei mesi.

Checché ne sia, il certo si è che la opinione pubblica non ha mai appoggiato il principe Murat nelle sue pretese su Napoli.


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DOCUMENTI


(1)    Al colonnello Pimodan — (Spoleto).

Sinigaglia Il loglio 1860. Credendo Russel a Macerata, lo aveva chiamato ad Ancona; poiché trovasi a Spoleto, tenetelo con voi. Continuate le vostre evacuazioni di condannati con o senza il concorso del delegato. In quanto ai detenuti senza processo, bisogna trovargli una prigione in città. Occupale il tempo degli Irlandesi e fateli camminar molto; date loro qualche vecchio fucile per le teorie della montatura e smontatra, le piccole carabine dei carabinieri sono in viaggio. Appena la prima corte della Rocca sarà vuota, mettetevi gl'Irlandesi.

Il generale in capo Lamoricière.

Pesaro 10 luglio 1860 Ricevuto il vostro interessante dispaccio del 6. Avete condotta benissimo la faccenda. Continuate ad accelerare l'evacuazione della Rocca, è il punto capitale. Come vanno gl'Irlandesi? cominciano a disciplinarsi? Odescalchi domanda di comperare dei cavalli e dice che ne troverebbe molti Bell'Umbria. Gli ho risposto di dirigersi al ministero. Voi sarete consultato su questo ponto, esaminatelo. Conto di essere in questa giornata a Sinigaglia, domani a Ancona. Ditemi per telegrafo dove è Palfei.

Il generale in capo Lamoricière.

Al ministro dell’armi — (Roma).

Spoleto Il settembre 1860 Gli uffiziali della gendarmeria di Roma e delle Marche sono quasi tutti incapaci. Vi è da farvi una epurazione uguale a quella dei reggimenti italiani. La farò a poco a poco, mandando a Roma quelli che non sono buoni a nulla. In prima linea indico quello di Rieti, vecchio impotente e stupido che ci ha fatto mandare inutilmente un battaglione a Rieti, il mese scorso, ed al cui posto ci bisogna senza indugio un bravissimo ufficiale. Preghiera istantanea da provedere senza ritardo.

Il generale in capo Lamoricière.

P. S. Cercate di mandare qualche soccorso a Viterbo. Se noi siamo soli Dio combatterà per noi. Noi faremo appello al nostro diritto ed alla nostra buona spada. Vado a finire il mio rapporto ed a far colazione.

Il generale in capo Lamoricière.


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— Veniamo a due argomenti importanti. L'aggressione non aspettata e non preveduta da parte delle nostre truppe, e la sicurezza del soccorso francese. I dispacci che qui riportiamo mostrano che in questo argomento le asserzioni dei capi dell'esercito papale erano false, e che essi le conoscevano false:

Al generale in capo a Spoleto.

Perugia, 8 settembre.

La riunione di un forte corpo d'armata piemontese a Cortona è compiuta; questo corpo potrà agire senza ritardo. Le notizie chi ci arrivano dalla Toscana ed i discorsi degli ufficiali piemontesi fanno credere ad una occupazione delle Marche e dell'Umbria. Si dice che la truppa destinata ad occupare ' Umbria marcerà in due colonne; una penetrerà dalla parte di Città di Castello, l’altra per la strada di Cortona. Si indica perfino il giorno dell'ingresso, che sarebbe lunedì prossimo.... Gradisca Delegalo

Al cardinale Antonelli a Roma.

Spoleto, 9 settembre.

I Piemontesi fanno correr voce che essi si apriranno a forza il passaggio per la nostra frontiera per passare nel regno di Napoli. Sembra che i giornali francesi confermino questa asserzione. Che cosa ne dice il signor di Grammoot? Se i Piemontesi passano, non è certo per metter sul trono di Napoli Murat.

Lamoriciere.

Al cardinale Antonelli a Roma.

Prego V. Em. a volermi dire, se è possibile, che cosa in abbia a temere dalle truppe piemontesi. in ricevo ogni momento da tutti i punti del nostro confine la notizia che dietro alle colonne di truppe regolari che si avvicinano ad Arezzo, a Cortona, a Città delle Pieve, ad Acquapendente si trovano bande d'insorti che si armano nei depositi lasciati alla frontiera, e che stanno per invadere il nostro territorio, e si aggiunge che le truppe piemontesi dichiarano altamente che esse terranno dietro agli insorti. in non esiterò ad attaccare chiunque si presenti; ma le condizioni della lotta saranno ben differenti se noi avremo a fronte i Piemontesi in luogo degli insorti.    

Lamoricière.

Ecco le prove del nessun conto che doveva fare il Lamoricière sull’aiuto dei Francesi:

Al generale De Lamoricière a Spoleto.

Roma, 10 settembre.

Io non ho ricevuto risposta agli ordini che ho già varie volte domandati. in non posso uscire da Roma. Generale De Noue.

Roma, 10 settembre.

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Al generale Lamoricière a Spoleto.

Boma, Il settembre.

«Sua Ecc. il sig. generale de Lamoricière ci invita ad inserire l'articolo seguente.

Appena arrivato in Ancona, il 18 settembre, il generale de Lamoricière si assicurò che il sig. de Courey, console di Francia in quella città, aveva ricevuto questo dispaccio, ed allora soltanto ne fece pubblico il contenuto, per mezzo di una notificazione. Questo dispaccio era stato mandato dal console di Francia al generale piemontese Cialdini, che era in marcia da Sinigaglia sopra Ancona. Questo generale si limitò ad accusarne ricevuta e continuò la sua marcia!

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Infine molte persone, compresovi il console di Francia in Ancona, erano convinte che uno dei bastimenti di guerra della stazione francese nel mare della Sicilia, sarebbe spedilo in Ancona per impedire, se non il cannoneggiamento contro i forti, almeno il bombardamento della citlà che ha durato non meno che 10 giorni.

Sarebbe difficile il sostenere che dal 10 al 28 settembre questo bastimento non avrebbe avuto il tempo di arrivare.

Noi faremo notare anzitratto ciò che avvi di odioso nella condotta della consorteria che domina in questo momento ne' consigli dei Santo Padre, e che si abbandona a codesta guerra d'insinuazioni malevole e calunniose contro la Francia, le cui armi sono la sola protezione dell'autorità politica del capo della Chiesa.

Noi sappiamo da altra parte che questo procedimento inqualificabile ha provocata una reclamazione categorica dal nostro ambasciatore a Roma, e non dubitiamo punto che il cardinale Antonelli non sia sollecito a farvi diritto.

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Roma 25 ottobre.

Signor Cardinale

La notizia ricevuta dall'ambasciata è stata riprodotta inesattamente dal proministro delle armi, e vostra Eminenza lo sa meglio di alcun altro, perché in gliela ho comunicala direttamente.

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Il sig. ambasciatore di Francia ha manifestato il desiderio che venisse rettificata una espressione usatasi nel dispaccio telegrafico riportato al n. 244 di questo giornale del 24 ottobre corrente con dirsi che l'imperatore dei Francesi avea scritto al re di Piemonte per dichiarargli, che se esso attaccasse gli Stati del papa, egli vi si sarebbe opposto colla forza.

Ci diamo perciò la cura di notare che il dispaccio comunicato dal sig. ambasciatore fu precisamente in questi termini, cioè che se le truppe piemontesi entrassero nel territorio pontificio, l'imperatore sarebbe obbligato ad opporvisi, e che l'ordine era stato dato di aumentare la guarnigione di Roma.

«Incarico mia moglie, od uno dei nostri comuni amici, se mia moglie non può andare a Nantes, di darvi spiegazioni sul partilo che in ho abbracciato. in non ho veramente speranza in altri che in Dio, perché, a dopo quanto so, la forza non può bastare a menar a buon fine l'opera ch'io sto per intraprendere.»

Non è punto della audacia, la quale confido non mi mancherà al bisogno, ma della mia devozione ch'io spero avere ricompensa lassù, più sicuramente che quaggiù.

«Addio, in parto fra un quarto d'ora e dico a rivederci a persone che non sanno dove in vado».

-

La seconda lettera è ancora più significante:

Roma, 5 aprile 1860.

«S'occupano di sapere se, nell'assumere il comando dell'armata del papa, in mi metterò in piena regola col governo francese, vale a dire se domanderò all'imperatore licenza di servire all'estero.

«Il domandare ad alcuno licenza d'agire implica necessariamente l'idea che ove abbia un rifiuto chi domandò si asterrà dallo agire.

«Or forse si può sul serio credere ch'io subordinerò le mie azioni all'autorizzazione del capo del governo francese?

«lo non ho accettato le funzioni che sto per assumere che a condizione di non portare mai le armi contro la Francia.

«Ma può ben darsi che in possa frequentemente agire in modo da contrariare la politica attuale, palese od occulta, del governo francese.

«Forse che i napoleonisti hanno dimenticata l'epoca in cui il loro padrone fu cittadino d'Argovia e capitano al servizio della Svizzera senza il permesso di Luigi Filippo? ciò che non lo impedì di trovarsi cittadino francese e di essere nominato rappresentante presidente della repubblica ecc.

«Se in devo soccombere nell'opera che intraprendo, m'importa poco d'essere o no cittadino francese a norma del codice Napoleonico; se in devo riuscire e ritornare in Francia, il paese mi renderà all'uopo il diritto per acclamazione.

«Il vecchio Mohtluc diceva: - a L'anima mia appartiene a a Dio, la mia spada al re, ma il mio onore appartiene a me solo, a perché il re non ha sovr'esso diritto di sorta.»

«Ho offerta la mia spada al papa, raccomando la mia anima a Dio, ma per conservare intatto il mio onore nulla voglio ottenere dall'imperatore.

«Ora, colle vostre lagnanze aumentate il mio dolore, e mi richiedete di ritornar in mezzo a voi. lo non lo posso, amici miei, perché promisi a me medesimo di non far ostacolo colla mia presenza alla vostra felicità, alla vostra prosperità che si compiranno sotto lo scettro del Re galantuomo.

«Credetemi dunque: se la mia missione è quella di liberare i popoli Italiani dalla schiavitù e della tirannia, in lo feci, o napoletani, col mezzo delle vostre forze e del vostro coraggio.

«SI, voi siete liberi, e la mia presenza in mezzo a voi non sarebbe d'alcun profitto, sarebbe on ritardo al vostro miglioramento. Voi foste ancor più felici degli altri, poiché vi sono Italiani tuttora nella schiavitù.

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«Roma e Venezia aspettano il mio aiuto. Esse pure fanno parte dell'Italia; i loro abitanti sono nostri fratelli, e gemono tuttora sotto la dura schiavitù dell'Austria e del.... Lasciatemi riprender la lena necessaria per far fronte alla tempesta che minaccia.

«Sentite il leone il cui ruggito è di rabbia, poiché conosce che il suo orgoglio sta per essere abbattuto. Egli teme questo braccio, che Dio fece possente per abbattere il suo orgoglio brutale.

«Vedete i nipoti degli antichi romani? Il sangue dei loro avi scorre ancora nelle loro vene, ma furono rovesciati per terra, col volto nel fango e sopraccarichi di un peso che li tiene tuttavia oppressi. Essi hanno bisogno di una mano che li aiuti a rialzarsi, e a riprender la loro fierezza, e questa mano ha d'uopo di riposo per ricupera la forza che gli è necessaria.

«Che la ragione e la filantropia cedano il luogo all'amore che nutrite per me. in ritornerò in mezzo a voi da qui a qualche mese, mi rivedrete ancora, ma allora mi abbisognerà una prova del vostro amore.

«Se è vero che voi mi amiate, del che non dubito, seguitemi miei cari, seguitemi allorquando ci riuniremo per liberare, i nostri fratelli di Roma e di Venezia. E tutti contenti, uniti gli uni agli altri, faremo l'Italia una, indipendente e degli Italiani, sotto lo scettro del Re galantuomo Vittorio Emmanuele II.

«Addio, alla fine di marzo ci abbracceremo.

«Caprera, Il novembre 1850.

«G. Garibaldi»

Il generale Garibaldi mandò alla Associazione degli operai genovesi la seguente lettera in risposta all'indirizzo col quale gli si annunciava la sua nomina a presidente onorario di quella Associazione:

Fratelli,

«Voi avete il mio affetto e l'avrete tutta la vita. - Non dubito dunque del vostro. L'esser amato da voi è qualche cosa che passa ogni umana ricompensa - unica che in mi ambisca in questa esistenza consacrala all'Italia.

«Io accetto riconoscente il posto onorifico con cui voleste fregiarmi, e lo porterò con orgoglio nelle vostre file nel prossimo giorno in cui l'Italia ci chiamerà tutti a rompere gli ultimi anelli delle sue catene».

«Con devozione

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(4) UNA NUOVA PROTESTA BORBONICA

- La

pubblica la seguente protesta presentata, secondo che essa crede di poter asserire, dal cavaliere Caoofari al ministro Thouvenel, in nome di. Francesco II, ex-re di Napoli:

Roma, 26 febbraio 1861.

«Nel momento stesso in cui fu presa la dolorosa risoluzione di abbandonare Gaeta, S. M. il re prese, dopo maturo esame, la risoluzione di far conoscere all'Europa i motivi della sua condotta. Vengo ora ad adempiere questo dovere per ordine di S. M.

«L'esito al quale giungemmo, dopo gli sforzi più eroici, era facile a prevedere, dacché le circostanze particolari delle grandi potenze d'Europa non permettevano loro, malgrado gl'inviti del governo del re, di por freno all'ambizione del Piemonte.

Un sovrano che trovasi in mezzo alle condizioni più difficili, appena salito al trono de' suoi maggiori, al quale il tradimento e a rivoluzione non concedevano il tempo di studiare la situazione del suo paese, era degno di qualche appoggio, e meritava, in credo, efficaci simpatie. E quando questo sovrano medesimo era slealmente assalito, il giorno in cui accordava una costituzione e le più larghe guarentigie a' suoi sudditi, egli poteva credersi in diritto di fare appello al tribunale delle grandi nazioni, che pel bene comune si posero arbitre del diritto pubblico e dell'equilibrio politico del mondo in diverse circostanze che l'Europa ebbe ad attraversare dal 1815, ed in tempi relativamente remoti, come in altri vicini a noi.

«Che un sovrano non possa né domandare né sperare alcun soccorso dall'estero nelle agitazioni puramente interne de' suoi popoli, che l'intervento straniero non possa venire ad assicurare alternativamente il trionfo della rivoluzione e quello dell'autorità, che in una parola governi e popoli si lascino liberi di modificare il regime politico del loro proprio paese, sembra poter essere ammesso in teoria generale da tolti ed essere fondato nei principii di libertà e di giustizia che governano la politica de' gran di stati d'Europa.

«Ma quando un monarca combatte lealmente per assicurare l'ordine pubblico, per l'indipendenza e la libertà de' suoi popoli, egli può almeno domandare la garenzia delle leggi comuni fra le nazioni, che non permettono a un altro governo di violare il diritto pubblico, i trattati solenni, che formano il solo legame della società politica d'Europa. Il re delle Due Sicilie poteva credersi nella posizione degli altri sovrani, e aveva diritto alla medesima posizione contro l'aggressione straniera, che non domanderebbero inutilmente la Porta ottomana, il viceré d'Egitto o i governi barbareschi dell'Africa.

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E non basta dire, per negare le conseguenze di questo principio, che trattavasi d'una questione fra Italiani. L'Italia, quale la storia l'ha fatta, quale l'Europa l'ha costituita, si compone di Stati diversi con governi indipendenti, Ecco il diritto riconosciuto. Che i popoli, i quali la costituiscono, sieno liberi di spingere, se si vuole, fino all'ultimo limite la teoria della loro sovranità e di rinunciare alla loro indipendenza; ma non si può permettere, senza calpestare tutti i princìpii, che questi popoli stessi vengano invasi senza dichiarazione di guerra, sotto il pretesto d'unità e di libertà, lasciando che una potenza violi nella sua ambizione la legge comune delle nazioni.

«La cosa andò altrimenti».

La nota ricorda quali furono i risultati di questa aggressione che non si poteva prevedere; il re forzato ad abbandonare le posizioni del Volturno e la difesa sul Garigliano in seguilo alla presa della Capitale senza risorse militari né amministrative, ha resistilo per più di tre mesi con un pugno di uomini che combattevano da un anno, con orribili privazioni, agli attacchi incessanti d'un'armata che disponeva dei mezzi di pressocchè l'Italia intera.

Confidando nella giustizia della sua causa e nell'interesse ben inteso degli altri Sovrani, il re affrontò i pericoli d'un assedio che, prolungalo, poteva creargli delle risorse nella politica dei sovrani d'Europa. Si sa la condotta magnanima della giovane regina, del re e dei due giovani principi napoletani durante questa lotta disperata.

Le circostanze politiche obbligarono infine l'imperatore a ritirare la flotta da Gaeta. Il re, senza farsi illusione sul risultalo di quella lotta ineguale, credette di non dover abbandonare una posizione nella quale come nelle altre, S. M. difendeva la sua corona non solo, ma l'indipendenza de' suoi popoli, il diritto pubblico e la legge, in virtù della quale i sovrani regnano e le nazioni sono indipendenti e rispettale. Senza questa legge, non vi è giustizia né sicurezza per nessuno; è questa base della società che il re è fiero di aver sostenuto finché lo permisero le sue forze».

La nota insiste nuovamente sulla ineguaglianza della lotta impolitica risultando da questo fatto che il nemico si era, colla corruzione o il tradimento, impossessato del tesoro, degli arsenali, dei depositi di guerra; che perciò egli poteva rinnovare ed aumentare tutti giorni i suoi mezzi d'attacco,

«Contro de' soldati ogni giorno rinnovati e aumentati, noi non potevamo opporre che dei prodi soldati affaticati dalle lolle che sostenevano dal mese di agosto da Palermo a Messina, nelle Calabrie, dalle Calabrie al Volturno, dal Volturno al Garigliano, da questo a Mola, da Mola a Gaeta, esposti ai rigori della stagione, stesi per terra senza tende, né coperte. Cosi alle stragi che faceva in mezzo ad essi il cannone vennero ad aggiungersi le stragi delle malattie.

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Il coraggio e la devozione loro non fallirono mai in mezzo a cosi grandi sacrifici! Fino al momento nel quale il re sperava un soccorso, credette di continuare a difendere la causa della giustizia e quella dei popoli».

La nota mostra che la conferenza di Varsavia non fece sperare alcun risultato e il discorso dell'imperatore «malgrado i suoi nobili sentimenti» non lasciò credere che la Francia potesse o volesse limitare l'ambizione del Piemonte. Il risultato delle elezioni, fatte sotto l'influsso dell'invasione, faceva trionfare la politica del conte Cavour, e allontanando la guerra coli1 Austria, dava al governo di Torino il tempo di concentrare tutti i suoi sforzi contro Gaeta, abbandonata a sé stessa, e contro il re dolorosamente convinto che la sua causa, che era quella Monarchia, non era sostenuta da alcun principe regnante in Europa.

La Nota mostra che la superiorità delle artiglierie dava ai Piemontesi il vantaggio di trarre dalle alture lontane, accerchiando la piazza e distruggendola al coperto da ogni pericolo. Fa pur osservare che per tre mesi essi non osarono accostare le loro batterie. La resistenza in mezzo a tanti infortuni e stragi, sarebbe continuata fino all'assalto senza due contingenze che posero ad essa on termico. La nota narra le calamità derivanti dall'esplosione di due polveriere.

«Il re credette, che se era conforme a' suoi doveri di soddisfare i desideri! legittimi de' suoi popoli e di lottare contro l'interna rivoluzione, potrebbe d'altra parte rivolgersi al tribunale europeo, quando avventurieri di tutti i paesi, offìcialmente rinnegati dal governo della Sardegna, ma coperti della sua bandiera, traversavano a migliaia il Mediterraneo per fare il loro campo di battaglia del territorio delle Due Sicilie. un esercito intero, marina artiglierie, munizioni, tutti i mezzi furono posti in opera per seminare la morte e la desolazione negli Stati di un sovrano pacifico come nella barbara antichità.

«Colto all'improvviso da siffatti avvenimenti, non trovando soccorso nella legge comune, il re si ritirò cogli avanzi del suo esercito fedele dietro le rive del Volturno, per risparmiare alla sua capitale gli orrori di un bombardamento e per difendere i suoi diritti.

«Videsi tosto, che le regie troppe erano sufficienti, malgrado scarsezza dei loro mezzina riconquistare il regno. Allora, senza motivo e senza dichiarazione di guerra, violando la santità dei trattati, il sovrana del Piemonte entrò alla lesta del suo esercito, ed occupò il territorio delle Due Sicilie come un paese di

«Malgrado i sospetti che la politica sleale della Sardegna poteva inspirare lungo tempo, il re non poteva credere, ch'essa potesse osar tanto, o che l'Europa fosse per tollerarlo. Assalire che trovasi in pace col mondo intero, che aveva offer

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e che aveva ancora i suoi rappresentanti a Torino per conchiuderla, che aveva a Napoli un ministro dei re di Sardegna accreditato presso la sua persona; violare tutti i trattati, calpestare tutte le leggi, distruggere a suo profitto il diritto pubblico, era un'enormezza tale, che nessuno avrebbe potuto supporre, poiché ogni nazione aveva interesse e dovere di punirla. Il Piemonte violava il diritto pubblico e massimamente l'impegno preso a Parigi nel protocollo 14 aprile 1856; giusta il quale la guerra non avrebbe potuto avvenire fra due Stati, che avessero accettato questa dichiarazione, senza sottomettersi prima alla mediazione degli altri. Era precisamente il caso, nel quale trovavansi Napoli ed il Piemonte: comprendesi, che S. M non abbia potuto credere possibile l'aggressione, e che, assalito, abbia dovuto e potuto credere, che le grandi potenze d'Europa l'avrebbero assistito.

«La resistenza coi mezzi di guerra diveniva impossibile, quando il tifo ci toglieva ogni di 60 a 70 uomini; 1500 soldati erano all'ospedale. Una suora di carità era morta, 7 erano in letto, non ne rimanevano di sane che sette. Nella casamatta del re e della regina, il tifo toglieva il duca di Sangro e il sig. Ferrari, generali. Temevansi sintomi di peste. Allora il re convocò un consiglio di guerra composto dei generali e dei capi di corpo. La resa fu decisa unanimemente.

«La guarnigione rinnovò, anche in quel terribile momento, il suo giuramento di fedeltà, che non aveva mai pensato a smentire. Il re avrebbe preferito cadere fra quei prodi che avevano alzato si alto l'onore dell'esercito napoletano. Ma il cuore d'un padre doveva limitare il sagrificio de' figliuoli, sagrificio ornai inutile, privo d'ogni speranza S. M. diede la facoltà di negoziare. Appena se n'ebbe sentore che il nemico, in luogo di sospendere il fuoco, l'accrebbe in modo barbaro, coprendo di bombe e materie ignivome una piazza che domandava capitolare.

«Erasi venuto d'accordo sulle basi della cessione, non mancavano che le formalità e la ratifica, ma il fuoco continuava con crudeltà senza esempio in un esercito di una nazione considerata civile. Mentre negoziavasi, avveniva una strage di soldati e di famiglie che non avevano più ove ricovrarsi.

«Permettetemi di fare una digressione che vi prego di ben notare. In risposta alle osservazioni fatte con moderazione, ma dignità dal generale Ritucci, il generale piemontese per giustificare la sua condotta decise essersi mancato alla promessa di non riparare alla breccia nel tempo dell'armistizio. Lasciamo da parte il linguaggio d'un nemico vincitore, rischiariamo il fatto.

(La nota vuol qui mostrare la falsità d'accusa)

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«Alla partenza del re e della sua famiglia la guarnigione facendo ala, e la moltitudine seguendo le loro maestà, piangevano e acclamavano con grida entusiastiche il loro giovane valoroso e infelice sovrano.

«Giungendo in questa città, ove le LL. Maestà hanno avuto la più cordiale accoglienza dal Sovrano pontefice e da un immenso pubblico, il re credè suo dovere di protestare un'altra volta ed a suo nome contro la violenza di cui è vittima, riservando tutti i suoi diritti, e deciso ad appellarsene alla giustizia dell'Europa. S. M. non vuol provocare agitazioni nel regno, ma quando i suoi fedeli sudditi, ingannati, traditi, oppressi, spogliali, leveranno le loro braccia animati d'un sentimento comune contro l'oppressione, il re non abbandonerà la loro causa. Per evitare però lo spargimento del sangue e l'anarchia che minaccia subissare la penisola italiana, S. M. crede che l'Europa, riunita in un congresso, debba essere chiamata a decidere sugli affari d'Italia.

«Il solo fine della sua politica straniera sarà di manifestare quest'idea e di operare alla sua realizzazione.

«Quanto al regime interno, le sue convinzioni non han cambialo. Le promesse del manifesto dell'8 dicembre sono sempre il suo programma unico e invariabile».

(5) «Caro Duca,

«Non da voi solamente, ma da moltissimi amici fui, alcuni mesi sono, esortato ad iniziare on molo nelle cose di Napoli. A voi rispondendo, a tutti risposi, facendo pubblica la mia lettera. «Senso di dovere patrio dettò allora le mie parole. «Il mio pensiero rifuggì all'idea che il mio nome, le amicizie mie potessero essere ostacolo all'impresa della unificazione italiana. Per non osteggiare, anzi per aiutare questa impresa bastavami la rimembranza paterna; e però, rispondendovi, dichiarai che in non poteva sommovere veruna difficoltà e che, in ogni caso, religiosamente avrei rispettato il supremo decreto della volontà nazionale.

«Tanto scrissi; altro avrei aggiunto ove avessi ascoltalo certi presentimenti che mi facevano dubitare del successo e delle arti adoperate per ottenerlo.

«L'impresa della unità italiana fondata è sul principio della sovranità dei popoli rimpetto al quale sorse, minaccioso ancora quantunque a metà vinto, il regio diritto divino. Questo visse per molti secoli, suscitò e mantenne potenti monarchie la cui storia, giova riconoscerlo, s'immedesima gloriosamente con quella della civiltà e del progresso: visse venerato e l'universale venerazione di che per tanto tempo si circondò era il frutto del regio sapere e delle regìe virtù.

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Oggi se ne va in rovina; ma perché si dilegui dal mondo, senza danno necessario, è che pareggialo e superato anzi venga nel sapere e nelle virlù dal nascente popolare diritto. Tale è il mio culto per questo diritto, che mi astenni per non fomentare discordie che avrebbero profittato ai suoi nemici. Ma siccome dal fonte puro della scienza e dei nobili istinti sgorga la vita del progresso, lamento che l'avvenimento in Italia della popolare sovranità non abbia il debito corteggio delle schiette virtù cittadine. Ben veggo piantata nelle pubbliche piazze l'urna dello scrutinio, ma sdegno che intorno a quell'urna vadano aggirandosi la corruzione e la violenza. Duolmi intendere che siasi fatto in Napoli un mercato di magistrature, d'interessi pubblici venerati dai padri della civiltà italiana come inviolabili e santi.

«Recenti sono gli avvenimenti del quarantotto, e ben possono continuare ad esserci documento ed esempio.

«Cadde la repubblica francese perché tutto minacciò e distrusse e nulla seppe creare o riedificare. Le sette collegate che oggi dominano l'Italia non dimentichino questa lezione. Talora più tiranniche si mostrano che gli abbattuti governi.

«Male s'inizia la libertà col sospetto, con la tirannia. E che cosa significa il disarmo di tanti comuni napolitani e la legge di guerra promulgata in tante Provincie? Queste cautele non imparano verificare la spontaneità dell'universale suffragio e la fiducia del nascente governo.

«Quando sarà Italia durevolmente ordinata a libertà e a grandezza vedrò adempito il mio voto più caro, il volo supremo del padre mio.

«Aggradite, caro Duca, l'espressione cordiale della mia affezione e della particolare mia stima.

«Castello di Buzenval, 25 novembre 1860.

Luciano Murat.

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(6) LETTERA DEL GENERALE CIALDINI AL GENERALE GARIBALDI

Generale,

Dacché vi conobbi, fui vostro amico sincero e palese, e lo fui quando l'esserlo e il dirlo era biasimato da molti.

Schiettamente applaudii ai trionfi vostri, ammirai la vostra possente iniziativa militare, e cogli amici miei e coi vostri, in pubblico, in privato, sempre e dovunque diedi testimonianza di stima altissima per Voi, o generale, e mi dissi incapace di tentare ciò che avevate si maestrevolmente compiuto a Marsala.

Ed era tanta la mia fiducia in voi, che quando il generale Sir tori pronunziò funeste parole nel Parlamento, in vivea sicuro che voi sentireste bisogno, e trovereste modo di smentirlo. Ed allorché vi seppi partilo da Caprera, sbarcato a Genova, giunto in Torino, credetti che a ciò venivate, a ciò soltanto.

La vostra risposta all'indirizzo degli operai di Milano, le vostre parole nella Camera mi portarono on disinganno penosissimo, ma completo.

Voi non siete l'uomo che in credeva, voi non siete il Garibaldi che amai.

Collo sparire dell'incanto é scomparso l'affetto che a voi mi legava. non sono più vostro amico, e francamente, apertamente passo nelle file dei politici avversari vostri.

Voi osale mettervi al livello del Re, parlandone coll'affettata familiarità d'un camerata. Voi intendete collocarvi al dissopra degli usi presentandovi alla Camera in un costume stranissimo, al dissopra del Governo dicendone traditori i ministri perché a voi non devoti, al dissopra del Parlamento colmando di vituperi i deputali, che non pensano a modo vostro, al dissopra del paese, volendolo spingere dove e come meglio vi aggrada.

Ebbene, Generale! Vi sono uomini non disposti a sopportare tulio ciò, ed io sono con loro. Nemico di ogni tirannia, sia dessa vestita di nero o di rosso, combatterò a oltranza anche la vostra.

Mi son noti gli ordini da li da voi o dai vostri al colonnello Tripoli per riceverci negli Abruzzi a fucilate, conosco le parole dette dal generale Sirtori in Parlamento, so quelle che voi pronunciaste e su queste traccio successive cammino sicuro e giungo all'intimo pensiero del vostro partito. Esso vuole impadronirsi del paese e dell'armata, minacciandoci in caso contrario di una guerra civile.

Non sono in grado di conoscere cosa pensi di ciò il paese, ma posso assicurarvi che l'armata non teme le vostre minaccie e teme solo il vostro governo.

Generale, voi compieste una grande e meravigliosa impresa coi vostri volontari.

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Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerarne i veri risultati.

Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella, non caddero per o pera vostra, e cinqnantaseimila borbonici furono battuti, dispersi e fatti prigionieri da Noi, non da Voi.

E dunque inesatto il dire che il regno delle Due Sicilie fu tatto liberato dalle armi vostre.

Nel vostro legittimo orgoglio, non dimenticate, o Generale, che l'armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte distruggendo molto più della metà dell'esercito napoletano, e prendono quattro fortezze dello Stato.

Finirò per dirvi che in non ho la pretesa né il mandato di parlarvi in nome dell'armala. Ma credo conoscerla abbastanza per ripromettermi, ch'essa dividerà il sentimento di disgusto e di dolore che le intemperanze vostre e del vostro partito hanno sollevato nell'animo mio.

Sono colla massima considerazione.

Vostro dev. Servo

ENRICO CIALDINI.

LETTERA DEL GENERALE GARIBALDI

Generale,

Anch'io fui vostro amico ed ammiratore delle vostre gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere certamente a giustificarmi di quanto voi accennate, nella vostra lettera, d'indecoroso per parte mia verso il Re e verso l'esercito: forte in tutto ciò, della mia coscienza di soldato e di cittadino italiano.

Circa alla foggia mia di vestire, in la porterò sinché mi si dica che non sono più in un libero paese, ove ciascuno va vestito come crede.

Come deputato in credo aver esposto alla Camera una piccolissima parte dei torti ricevuti dall'esercito meridionale dal ministero - e credo d'averne diritto.

Altro che possiate aver udito di me verso l'armata - sono calunnie.

Noi eravamo sul Volturno al vespro della più splendida vittoria nostra ottenuta nell'Italia del mezzogiorno prima del vostro arrivo, e tutt'altro che in pessime condizioni.

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Da quanto so, l'armata ha applaudito alle libere parole e moderate d'un milite deputato, per cui l'onore italiano è stato un culto di tutta la sua vita.

Se poi qualcheduno si trova offeso dal mio modo di procedere, in parlando in nome di me solo, e delle mie parole sono garante, aspetto tranquillo che mi si chieda soddisfazione delle stesse.

G. GARIBALDI.

(7) A GIUSEPPE GARIBALDI,

CAMILLO CAVOUR, ENRICO CIALDINI.

Sia concesso a noi, cittadini del Napolitano, esprimervi il nostro plauso per L' atto generoso, con cui, consigliati da carità patria, che impera potente nel vostro cuore, voleste estinto ogni sentimento discorde in un amplesso fraterno.

Per voi, che tanta opera metteste nell'abbattere l'orgoglio dei nostri antichi nemici, era serbala un'altra vittoria, che parve meravigliosa anche negli uomini più grandi dell'antichità, quella di vincere e trionfare di voi stessi.

Né, a dir vero, noi dubitammo che, cittadini magnanimi, quali voi siete, avreste lungamente tardato a compirla.

Se non che travagliava gli animi nostri il vedere in queste contrade uomini malvagi trarre perverso profitto dalle vostre nobili gare, che solo tendevano a scegliere i modi meglio convenevoli, onde più prestamente sgomberare d'Italia lo abborrito straniero.

E non furon forse costoro che si studiarono di rendersi, nel vostro nome, provocatori di scandali e tumulti, pei quali, facendoci apparire poco maturi a vita civile, sorsero rinfrancate le speranze cadute dei partegiani del dispotismo?

Fidenti ora nella vostra concordia, noi siam certi che questa sarà il nostro più sicuro presidio dalle insidie domestiche, e straniere.

E l'Europa attonita ci vedrà da voi condotti a quella meta a cui aspirano tutti gl'Italiani, alla liberazione delle Provincie ancora gementi, alla liberazione di Roma e di Venezia.

Sottratti, la mercé vostra, che si grande alta porgeste alla nostra rivoluzione, dalla pressura di una triste, e fedifraga dinastia, il vostro amplesso fraterno ci è pegno novello di quella promessa che ci strinse al vessillo glorioso dell'italiano riscatto, che innalzò il nostro Re Vittorio Emmanuele, quando, tratto da sentimento di amore alla rigenerazione della patria comune, scese in campo a combattere per essa, mettendo in pericolo il trono, e la vita.

Voi che ci siete scorta nell'affetto che portate al valoroso Sovrano, ci animerete colla vostra concordia a mettere ogni nostro potere nella impresa, a cui egli ci è duce.

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E la storia che accanto alle nostre grandezze ha tradizioni di discordie funeste, e di secolari sventure, congiungendo i vostri nomi con quelli dell'Unità, della Libertà, e dell'Indipendenza di Italia, dirà: Conseguirono il loro scopo, quando seppero essere forti, e concordi.

- La lettera del generale Cialdini a Garibaldi, fu trasmessa quasi nella sua integrità ai giornali di Parigi, i quali nella loro rivista politica ne fanno argomento dei loro commenti. Giova quindi far conoscere come sia stata giudicata all'estero.

La, senza conoscere i sentimenti ai quali cedette il generale Cialdini, dice che sarebbe doloroso che la lettera ravvivasse una discussione esaurita e animasse nuovi elementi di discordia fra l'armata regolare, dopo che il generale Fanti ha fornito alla Camera tutte le spiegazioni desiderabili.

Il così si esprime:

«Si è potuto giudicare all'estero il discorso pronunzialo da Garibaldi al Parlamento di Torino, come una violenta scappata, risultato periodico della permanente esaltazione nella quale i suoi amici mantengono il generale italiano. Ma ciò che è stato a per noi un errore, ben presto dimenticato in Italia, per gli uomini che amano la loro patria, è stato una colpa e quasi un delitto. Non si volte nemmeno più ravvisare l'oratore trasportato, i di cui risultali non offendono; la sua popolarità imponenti dogli quest'oggi maggiore riserva che mai, la pubblica voce si eleva e in condanna.

«Questa riserva del sentimento patriotico è troppo rispettabile a per non essere compresa. Garibaldi d'altronde è stato meglio a inteso dall'Italia che dall'Europa».

Il cita alcuni brani della lettera e quindi con chiude.

«Questi sentimenti devono esser veri. Quando noi dicevamo che quelli che amano l'Italia, dovevano amarla molto quest'oggi, pensavamo infatti, che il male che le aveva fatto Garibaldi con parole inconsiderate era stato profondo. Tuttavolta questo male non è tanto terribile che non possa essere riparato. La lettera del gen. Cialdini mostra che il popolo italiano pensa a finirla con questa esistenza rivoluzionaria che ha durato troppo a lungamente, e che il suo parlamento regolarmente costituito in nome della nazione, non deve più aprirsi alle camicie rosse dei volontari Garibaldini».

La dopo aver meritamente lodalo la moderazione usata da Cavour durante questo disgustoso incidente, dice che il generale Cialdini non ha punto seguito l'esempio del conte di Cavour.

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vivacità suoi sentimenti, dic' trascinatona vivacità di stile che non si potrebbe abbastanza lamentare, Garibaldi nelle sue politiche arringhe, ha un po' troppo dimenticato, ne conveniamo, ch'egli era un soldato; ma il generale Cialdini nella sua lettera, se ne è ricordato troppo. I rimproveri che rivolge al liberatore della Sicilia non sono tutti fondati; ma anche quando ha ragione per la sostanza, il generale Cialdini è a riuscito ad aver torlo per la forma.

«Non bisogna annettere troppo grande importanza a questa divergenza d'opinione dei due generali; quello che risulta dai loro discorsi, e dalle loro dichiarazioni, si è che tutti hanno a comune un sentimento, la devozione alla patria. Essi possono a esser divisi al cospetto del Parlamento, ma saranno uniti davanti al nemico».

Il, quantunque sia ben lontano dall'approvare le parole del generale Garibaldi, è d'avviso che il generale Cialdini, nella sua lettera si è lascialo trasportare da una subitanea impressione. Esso comprende perfettamente l'onorevole sentimento dal quale fu spinto, ma non lo divide completamente.

Il non emette opinione alcuna, nel mentre che l' si limita solamente a dire che la lettera di Cialdini è ingiuriosa e spregevole, e che è on atto di violenza e d'ingiustizia che non gli sarà perdonalo, quando invece la risposta di Garibaldi ha l'impronta di quella nobile grandezza che caratterizza gli eroi.

(9) L'IMPERATORE FRANCESCO GIUSEPPE E L' EUROPA.

I.

L'idea che il conflitto austro-italiano potesse avere, per richiesta dell'Europa, una pacifica soluzione, fu accolta con tal favore, e fa ogni giorno così rapidi progressi nell'opinione, eh è ormai tempo ai sottomettere ad un serio studio questo progetto eminentemente popolare, giustificato egualmente dalle lezioni della storia e dagl'interessi di una sana politica.

Si tratterebbe pel governo di Francesco Giuseppe di adottare, per la Venezia, la saggia risoluzione presa dal primo Napoleone per la Louisiana, allorché riconoscendo l'impossibilità di conservare con profitto per la Francia questa provincia, ei ne fece cessione nel 1803 agli stati Uniti, stipulando un indennizzo milioni.

In appresso, il re dei Paesi Bassi fece all'Europa il sacrificio del Belgio.

Ognuno ricorda con quale rapidità s'ammorzarono gli odii, le querele, surte dalla lotta delle due nazionalità inconciliabili sotto il medesimo scettro. Le sventure evitate dall'Olanda, tutto ciò che essa ha guadagnato collo staccarsi dalle Provincie del Belgio e colla loro costituzione in uno Stato indipendente,

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non può certo far pentire la Corte dell'Àja d'aver presa quella determinazione, per sollecitazione dell'Austria medesima, rappresentata come le altre grandi potenze nelle conferenze di Londra.

Oggidì, quali piaghe ci imporla di chiudere! Quale spaventoso cataclisma non si tratta di prevenire! Quale immensa sollievo, quale benessere, quale esplosione di lavoro e di prosperità inaudite possono escire dalla saggezza d'un uomo solo.

Quest'uomo è più interessato che ogni altra ad esser magnanimo, poiché il suo cuore trasalisce allo spettacolo della miseria e delle sofferenze del suo popolo, ed è commosso alte angoscio dell'Europa. Sovrano d'uno fra i più possenti imperii, egli ebbe il coraggio una volta d'arrestare, sacrificando una parte de' suoi possessi italiani, gli errori della moderna guerra. Il grido delle sue viscere gli fa dunque sentire che la pace è il primo bisogno delle società moderne.

Ma, dopo questa fatta concessione agli umani e cristiani sentimenti dell'epoca, dev'egli consumare volontariamente il sacrificio? Può esso, dinanzi ai tesori e dinanzi alle considerazioni di benessere, ritirare senza lotta e senza battaglie un'intrepida armata dal suolo ch'essa s' appresta a difendere?

Si sente che havvi qui una quistione d'onore, la quale non può sciogliersi che a mezzo d'on grande risultalo politico.

perché Francesco Giuseppe accolga con calma e benevolenza le prime proposte d'una soluzione pacifica, bisogna ch'esse gli dieno la speranza di un definitivo trionfo non sperabile dalle armi, e che gli si presentino siccome un mezzo d'assicurare così la forza e la dignità del suo governo, come la prosperità de' suoi popoli.

Mettiamoci anzitutto a questo punto di vista, e vediamo nella nuova fase che s'apre per la quistione italiana, quali sieno ormai gl'interessi veri dell'Austria, e se la cessione volontaria della Venezia, che opererebbe un completo mutamento nella situazione, non offra alla Corte di Vienna una più abile combinazione per escire vittoriosa dalla lotta.

II.

L'Austria, non è sciolta rimpetto alla Francia dalle stipulazioni di Villafranca.

Fino all'ingresso dell'esercito sardo nelle Marche e negli Stati di Napoli i tre segnatarii del trattato erano rimasti fedeli ai loro patti. Nessuna eventualità che fosse stata preveduta e interdetta, era sorta a complicare la situazione ed a rendere impossibile l'idea madre, il principale oggetto che avea ravvicinati e posti d'accordo i tre sovrani, cioè, l'indipendenza d'Italia, realizzata per mezzo di una Confederazione di tutti gli Stati.

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Il Piemonte, trascinato da esigenze diversamente apprezzate, esci dal concerto che s'era formato fra le tre Corti, malgrado gli avvertimenti e la disapprovazione di Napoleone III, formulata col richiamo del suo ambasciatore.

Il Piemonte solo adunque si è posto dinanzi all'Austria come un inimico. Novello Federico, il re di Sardegna intraprende di costituire al sud dell'Impero una nuova Prussia.

Il terreno della lotta fu dislocato: s'è allargato il suo orizzonte; nello stesso tempo lo scopo propostosi dal gabinetto di Vienna mutava di carattere.

In questa situazione, veramente nuova, quali sono le eventualità favorevoli all'Austria?

Un secolo fa, in analoghe circostanze, essa ebbe ricorso alla forza delle armi. - Dopo una guerra di sette anni, in cui era sostenuta dalla Francia, dalla Sassonia, e dalla Russia, un'ultima disfatta ha compiuta colla definitiva fusione della Slesia colla Prussia, la Costituzione del nuovo regno. Eppure a Rosbach la Francia combatteva a fianco dell'Austria: e Federico II non avea per alleato questo genio onnipossente delle società moderne, il quale è insieme lo stimolo e lo scoglio dei governi, vogliam dire il risveglio delle nazionalità!

In esso sta tutta la forza del Piemonte. La posizione presa dal re di Sardegna proclamandosi re d'Italia, non ha altro appoggio che nel bisogno di tutti i popoli italiani di vedere l'intiera penisola liberata dal dominio straniero, e nella loro convinzione che per mezzo di una lotta suprema, la quale esige il sacrificio delle tradizioni, dei privilegi locali, e la riunione in una sola mano di tutte le forze e di tutte le risorse.

Ma che l'imperatore Francesco Giuseppe stacchi di buon grado la Venezia dal suo impero e la ceda all'Italia, accettando il forte indennizzo della cessione; che egli impegni la fede privata al pari dell'onore del sovrano in una transazione resa indivisibile dal ben essere dei suoi popoli, allora è lui medesimo, è lui solo che compie e consuma l'opera della liberazione. Egli le dà una base solida più che non avessero mai potato fare il sangue e l'oro di tutti gl'Italiani. Egli toglie e scopo e pretesto ad ogni cangiamento territoriale; egli disarma e disinteressa i patriotti Italiani da ogni propaganda nei suoi Stati, e nello stesso tempo questa saggia politica assicura all'Austria, nel definitivo regolamento, ai quale dovrà procedere il Congresso di tutte le potenze, una influenza giustamente rispettata.

Soddisfacendo in modo insperato le tendenze moderne e le tradizioni locali dell'Italia, Francesco Giuseppe acquista il diritto di stipulare vantaggiose condizioni per Napoli, e pel Papa, dei compensi per gl'interessi sacrificati nella lotta e che la conclusione della pace non avrebbe permesso di soddisfare.

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III.

Liberando l'Europa dai pericoli che la minacciano per la primavera, egli può esigere che la pacificazione abbia un carattere più generale, e che faccia cessare per sempre, mediante una dichiarazione collettiva, universale, i timori periodici, a cui l'assenza soltanto di impegni diretti tra i poteri esistenti dà alimento.

Riprendere il gran pensiero della Santa Alleanza, ricostituirla nell'interesse dei popoli e dei re, sopra basi conformi ai bisogni dell'epoca, e fare, finalmente, che le frontiere attuali della Francia, dell'Europa divengano agli occhi di tutti e per sempre sacre e insormontabili, è il voto universale delle nazioni e de' governi, è l'opera capitale del secolo.

L'assestamento degli affari dell'Italia offre una occasione di chiamare l'attenzione dei poteri sopra questa grande opera, e nessuno rifiuterebbe all'Austria l'onore di prenderne l'iniziativa.

Queste considerazioni, mostrando quali vantaggi la politica austriaca può ritrarre dalla combinazione del riscatto, lasciano sperare, che presentata in un grande interesse europeo, non sarà respinta senza esame. Noi possiamo esaminarla sotto tutti i suoi a spetti.

E, in primo luogo, cosa è la Venezia oggi per l'Austria.?

Città decaduta, porto abbandonato, regione desolata e rovinata, gli Stati veneti formano, al piede delle montagne inacccessibili dei Tirolo, della Carinzia, e dell'Illiria, un paese piano, la cui difesa ha reso necessario no complesso di costruzioni dispendiose, e che paralizza, in caso di guerra, una gran parte dell'armata lungi della capitale dell'Impero.

Niuno può negare, che l'impegno di sostenere l'urto del nemico nelle pianure dell'Adige e del Po, non sia stato per l'Austria, da un mezzo secolo, la causa di tutti i suoi disastri.

Se gli eserciti imperiali avessero potuto, nel 1797, nel 1805 e 1809, concentrare i loro mezzi di difesa sul versante meridionale delle Alpi, le loro forze si sarebbero accresciute di tutto quello che hanno perduto in aperta campagna, e, padroni d'una posizione che l'arte può rendere con poco inespugnabile, avrebbero conservalo intatto il territorio nazionale.

La Venezia non cesserebbe di essere un peso e un pericolo, dal pùnto di vista della difesa del territorio, se non nel solo caso che, giudicata necessaria alla sicurezza della Germania, fosse ammessa nella Confederazione, e se le sue piazze forti fossero dichiarate fortezze federali.

Ma questo favore, che durante quarant'anni di pace, l'Austria ha inutilmente reclamato dalla Prussia, allorquando non sarebbe stato nemmeno discusso dai popoli tedeschi, questo favore che non ha potalo ottenere al momento, in cui il cannone francese

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toccava alle porte di Verona, è reso, da un anno in poi, materialmente impossibile, per l'influenza che il movimento rivoluzionario e unitario dell'Italia esercita sui sentimenti del popolo negli Stati secondarii.

L'Austria non ha obbliato quale spaventoso turbine la sola no tizia della rivoluzione di febbraio, ha fatto scoppiare in tutta la Germania.

Le idee di nazionalità e dignità germanica, sviluppate fino a quel tempo solo dagli storici e dai filosofi, avevano un carattere puramente ideale. I governi, dopo aver ceduto all'effervescenza popolare, hanno potuto facilmente rendersene padroni; l'esempio dell'Italia imprime oggi alle aspirazioni delle masse in Germania una direzione, più positiva. La prudenza e la lealtà del Reggente di Prussia fino ad oggi a contenere questo elemento latente e potente dell'opinione popolare.

Ma, se la situazione si complicasse con un passo dell'Austria di natura tale da compromettere la nazionalità tedesca ne' suoi conflitti personali colla nazionalità italiana, nessuno può prevedere le eventualità che questa nuova situazione farebbe nascere, né i pericoli interni e i nuovi doveri che potrebbe imporre al gabinetto di Berlino.

L'Austria lo sa e non si fa illusione alcuna sulla possibilità di ottenere mai dalla Germania la trasformazione del quadrilatero in fortezza federale, posizione che sarebbe d'altronde tanto inutile dal punto di vista militare, quanto è pericolosa dal punto di vista politico.

IV.

Il distacco della Venezia può sollevare nel cuore di Francesco Giuseppe i penosi sentimenti che ha dovuto farvi nascere l'abbandono della Lombardia?

No, imperciocché non si tratta di un sacrifizio oneroso strappato dalla vittoria. Non si tratta nemmeno di una provincia ereditaria e che farebbe cadere dalla fronte del giovane Imperatore una corona vecchia di otto secoli.

La patria dei Dogi non si è data come la Boemia e l'Ungheria. Essa non fu conquistata; essa non toccò alla casa d'Austria per mezzo di matrimonii o di successioni. La sua annessione data solo da sessant'anni, ed ebbe luogo con un processo che le ragioni politiche possono spiegare, ma non legittimare. Le stipulazioni del trattato di Campoformio hanno infatti disposto della sorte di un popolo libero, senza guerra, senza conquista, malgrado le sue più solenni proteste seguite tosto dalle rimostranze della diplomazia.

Questo circostanze, affatto eccezionali, fanno vedere che il legame che attacca la Venezia al territorio imperiale può essere sciolto senza far nascere, in qualche provincia, la speranza di una sorte simile, è creare un antecedente in suo favore.

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Si tratta, per l'Austria, di disporre di un territorio il cui acquisto è stato, or son sessantanni, macchiato di un vizio originale, che le antipatie di razza e la breve durata dell'annessione non hanno permesso di amalgamare al resto dell'impero, e che è un imbarazzo piuttosto che una risorsa per la difesa delle sue frontiere naturali.

V.

Quale vantaggio nello Stato presente delle cose l'Austria può sperare di ritrarre dalla Venezia?

Dopo gli avvenimenti che hanno cosi profondamente modificata l'attitudine delle popolazioni e dei poteri in Italia, avvenimenti che nessuna tra le grandi potenze, nemmeno la corte di Vienna, non si è credula né in diritto né in potere di prevenire, è molto evidente che l'Austria non ha più alcun vantaggio, alcun profitto da ritrarre dalla Venezia, e che il possesso di questa provincia non potrebbe essere per essa ormai che una sorgente d'agitazione interna e di rovina.

La Venezia conta una popolazione di 2,400,000 anime; il prodotto dell'imposta ascende a 70 milioni; il suo debito speciale è di 7 milioni. I pesi correnti dedotti, cosa resta per far fronte a un'occupazione militare che sul solo territorio veneziano, non esige meno di 150,000 uomini?

Il Tesoro imperiale, già in permanente nelle circostanze normali, può esso sopportare questo enorme sopraccarico?

E nondimeno bisogna di necessità che se l'imponga, e, anche allorquando nessun attacco avesse luogo, la prudenza non permetterebbe di alleggerirlo.

É impossibile aspettarsi che i Veneti, oppressi dalle tasse il di cui prodotto non è impiegato che a mantenerli sotto una compressione militare, necessariamente odiosa, avendo ai loro fianchi e sotto i loro occhi lo spettacolo della patria unita e libera, ritornino a dei sentimenti di calma, e di sommissione verso i dominatori.

L'occupazione d'un paese ove l'armata non conta un amico, e dove la popolazione può chiamare ad ogni istante ventiquattro milioni di fratelli alla sua liberazione, offre evidentemente la prospettiva d'un accrescimento, piuttosto che d'una riduzione di spese. In mancanza di credilo, bisognerà sopraccaricare l'imposta al di là delle forze de' contribuenti, scontentare, minandole, le altre Provincie dell'impero, e correre, per l'accumulazione dei, a delle catastrofi finanziarie.

Il possesso della Venezia non compromette solamente le finanze dell'Impero, ma indebolisce anche la sua potenza militare.

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Su un contingente di seicento mila uomini, Venezia contribuisce per quindici mila circa; essa fornisce dunque all'Ausilia quaranta mila soldati d'una fedeltà più che dubbia, e che vengono disseminati nelle guarnigioni dell'interno. Al contrario l'Austria, noi l'abbiam veduto, è obbligata a portare l'armata di occupazione a centocinquanta mila uomini scelti fra i migliori soldati. Son dunque centodieci mila uomini che l'Austria sarebbe nell'impossibilità di far marciare sia in difesa delle sue frontiere, sia in soccorso della Confederazione, in caso di guerra continentale, e questo sagrificio di centodieci mila uomini, paralizzali fuori de' suoi dominii ereditarli, non ha altro risultato che di mantenere quaranta mila propagatori del principio delle nazionalità nel cuor dell'Impero.

Il possesso della Venezia non può dunque più essere per l'Austria che una causa d'indebolimento e di rovina;

VI.

Se l'Austria facesse abbandono puramente e semplicemente della Venezia, essa non perderebbe niente e realizzerebbe, al contrario, una forte economia. Ma se ella ne farà la cessione all'Italia dietro una indennità di 500 o 600 milioni, quali vantaggi non avrebbe a ritrarre da una siffatta transazione, dalla pace che essa avrebbe assicurata, e dal pacificamento degli spiriti che ne sarebbe l'inevitabile conseguenza?

Il tesoro imperiale primieramente potrebbe rimborsare la Banca di Vienna, e la Banca, riavendo il numerario dall'estero sarebbe in misura di riprendere i pagamenti de' suoi biglietti in ispecie. L'effettivo dell'armata, ricondotto sul piede di pace, permetterebbe di alleggirire il peso eccessivo delle lasse, di colmare il e di mantenere da ora in avanti l'equilibrio dei, consacrando delle somme importanti allo sviluppo dei lavori pubblici e del benessere popolare. I fondi austriaci raggiungerebbero ben tosto il pari: immenso risultato per un paese che non potrebbe contrattare oggi all'estero il più modico imprestito al 5 per cento, che sotto del 49, corso attuale delle metalliche alla Borsa di Francoforte, ciò che porterebbe la rendita pagata dal tesoro a più del 10 per cento della somma prestata,

Lo stato rivoluzionario dell'Italia essendo cessato, l'Ungheria, privala delle eccitazioni esterne, ricupererebbe ben tosto la calma, e sarebbe obbligata a temperare ciò che le sue pretensioni possono avere d'eccessivo, sulla condotta delle altrevincie. Il governo imperiale, liberato da tutte le preoccupazioni estranee alla buona amministrazione interna de' suoi Stati, potrebbe dar compimento all'opera, cosi sovente ripresa ed abbandonata, dello stabilimento d'una Costituzione forte e liberale del suo Impero.

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Sarebbe infine una maravigliosa trasfigurazione da quello stato di torbidi, di miseria, d'umiliazione, nel quale la energia nazionale si dissolve, in uno stato di riposo, di benessere universale.

Non bisogna maravigliarsi, se a Vienna e nelle provincie le idee d'una pacificazione operata dalla cessione della Venezia agli italiani riscontri delle simpatie in tutte le classi della popolazione. L'armata sola rimpiangerebbe, forse, uno scioglimento che le toglierebbe la speranza di una rivincita delle ultime campagne. Ma quale sarà il carattere di questa rivincita? L' Austria avrà essa a combattere la sola Italia? Non vi sarà nessuna diversione nel cuore istesso dell'Impero? E quale altitudine avranno oggidì la maggior parte dei reggimenti ungheresi in faccia decoro compatrioti volontari della brigala Turr? tutte queste quistioni preoccupano il popolo, che non ha ragione alcuna di interessarsi nella conservazione della Venezia, e che ha al contrario un grande interesse a che, invece, essa sia distaccata dall'Impero.

Cosicché si potrebbe affermare che, se il suffragio universale fosse consultalo, se il governo austriaco ponesse nell'alta e bassa Austria, nella Stiria, in Carinzia, in Boemia, in Tirolo, in Croazia, in Ungheria, in Gallizia, in Transilvania, in Dalmazia, questa quistione: dobbiamo cedere all'Italia la Venezia mediante una somma di 600 milioni? - tutti i popoli consiglierebbero questa misura, e l'opposizione generosa dell'armata si perderebbe in mezzo ad una universale acclamazione.

VII.

Quanto l'Austria ha interesse a staccare la Venezia dal corpo dell'Impero, altrettanto l'Italia ha d'interesse a riscattarla.

Unita all'Austria, la Venezia è un cadavere; resa all'Italia indipendente, la morta risuscita e comunica una vita novella e come una emanazione di gioia, di benessere e di orgoglio alla comune patria.

Le apprensioni dell'avvenire sono dissipate, le passioni rivoluzionarie pacificate, i giorni di sagrifizio sono finiti. Nessuna leva in massa; il focolare solitario della famiglia si ripopola; il tamburo è muto nelle città, nei porti, nelle campagne; i capitali e le braccia ritornano al lavoro. I consigli pubblici, i servigi amministrativi e le leggi possono conformarsi in ciascuno stato alla diversità delle tradizioni politiche ed ai costumi. A qual grado di prosperità non potrà aspirare l'Italia il giorno nel quale essa sarà resa alla piena e calma padronanza di sé medesima, e potrà consacrare tutte le sue risorse, tutte le sue forze all'opera della pacificazione e del benessere de' suoi figli?

Rompere senza effusione di sangue quest'ultimo anello della servitù, completare il territorio nazionale coll'annessione di uno Stato di due milioni quattrocento mila anime, la rendita del quale di 70 milioni non è scemata

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che d'una dodicesima parie pel suo debito, e che copre al nord la patria comune d'una linea di difesa gigantesca, non è una conquista inapprezzabile, quando soprattutto si ricorda ciò che il Piemonte e la Francia hanno dovuto sagrificare in uomini e tesori per conquistare la Lombardia, che resta ancora oggidì vulnerabile da tutte le parti? Non vi ha un Italiano, il quale non comprenda, che la cessione della Venezia fatta dall'Austria è la sicurezza, è la cessazione di tutte le paure del ritorno della dominazione straniera; e che le annate italiane, ridotte di tre quarti, daranno luogo ad una economia cinque volte superiore alla rendita del prestito sottoscritto pel riscatto.

VIII.

L'interesse dell'Austria e dell'Italia a compiere l'opera d'affrancamento e di pace con la cessione amichevole della Venezia, mediante indennizzo, essendo sufficientemente dimostrata, rimane a determinarsi quale dovrebb'essere il carattere, quali le basi della transazione, e a giustificare l'ingerenza dell'Europa. Il problema da sciogliere corsiste nel dare alla transazione che compirà il riscatto della Venezia la base la più ampia e le guarentigie le più solide. Dal punto di vista finanziario, trattasi di versare al tesoro austriaco la più grande somma, aggravando l'Italia della minore annualità. Secondo il punto di vista politico, è mestieri soddisfare pienamente l'onore della Corte di Vienna, dando alla riunione del Congresso uno scopo d'ordine e d'interesse europeo, e alla sua composizione il carattere più generale. L'intervento di tutte le potenze, niuna eccettuata, il loro concorso diretto, attivo, converte la transazione in un patto solenne, in una convenzione di bene pubblico, in una tregua di Dio. Ad un tempo stesso, la partecipazione di tutti crea condizioni più favorevoli di credito, e guarentigie si molteplici, che i rischi scompariranno a segno tale da rendere nominale la responsabilità di ciascuno.

IX

L'ingerimento dell'Europa su queste basi è desso giustificato? Non è forse a temersi, che l'impegno da assumersi per la guarentigia del prestito non sollevi opposizione dalla parte di qualche gabinetto? La coscienza pubblica non prova alcun dubbio a tal proposito. L'interesse di ciascuno è garante della partecipazione di tutti. Non havvi governo, il cui credito non sia danneggiato per lo stato d'inquietezza in cui il prolungamento del conflitto austro-italiano, dopo una doppia guerra, tiene il mercato dei capitali.

La guerra distrugge tante ricchezze che, per far fronte alle sue necessità, tutte le provvigioni accumulate negli anni di pace, tutte le riserve possono appena bastare.

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Questo cumulo smisurato di prodotti di ogni natura, una volta distrutto, occorrono lunghi anni per ricomporlo. E non è che allorquando le riserve son rifornite, i magazzini riempiuti, in guisa da soddisfare ai bisogni continui della produzione e della consumazione, che ¡ prezzi riprendono il loro livello, la circolazione monetaria il suo corso regolare, e i capitali ridivenuti liberi possono rispondere all'appello dei governi. La Francia e l'Inghilterra han potuto rientrare rapidamente nello stato normale. Ma l'Austria e la Russia si risentivano ancora dell'infiacchimento causato dalla guerra di Crimea, allorché proruppe la guerra d'Italia. Quest'ultima guerra e le complicazioni che ne seguirono, richiedendo nuovi apparecchi, hanno aperto un altro vuoto negli approvigionamenti dell'Europa. Anzi che divenire disponibili, i capitali furono ognora più assorbiti dai bisogni viamaggiormente grandi della produzione. Questo spiega, perché di recente né l'Austria, né la Russia medesima han potuto trovare prestatori all'estero. Tutti i loro tentativi di prestito fallirono, e la mancanza di credito ha aggravalo la crisi monetaria tanto, che l'interesse è salilo a Pietroburgo sino al 10 e 12 per 100, mentre il valore del rublo è scemalo di pressoché un decimo. In luogo di 4 franchi esso vale appena 3 fr. 65 centesimi.

Questa situazione critica, che tocca più o meno tutti i governi, mostra che l'interesse solo delle loro finanze li invita a guarentire il prestito che dee riscattar la Venezia, poiché un tale prestito, fondando uno stato di pace durevole, ristabilirà il loro credilo e li porrà in grado di conseguire, a patti favorevoli, i capitali che il mercato europeo non può al presente procacciar loro.

X.

Ma un prossimo avvenire é per creare esigenze ancor più imperiose. In nessun tempo l'Europa non si è sentila minacciata da un cataclismo paragonabile a quello che in quattro mesi dovrà uscire dalle condizioni dell'Italia. L'Austria è presta; l'Italia s'arma. Il cartello di sfida é lanciato da ventiquattro milioni d'uomini in rivoluzione, al sovrano d'uno dei più potenti imperi d'Europa. Se la guerra prorompe, la Francia, la Germania, forse l'Inghilterra, la Russia saranno trascinate a parte: sarà una conflagrazione generale. Se l'urlo è ritardato, allora seguirà un perturbamento peggiore che la guerra. In luogo d'una crisi violenta, la quale per l'eccesso del male, darebbe la speranza di una reazione, sarà l'aspettativa, sarà la paura della guerra. E questo male terribile non fa già forse sentire le sue conseguenze?

I capitali inoperosi ammassati coi conti correnti nei nostri grandi stabilimenti di credito non oltrepassano già il mezzo miliardo?

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Temonsi di nuovi impegni, si differiscono le operazioni a

longo termine. Ancora un poco, e si vedrà rallentare i lavori, sospendere i grandi progetti di migliorie pubbliche, l'oro si ritirerà, le braccia s'incroceranno inoperose, verrà un tempo di sosta per la produzione. E che cosa è mai la produzione? la produzione normale, quotidiana? È il pane e la carne d'ogni giorno, è il lusso del ricco, è il necessario del povero, è il risparmio di tolti gli Stati, di tutte le professioni, è quel che paga il medico, la scuola, il supplente militare, la dote delle fanciulle; è la sicurezza e la gioia del focolare domestico, la salute, il benessere, la vita di tutte le famiglie. Eccola dunque questa Europa, tanto altera dei suoi costumi, delle sue arti, delle sue scoperte e della sua industriosa energia! Questa Europa che solcava le sue campagne di ferrovie, apriva canali e porti, bonificava le sue paludi, piantava le sue bande, rendeva più sane le sue città, e moltiplicava fino nei più piccoli villaggi le chiese, le scuole, gli istituti dei lattanti, gli ospizi, eccola presa da spavento, languente, snervala, e accennando col dito, sul suo vasto corpo addoloralo, Venezia, questa piaga che la corrode. E potrebb'esservi un governo, un popolo che rifiutasse il suo concorso all'opera della comune salvezza? No, lotti gli Stati, niuno eccettuato, sono interessati a distornare dalla società cristiana l'incubo che la opprime. Quando si è ammoniti, e quando i precedenti della politica tracciano con precisione la via da seguirsi, niuno può esitare. L'Europa intera interverrà e regolerà definitivamente la sorte d'Italia, com'essa ha regolato la sorte della Grecia, del Belgio e dei Principati Danubiani.

XI

La parte che le finanze sono chiamate a rappresentare, per agevolare l'adempimento dei grandi doveri di giustizia, che fanno a grandezza e la vera prosperità delle nazioni, è oggi da tutti apprezzata.

Il miliardo che ha indennizzato in Francia le vittime della rivoluzione; i 500 milioni che l'Inghilterra ha generosamente consacrati alla redenzione dei negri; l'organizzazione delle banche germaniche per aiutare e conseguire il riscatto dei diritti feudali, la partecipazione dei bilanci nelle imprese d'utilità pubblica, le sovvenzioni alle scuole, i rischi corsi per iscemare le tasse, hanno dato luogo ad operazioni produttive d'un utile assai maggiore dei capitali adoperali. Tanti esempi favorevoli che la necessità sola aveva da principio provocato, hanno a poco a poco illuminato e incoraggiato gli animi. Gli uomini di stato, i sovrani hanno compreso le leggi che regolano le innumerevoli transazioni di cui si compone il lavoro quotidiano dei popoli, e la potenza dello spirito generatore che infonde la vita in questo grande meccanismo.

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Eglino sanno, che se qualche cosa potevasi, col soccorso dei secoli, conseguire per l'umanità intera, la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci, sarebbero le finanze, il credito -Per determinare la sua partecipazione alla garanzia del prestito italiano, ciascuno Stato non dovrà se non domandare a sé stesso, se questo prestito sia una operazione solida ed offra la previsione di un interesse considerevole.

XII

La Gran Brettagna, la Russia e la Francia hanno guarentito il prestito, che stabili l'indipendenza del regno di Grecia. C'erano dei rischi a correre, che non conveniva far dividere a tutte le potenze, e dei quali solamente alcuni grandi Stati potevano assumere la responsabilità in nome e per l'onore dei sentimenti religiosi dei popoli, ch'essi rappresentavano. Oggi è sofferente la società intera. I cuori sono oppressi: i lavori, le rendite di ciascuno sono compromessi e sotto il punto di vista degli interessi materiali, si può dire senza esagerazione che l'Europa avrebbe interesse non solamente di guarentire, ma di fare coi suoi propri fondi il prestito destinato a pacificare l'Italia e a riordinare le finanze dell'Austria. Risalgono a miliardi i vantaggi immediati che tutte le famiglie trarranno dalla nuova condizione nella quale questa grande operazione sarà per mettere il commercio d'Europa. I cambi, le grandi imprese e i prestiti pubblici creano fra tutti i paesi legami di reciprocità, l'importanza dei quali va diventando ogni giorno maggiore. Su tutti i punti del globo, le industrie si alimentano e si sostengono a vicenda, tutti i commerci, tutte le borse sono solidali fra loro. La rovina di un solo è la sventura di tutti. Una crisi in America rovinò tre anni addietro in Inghilterra e in Iscozia le banche e le case più solide, facendo sentire in tutte le piazze del Continente il contraccolpo dei suoi disastri. Ebbene; questo rapido uragano non può offrire che una debole immagine della perturbazione, che il mercato europeo risente dallo stato delle finanze di Vienna.

XIII

Da 20 anni a questa parte neis dell'Austria si scorgono che il governo s è fino a qui ingegnato di coprire col mezzo di prestiti contratti all'estero. Il giorno in cui il credito gli venne meno per la collocazione delle sue metalliche presso le case di Francoforte, di Berlino, di Amsterdam, di Londra e di Parigi, l'Austria si volse a vendere a compagnie francesi le strade di ferro, le sue miniere, le sue foreste; e quando tutte le fonti di danaro furono divorate, essa attinse agli scrigni della sua banca, ipotecando quello che le restava di ipotecarle. Oggi il debito pubblico tocca la cifra di 2, 500, 000, 000 milioni di fiorini (6 miliardi e 300 milioni di franchi), e i suoi valori si vendono in tutte le borse di Germania con una perdita di più del 60 per cento.

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- Si faccia cessare il discredito, e questi valori caduti oggi a Francofone fino a 49 risaliranno almeno al corso del 1858 che era all'86. Questa differenza rappresenta per l'Austria, la Germania, l'Olanda, il Belgio un maggior valore di due miliardi almeno. Ma il miglioramento dei corsi non avverrebbe solamente negli effetti pubblici austriaci, ma ancora negli effetti germanici, belgi, olandesi, russi, francesi e inglesi. L'aumento avverrebbe in una proporzione minore, ma sopra un capitale talmente grande, ch'esso non può stimarsi inferiore a cinque o sei miliardi.

Il tesoro austriaco deve alla Banca di Vienna 340 milioni di fiorini (850 milioni dì franchi). Ma col mezzo della, cessione della Venezia, la Banca riprende i suoi pagamenti in danaro, e ogni suddito che possiede viglietti di Banca o carta moneta con corso forzato, e tutti quelli che hanno a riscuotere rendite, fatture, tratte, effetti di commercio, crediti ipotecari, vedranno crescere il loro capitale da 50 a 100, poiché il valore del fiorino verrà ad alzarsi da franchi 1, 75, a franchi 2, 50. Anche il valore di questi miglioramenti può annoverarsi a miliardi. Ma questo non é ancora tutto. La diminuzione dell'esercito austriaco, ch'è la conseguenza della cessione della Venezia, permette alla Corte di Vienna di alleviare il peso opprimente delle tasse, che nei soli anni 1859 e 1860 furono accresciute di 40 milioni di fiorini (100 milioni di franchi), o di un sesto della rendita totale. Oggi l'imposta fondiaria oltrepassa in Ungheria il 32 per 100 della rendita, e coi centesimi addizionali rendeva al 40 per 100. L'imposta sulle case si eleva a Vienna al terzo del valore delle pigioni. I diritti sulla carne, applicati nelle campagne non meno che nelle città, figurano per un sesto nella sovraimposta di 18 milioni di fiorini (45 milioni di franchi) a carico delle imposte indirette. I diritti di bollo e di trasferimenti danno luogo a universali reclami. L'imperatore dovette ordinare, con un rescritto autografo, di non applicarli, che sulla metà del valore della proprietà. Ma il maggiore vizio della fiscalità, è il peso che fanno pesare sui contribuenti le spese di percezione. Quelle delle imposte dirette assorbono quasi la metà della rendita. Qual miglioramento e qual cangiamento in tutte le fortune il giorno in cui il mantello di piombo, questo barbaro sequestro, che la guerra, o piuttosto la paura della guerra, e il discredito dell'Austria tengono sospeso sopra una parte considerevole del capitale europeo, sarà tolto. Niuno può valutare il molo, che la disposizione istantanea di tante ricchezze e la loro circolazione, il ritorno della fiducia e la certezza dell'avvenire imprimeranno alla produzione e alla prosperità di tutti i paesi di Europa. Poiché, malgrado le sofferenze universali che noi proviamo, non bisogna esagerarsi le difficoltà della situazione.

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Non v'ha che un piccolo punto del Continente, in cui gli uomini nell'esaltazione del patriottismo o per fedeltà alla bandiera sieno disposti ad uccidersi fra di loro.

Tutte le nazioni sono in pace o non mantengono uno stato militare rovinoso, se non che nel timore delle complicazioni, che la protrazione della questione italiana potrebbe far nascere. Fate sparire qualunque motivo di odio e di lotta fra i paesi disgiunti dalle Alpi e vedrete dissiparsi la diffidenza dell'Europa, dandole quella sicurezza politica a cui aspira da lungo tempo; voi diffonderete in tutti i paesi quel limo fecondo, di cui parlava Turgot, quando paragonava lo sviluppo successivo dei lavori cagionato dalla diminuzione dell'interesse del danaro a quei campi fertili, che le acque del fiume straripalo scoprono nel ritirarsi. S'egli vivesse a' di nostri, in cui le relazioni di credito sono più che centuplicale, quanto il suo caldo amore per l'umanità si esalterebbe all'aspetto della prosperità generale che seguirebbe la pacificazione d'Italia!

XIV.

Nessun governo avrà quindi a temere l'opposizione o il biasmo del suo popolo. tutti temeranno, al contrario, che l'indifferenza e l'inazione divengano una causa d'impopolarità. La liberazione d'Italia inspira universali simpatie, e dovunque il buon senso dice, che 600 milioni dati dagli Italiani all'Austria col mezzo di un prestito guarentito da tutte le potenze, e che non farebbe correre rischio ad alcuno, assicurano meglio la indipendenza degli Italiani, determinano con maggior sicurezza le frontiere della nuova patria che non tutti i trattali conchiusi fra i due avversari, con o senza indennità, dopo una lotta sanguinosa. Questo legame d'affari, quest'operazione di finanza, conchiusa fra i due paesi aggiunge una consacrazione di più alle obbligazioni del diritto delle genti. Il trattato ha per base e per sanzione la legge politica e la legge civile. I confini consacrati da un atto simile, sono meglio garantiti e più insuperabili, che se fossero difesi da armi invincibili, da fiumi, da monti, o da fortezze formidabili. Tutte le potenze, essendosi associale per garentire le frontiere dell'Austria e dell'Italia, niuna ha a temere per le frontiere sue proprie. Poiché, violare le frontiere stabilite, sarebbe non solamente un errore politico, ma una mancanza di onore, che desterebbe in sdegno di tutti, e che niuna potenza, partecipe del contratto potrebbe far a meno di reprimere e condannare, sotto pena di incorrere nel rimprovero d'una indegna complicità.

XV.

Ricapitoliamo. I destini dell'Austria, dell'Italia ed i più grandi interessi dell'Europa sono compromessi dal prolungamento della lotta austro-italiana.

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Né i cannoni rigati, né i trecentomila nomini raccolti nel quadrilatero, od accampati sul versante delle Alpi e sulle rive dell'Adriatico, potranno condurre ad una soluzione favorevole alla dinastia degli Asburgo. Né il sacrificio degli averi, né la leva in massa di tutti gli uomini atti alle armi dal settentrione al mezzogiorno della penisola, giungeranno d'altra parte a sciogliere d'un tratto la differenza nel senso dei voti dell'Italia. Per mettere un termine alle convulsioni di questa crisi inestricabile, bisogna che l'Europa intera intervenga in nome del riposo comune e per l'onore della moderna civiltà.

Il semplice esame dei fatti e degl'interessi che soffrono da tale condizione di cose, mostra che esistono tutti gli elementi per una transazione amichevole.

Ma l'Europa intervenendo per aggiungere una nuova trasformazione a tutte quelle, che i trattati del 1815 hanno già subito, potrebbe essa fermarsi lì? Non è questa un'occasione naturale di rifondere per intero e di ricostituire, sopra basi conformi ai progressi ed ai nuovi bisogni delle società, il patto fondamentale, su cui s'intende riposi la sicurezza dei diversi Stati? La tote la, senza dubbio per luogo tempo utile, che le cinque grandi potenze avevano assunta, ha dessa impedito le rivoluzione di Francia, di Spagna, di Grecia, del Belgio e dell'Italia? Ha dessa sufficientemente protette le dinastie e guarentiti i possessi degli stati secondari?

Certamente, il progresso dei costumi, delle istituzioni liberali, lo svolgimento delle vie di comunicazione, l'estensione dei traffici, il risvegliarsi delle nazionalità ed il rispetto universale che ispira il voto delle classi mantenute finora nelle condizioni dei pupilli, sono indizi, che impongono nuovi doveri alle grandi potenze. Egli è tempo di riconoscere per tutti gli stati il diritto di proteggersi da sé e di porgerne ad essi il mezzo, ammetteodoli tutti a partecipare alle deliberazioni, che hanno per oggetto l'interesse comune.

L'Europa, infine, richiede l'istituzione di un Congresso universale permanente, in cui tutte le potenze senza eccezione, vengano, prima di tutto, a rinnovare l'impegno di rispettare i loro confini, ed il di cui arbitralo riconosciuto e rispettato imponga quìnd'innanzi una soluzione pacifica a tutte le differenze. Solidarietà degli interessi, benevolenza nelle relazioni, inviolabilità dei territori, conciliazione in tutti i conflitti, tale era in scopo, che i plenipotenziari di Vienna si aveano proposto. E malgrado le imperfezioni d'un'opera compiuta in uno spirito di reazione, nel domani di una lotta di giganti, quest'opera turbata e compromessa ad ogni momento, quest'opera diede con tutto ciò all'Europa una pace di quarant'anni.

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Nello stato de' nostri costumi, dopo tanti progressi compiuti; la ricostruzione di questo gran monumento, elevalo alla concordia, aprirebbe certo all'attività dei popoli una carriera più lunga e più feconda. Ma quand'anche non avessimo dinanzi a noi che un mezzo secolo di pace, di disarmamento, di riduzione di imposte e di lavori produttivi, a qual grado di moralità, di lumi, di benessere la generazione presente, colle risorse di cui essa dispone non potrebbe pervenire!

É questo beneficio inestimabile ciò che l'Europa domanda all'Imperatore d'Austria. Essa gli domanda non di sorprendere, di vincere gli eserciti italiani, ciò che gli sarebbe facile, ma di vincere sé medesimo. Havvi una conquista, una vittoria, il di cui prestigio possa uguagliare la grandezza e la popolarità d'un simile trionfo?

XVI.

Abbiamo adunque fiducia! Le risoluzioni eroiche e solenni, che indicano nella storia gli stadi progressivi dell'Europa cristiana, hanno senza dubbio sormontate le difficoltà, che loro opponevano le passioni e gli interessi degli uomini. Gli spiriti leggeri e meticolosi soltanto immaginano, che le suscettibilità, anche le più nobili e le più legittime, possano vincerla, nelle crisi supreme, sopra la ragione di Stato. L'Imperatore Francesco Giuseppe, che tiene nelle sue mani i destini dell'Austriaca quale responsabilità trae dietro sé la sua decisione. Dopo l'amore de' suoi popoli, c'è, in quel cuore fiero e leale, una passione, che la vince su tutte le altre, è la passione della gloria, della vera gloria; quella che viene conferita, colla patria, dall'Europa intera, dal mondo incivilito! Vittorio Emanuele si mostrerà degno della sua fortuna. Egli ci metterà il suo onore a restare agli occhi di tutti quello che volte essere, il liberatore della sua patria, e gettando uno sguardo sul passalo, misurando la distanza percorsa, s'applaudirà delle conquiste del presente e della giusta parte, che la sua prudenza gli riserva nelle eventualità dell'avvenire.

Finalmente noi sappiamo con quale rapidità, in grazia alle strade ferrate, ai telegrafi ed ai giornali, un'idea giusta, una soluzione pratica, possono collegare da un capo all'altro dell'Europa, le convinzioni e le volontà verso uno scopo conforme all'interesse di tutti.

Il riscatto di Venezia è la sola soluzione efficace, ragionevole, umana della lotta. Noi speriamo, che quando h discussione avrà permesso a ciascuno di far giusto conto di tutti i vantaggi di questa transazione, si formerà in tutti i paesi un esplosione dello spirito pubblico, che obbligherà i governi ad intendersi; e la guerra d'Italia si terminerà, come quella della Crimea, coll'adempimento di quella parola, ch'è la viva espressione dei moderno incivilimento.

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Non sono le armate, ma è l'opinione quella che riporta' l'ultima vittoria.

PER A. DE LA GUERRONIERE

'importanza dell'opuscolo del signor Desotto il cui diafano velo traspare la volontà imperiale nella questione romana, ci obbliga a porlo come Uno dei più preziosi fra i nostri documenti.

I.

Esiste in questo momento in Europa una questione che domina tutte le altre, ed è l'Italia, e vi è in Italia un interesse che ne riassume la storia ed il destino, ed è Roma. Rivendicata dalla Chiesa e dalla fede, come guarentigia e metropoli della unità cattolica, agognata dalla penisola come capitale della sua nazionalità, Roma è rimasta il problema più importante e più grave dell'epoca nostra.

La Dio mercé, il papato spirituale non è in causa. Noi non siamo più ai tempi delle eresie, degli scismi e delle guerre di religione.

Egli è incontestabile al contrario, che la forza d'espansione del Cattolicismo tende più presto ad accrescersi nel mondo, che a ristringersi. In Francia la Chiesa Cattolica, potente e calma, nel mezzo dei culli dissidenti liberamente esercitati, vede ingrandire la sua morale autorità, sotto la protezione delle nostre leggi, e dei nostri costumi. All'estero, per ogni dove penetra la nostra influenza civilizzatrice, essa reca con sé i germi della fede. Dietro al nostro stendardo apparisce sempre la croce, e dando al S. Padre più anime di quello che giammai possa perdere di sudditi, noi allarghiamo ogni giorno più le frontiere del suo impero, la di cui sede è a Roma.

Ma la potenza temporale del papa attraversa attualmente una crisi, di cui non dobbiamo né attenuare l'importanza, né dissimulare il pericolo. Questione politica, essa tocca ai più grandi interessi dei governi e dei popoli. Questione religiosa, infiamma gli animi, allarma le credenze, e commove ciò che v'è di più vitale e di più profondo nell'umanità.

Di queste crisi quali sono le cause? Chi ha prodotto questo fatale antagonismo tra il papato e l'Italia? Chi ha soffiato tra il Vaticano e le Tuileries? Se il papa è oggidì isolato, se si è separato dal movimentò italiano, di cui è il capo naturale, se ha perduto uno de' suoi stati, di cni è la colpa?Della politica francese forse? Ha forse questa mancato di riguardi, di sincerità, di pazienza, di abnegazione, di previdenza? Il figlio primogenito della Chiesa non fu egli rispettoso e fedele? Bisogna finalmente che si definiscano le responsabilità, e che nel bilancio dei fatti, minutamente compitato, ognuno si abbia quella parte che gli appartiene.

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L'opinione pubblica sappia distinguere e giudicare fra quello il cui accecamento ha ridotto il potere temporale al punto cui trovasi oggidì, e fra quello i cui sforzi sempre generosi ed i consigli sempre disprezzati, avrebbero potuto salvarlo e consolidarlo.

II.

Allora quando nel 10 dicembre del 1848, la confidenza nazionale rimise il potere nelle mani dell'erede dell'impero, il clero si associò a questa popolare manifestazione. Si fu sotto la bandiera delle sue chiese che le popolazioni rurali s'avviavano allo scrutinio; la Francia intera presentò allora lo spettacolo del quale fummo di recente testimonii, allorquando, dalla vetta delle Alpi alle rive del Mediterraneo, Nizza e la Savoia, hanno acclamato la loro nuova patria. Durante gli anni che precedettero, il Principe, allora primo magistrato della repubblica, fu riguardato quale la salvaguardia degli interessi cattolici, allarmati, e degli interessi conservatori minacciati. tutte le speranze dell'avvenire si volsero verso di lui, e allorquando lo si vide adoperare le armi della Francia, per vendicare l'onore del mondo cattolico, e dare la bandiera della pacificata rivoluzione per cauzione della libertà della Chiesa, nessuno, fra gli uomini sinceramente preoccupati dei destini morali del loro paese, non dubitò che noi fossimo entrati in un'era feconda di riparazione. L'unione del potere religioso della potenza civile sembrò fortificarsi dalla testimonianza di riconoscenza che, da tutti i punti della Francia, e da tutte le chiese della cristianità, come si può asserire, s'elevarono verso il principe che l'aveva compiuta.

Per un incontro provvidenziale, si vide alla volta sul trono del S. Padre un prete, nudrito nelle forti tradizioni della crociata cattolica, che cercava di render giovane colla libertà un potere compromesso dalla servitù, e nella terra della Francia l'erede del grande uomo che, cinquanta anni innanzi aveva dominato e regolarizzato la rivoluzione francese, per dividere il suo spirito dalle sue passioni, e per applicare nelle istituzioni civili non periture, tutto quello ch'essa racchiudeva di giusto e di vero. Si era dalla cattedra del S. Padre che doveva partire il primo segnale del ridestamento della nazionalità di un popolo. Si era il rappresentante della Francia del 1789 che rendeva il suo prestigio al principio di autorità compromesso da settanta anni per tante commozioni e rivoluzioni subitanee. Da una parte, questa forza morale che deriva da vecchie tradizioni, d'altra parte quella potenza irresistibile che appartiene all'unanime volontà di una grande nazione: l'edilizio dell'ordine politico rigeneralo s'innalzerebbe su questa doppia base.

Nel mezzo di questo movimento d'opinione, la Chiesa profittò la prima del cangiamento compiuto 9 anni or sono, nelle nostreubbliche istituzioni: tutta quella autorità che il Principe Presidente riceveva dall'autorità nazionale; essa lo guadagnava in libertà dalla benevolenza del Sovrano.

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Il Pantheon fu reso al culto di Dio; i cardinali furono chiamati al Senato; le nostre vecchie cattedrali ricevettero delle dotazioni ragguardevoli; le modeste chiese delle nostre campagne s'ebbero dal dello stato una parte musata; la Religione altamente onorala, il clero pubblicamente protetto; tale fu il cangiamento che si compieva nei rapporti dello stato e della Chiesa. I fatti giustificano dunque tutte le speranze.

Ma eranvi degli uomini, che dopo aver avuto un ingerimento nelle nostre antiche lotte politiche, conservavano, sotto un nuovo ordine di cose, il risentimento delle loro disfalle; a lato di questi amari ricordi poco valutavano le vittorie che interessavano la loro fede. Profittarono quindi della libertà che l'impero dava alla religione, non per le opere divine che formano la missione della Chiesa, ma a vantaggio di passioni, di speranze e di disegni che la Francia avea condannali col solenne suo voto. Cosi ogni concessione del governo diventava un'arma nelle loro mani.

Il patriottismo del clero li affliggeva senza scoraggiarli; non potendo trascinarlo, tentarono ingannarlo; furono abilmente sparsi dei dubbi sulle intenzioni del governo francese: al ricordo recentissimo della salvezza del Papato, compita dalla spada della Francia, si frammischiarono perfidamente i ricordi dolorosi di Savona e di Fontainebleau, s'impiegarono tutti i mezzi per render sospetta la politica la quale non meritava che la riconoscenza dei cattolici; si usava perfino della carità, e le vaste associazioni formate sotto la sua benefica influenza e reclutate da tante persone dabbene, diventarono lo scopo degli sforzi più attivi.

La politica poco a poco penetrava nelle chiese, e dei capopartiti dal manto della religione acquistavano la confidenza degli uomini di fede. La libertà religiosa apriva la porta ad influenze interessate che venivano a cercare un asilo ai loro rancori perfino sotto l'inviolabilità dell'altare, trasformando i sublimi testi del Vangelo nei sofismi della loro ambizione. Anche la carità era tranello leso alle anime generose, e troppo spesso la tolleranza della legge non era che la complicità in cattivi disegni che essa copriva senza assolverli.

Lungi da noi il pensiero di confondere il clero francese con questi uomini che, senza titoli, senza diritti, si sono arrogali una specie di dittatura su di esso. Il clero francese è il più illuminato, il più pio, il più disinteressato del mondo. Erede dei più illustri dottori della Chiesa, rialzalo nel secolo XVII dal genio e dalle virtù di grandi vescovi come Bossuet e Fénélon, purificalo nel 1793 dal martirio, riconciliato sotto il consolato colla società moderna, colla franca accettazione del concordato, esso mostrò successivamente la sua indipendenza, il suo coraggio, il suo amore per Dio e per la Patria.

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Noi l'onoriamo come merita di essere onorato: noi sappiamo che il suo patriottismo è inseparabile dalla sua fede, e che se è sempre pronto a morire, come in un'epoca infausta, appiedi dei suoi altari, è del pari deciso a compiere tutti i suoi doveri verso il paese ed il sovrano. Il clero può essere un momento ingannato dallo spirito di parte, ma non ne sarà mai lo strumento volontario, e se un giorno si riesce ad ingannare la sua buona fede, non si riescirà mai a snaturare i suoi sentimenti.

III.

La politica della corte romana non tardò punto a subire essa stessa l'influenza di questi sforzi sì attivi e perseveranti. Il Papato invece di ispirarsi ai consigli della Francia, alla quale doveva il suo ristabilimento, appena rientrato al Vaticano, riprese la subordinala attitudine che gli avevano fatto i trattati del 1815.

Ma ninna cosa poteva svolgere l'imperatore dalle sue risoluzioni. La sua confidenza nel Pontefice, di cui aveva rialzato il trono, non fu punto scossa, compiendo in qualche guisa, ad ogni ora, l'opera della liberazione del papato, egli si presentava al cospetto dell'Europa il garante dell'inviolabilità della S. Sede. AH' interno egli non solo elevava dei tempi alla fede, ma cercava col suo proprio omaggio di consolidare negli animi l'autorità della Chiesa: per un sentimento generoso, egli non usava di privilegi che appartengono da tre secoli alla corona di Francia che per rendere ai vescovi prerogative che avevano perdute; egli non innalzava alle sedi episcopali che preti designati dapprima alla sua scelta, dalle simpatie della corte di Roma. Tutti quelli che circondavano l'imperatore non dividevano questa sicurezza; ma la sua lealtà era senza inquietudini, come era scevra di sospetto; e nessuno di quelli ch'ebbero l'onore di prender parte ai suoi consigli ci smentirà, la sua inamovibile confidenza resisté a tutte le osservazioni, e a tutti gli avvertimenti.

IV.

Questa impassibile e benevola attitudine dell'imperatore mandava a vuoto almeno le ire che non riusciva a disarmare; e, a fronte di queste costanti testimonianze della sua sollecitudine, era difficile di creare dei malintesi nella pubblica opinione su sentimenti che animavano il governo imperiale verso la corte di Roma. I moti favorevoli all'indipendenza italiana che si manifestarono nella Penisola, nel complicare la posizione della Francia, fornirono i pretesti che i partiti attendevano.

La disfatta della rivoluzione sotto le mura di Roma, e il disastro della nazionalità italiana sol campo di battaglia di Novara, avevano fatto regnare dal Ticino fino all'Adriatico il silenzio doloroso della servitù;

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lo stesso modo d'agire del governo pontificio, il suo persistente rifiuto di compiere delle riforme, e le sue manifeste simpatie per l'Austria, contribuivano ad accrescere gli allarmi del patriottismo italiano. L'opera della nazionale emancipazione si continuava adunque dalle società segrete e dalle cospirazioni, e le legittime aspirazioni della libertà si univano ai complotti dei congiurati; l'Italia era un focolare pronto per tutte le rivoluzioni: essa minacciava incessantemente la pace dell'Europa con una esplosione, subitanea e formidabile.

La quistione italiana, che da più di mezzo secolo s'impone alla diplomazia, era inevitabile. Due interessi superiori emergevano già da questo conflitto: quello dell'indipendenza nazionale rivendicata da un popolo assoggettato, ma che rivolgeva all'Europa gl'imprescrittibili titoli del suo diritto; quello del papato minaccialo dalla rivoluzione, e affidato da dieci secoli alla guardia della Francia. Quale era dunque al cospetto di questi principi diversi, lo stato del nostro paese; quale era davanti alla coscienza e davanti all'istoria il dovere dell'Imperatore? Capo d'una famiglia sovrana sorta dal seno della rivoluzione del 1789, e dotata per ben due volte d'una corona dal libero suffragio d'una nazione, poteva egli disertare questa causa dell'Italia che rinvenivi nelle tradizioni della nostra politica, e alla quale s'erano mostrati fedeli i più popolari dei nostri re? Cattolico, figlio primogenito della Chiesa per titolo della sua corona e della sua devozione, non s'era egli impegnalo con un intervento glorioso, a difendere l'indipendenza spirituale del sovrano pontefice, garantita dalla potenza temporale della S. Sede? L'origine e le tradizioni del suo governo, lo rendevano in Europa l'appoggio naturale della nazionalità italiana; le tradizioni della monarchia ch'egli restaurava, i suoi personali sentimenti e i suoi atti, facevano di lui il più fermo sostegno dello scosso trono del sovrano pontefice. Egli avrebbe abbassato l'onore della sua corona rinunziando a questa gloriosa fedeltà. Egli avrebbe mancato alla missione della sua stirpe sanzionando questa servitù. Queste due ragioni lo chiamavano ugualmente. Egli non poteva né comprimere, del cieco interesse della tranquillità della S. Sede, gli sforzi generosi della libertà italiana, né umiliare al cospetto della Penisola, che si costituiva a nazione, la grandezza secolare del Vaticano.

V.

L'Italia rispettata nella sua indipendenza, il papato protetto nella sua potenza temporale, tale era dunque il doppio scopo che do.. veva proporsi la politica imperiale.

Fra queste due potenze divise da malintesi, irritate da certe ricordanze, che da mezzo secolo, se si eccettuano gli splendidi giorni che inaugurarono il Pontificato di Pio IX, sembravano non più comuni avere le aspirazioni

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e le speranze; fra il papato minacciato e

Italia pronta a sollevarsi, bisognava tentare una opera di conciliazione e di ravvicinamento. Era nell'interesse dell'Italia, e nell'interesse della Chiesa il non persistere in una lotta funesta, e il riconoscere vicendevolmente i loro diritti. Si è a questi sentimenti che si ispirarono tetti i consigli della Francia alla Corte di Roma, prima che gli avvenimenti avessero dimostrato la necessità di questi sforzi.

L'imperatore sollecitava il sovrano pontefice a soddisfare i voti del pensiero liberale in Italia, compiendo riforme sollecitate a varie riprese dai governi dell'Europa, varie volte accordate e sempre differite. Il ristabilimento delle municipalità romane, la discentralizzazione amministrativa, la cessazione di numerosi abusi, la restituzione a certe provincie di franchigie tolte loro dal congresso di Vienna; tutte queste misure, recando la vitalità dello spirito nuovo all'antica autorità del Papa, avrebbero allora riannodalo al trono di S. Pietro potenti simpatie; il governo romano sottoposto nella sua temporale esistenza alle condizioni ordinarie dei poteri umani, dovea saper prevenire, con riforme che consolidano gli Stati, le rivoluzioni che li commuovono, e li perdono.

Ma, mentre che l'Imperatore esauriva i suoi sforzi per riconciliare il Papato coll'Italia, e preparare in tal guisa al cattolicismo destini nuovi e più gloriosi, il partito politico che voleva, in qualche guisa, mettere Dio nella complicità dei suoi disegni, provocava la catastrofe, opponendosi a qualunque transazione. Secondo lui, l'Imperatore, cancellando i titoli della sua nazionale origine, rinunciando agli incancellabili legati che la rivoluzione francese ha lasciato alla nostra generazione, doveva farsi in Italia il soldato del diritto divino. Che importavano e la libertà della Penisola, e questa necessità di sanguinolenta repressione che venivano a turbare l'Europa? Si trattava di garantire gli Stati della Chiesa contro ogni commozione. Si fondava la sicurezza della S. Sede sulla servitù della nazione.

Si è in tali circostanze che l'Austria, cedendo forse ad esteri incitamenti, fece varcare il Ticino ai suoi soldati, e recava in tal guisa sul territorio piemontese una guerra d'aggressione. Non abbiamo a rammentare gli avvenimenti che ne seguirono: il pronto intervento della Francia, due grandi battaglie combattute e guadagnate in due mesi, l'armata guidata dall'imperatore, che aggiungeva nuovi nomi a tutti i nomi gloriosi che ci legarono i nostri padri, la Lombardia finalmente ceduta alla Francia nell'abboccamento di Villafranca, resa libera alla sua secolare nazionalità.

Di tutti questi fatti, l'istoria ne ha già consacrata la ricordanza. Ma, al di fuori dell'aggressione austriaca, questa guerra aveva' delle profonde ragioni,

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che la rendevano inevitabile, e risiedevano nella stessa costituzione dell'Italia. Era una delle fatali conseguenze delle violente ingiustizie del passato.

VI.

Nella divisione dell'Europa, fatta dai vincitori nel 1815, l'Italia era toccata all'Austria, che vi trovava la soddisfazione di una ambizione tradizionale, unita ad una ragguardevole sorgente di reddito per il suo esaurito tesoro. Regnando a Milano e a Venezia, per diritto di trattati, dominava ancora le piccole corti di Modena, di Parma, e di Firenze per interesse d'una comune resistenza, e per alleanza di famiglia. In queste vaste spoglie strappale dalla coalizione alla potente mano dell'Imperator Napoleone I, l'Austria aveva eziandio disputato alla S. Sede l'estensione di quasi tutti i suoi domini, dei quali si è di recente impossessalo il Piemonte. Nel mezzo dell'esultanza della vittoria, non eravi diritto contro la forza! L'impero aveva collocato delle sentinelle ad Ancona, a Bologna, dovunque essa scorgeva una lappa del suo dominio peninsulare. Quindi egli aveva ripresa l'opera nella quale avevano fallito durante il medio evo i Cesari tedeschi, quella di spogliar l'Italia del suo carattere nazionale, e di fare di queste provincie, sottoposte dalle armi, un gioiello della corona germanica. Egli esaurì le vie dell'abilità e della forza in tale tentativo.

Da quell'epoca, in queste fertili pianure irrigate dal Ticino, dal Po e dal Mincio vi furono due popoli di fronte: i vinti che non capivan nemmeno la lingua dei loro padroni, che protestavano con cospirazioni e sommosse contro la loro oppressione; i vincitori, che univano a tutto l'orgoglio della conquista tutta la diffidenza dell'avvenire; gli uni imponevano il governo, gli altri lo subivano. Gli Italiani erano i disereditati dell'Italia; le classi intelligenti protestavano contro questo disprezzo di loro stessi, e del genio nazionale; ma queste legittime resistenze al dominio austriaco non facevano altro che aumentare i rigori, e l'ira cresceva colla servitù.

La rivoluzione del 1848 trovò l'Italia pronta ad un sollevamento. Gli avvenimenti dei quali la Penisola divenne il teatro, fecero al Piemonte un posto eccezionale. Costuito liberamente, e nulla meno con viste ostili alla Francia, era egli diventato il guardiano dell'indipendenza nazionale oltraggiala; e quantunque nel suo primo sforzo per vendicarla, sia riuscito al disastro di Novara, egli non si lasciò né scoraggiare da questa catastrofe, né svolgere dalle vie che gli mostravano tutti gli spiriti liberali in Europa. Egli concentrò in lui stesso, nella difficile esperienza delle pubbliche libertà, tutte le forze vive della nazione, egli parlò e agi in nome dell'Italia; egli si collocò nel consiglio delle potenze, come il rappresentante di una razza soggetta;

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e pose sul campo delle battaglie lo stendardo della patria comune a lato degli uniti stendardi della Francia e dell'Inghilterra. Chi maraviglierà che una tale situazione, condannala dalla coscienza dei popoli e dalla testimonianza della storia, sia terminata con un terribile duello tra l'Austria e l'Italia?

VII.

La Francia aveva preveduto questa lotta, ed aveva fatto leali tentativi per prevenirla. Guidata da un interesse superiore di ordine pubblico internazionale. essa voleva evitare all'Italia tutti i dolori di nuove convulsioni, ed all'Europa le inquietudini ed i pericoli di una guerra che poteva estendersi a tutti i grandi stati.

Esisteva tra l'Italia e l'Austria una irreconciliabile inimicizia; era dunque al difuori del dominio tedesco che dovevansi cercare gli elementi della pacificazione del paese.

La Francia lo comprese e lo tentò al congresso, di Parigi nel 1856. Appoggiandosi sull'Autorità di quel grande esempio di un intervento delle potenze per l'accomodamento delle quistioni che minacciavano la pace dell'Europa, essa domandò, in nome della sicurezza avvenire, la rinunzia dell'Austria, non ai diritti della sua sovranità italiana, ma all'azione permanente e generale che esercitava sull'Italia in virtù dei suoi trattati coi principi. L'imperatore Napoleone voleva che questi principi dotati dal congresso di Vienna di un'indipendenza nazionale, cessassero di essere i feudatari o i luogotenenti dell'Austria, per diventare governi nazionali. Ad un dominio diventato impossibile succederebbe la supremazia dell'Europa, la quale non sarebbe per l'Italia che una garanzia della sua liberazione.

Questa soluzione guarentiva i diritti nazionali, rialzava l'onore delle corone e non portava alcuna offesa alla legittima alterezza della casa di Asburgo; essa faceva sortire la quistione Italiana da quella crisi violenta nella quale si dibattevano da un mezzo secolo gli interessi della Penisola, e anticipava i risultati della lotta senza fare dei vinti: Adottala dall'Europa, essa avrebbe prevenuto la guerra e gli avvenimenti che ne sono stati le conseguenze.

Fino a quel punto è dunque facile di seguire il pensiero che ispirava la politica della Francia rispetto all'Italia; pensiero giusto, previdente, disinteressalo, che tendeva a prevenire la crisi per via di concessioni, a restituire ai principi la loro sovranità, ed a riporre il papato nelle condizioni di potenza morale che aveva perduto colla sua autorità politica. Il giorno nel quale si pubblicheranno i dispacci del nostro governo sugli affari d'Italia anteriormente alla guerra,

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vedrassi quanta sollecitudine ha mostrato per tutti gli interessi che vi si trovano impegnati e specialmente per la Santa Sede. Ma allorché la lotta diventa inevitabile, quale sarà la condotta della Francia in faccia a Roma? La diplomazia non ci aveva trovato che cattiva volontà; fra i consigli che venivano da Vienna e quelli che venivano da Parigi, la cancelleria romana non esitava punto; alle saggie riforme che gli venivano domandale dalla Francia, essa preferiva la tutela che gli veniva imposta dall'Austria. L'autorità della nostra protezione era già disconosciuta; il benefizio della nostra occupazione militare quasi disprezzato. Il cuore di Pio IX era sorpresi) ed ingannato dai rancori anti francesi di prelati che vivevano nella di lui intimità. Senza fermarsi a questa situazione, l'imperatore cercò con ardore i mezzi di preservare l'autorità politica del Santo Padre nella lotta che stava per iscoppiare.

Il suo programma venne fatto di pubblica ragione; ma avendo potuto ottenere per l'Italia il protettorato dell'Europa, proponeva una confederazione di tutti gli stati indipendenti, il centro della quale sarebbe a Roma ed il. Papa ne sarebbe il presidente. Era la soluzione monarchica e cattolica della quistione italiana. Noi che abbiamo avuto l'onore di esporre questo programma, sappiamo meglio di ogni altro da quai sarcasmi, da quali ingiurie sia stato accolto nel seno di quel partito che colla sua influenza dirigeva il Vaticano. A Roma ed a Parigi fu una emulazione di violenza. Si negava la quistione italiana; si affermava il diritto inviolabile dell'Austria, e si respingeva in nome del Papa tuttociò che poteva associarlo alla rigenerazione della nazionalità, alla cui causa molti de' suoi più illustri predecessori avevano associato quella della grandezza della Chiesa.

Più tardi, ma troppo tardi, gli occhi si sono aperti, e l'idea della federazione italiana sotto la presidenza del Papa, formulala nel trattato di Villafranca, doveva avere per difensori coloro che l'avevano respinta con maggiore energia e con minore riflessione se ne erano fatti gli oppositori ed i detrattori più forti.

VIII

Alfine scoppia la guerra, in quel momento qual ò la principale preoccupazione dello imperatore?

Essa consiste nel collocare gli stati della Santa Sede sotto la salvaguardia di un'alta neutralità, che valesse a proteggerla contro ogni fortuna delle battaglie.

Il ministro degli affari esteri, nel suo dispaccio 12 febbraio, indirizzato al duca di Gramont, rappresentante a Roma gl'interessi della Francia, riassumeva in tal modo le convenzioni stipulate fra i due imperatori.

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«All'aprirsi dell'ostilità la neutralità della Santa Sede, era stata proclamata dalle parti belligeranti. Essi avrebbero continuato ad occupare le posizioni di cui già si trovano in possesso avanti alla guerra. Essi si proposero di rinunziare a fortificarsi in modo reciprocamente nocevole. Essi sembravano in una parola penetrati dalla coscienza che, al dissopra dei loro passaggeri risentimenti, stava un alto interesse di gran lunga superiore ad ogni altro, quello cioè del mantenimento dell'ordine negli Stati del Santo Padre. -Le guarnigioni di Ferrara, di Comacchio, di Bologna e di Ancona potevano in tutta sicurezza vegliare al man tenimento della tranquillità nelle legazioni e nelle Marche, nel l'istesso modo che la guarnigione Francese la manteneva a Roma».

Tali convenzioni bastavano ad assicurare la sicurezza degli Stati della Santa Sede, tollerando che gli Austriaci continuassero sul territorio pontificale le guarnigioni fino allora mantenute, la Francia così accordava una concessione enorme, questa però era mia concessione al suo rispetto, alla devozione verso il papa.

La politica poteva trarne danno o nocumento, ma l'imperatore collocava l'indipendenza e la dignità del capo della chiesa ben al di sopra degli interessi politici.

Ovunque sventolava la nostra bandiera giammai l'autorità della Santa Sede ebbe a sopportare il menomo sfregio. Durante tutto il tempo in cui si poneva a repentaglio la libertà d'Italia, sui campi di Magenta e di Solferino, la quiete della non venne un solo momento turbala neppur dal frastuono degli avvenimenti che sorgevano in ogni parte della penisola. La rivoluzione che fece crollare i troni di Parma, di Modena e di Firenze non scosse quello del Valicalo. Roma fremeva nel suo patriotismo al rombo del cannone che decideva delle sorti della patria italiana. Ma quei fremiti contenuti dalla mano ferma e tutoria della Francia, non erano che la manifestazione generosa delle simpatie che essa inspirava e di cui essa si sforzava di moderare l'attestazione onde questa non assumesse un carattere d'offesa per Pio IX e tale da eccitare le sue inquietudini.

E durante questo tempo che faceva l'Austria? Essa abbandonava repentinamente tutte le piazze affidate alla sua custodia. Dal canto suo. noi ne siamo convinti, ciò non proveniva da calcolo, ma piuttosto da necessità della sua strategia. Ma tale precipitoso abbandono doveva far sorgere conseguenze facili a prevedersi. La sua occupazione aveva eccitato tutta l'irritazione del patriotismo contro il governo pontificale, il suo abbandono lasciava la sua autorità senza difesa, in balìa alla reazione del sentimento nazionale lungamente compresso. Essa non lasciava dietro di sé che una autorità senza forza, in presenza di un popolo disaffezionato.

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Per tal modo le Romagne non fecero una rivoluzione, esse non ebbero che a conquistare la loro indipendenza; esse l'avevano ritrovata nelle vuote caserme degli Austriaci. La fedeltà della Francia fin dal cominciamento della neutralità, l'energia della sua attitudine a Roma per moderare le testimonianze di gratitudine che da ogni parte le venivano sporte, tanta saviezza, tanta sincerità, tanta abnegazione non trovarono contuttociò una ricompensa nel governo pontificale, e nel carteggio stesso del Vaticano, la di cui sicurezza poggiava intieramente sulla presenza dei nostri soldati, le vittorie della Francia non furono accolte che da un dissimulato dispetto.

IX.

Il trattato di Villafranca sopravenne fra tutti questi mutamenti. Esso consacrava un principio la ricognizione del quale per parte dei due imperatori, senza antivenire al di là delle Alpi i rivolgimenti interni assicurava almeno la pace d'Europa, la libertà d'Italia. Il non intervento delle potenze straniere era, nel diritto pubblico, la salvaguardia della nazionalità italiana. Il papato protetto nella sede stessa del suo potere dalle armi della Francia, trovavasi in faccia delle Romagne insorte, delle Marche e delle legazioni, in balia di moti i quali dovevano far temere alla corto di Roma una prossima catastrofe.

L'indomani della sua vittoria l'imperatore scrisse al papa una lettera che testimoniava la sua costante sollecitudine a prò degli interessi della Chiesa. Riservando i diritti della santa sede sulle Romagne, egli consigliava al pontefice d'accordare, senza aspettare le pretese della rivoluzione, le riforme da tanti anni invocale dall'Europa in nome delle popolazioni degli stati romani. «Io scongiuro Vostra Santità, diceva l'imperatore, ad ascoltare la voce di un figlio devoto alla Chiesa, ma che comprende la necessità del suo secolo, e che sente la forza brutale non bastare a sciogliere le quistioni. ed a rimuovere le difficoltà. Io veggo nelle decisioni di Vostra Santità, o il germe d'un avvenire di gloria e di tranquillità, oppure la continuazione d'uno stato violento e calamitoso».

Così dopo tanta gloria quando sta per sottoscriversi la pace di Villafranca, e per stringere la mano all'imperatore Francesco Giuseppe, le sollecitudini dell'imperatore si volgono tosto verso il papa. Egli vuole associarlo in qualche modo al benefizio delle sue vittorie; la redenzione d'Italia non basta, egli vuole riconciliarla col papato. A questi nobili modi come risponde la corte di Roma? Invece di porre la sua fede nel vincitore di Solferino, essa temporeggia e dissimula. La stessa Austria consiglia le riforme come unico spediente di salvezza, il governo romano rimane incorreggibile.

Ma che vuol egli? La restituzione delle Romagne. Roma non dà retta ad alcuno, né vuole piegare ad alcuna concessione, se prima non l'è ridata quella provincia. Era ciò possibile? Chi gliela restituirebbe con la forza?

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L'Austria vinta non l'osava, la Francia vittoriosa nol poteva. L'Austria, dopo le sue sconfitte, non poteva ricominciare sulla costa dell'Adriatico la lunga storia del suo protettorato; la Francia che avea liberato l'Italia non poteva collocare i suoi soldati al posto dei popoli austriaci in fuga. Inoltre il papa non poteva riporre le sue migliori speranze nella propria forza, in faccia alla rivoluzione, egli era senza soldati.

Nondimeno la corte di Roma non comprese questa condizione, o non volte piegarvisi. Essa differì ancora le riforme promesse. In mezzo a queste incertezze, le quali dovevano mutarsi tosto in resistenza ostinata, le popolazioni dell'Italia centrale sciolte per la partenza dei principi dei loro antichi governi, preparavano e compievano la loro unione alla monarchia piemontese e circondavano gli stati della santa sede, minacciandone per dire così la indipendenza. E qui noi vediamo fin dove possano giungere la moderazione generosa nei consigli, e la fedeltà nella devozione. Gli avvenimenti incalzano nell'Italia centrale, nuovi poteri s'ordinano.

La rivoluzione minaccia Napoli, invade la Sicilia, quale sarà in questi avvenimenti il contegno della diplomazia francese? Quali ispirazioni troverà la corte romana nelle necessità presenti e nelle tradizioni del suo potere? I documenti di questo grande processo sono stati comunicati alle Camere, noi invocheremo la loro testimonianza, come quella che ha la certezza e l'autorità della storia.

Alli 24 febbraio 1860, il signor Thouvenel rinnovava a Roma per mezzo del sig. Gramont, la proposta di porre sotto la fede dell'Europa gli Stati del Santo Padre, con la riserva d'un vicariato fondalo nelle Romagne, e accompagnava la proposta con queste parole, tanto degne del Pontefice al quale erano dirette:

«Quand'anche il papa vedesse in questo disegno un sacrificio parziale de' suoi diritti di sovranità, non sarebbe egli confortalo dal pensiero, il quale pur deve avere il suo valore per il cuore d'un principe, che è padre e sovrano nello stesso tempo, che avrebbe efficacemente giovalo a ridonare la tranquillità all'Italia, a quietare le coscienze, a rassicurare gli spiriti che in tutta Europa si sgomentano della protrazione d'una crisi, cui tanti e cosi elevati interessi vogliono che si ponga fine?»

Per convincersi della buona fede con cui il governo dell'imperatore mirava ad una soluzione idonea a mettere in salvo l'autorità temporale del pontefice, fa mestieri tener conto dell'energia adoperala dalla sua diplomazia per ricondurre il gabinetto di Torino sopra una via di saggia moderazione. Mentre essa sforzavasi d'indurre Roma alle concessioni, tentava pure di persuadere il governo di Vittorio Emanuele a non essere che il rappresentante del papa nelle Romagne.

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In un notevole dispaccio diretto, il 22 febbraio 1860, al barone di Talleyrand, nostro ministro a Torino, il signor Thouvenel sollecita il signor Cavour, nei termini più formali, ad aderire a questa transazione, e per ispingervelo usa gli argomenti più perentorii, dichiarando esplicitamente che, ove la Sardegna ricusi, essa sarà risponsabile della sua deliberazione. e non dovrà più fidare sulla Francia nelle contingenze cui tal rifiuto può dare origine.

Ancora da Roma doveva venire la resistenza a proposte si leali e sì sagge. Al gabinetto delle Tuilieries non viene meno il coraggio. Il vicariato è respinto come ingiurioso. Lo imperatore propone alla Santa Sede un nuovo accomodamento. Il quale viene comunicalo dal signor Thouvenel a tutte le corti cattoliche, che così trovasi riepilogato nel suo dispaccio degli 8 aprile:

«Organamento, escluso ogni intervento francese od austriaco, d'un corpo d'armata destinato al mantenimento dell'ordine in Roma, sussidio offerto al sovrano Pontefice dalle potenze cattoliche; per ultimo promulgazione negli stati romani delle riforme già approvate da Sua Santità.»

Questa protezione racchiudeva non solo un aiuto dato al debole, ma ancora un omaggio reso alla grandezza secolare della santa sede; era il mondo cattolico che tornava ad associarsi colla sua devozione ai destini umani della Chiesa. Il carattere speciale di questo protettorato ne metteva in luce l'onore. Per qual altra potenza le nazioni cattoliche si sarebbero imposte un tal dovere, se non per il principe il quale governa le anime in nome di Dio. e la cui mano sta alta al disopra dell'universo per benedirlo? L'Italia era pacificata: l'unità italiana le cui pretese sono una minaccia per Roma, era definitivamente impedita. Il papato usciva dalla crisi per avventura la più temibile, onoralo del rispetto dei popoli e forte della loro devozione.

Le potenze cattoliche lo compresero. Il signor di Rechberg fece a nome della sua corte, una risposta così ragionevole che il signor Thouvenel poteva dire, alli 23 aprile, al marchese de Mouslier: «Confido che ci sarebbe facile d'intenderci con la corte di Vienna. Il ministro di Napoli dichiarò che il suo signore era pronto a dare il suo concorso a quel progetto. Il signor Barrot ambasciatore di Francia in Spagna, riferiva, nel suo dispaccio del 4 aprile, la risposta della corle di Madrid: «Il signor Collantes, non nega l'ostinazione del santo padre il quale, dopo la sua ristorazione, dimenticò le lezioni del 1848, la catastrofe rivoluzionaria che lo costrinse a fuggire da' suoi stati, e il soccorso provvidenziale che ve lo ricondusse.» E il rappresentante dell'imperatore presso la regina Isabella soggiungeva: «Il primo segretario di stato, pensa che il progetto è suggerito dalla sana e calma cognizione dei veri interessi della santa sede, e che offre il solo spediente di mantenere illese dalla rivoluzione, senza sacrificare assolutamente

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ciò che si è già perduto, le provincie che restano ancora sotto il dominio della santa sede, e con quelle forse il governo temporale del papa.»

Lo stesso fu il sentimento della corte di Lisbona, e il ministro degli affari esteri, il sig. Casal Rabeiro rispose che poiché sventuratamente il papa respingeva quelle concessioni, non restava che confidare nel tempo.

Questo era il linguaggio della diplomazia delle corti cattoliche. Vienna, Napoli, Madrid, Lisbona, rispondono al pensiero della Francia. In queste corti che nessuno accuserà di soggezione all'influenza francese, giudicavansi le cose come noi stessi e aderivasi alla politica di transazione della quale il gabinetto delle Tuileries eseguiva tutti gli spedienti.

In questo mezzo, i tentativi d'agitazione ch'eransi manifestati in Francia in nome della religione, ma dietro l'impulso e nell'interesse della politica raddoppiavano il loro ardore. Uni vansi e stringevano lega sotto la maschera della pietà figli di Voltaire e figli di crociali. Opuscoli violenti assalivano le intenzioni e la condotta del governo, alcuni vescovi per eccesso di zelo lasciavansi andare a questo movimento, e l'eco di tutto questo chiasso giungendo fino a Roma poté far credere ad una commozione nell'opinione pubblica. Si giunse al segno d'inventare che l'imperatore era solo in Francia, e ch'egli aveva esacerbate tutte le coscienze. Questo sentimento perfidamente diffuso, fu causa di buona parte dell'asprezza con cui fu raccolta in Valicano la proposta che aveva avuto il consenso di tutte le potenze cattoliche. Ecco la. curiosa risposta del Cardinale Antonelli alle comunicazioni del sig. Grammont; essa è registrata in un dispaccio del 14 aprile. «La santa sede non aderirà ad alcun protocollo il quale non le assicuri la restituzione delle Romagne, essa persiste nel differir lino a questo giorno l'esecuzione delle riforme consentite dal santo padre, la sua risoluzione irremovibile ò di non accettare una garenzia per gli stati rimasti in suo dominio, poiché ciò implicherebbe a suo credere, la risoluzione d'una differenza Ira questi Stati e quelli che gli sono stati rapiti. Il papa respinge il sistema d'una rendita iscritta nel gran libro degli stati, egli non aderirebbe che ad un accomodamento il quale avesse la forma d'una consacrazione degli antichi diritti canonici, riscossi sui beneficii vacanti; rispetto ai soccorsi di truppe, la santa sede ama meglio avere la libertà di raccogliere da sé la propria armata.»

Tutti gli sforzi di conciliazione fallivano in faccia ad una resistenza provocala e ringagliardita da un giudizio falsissimo dello stato della Francia. Il cardinale Antonelli l'aveva del resto dichiarato al signor Gramont, in una conversazione, i particolari della quale sono riferiti nel dispaccio del nostro ambasciatore: idi papa non transigerà mai.»

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Nessuna transazione! ecco l'ultima parola di questa politica ciecamente soggetta alle influenze funeste ed avverse alla Francia, accennate dalla vigilanza oculata del duca di Gramont.

X.

Così la corte di Roma aveva ricusalo tutto, essa avea rifiutato il vicariato sulle Romagne come un attentato alla propria sovranità. la quale più non esisteva in queste Provincie: essa, declinata la garanzia collettiva delle potenze cattoliche per l'integrità del territorio rimastole dopo la guerra, essa aveva respinto come un'umiliazione l'offerta di un pio tributo pagato da tutti i principi che riconoscevano la sovranità spirituale del pontefice, essa aveva respinto la proposta d'un presidio fornito da tutte le nazioni soggette alla Santa Sede. Quale sarebbe adunque l'altitudine della corte di Roma? Rimarrebbe essa immobile spettatrice degli avvenimenti che si precipitano in Italia? Aspetterebbe essa nel raccoglimento e nella speranza della fede l'ora delle riparazioni? v'ha nella rassegnazione una specie d austera virtù che nobilita la sventura e comanda il rispetto. -Ma la rassegnazione non entrava punto nel cuore dei consiglieri di Pio IX. - Quando appunto egli protestava contro il pensiero d'una dotazione regolare, offerta dai governi cattolici, il governo pontificio sollecitava le offerte individuali, ed organava ovunque la riscossione del denaro di San Pietro. -Quando appunto rifiutava i soldati offertigli dalla devozione dei principi, egli arruolava mercenarii. L'imperatore avea costantemente raccomandato la creazione di un esercito nazionale, come garanzia dell'ordine ristoralo e di sicurezza futura; il governo romano che era rimasto sordo a questo consiglio, stava per tentare la fondazione d'un esercito senza nazionalità, senza unità. Questo tentativo facevasi con modi che pretendevano ricordare le grandi manifestazioni religiose di altri tempi, e affinché nulla mancasse alla rappresentazione, collocavasi a capo di questa crociata un generale che la Francia non aveva veduto sotto le sue aquile nelle nostre lotte eroiche d Italia e di Crimea.

Diciamolo schiettamente, quando un prelato romano, nolo per la sua ostilità personale contro la politica francese, recavasi nella parte più remota dell'Angiò per appello al coraggio ed alla devozione del signor di Lamoricière, egli sceglieva meno l'eroe di Cosentina che l'uomo politico separato dal governo del proprio paese. L'imperatore preoccupalo di più alti pensieri, non si oppose punto a questa scelta, sebbene alcune parole indiscrete avessero svelato le speranze le quali aveva fatto nascere il nome del generale in capo dell'armata pontificia.

«Ad una consorteria potente in Vaticano, scriveva in quei giorni il duca di Gramont, importava dare a questo provvedimento il carattere d'una sfida alla Francia.)

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Per tutta risposta a questo avvertimento, l'imperatore richiestone dal santo Padre, sollecitò nel concedere al generale Lamoricière la facoltà di prendere servizio al di fuori dello Stato. Il partito che dissimulava sotto le apparenze dello zelo religioso la sua ostilità contro l'impero applaudì fragorosamente, si tentarono manifestazioni, si chiamò a raccolta una nuova Vandea, e, nei primi giorni, si confusero in uno stesso anatema i figli della rivoluzione, i settarii del Corano. Il duca di Gramont delineò in uno dei suoi dispacci, il quadro istruttivo delle macchinazioni che allora circondavano il Vaticano.

«Appena, egli scriveva in data del 10 aprile 1860, il signor Lamoricière entrò nel servizio del papa, si videro giungere a Roma numerose deputazioni francesi, le quali si presentavano in corpo, e pomposamente dinanzi a sua santità, affettando l'opposizione dinastica la più aperta, ed usando persino a' piè del trono pontificio un linguaggio, la violenza del quale indica spiriti esaltatissimi.»

E il signor di Gramont soggiunge: «che queste manifestazioni erano ancora date da camerieri influenti....» Un giorno, stando alla sua testimonianza, un'aria di mistero regnava in Vaticano... si fermavano i visitatori, chiudendo loro: siete voi bretoni? e loro spiegavasi che le sale erano momentaneamente chiuse perché il santo padre riceveva l'omaggio della Bretagna, la quale per deputazione veniva a protestare contro l'imperatore. «

Poscia veniva la volta dei Lioncsi; ed uno di essi, il quale sebbene cattolico fervoroso, non aveva credulo ripudiare il sentimento della propria nazionalità, era vivamente interrogato con queste parole: «Signore, si è sudditi del papa prima d'esserlo del proprio sovrano. Se voi non partecipale a queste idee, a che venite qui?»

Tutto ciò è attestato in dispacci ufficiali ed attestato da un ambasciatore, il nome ed il carattere del quale aggiungono maggior valore all'autenticità di questi documenti. E quando si avverta che queste scene ridicole avvenivano, in qualche modo sotto la protezione dell'armata francese, può farsi debita stima della moderazione dell'imperatore. Questa parodia di Coblentz, queste imitazioni puerili dei tempi di Gregorio VII, questa distinzione strana tra bretoni e francesi, questi omaggi resi al papa, non come capo della Chiesa, ma come sovrano, non meritavano che l'imperatore abbandonasse quella calma che attinge nella sua forza e nel suo diritto, ma s'egli non un pericolo, vedeva almeno in tulio ciò una testimonianza irrefragabile dei sentimenti che nutrivan si a Roma contro la Francia e il sovrano da lei eletto.

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XI.

Le illusioni a cui si abbandonava con tanta imprudenza dovevano in breve crudelmente svanire. Garibaldi, in fatti, non affidandosi che nella sua audacia, era sbarcato a Marsala. Dopo di aver percorso la Sicilia, invadeva alla lesta delle sue bande il regno di Napoli. la cui monarchia non doveva nobilitarsi coll'croismo della difesa se non quando era ridotta all'estremo della sua rovina. Il soldato fortunato cercava indarno di farsi ad un tratto uomo di Stato: sotto la sua dittatura popolare, era lo spirito di Mazzini che governava, La libertà italiana poteva cadere col trionfo della rivoluzione. Il Piemonte stimò che doveva a se stesso, doveva alla propria sicurezza, alla salute d'Italia, nella quale rappresentava solo l'unione dell'autorità monarchica e dell'indipendenza nazionale, il prevenire la disastrosa vittoria delle passioni anarchiche, contenendo e dirigendo il moto italiano.

Fra il regno di Napoli e gli stati Sardi, era il territorio pontificio. Il Piemonte non esitò, vedeva a Roma un generale che nell'assumere il suo comando. si era francamente dichiaralo ostile alla causa rappresentata da Vittorio Emanuele. L'invasione delle pel papa era quindi, nel modo di vedere del Piemonte, un attacco aperto alla reazione che aveva suo seggio in Roma, ed una precauzione contro i rivoluzionari di cui Napoli era il focolare.

L'imperatore Napoleone definì nettamente la sua politica di fronte a quell'aggressione con due atti molto significanti: ritirò il suo ambasciatore da Torino, raddoppiò il suo esercito d'occupazione a Roma. Per tal modo nel tempo stesso che il suo biasimo colpiva il governo sardo, la sua devozione circondava il Santo Padre di una protezione più efficace.

Che cosa sarebbe l'esercito pontificio di fronte all'esercito piemontese? Quale attitudine assumerebbe il capo che lo comandava, e che pochi giorni innanzi era stato salutato da tanti omaggi come il salvatore del papato tradito? il generale Lamoricière doveva scegliere tra due partiti: o ritirarsi dinnanzi agli invasori con un esercito che non era ancora pronto a combattere, protestando contro la violazione della neutralità della Santa sede, o tentare la fortuna delle armi in una lolla disuguale.

Di questi due partiti un solo era politico e ragionevole: era la protesta. Il generale Lamoricière ha fatte le sue prove: e niuno avrebbe attribuita la sua riserva a debolezza. Decidendosi per la resistenza, egli si è esposto a vedere confuso il suo coraggio col l'imprevidenza.

E noto ciò che accadde. Nulla è dolorosamente più eloquente del rapporto del generale in capo delle milizie pontificie.

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Fortunatamente per l'onore militare, non vi hanno nell'istoria che rari esempi d'una simile rotta prima del combattimento. È di nuovo il sangue della Francia che lavò l'onta di questa disfatta, e Castelfidardo non ricorderebbe che una defezione, se un pugno di giovani francesi non avesse con nobile coraggio sostenuto un urto disuguale.

Nel vedere dileguarsi in pochi istanti un esercito cosi poco degno di lui, il generale Lamoricière dovette accorgersi dell'errore politico ch'egli aveva commesso. La sua ritirata non avrebbe fatto che aggravare la responsabilità del Piemonte, conservata al papa l'apparenza di una forza militare, la sua disfatta feriva il potere temporale del papa, e non lasciava alla catastrofe che il prestìgio ingannatore della temerità.

Fu un tutto per tutto le anime religiose. Si volte dar l'aria di un trionfo ai funerali dei volontari che avevano generosamente sacrificata la loro vita.

Il governo dell'imperatore, e l'opinione pubblica non si commossero di tali dimostrazioni, e il generale Lamoricière stesso, rientrato in Francia, dopo quella campagna di un giorno, ne definì il vero carattere respingendo l'offerta di una spada d'onore.

Il papato si trovava di nuovo senza difensori. Dopo di aver respinta la guarentigia dell'Europa e il soccorso del mondo cattolico che gli avrebbe assicurala la sollecitudine dell'imperatore, vedeva il suo esercito disperso, e le sue provincie invase, la rivoluzione spingersi minacciosa fino alla porta di Roma. Chi la salverà dai disastri con tanta imprudenza provocati?.. Di nuovo l'imperatore! Non solamente il suo esercito custodiva Roma, ma correva a salvare il patrimonio di S. Pietro evacuato dal Piemonte a nostra richiesta.

E per uno strano contrasto, in mezzo ai perfidi e pazzi consigli che volevano trascinare il papato nell'esilio per farne il missionario de' loro risentimenti. fu di nuovo la Francia che rimosse Pio IX da risoluzioni disperate, e che ritenne presso la tomba di S. Piclro il successore degli apostoli.

XII.

II quadro che noi veniamo tracciando non ò che la storia della questione romana da dicci anni a questa parte. Noi non abbiamo tenuto conto che dei fatti. Ma insieme agli avvenimenti, egli era necessario mostrare le cagioni, le tendenze, gli sforzi segreti e le resistenze aperte che li hanno successivamente prodotti e che li caratterizzano.

Per tal modo il giorno appresso a quello della spedizione di Roma, concepita ed eseguita a rischio della sua popolarità da un principe che voleva riconciliare la Chiosa e la libertà, - accordo dei capi del partilo cattolico per far nascere la diffidenza e la divisione,

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- pressione interna sul clero per separarlo dal potere che aveva acclamato in cui scorgeva una protezione potente e popolare dei suoi diritti; - pressione esterna su Roma per trascinarla a l'ingratitudine verso la Francia e ad una separazione morale col potere nazionale che essa si aveva eletto;-incoraggiamento ad esigenze che nessun governo poteva accettare e ch'erano respinte ad un tempo dalle nostre tradizioni. dai nostri costumi, dalle nostre leggi, dall'esempio dei nostri più grandi monarchi, e dall'interesse della Chiesa stessa, - un prevalersi perfidamente dello stato dell'Italia per spingere sempre più il papa dalla parte dell'Austria, a fine di porre il gabinetto delle Tuileries nell'alternativa, impossibile pel suo onore, di sacrificare il santo padre alla rivoluzione, o l'Italia alla corte di Roma; -lavoro continuo per rendere sospetti tutti i consigli della nostra diplomazia prima e dopo la guerra, per rendere infruttuosi tutti i tentativi inspirati dal nostro attaccamento: - infine, ostilità viva, che non si dà più pensiero di celarsi, che attizza l'odio, consiglia la violenza, inspira l'oltraggio e mira a creare Ira Roma e Parigi come una specie di lega internazionale, capace di tutto sacrificare ai suoi rancori politici e alle sue passioni religiose, perfino la Chiesa, la Francia, se la Francia e la Chiesa, immortali per natura loro. non fossero al di sopra di tali disegni e di tali rancori!

Tale è il. quadro, ricoverato da un velo sì trasparente, che per renderlo visibile a tutti gli sguardi noi non abbiamo che a sollevarlo leggiermente. -E frattanto egli è facile vedere qual è la parie che spelta a ciascuno nella situazione presente.

Per le passioni di cui noi mostrammo l'affaccendarsi da prima coperto, ma sempre attivo, il papa non è stato che un mezzo e non un fine: esse si sono interposte tra lui e l'imperatore, per dividere due potenze la cui unione avrebbe distrutto le loro speranze; esse lo ingannarono, se ne avvantaggiarono e ne fecero strumento a loro rancori e alle loro ambizioni.

Di Ironie a un tale intrigo, il governo francese e rimasto nei suoi sentimenti e inflessibile nella sua attitudine. Vedendo i suoi nemici naturali e sistematici circondare il Valicano e introdurvisi coi loro malvagi consigli, egli non si è credulo sciolto, ad onta dell'ingratitudine, dalla protezione che deve al santo Padre, figlio rispettoso. la sua filiale pietà ha soffocali i moti i più legittimi della sua suscettibilità. Ha continuato i suoi buoni uffici e i suoi disinteressati servigi. Ha esaurito tutti i mezzi che potevauo arrecare salute senza stancarsi né offendersi delle ripulse ostinate che la corte di Roma opponeva ai suoi consigli. Non badò alle ingiustizie e alle ingiurie che partivano dalle persone che circondavano il papa: in mezzo a quei prelati, nemici della Francia, superiore ad essi v'era il padre comune dei fedeli, e il nostro onore ci legava al dovere che adempiamo vegliando alla sua sicurezza.

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Quanto alla corte di Roma, essa può vedere oggi giorno a che l'hanno condotta le funeste influenze che antepose alle inspirazioni dell'imperatore. Isolata in Italia, abbandonata dall'Austria, biasimata dall'Europa, privata delle provincie che poteva conservare sollo la nostra guarentigia, ridotta in un lembo di territorio che perderebbe domani, se non fosse protetto dalle nostre anni, ella si vede successivamente sfuggire di mano tutte le risorse su cui aveva fatto assegnamento. Credeva incrollabile la signoria dell'Austria nella penisola e in meno di due mesi di guerra, l'occupazione austriaca era respinta al di là del Mincio. Essa aveva cercalo alleati nei principi antipatici ai loro popoli e questi principi sono in esilio.

Aveva raccolto un esercito con grave dispendio, e, ad eccezione dei francesi, valorosi sotto qualunque bandiera. tutti i suoi soldati fuggirono prima che fossero vinti. Cercò di agitare le coscienze, e quella voce che scuoterebbe ancora il mondo dove si alzasse dalla cattedra di S. Pietro per difendere un dogma o una verità divina, non trovò che indifferenza. Ecco a che ridussero l'autorità papale le fatali influenze che riuscirono disgraziatamente a renderle la Francia sospetta e l'Italia odiosa.

XIII.

Il male è adunque irreparabile? Non lo crediamo. Tanto a Roma che in Francia si può oggidì giudicare che la questione d'Italia non è un accidente, come si credeva prima e dopo la guerra. L'Italia è un grande interesse della civiltà e dell'ordino europeo: essa non aveva il suo posto che nella storia; oggimai l'ha conquistalo nella politica attiva e nella diplomazia delle nazioni.

Ha fatto anche di più e ben può dirsi che l'apparire della sua nazionalità sulla carta dell'Europa ha già modificala la situazione generale.

L'Inghilterra che due anni or sono dichiarava i trattati del 1815, inviolabili, è venuta essa stessa a favorire uno dei più gravi attacchi che sieno stati portati al sistema europeo sì saviamente ordinalo contro la Francia. La Russia, dopo che rinunziò lealmente al suo esclusivo protettorato della Germania e al suo dominio sull'oriente, non usa della sua legittima influenza che a prevenire conflitti: sapientemente progressiva nelle sue istituzioni, essa si è mostrala sempre giusta e conciliante nei suoi rapporti internazionali.

La Prussia rinunziando ai vari timori e alle temerarie minacce, viene. per un recente voto. a riporre la sua politica sopra una via conforme alla sua parte storica, a suoi più incontestabili interessi. L'Austria tenta di rialzarsi dalle sue disfatte con le riforme, e con una riserva ili cui bisogna tenerle conto. limita il suo (li ritto d'intervento a quello della propria difesa.

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La Spagna esce dalle tempeste, è la sua libertà che tende a regolarsi e a moderarsi, le ridona gli slanci della sua antica gloria. L'Italia ha grandemente contribuito a questo gran molo liberale in Europa, il quale distruggendo i germi di coalizione. conferma tutte le speranze di pace e di progresso.

Ma se l'Italia è affrancata - essa non è però costituita, e l'ostacolo al suo ordinamento, è Roma - Fino a che durerà il funesto antagonismo che è surto tra forze la cui unione risponde a tanti interessi, l'Italia e il papato temporale non troveranno le condizioni del loro equilibrio. - Che si uniscano. e da tale alleanza sorgerà la comune grandezza.

È tanto difficile di concepireItalia senza il papa, come il papa senza l'Italia! Essi sono legali luna all'altro per la tradizione, per la storia, pel rispetto universale di tutte le nazioni cattoliche verso il capo della Chiesa. Quando l'imperatore s'impegnò contro l'Austria, egli ebbe in animo di ristabilire questo prezioso legame. Il giorno in cui questo grande pensiero si effettuirà, noi vedremo il papato riprendere nella società moderna un'autorità alla quanto la sua origine e la sua missione, noi vedremo l'Italia venire alla forza politica della sua indipendenza, la forza morale di una condizione al tutto eccezionale, il cui impero s'estenda fino alle estremità del mondo.

Frattanto, e malgrado tutto quello che è avvenuto, malgrado tanti rifinii opposti al generoso intervento della Francia, malgrado lante ingiustizie che riuscirono ad affievolire il suo attaccamento, l'imperatore, noi ne siamo convinti, lascerà la sua spada a Roma per proteggere la sicurezza del santo padre. Fedele al suo duplice dovere di sovrano eletto dalla volontà nazionale e di figlio primogenito della Chiesa, egli non può sacrificare l'Italia alla porle di Roma né abbandonare il papato alla rivoluzione. Impassibile come la coscienza e il diritto di un gran popolo, egli aspetterà con pazienza l'ora vicina in cui il governo pontificio disingannalo dei pericolosi alleali che gli imposero il loro appoggio, saprà distinguere tra coloro che hanno fatto tulio per perderlo e coloro che tulio fecero per salvarlo.

Castello di Buzenval. 21 marzo 1861.

Caro Duca.

Incerto è più che mai lo stato delle cose nostre né potrebbe prolungarsi. Le passioni contrarie, onde l'Italia è Combattuta, stanno per irrompere: e mi si annunzia che verso me rivolgonsi le speranze e i voti del regno delle Due Sicilie. Giova adunque che a voi e a tutti coloro che in me confidano sia manifesto l'animo mio.

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Dichiarai più volte, e segnatamente sul primo compiersi delle annessioni, che non sarei mai ostacolo alla unità italiana; e tenni la promessa. Ma questa unità può diversamente intendersi ed effettuarsi: v'è l'unità federale idonea al moto storico e all'indole d'Italia: v'è l'unita accentrata, sorta dal modo e dalla utopia delle crescenti cospirazioni. I modi, dirò anzi le arti, che si adoperarono per effettuare quest'ultima, mi furono indizio, fino dall'anno scorso, dello svanir probabile della mal tentata impresa.

Era più facile ordinare associazioni politiche, perché secondassero i moti apparecchiali, era più facile vincere due o tre battaglie, ordire sottili accorgimenti, adescare l'inopia o le facili coscienze, volgere contro governi, meritamente esosi l'odio universale, che decapitare il Regno delle Due Sicilie, far Napoli città di provincia, invadere Roma, senza curarsi delle ragioni di Stato o delle forze morali che difendono il Papato, e armare un milione di militi per battere l'Austria, per tenere in rispetto la Francia. e le monarchie d'Europa minacciate dovunque da ribellioni.

Non sappiamo se l'intimo concetto del Piemonte mirasse dapprima a far di tutta Italia un solo regno, senza tenere conto alcuno di tante difficoltà. Degl'intendimenti del Piemonte spesso insospettirono i più celebrati promotori della unificazione: ma il dì ch'egli piantò il suo vessillo nel centro d'Italia, si trovò sul pendio delle più arrischiate imprese; ed oggi lo incalza alle spalle l'improvvido fanatismo pronto a dargli l'estremo impulso.

Quel cieco fanatismo grida oggi agli uomini che governano l'Italia: «Innanzi! entriamo in Roma: poi ci rivolteremo contro l'Austria; e se meglio v'aggrada, prima s'assalga l'Austria e por si pensi a Roma.» Così parla un fanatismo inteso a sommuovere tutti i popoli per averli complici ed alleati.

Cederà il Piemonte a questo fatale impulso? S'ei cede, se lo pera della unificazione lo spinge in nuovo conflitto con l'Austria, si riaccenderà la guerra civile nel Regno delle Due Sicilie. Il Piemonte avrà l'esercito austriaco a fronte e l'autonomia napolitana a tergo. Minacciata sarà in pari tempo e l'indipendenza nazionale dalle armi austriache e la libertà dai furori della parte Borbonica; -libertà e indipendenza potrebbono soccombere o ricadere sotto l'alta giurisdizione delle grandi Potenze.

Comprendo che ai cospetto di tali possibili calamità risplenda, secondo mi scrivete, come raggio di speranza, la rimembranza del padre mio. Finché durerà la terra vostra, vivrà caro e venerato il nome di Gioacchino Napoleone. Ed io. figlio suo, mi terrei onorato dai pericoli e dalle fatiche onde grave sarebbe l'uffizio di succedergli, per voto di popolo, in sì malagevoli congiunture.

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Tanto uffizio assumerei per iniziare un'epoca d'operosa elaborazione politica e civile sì necessaria all'Italia, e per pittar i fondamenti d'un edilizio che non vacillasse come l'edilizio delle annessioni, perché retto a puntelli. Non mette radici in pochi mesi la grandezza degli Stati; la mirabile potenza dell'Impero Francese è frutto maturo di molti secoli d'opera sociale.

Siccome non volti far inciampo alla unificazione italiana, così non consentirei che altri facesse inciampo ai disegni del nostro regno vincolandoci ad imprese seducenti ma rovinose. Custodirei, come tesoro, la vostra indipendenza e con un Parlamento dividerei la parte più preziosa del regio uffizio, quella cioè di promuovere l'attività sociale, i commerci, i grandi lavori, le arti, le scienze, ogni elemento d'educazione e di progresso nazionale.

La norma fondamentale del mio modo di procedere sarebbe tutta contraria a quella degli uomini che agitano l'Italia. Costoro sovrapposero al popolo italiano confraternite di congiurati i cui moti si connettono agli sforzi di tutte le rivoluzioni europee. Noi vorremmo, in vece, che sparisse quest'artificiale aristocrazia di cospiratori che a suo beneplacito di tutto dispone; aspireremmo all'amicizia, non già di quei cosmopolitici agitatori che vagheggiano la ricostituzione territoriale di Europa, ma sìamicizia d'ogni Governo d'indole conservatrice e progressiva.

Coi popoli d'Italia non vorremmo solamente l'amicizia ma la fratellanza ordinala in forma di federazione, che sola può operare la nostra politica trasformazione. Vorremmo essere in Italia un pegno, in Europa un elemento di quella conciliazione universale che invocano popoli e governi pensosi degl'immensi pericoli d'un procelloso avvenire.

Aggradite, caro Duca, l'espressione della particolare mia stima.

Luciano Murat.

Al che l'Imperiale Cugino, risponde così:

«Col pubblicare nei giornali una lettera la quale è un'offesa alla memoria di vostro padre ed alla politica del mio governo, voi avete posto in oblìo quanto dovete a me, e come parente, e come sovrano, e quanto dovete a voi medesimo come senatore, e come francese.

«Io ho deciso, dopo aver udito il mio consiglio di famiglia, che voi abbiate a fare all'estero un viaggio, di cui fisso provvisoriamente la durata a sei mesi.

«Tale essendo lo scopo della presente, in prego Dio, mio cugino, che vi tenga in sua salvaguardia.

Napoleone.

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CAPITOLO IV

Sommario

Ricasoli: sua vita, e suo programma. - Sguardo complessivo sull'Europa. - Riconoscimenti. -Quistione con la Spagna. - Quistione romana. - Quistione veneta. - Amministrazione interna. -Fatti speciali. - Brigantaggio.

Il secondo semestre di quest'anno 1861 si apre con un tutto e con una sventura nazionale, con la morte del primo Ministro Camillo Benso Cavour. Gli succedette il Barone Bettino Ricasoli. Chi è Ricasoli? Qual concetto egli rappresenta nella storia contemporanea italiana?

Per una serie d'illustri antenati, or capitani, or priori della Repubblica di Firenze, ma sempre ghibellini fierissimi, il nome del Barone Ricasoli si rannoda alla storia antica, dove un primo Bettino rappresenta un elemento di quella prepotente oligarchia. Narrasi che per condannare un Giroldi ed un Martini egli rimutasse più volte il Consiglio dei ventiquattro che doveva approvare il decreto. Ma riluttante sempre il Consiglio, egli lo convocò un giorno al palagio; e fatte chiuder le porte, e riscosse le chiavi, giurò che a dispetto di Dio e degli uomini dovevano esser condannati quei due, in ogni conto vinto il partito, altrimenti niuno uscirebbe da quel luogo.

Ventidue volte fu proposto il bando, finché fu approvato per istanchczza, essendo già notte inoltrata. Col mutar delle istituzioni e dei tempi mutarono le forme, ma l'energia del carattere rimase identica nell'ultimo Bettino. Nella storia moderna il nostro Barone trovasi fra i Salvagnioli, e d'Azeglio, i Montanelli i Guerrazzi i Peruzzi, fra quei grandi in somma che nel 49 vollero il ritorno del Granduca, perché non volevano Austria in Italia, che vollero il Granduca perché volevano una costituzione sincera e resa inalterabile dalla gratitudine dello spontaneo richiamo, fra quelli in somma cui non fu neanche estraneo il pensiero di un'Italia una, cui la Toscana costituzione avrebbe potuto un giorno dare iniziativa in luogo del Piemonte.

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Ohe fosse di un carattere energico il Bettino fin dai suoi sette anni il dimostra il fatto seguente. Il mastro per punirlo di puerile trascorso, ed umiliarlo agli occhi de' suoi condiscepoli, gli ordinava un giorno di prostrasi, e fare con la lingua una croce sul pavimento. Bettino rifiutò; ed insistendo il precettore, egli rimase sempre ferino nel niego.

Chi vuol farsi un idea più chiara del Ricasoli, deve guardarlo nel suo castello di Brolio, nel Chionti. È un massiccio edilizio del medio evo, che per quanto lunghi assalti abbia sostenuto un tempo, non sarebbe inefficace a sostenerne dei nuovi. Non è una ruina dell'antichità, o una pura curiosità archeologica, ma un castello in tutta la sua integrità. Se non che la biblioteca trovasi più numerosa, e fornita di elementi moderni, e se non le scolte armate, i mastini difendon l'ingresso. Esistono ancora le fosse, e le mura, e le saracinesche, nelle sale splendono ancora le lucide armi degli avi, e v'ha per fino chi asserisce averle viste indossare a Bettino per non mostrarsi dagli avi degenere.

Il Ricasoli sposò, giovane ancora, una nobile giovanetta dei Bonacorsi, uscita appena dal monistero, e da essa ebbe una figliuola, che educò nella solitudine del suo castello, e più tardi uni in matrimonio all'unico discendente di un altro ramo Ricasoli; nozze dimandate dalla madre mentre giaceva sul letto di morte.

Assai giovane ancora il Ricasoli frequentò Tito Manzi eh era stato ministro di polizia durante il regno d'Etruria, ed ambasciatore a Napoli sotto Murat: uno dei più caldi vagheggiatori costui della indipendenza, e della unità dell'Italia. Reduce in Toscana erasi circondato degli esuli illustri, Colletta, Poerio, Pepe, il Giordani, il Nicolini, il Salvagnoli, il de Potter, ed altri egualmente amici della libertà religiosa e civile. Ma egli, il fiero Barone, non senti tropp'oltre l'influenza di sì illustre consesso; poiché per indole altero e per tradizione ghibellina diffidava d'ogni movimento di popolo, e nessuna riforma gli pareva possibile, né accettabile se non venisse dall'alto. Nel 1847, e fu il primo atto politico che si conobbe di lui, osò scrivere una memoria al Granduca, con cui con parole assennate e con gran copia di fatti rivelava le piaghe dello stato, e ne additava i rimedii.

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E conchiude domandando un sistema che iscemi no l'autorità. sovrana, ma che dividendo semplicemente ed armonizzando le competenze pongono il principe in grado di sapere i veri bisogni, di ordinare a tempo provvedimenti efficaci, e farli prontamente eseguire. Ma spintesi più oltre le cose, il Ricasoli sdegnoso d'ogni transazione, egualmente che d'ogni eccesso, e non volendo aver nulla di comune con programmi e con ministri che dissentivano da lui, egli si ritirò dall'aringo politico, ci dimise per lino dall'ufficio di gonfaloniere che allora occupava. Il Guerrazzi ed il Montanelli non gli parvero uomini da condurre a salvamento la nave dello stato in momenti difficili, onde si astenne da ogni partecipazione al governo, e fidando ancora nella buona fede del principe intendeva di agevolargli il ritorno in Toscana in condizioni tali da dover mantenere intatte e durature le franchigie costituzionali.

Ma le illusioni dileguavansi tantosto, perché il Granduca ritornava con le orde austriache, ed anziché al partito moderato toscano, all'Imperatore austriaco più volentieri volte esser debitore della sua restaurazione. Vi furono di quelli che piegarono il capo a siffatta umiliazione, ma non fu il Ricasoli fra questi, il quale quando vide che un presidio austriaco teneva dietro al Granduca reduce da Gaeta, non lasciò allora di render chiare le sue vedute col lasciare immediatamente Firenze.

Dovette allora amaramente pentirsi di aver creduto nella lealità di colui e nella possibilità di costituirsi un governo italiano sotto la dinastia Lorenese.

Disgustalo dalla politica, si dedicò a lavori agronomi che intese a coltivare con ampia scuola, e si provò non meno che a prosciugare le Maremme toscane. Acquistò una estensione di fondi fertili non d'altro che di febbri, e si trasportò egli stesso co' suoi coloni in sul luogo per applicare le macchino ch'egli stesso era andato ad acquistare in Inghilterra col proprio danaro.

Il decennio, dal 1849 al 1859, trascorse inoperoso pel Ricasoli ma non infecondo pei popoli e per la civiltà. Il Granduca, procedendo da errore in errore, affrettava, senza volerlo quel fatale momento nel quale la Toscana doveva levarsi come un sol uomo, e questa riscossa doveva trovare il Ricasoli con un orizzonte più vasto, ed una politica più italiana.

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L'aprile del 1859 aveva aperto gli animi degl'Italiani alle più grandi speranze. Ognuno sentiva avvicinarsi il momento in cui il Piemonte avrebbe tratto la spada e tentato di raccogliere in Lombardia il frutto del sangue prodigato in Crimea. La Toscana non fu l'ultima a dar segno di vita italiana, e ben tosto la maggioranza delle intelligenze del paese si pronunziò per l'unità nazionale ed ai pochi che pretendevano riformato, ma non distrutto il Lorenese governo Ricasoli fu uno dei più caldi contraddittori. Onde d'indirizzo al Granduca non più si parlò, e si convenne di pubblicare un opuscolo che metteva a nudo le colpe della dinastia, e chiedevasi sostituita venisse da quella di casa Savoja. Questa Memoria fu come il grido della battaglia. Il Granduca era perplesso ed aspettava» come sempre, la parola da Vienna. I gentiluomini fiorentini che lo circondavano non erano men perplessi di lui: Ma il popolo tutto raccolto, dopo aver fraternizzato con le truppe, non attendeva che il cenno per muover al Palazzo Vecchio, e prendere in mano il governo. Il Granduca tentò la fedeltà dell4 armata, ma questa, umiliata sì a lungo innanzi agli ausiliarii tedeschi, e stanca dalle altalene del suo sovrano, al comando di tirare sulla città, protestò che non volgerebbe le armi se non in difesa dell'Italia. A questa dichiarazione al Granduca non rimaneva che ripetere la fuga del 1848 e lo fece. Così senza tumulto, e senza sangue fu compiuta la rivoluzione del 27 Aprile.

Nessuno si accorse del cambiato governo. I tre uomini che tennero in mano il potere in quei primi momenti furono Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini, ed il maggiore Anzani. Si gridò: viva Vittorio Emmanuele, ed un rappresentante del governo Sardo si recò in Toscana. Questo fu Buoncompagni, nelle cui mani i triumviri deposero tosto il potere. Un Ministero provvisorio fu allora creato, ed il Barone Bettino Ricasoli accettò il portafoglio dell'interno. In tal qualità il Ricasoli osteggiò sempre tanto il ritorno della dinastia Lorenese, quanto la creazione di un regno di Etruria, che avrebbe distrutta l'unificazione d'Italia. Il quinto corpo di armata, comandato dal cugino imperiale s'ebbe in Toscana festose accoglienze. Il principe fu rispettato come cugino dell'imperatore, e congiunto del Re d'Italia, ma se mai gli balenasse in mente

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il pensiero di venir proclamato dal popolo re di Etruria, questo roseo disegno dovette dileguarsi bentosto innanzi all'attitudine del paese. Posto da banda ogni dissidio, il popolo toscano proclamò l'unità nazionale sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emmanuele. Il moto fu unanime, e quasi istintivo ed era la manifestazione di un principio di lunga mano latente, confermato e sanzionato dagli esilii, e dal sangue.

Alla pace di Villafranca forse non fu estraneo il contegno della Toscana, ma checché ne fosse, né la Toscana, ne il suo governo cambiarono d'aspetto, né di politica.

Vi fu un momento, e fu quello del plebiscito, in cui ogni pressione piemontese, straniera eh essi dicevano, dovett'essere rimossa dalla Toscana. Il Buoncompagni prese congedo e parti per Torino richiamato dal suo governo. Non rimase in Toscana né un agente, né un console, né un giornalista, né un soldato sardo. Il Ricasoli restò solo al governo co' suoi colleghi, solo innanzi alla diplomazia che lo assediava, dinanzi al clero che cospirava, dinanzi ai repubblicani che si agitavano, dinnanzi all'armata in preda agli emissarii del principe espulso. Ma tutto questo non sgomentava it Ricasoli, anzi allora dicesi facesse il suo testamento in queste parole:E sempreppiù forte, ed avveduto mostrassi quando cominciò quella processione di diplomatici officiosi che piovevano dalla Francia durante il ministero Walewski. Il Ferrière, il Reizet, il Poniatowski, per non parlare di altri men noti, posero un vero assedio intorno all'uomo che teneva in mano le sorti della Toscana. Note e contronote, minacce e lusinghe, consigli ed ordini grandinavano, ma il Ricasoli mostrassi d'una fermezza unica, non che rara. La battaglia come ben si sa terminò con la dimensione del ministro Walewski, e con l'annessione della Toscana al Piemonte, malgrado l'ultima clausola del trattato di Villafranca, che conteneva la restaurazione dei principii spodestati.

L'altro nemico ancor più formidabile, con cui dovevasi combattere era l'alto clero di Toscana. Ma il Ricasoli ed il Salvagnoli, ministro allora degli affari ecclesiastici si regolarono con prudenza, onde i preti non avessero potuto vantarsi di quel martirio, cui aspiravano.

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Il Ricasoli però, e fu questo un de' suoi torti non lievi, ebbe a mostrarsi duro e poco giusto verso Mazzini ed i suoi vecchi amici, che affluirono in quel tempo verso l'Italia centrale onde vedere se vi fosse modo a vendicare i massacri di Perugia ed aggiungere le Marche e l'Umbria alle già redente Romagne. La deplomazia se ne mostrava allarmata, ed accusava il Ricasoli di debolezza, il quale allora per respinger l'accusa ordinava ai carabinieri frugassero e rifrugassero, e non rinvenuto Mazzini, si spiegarono gli effetti di zelo e le ire si sfogarono coi Mazziniani, e si tennero in carcere il Montecchi ed il Pilo. Gloria pusillanime! Bassezza scambiata per dignità! (1)

E non bisogna tacere di un altro torto che ragionevolmente si dà al Ricasoli, e consiste nella perpetua diffidenza che mostrò ad ogni manifestazione democratica. Egli osteggiò sempre la libertà della stampa, e mantenne la grave cauzione ch'esigeva il governo anteriore. Né limitossi a ciò, poiché alla guardia nazionale fu in pari tempo avverso, e la ristrinse quanto più poté.

Checchènesia, in mezzo alle sue tendenze aristocratiche e ghibelline, il Ricasoli guardò sempre fisso alla metà dell'unità nazionale, e non ne deviò per un istante solo con la mente o col cuore.

E quando, dopo la prima votazione, si chiedeva il principe di Gargnano per rappresentante del governo sardo in Toscana, ed invece, presentito forse il desiderio della Francia di chiedere una seconda votazione per soffragio universale, si mandava per la seconda volta il Buoncompagni, allora l'unico che non si rassegnava allo scambio era il Ricasoli. E poscia quando il governo imperiale si vide astretto senza scampo a riconoscere l'annessione, ma volte mettere in campo altro cavillo e fu quello dell'autonomia toscana, quello che protestò contro tale autonomia fu Ricasoli, e pretese fortemente dal Cavour che quella parola si cancellasse.

Quando il principe Eugenio di Carignano andò poi, dopo la definitiva annessione come luogotenente in Toscana, Ricasoli ne fu il governatore generale. Di qui al Castello di Brolio, al consueto pacifico ritiro, e dal Castello a ripianare il gran vuoto non sappiamo in vero quanto capace di ripianarlo, il gran vuoto prodotto dalla morte di Cavour.

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Egli accetta ed eccone il programma.

Programma del Ministro Ricasoli.

Signori Deputati

Chiamati dalla fiducia del Re a succedere nel governo dello stato a quel!' uomo illustre che morte prematura tolse all'Europa con gran danno, e con immensa sciagura dell'Italia, noi accettammo per sentimento di dovere anziché per presunzione nelle nostre forze. - Neil' immensa sciagura che ci ha colpiti, noi non dubitiamo di affermare che nessuno ha piegato sotto il peso del dolore, nessuno ha dubitato delle sorti della patria. - No, o signori, il vasto concetto di quel grande uomo di stato non periva con lui: quand'egli discese nella tomba quel concetto era già fatto anima e vita di un'intera nazione. Ora il compito nostro sarà di continuare quell'opera con ardimento sapiente condotta già sì presto al suo termine. In faccia all'Europa noi dobbiamo mantenere e propugnare il dritto che ha l'Italia di costituirsi e di comporsi - La potenza ognor crescente della pubblica opinione, la saviezza, l'interesse dei governi, il bisogno generalmente sentilo di por fine ad uno stato di cose dannoso a tutti, ed anche pericoloso per molti, l'assistenza benevola dei patentati alleati, ai quali è chiaro come sia necessaria l'Italia unita e forte ci fan sentire la fiducia che l'Europa non tarderà a riconoscere il nostro dritto. Ma per qualunque fiducia che noi abbiamo nel cuore, l'Italia de v'essere apparecchiata ad ogni evento, dev'essere pronta a tutte le occasioni. Prima cura del governo, anzi primo suo debito a dunque sarà di proseguire con alacrità indefessa l'armamento nazionale - Le somme necessarie agli apparecchi militari, quelle pure necessario al compimento delle grandi opere pubbliche dalle quali deve svolgersi la potenza economica delle nazioni non possono raccogliersi colle imposte. Voi, signori siete chiamati a volare una legge che autorizzi il governo a contrarre un prestito coi quale deve far fronte alle necessità presenti-Nel tempo che ricorriamo al credito noi non dimentichiamo come sia importante di prevedere ai modi di stabilire l'equilibrio tra l'entrate e le spese, quest'equilibrio essendo la base del credito degli stati. Tale scopo si può raggiungere per diverse vie, le quali opportunamente forse possono essere contemporaneamente esperimentate.

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Economie savie e graduate in ogni modo dell'amministrazione dello stato; però l'effetto di questo provvedimento non può essere immediatamente serbata in quantochè occorre che sia accompagnato dagli ordinamenti coi quali il Parlamento crederà di stabilire la nuova amministrazione del regno; altro modo: l'aumento delle pubbliche imposte egualmente ripartito. Progressivamente anche l'entrate pubbliche cresceranno in grazia delle nuove istituzioni. in grazia dei provvedimenti saggi che il Parlamento ha già adottati che in seguito anche adotterà sulle proposizioni del governo.

Noi vogliamo procedere il più rapidamente che sia possibile all'unificazione governativa; l'unificazione legislativa spetta particolarmente al Parlamento. Il discentramento amministrativo deve principalmente conseguirsi con le libertà comunali e provinciali - Il Ministero precedente riconobbe di accordo con la Commissione chiamata allo studio delle leggi amministrative che non sarebbe possibile in questo scorcio di sessione di votare quelle leggi; venne però d'accordo nella necessità di alcuni provvedimenti di urgenza, i quali in breve saranno presentati alla Camera. Nella cui saggezza confida il governo che saranno accolti con favore nell'interesse delle popolazioni - In fine egli è nello statuto; nelle leggi che fanno corona allo statuto che il governo cercherà sempre la forza, il vigore per mantenere l'ordine pubblico. Il più solido fondamento dell'autorità governativa è il rispetto allo statuto ed alle leggi. Imperocché le leggi segnando i limiti rispettivi e della autorità governativa e delle libertà pubbliche fanno certo che sia del pari utile esercizio del governo, quanto il pieno svolgimento della libertà. Quindi il governo si propone di mantenere l'ordine, non come negazione di libertà, ma come garenzia, come conciliazione di fatti cui la libertà darà mano ferma e vigorosa.

Signori, questi sono gì intendimenti precipui che il ministero intende adoperare a guida del suo governo. Fedele ai grandi principii che il Parlamento ha consagrati in tante occasioni solenni, il ministero confida nella continuazione dell'appoggio dei rappresentanti della nazione; confida nel senno e nel patriotismo di tutti gl'Italiani; confida in quella concordia civile che nei momenti perigliosi e decisivi fa salve le sorti di una nazione.

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Circolare Ricasoli svi brigantaggio = (all'estero)

SIGNORI

Nel dispaccio circolare ch'ebbi l'onore d'indirizzare ai Rappresentanti di S. M. all'estero in accennava ai turbamenti ed alle difficoltà che s'incontravano nelle provincie meridionali del regno, e protestando di non volerli né dissimulare, né attenuare, in esprimeva la speranza che quelle provincie, scaldate dal sole della libertà, sarebbero tosto sanate dai loro mali, ed avrebbero aggiunto forza e decoro all'Italia a cui appartengono.

Nessuna cagione è surta di nuovo a scemare la speranza che il governo del Re giustamente ripone nel vigore dei procedimenti presi all'uopo, e nel patriotismo di quelle popolazioni: ma poiché appunto il brigantaggio onde son desolate quelle provincie, sentendosi stretto più da vicino ha raddoppiati i suoi sforzi, e più potente è divenuta la cooperazione de' suoi ausiliarii (che o mai niuno ignora chi e quali sieno), e si sono commessi in questi sforzi che giova credere estremi, atti di ferocia che dovrebbero essere ignoti al nostro tempo ed alla nostra civiltà, ed ai quali è bisognato opporre per dura e duplicala necessità una repressione proporzionata; quindi i nostri nemici hanno tolto argomento per gridare più alto contro le oppressioni che il Piemonte, come essi dicono, fé pesare su quello sfortunato paese, strappato con l'insidia e con le forza ai suoi ligittimi dominatori, ai quali brama di tornare anche a prezzo di martiri e di sangue.

Alle maligne insinuazioni dei nostri nemici si aggiungono, ne duole il dirlo, le parole meno esatte di uomini onorevolissimi, e schiettamente per antico affetto, e per profonde convinzioni italiani, che vedendo protrarsi alle provincie napolitano una setta funesta inclinano a credere che l'unione di esse all'Italia sia stata fatta inconsultamente e che quindi si abbia a ritenere fino a nuovo e più certo esperimento come non avvenuta.

Noi non potremmo mai accettare il punto di vista di questi di cui non mettiamo in dubbio né il patriotismo, né la retta intenzione, poiché né possiamo dubitare della legittimità, né dell'efficacia del plebiscito, mediante il quale quelle provincie si dichiararono parte del Regno italiano, né la nazione può riconoscere in alcuna parte di esse il dritto di dichiararsi separata dalle altre ed estranea alla loro sorte.

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La Nazione italiana è costituita, e tutto ciò che è Italia le appartiene. In questo stato di cose, e di opinioni per tanto credo opportuno il governo del Re che i suoi rappresentanti all'estero siano messi al fatto delle vere condizioni delle provincie napoletane con quelle considerazioni che giovano a rettificare i meno esatti giudizi! che i lontani potessero formarsi su quelle.

In ogni luogo dove per forza di rivelazioni si venne a cambiare la forma di governo, e la dinastia regnante, sempre rimase superstite per un tempo più o meno lungo un lievito dell'antico a perturbare gli ordini nuovi, che non si poté eliminare dal corpo della nazione se non a prezzo di lotte patriottiche, e di sangue. La Spagna dopo 30 anni non ha per anco rimarginale le piaghe della guerra civile, che ogni poco minacciano di riaccendersi; l'Inghilterra dopo che ebbe ricuperale cogli Orange le sue libertà dové lottare per quasi 50 anni con gli Stuardi, che poterono correre talora il territorio della Scozia fin presso le porte di Londra; la Francia mentre sacrificava alla paura della federazione i girondini, devastava Lione, si funestava di stragi, era poi lacerata nella Vandea, che appena vinta da una guerra guerreggiata e sanguinosa sotto la Repubblica, riprendeva le armi nei Cento Giorni, le riprendeva contro la monarchia di Luglio. £ non pertanto niuno dubitò mai per quelle difficoltà dell'avvenire della Spagna, dell'Inghilterra, e della Francia, né osò negare il dritto della repressione nei governi costituiti, e consentiti dalla gran maggioranza della nazione, né considerò la resistenza armata al suo volere se non come una ribellione alla sovranità nazionale, benché questa ribellione avesse eserciti ordinati, e generali valorosi ed esperti; possedesse città e territori dove esercitava dominio e fossero necessarii e domarla la guerra regolare e gli scontri in giornata campale.

Voi non potete non aver notato, signore, l'immensa differenza che passa fra il brigantaggio napoletano ed i fatti sopraccennati. Non si può a quelli far neppureonore di paragonarti con questi; i partegiani di Don Carlos, i seguaci degli Stuardi, i vandeisti, i quali finalmente combattevano per un principio,

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si terrebbero ingiuriati se venissero posti in comparazione coi volgari assassini che si gittano su varii luoghi di alcune provincie napoletane per amore unicamente di saccheggio, e di rapina. Invano domandereste loro un programma politico; invano cerchereste fra i nomi di coloro che li conducono, quando hanno alcuno che li conduca, un nome che pur lontanamente li potesse paragonare con quelli di Cabrera di Larochejaquelein, o anche solamente al curato Merine, di Stofllett, e Charrette. Dei generali ed ufiìziali superiori rimasti fedeli ai Borboni neppure uno ha osato assumere il comando dei briganti napolitani, e la responsabilità dei loro alti - Questa assoluta mancanza di colore politico, la quale risulta dal complesso dei fatti e dei procedimenti dei briganti napoletani, è anche luminosamente attestata dalle corrispondenze ufficiali dei consoli e viceconsoli inglesi nelle provincie meridionali, testé presentate dal Governo di S. M. Brittannica al Parlamento; sulle quali mi permetto di richiamare l'attenzione della S. V. specialmente sul dispaccio del 12 giugno, del sig. Scaurin dalla Capitanata e su quello del sig. Bonliam 8 giugno, che specificatamene dice «le bande dei malfattori non sono numerate se, a quanto sembra, ma sono diffuse per tulio, e per tutto si parla dei loro atti feroci, spogliando i viaggiatori ed i casali, tagliando i fili elettrici, è talvolta incendiando i raccolti. L'antica bandiera borbonica è stata in taluni luoghi rialzata, ma certo è che il movimento è per nulla politico, ma solo un sistema di vandalismo agrario preso come professione da gran parte delle truppe sbandale, che preferiscono il saccheggio al lavoro».

Il brigantaggio napoletano pertanto può ben essere un ¡strumento in mano della reazione che lo nutre, lo promuove, e lo paga per tenere agitato il paese, mantenere vive folli speranze, ed ingannare l'opinione pubblica dell'Europa; ma quanto sarebbe falso il prenderlo come una protesta armata del paese contro il nuovo ordine di cose: altrettanto sarebbe inesatto il dargli, sulla fede delle relazioni dei giornali, l'importanza e l'estensione che gli si attribuisce.

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Le provincie che formavano il regno di Napoli si ripartiscono in quattro grandi naturali divisioni-gli Abruzzi-le Calabrie - le Puglie - e finalmente il territorio verso il Mediterraneo in mezzo a cui siede Napoli. Nelle Calabrie, che comprendono tre non vi è vero brigantaggio, ma solo alcuni furti ed aggressioni, che in niun tempo si poterono da quei luoghi estirpare; in condizioni analoghe è la Basilicata prossima, ed in gran parte montuosa. Nelle tre Puglie non havvi brigantaggio organizzato in bande; lo stesso dicasi degli Abbruzzi, ove non incontransi che briganti sparpagliati, colà rifuggiati dalle provincie di Molise, e di Terra di Lavoro. Il vero brigantaggio esiste nelle che sono intorno a Napoli - ha per base la linea del confine pontificio, tiene le sue forze principali sulla catena del Matese che divide Terra di Lavoro da Molise e di là poi si getta su quelle due provincie, e in quelle di Avellino, di Benevento, e di Napoli, distendendosi lungo l'appennino fino a Salerno e perdendo sempreppiù l quanto più si discosta dalla frontiera romana dove si appoggia, e dove si rinforza di armi, d'uomini, e di danaro. Cinque sole pertanto delle quindici provincie. di cui componevasi il regno di Napoli sono infestate dai briganti. né già costoro occupano quelle provincie, né hanno sede in alcuna città, o in alcuna borgata, ma vivono in drappelli sulle montagne, e di là piombono alla preda sui luoghi indifesi; mai non osarono attaccare una città neppure di terzo ordine, mai non osarono attaccare un luogo custodito da truppa per quanto. scarsa si fosse; dove arrivano, se non incontrano resistenza, liberano i malfattori dalle carceri, ed ingrossati di questi e dei villani per antica abitudine usi a cosiffatte fazioni, rubano, saccheggiano, e si riuscivano.

Il brigantaggio quale oggi è esercitato nel napoletano non è pertanto una reazione politica, né è cosa nuova. Egli è il frutto delle guerre frequenti e continue colaggiù combattute, delle frequentissime commozioni politiche, delle rapide mutazioni di signorie, del mal governo continuo. Il brigantaggio desolò quelle Provincie durante il viceregno spagnuolo ed austriaco fino al 1734, né cessò regnando i Borboni, e poi Giuseppe Napoleone, e Murat.

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La S. V. non ignora quale celebrità infame acquistassero nel breve periodo repubblicano del 199 i nomi di Pronto, e di Rodio negli Abbruzzi contro il primo dei quali fu mandato con un esercito il generale Massena: il nome di Michele Pezza soprannominato Fra Diavolo nella Terra di Lavoro. il nome di Gaetano Mammone nella provincia di Sora. Durante il regno di Giuseppe Napoleone, e di Gioacchino Murat fino al 1815, il brigantaggio mostrassi tanto audace e terribile che si reputò necessario mandare a sperperarlo nelle Calabrie il generale Manhes con poteri illimitate. Non ignora la S. V. come largamente usasse il generale di tali poteri, poiché non è molto che i provvedimenti e gli atti suoi più che severi furono con quella buona fede che sogliano i partiti vinti allorché hanno una cattiva causa a difendere attribuiti ed imputati a biasimo del governo del Re.

I Borboni restaurati presero altra via per distruggere il brigantaggio di cui si erano valsi, e che ora si riconoscevano impotenti a reprimere. Il generale Amato venne a composizione con la banda Vardarelli che infestava le Puglie, e pattuì con essa non solamente perdono ed obblio, ma che fosse tramutata con larghi stipendii in una squadra di armigeri al servigio del Re al quale presterebbe giuramento: Firmati questi patti, la banda venne in Foggia per rassegnarsi, e quivi dal generale fatta circondare, fu fucilata e distrutta. Il brigante Tallarico ebbe da Ferdinando II. perché cessasse le aggressioni, e si ritirasse in Ischia, dove ancor vive, non solo grazia piena ed intera, ma più 18 ducati al mese di pensione.

Il brigantaggio dunque trae nelle Provincie napoletane la sua ragione di essere dai precedenti storici, e dalle abitudini del paese senza contare il fomite dei rivolgimenti politici, ai quali si aggiungono nel nostro caso, altri particolari ragioni. in non insisterò sul mal governo che i Borboni fecero delle Provincie meridionali: non sarò più severo dei rappresentanti delle potenze europee al congresso di Parigi del 1856, che lo citarono in giudizio come barbaro e selvaggio innanzi all'Europa civile, né dell'on. Gladstone, che al cospetto del Parlamento britannico lo chiamò negazione di Dio,

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in dirò solo che il governo borbonico aveva per principio la corruzione di tutto e di tutti così universalmente, così insistentemente esercitata che riesce meraviglioso come quelle nobili popolazioni abbiano un giorno trovato in se stesse la forza di liberarsene. Tutto ciò che nei governi mediocremente ordinati è argomento a rinvigorire, disciplinare, moralizzare, in quelle era argomento d'infiacchire, e depravare. La polizia era il privilegio concesso ad una congrega di malfattori di vessare e tagheggiare il popolo a loro arbitrio, purché esercitassero lo spionaggio per conto del governo: tale era la camorra. L'esercito, salvo eccezione. si componeva di elementi scelti con ogni cura, scrupulosamente educato dai Gesuiti e dai cappellani, nella più abietta e servile idolatria del re e nella più cieca superstizione. Nessuna idea dei doveri verso la patria, unico dovere difendere il re, contro i cittadini considerati potenzialmente come nemici di lui, ed in continuo stato di almeno forzata ribellione. Che se questa venisse ad atto, l'esercito sapeva che la vita e le sostanze dei cittadini gli appartenevano, e che avrebbe agio di sfogare gl'istinti feroci e brutali, e tutta la cupidigia che si coltivavano nell'animo suo. Del resto nessuno di quegli ordini che mantengono la disciplina, e danno al soldato lo spirito di corpo ed il sentimento del suo nobile ufficio, della sua importanza, della sua dignità; nulla che affezionasse al paese; bastava fosse ligio al re che per guadagnarlo non risparmia le più ignobili piaggerie.

Eran centomila ben forniti di armi, di danaro, possessori di fortezze formidabili e d'infiniti mezzi di guerra: eppure non combatterono e cedettero sempre innanzi ad un pugno di eroi, che ebbe l'audacia di andarli ad affrontare. Reggimenti, corpi interi di armata si lasciarono prender prigionieri. Si credè che uno Stato che non combatte non farebbe mai dei soldati nel vero senso della parola, e dei soldati d'Italia specialmente; ma costoro ebbero facoltà di tornare alle case loro e ed avvezzi agli ozii ed alla depravazione delle caserme, disusati del lavoro, ripresero con ferocia, ma con più viltà le tradizioni di Mammone, e di Morra, e si fecero briganti. Se nelle loro atroci imprese portano talora la bandiera borbonica, egli è per un resto di abitudine, non per affetto. Si disonorarono non difendendola, ora la disonorano facendone un segnacolo agli assassini ed alle rapine.

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Per tal modo si è formato il brigantaggio napoletano, e di tali elementi si recluta; ai quali si aggiungono i facinorosi, i fuggiti dalle galere di tutto il mondo, gli apostoli ed i soldati della reazione europea convenuti tutti allo stesso punto, perché sentono che ora si giuoca l'ultima loro posta, e si combatte l'ultima loro battaglia. E qui mi duole, o signore che la necessità di far compiuta questa esposizione mi costrinse a ricordare persone, il cui nome e come cattolico e come italiano non vorrei dover mai pronunziare se non per cagione di riverenza e di ossequio. Ma non posso né debbo tacere che il brigantaggio napoletano e le speranze della reazione europea, han posto la loro cittadella a Roma. Oggi il re spodestato di Napoli ne è il campione ostensibile e Napoli l'obbietto apparente. Il re spodestato abita a Roma il Quirinale, e vi batte moneta falsa di cui si trovano forniti a dovizia i briganti napolitani. L'obolo carpito ai credenti delle diverse parti di Europa in nome di S. Pietro serve ad assoldarli in tutte le parti di Europa; a Roma vengono ad iscriversi pubblicamente. a prendere la parola d'ordine, e le benedizioni, con cui questi uomini ignoranti e superstiziosi corrono più alacremente al saccheggio ed alle stragi.

Da Roma traggono munizioni ed armi quando ne abbisognano; sui confini romani col napoletano sono i depositi ed i luoghi di ritrovo e di rifugio per riannodarsi, e tornare rinfrescati alla preda. Le perquisizioni e gli arresti fatti in questi giorni dalle forze francesi non ne lasciano più dubbio. L'attitudine ostile, le parole dette anche in occasioni solenni da una parte del clero, le armi, le polveri, i proclami scoperti in alcuni conventi, i preti ed i frali sorpresi tra le file dei briganti nell'atto di compiere le loro imprese, fanno chiaro ed aperto donde vengono ed in qual nome gli eccitamenti. E poiché qui non si hanno interessi religiosi da difendere, e quando pur vi fossero né con tali armi né da tali campioni, né con questi modi si potrebbe tollerare che fossero difesi, è manifesto che la convenzione e la complicità della curia romana col brigantaggio napoletano deriva da solidarietà d'interessi temporali, e che si cerca di tener sollevate lecie napoletane, ed impedire che vi si stabilisca un governo regolare riparatore di tanti mali antichi e nuovi, perché non manchi in Italia l'ultimo sostegno del principato del papa.

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Noi abbiamo fiducia che da qui debba trarsi un nuovo ed efficace argomento per dimostrare ad evidenza che il potere temporale non solamente è condannato dalla logica irresistibile del principio dell'unità nazionale, ma sì è reso incompatibile con la civiltà e con l'umanità.

Ma quand'anche si volesse concedere che il brigantaggio napoletano fosse d'indole essenzialmente politica, dovrebbero pur sempre, trarsene conseguenze opposte a quelle che vorrebbero i nostri nemici. Primieramente non si può dedurre argomento alcuno dalla sua durata. Non si deve perder di vista che alle nostre forze è negato poter circondare da ogni lato i briganti come sarebbe necessario per distruggerli compiutamente, poiché battuti e dispersi sul suolo napoletano, hanno comodo refugio nel prossimo e contermine stato romano, dove con tutta sicurezza possono riordinarsi, e ristorati di nuovi ajuti, di là ripiombano alle usate devastazioni.

Si deve pur considerare che la natura del suolo perloppiù montuoso, e non intersecato da strade preteribili, mentre favorisce gl'imprevisti assalti porge facilità. agli assalitori di sparpagliarsi prestamente e nascondersi. Né per ultimo si deve dimenticare che non ostante le condizioni eccezionali di Napoli, di libertà della stampa, alle invisibilità del domicilio, alla libertà individuale, al dritto di associazione impedisce che si proceda a repressioni sommarie e subitanee. Il che fornisce in secondo luogo un argomento in favor nostro, poiché quelle guarentigie potrebbero essere in mano de' nostri nemici strumento ad alienare e sollevare contro il governo italiano le popolazioni se veramente le popolazioni meridionali fossero avverse all'unità d'Italia.

Eppure quali sono le provincie, quali le città, quali i villaggi che si sollevano all'appressarsi di questi nuovi liberatori? Vive forse il governo in diffidenza delle popolazioni, e comprime i loro sentimenti col terrore? Si vegga la stampa napoletana; si potrà accusarli di volgere piuttosto alla licenza di quello che si ostenta di trattare come le piace la cosa pubblica. Il governo ha armato il paese nella guardia nazionale, il governo ha fatto appello per volontarii arruolamenti, ed il paese ha largamente corrisposto all'appello, sicché parecchi battaglioni si sono già potuti ordinare e mobilizzare.

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E guardie nazionali, e guardie mobili, e volontari e borghesi, e villani corrono ad affrontare i briganti e non di rado vi mettono la vita, ed in quei frangenti le differenze di opinioni spariscono, e!e diverse frazioni del partito liberale si stringono al governo, sicché le forze regolari e le cittadine non hanno da contare una sconfitta. Ed in più di un anno fra tante ansie, fra tanti mutamenti nel pieno esercizio di una libertà nuova e larghissima, Napoli, questa immensa città di 500 mila abitanti, non ha sollevato mai un grido di disunione, non ha lasciato estendersi né compiersi neppure una delle cento cospirazioni borboniane, che vi sono a brevi intervalli nate e morte.

Io penso che dal complesso di questi fatti possa la S. V. farsi il concetto che il brigantaggio napoletano non ha indole politica; che la coazione europea annidata e favorita a Roma, lo fomenta e lo nutre in nome degl'interessi dinastici del dritto divino, in nome del potere temporale del papa, abusando della presenza e della tutela delle armi francesi, colà poste a guarentigia d'interessi più alti, e più spirituali - che le popolazioni napoletane non sono avverse all'unità nazionale, né indegne della libertà come si vorrebbe far credere-Vittime di un reggimento corruttore, non dobbiamo dimenticarceli, esse diedero gli eroi ed i martiri del 1799, e che si trovarono pronti nell'ora della nuova rigenerazione a prender posto a canto agli altri loro fratelli d'Italia.

Ciò che la civiltà e l'umanità del secolo non possono tollerare si è che queste opere di sangue si preparino nella sede e nel centro della cattolicità con la connivenza non solo, ma col favore dei ministri di chi rappresenta in terra il Dio della mansuetudine e della pace. Le coscienze veramente religiose sono indignate dell'abuso che per fini meramente temporali si fa delle cose sacre; le coscienze timorose sono gravemente perturbate vedendo crescere le discordanze e fra i precetti dell'Evangelio, e gli alti di chi deve interpetrarle ed insegnarle. Roma procedendo per la via nella quale si è messa, pone a ripentaglio gl'interessi religiosi, e non salva i mondani. Tutti gli animi onesti ne sono ormai profondamente convinti: e questa universale convinzione faciliterà molto il compito indeclinabile del governo italiano

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che è quello di restituire all'Italia ciò che appartiene all'Italia, restituendo parimenti la Chiesa nella sua libertà, e nella sua dignità.

Gradisca ecc.

RICASOLI.

Pria d'inoltrarci nella narrazione speciale dei fatti, riassumiamo in un concetto sintetico la situazione generale di Europa, quale la scorgiamo nel secondo semestre dell'anno 1861.

Oltre la quistione veneta e la romana, che formano soggetto principale della nostra deposizione, ci si parano innanzi la quistione ungherese, la polacca, la germanica, la renana, e frammista a tante complicazioni, fra l'osteggiare di tanti nemici scorgiamo l'Austria che si dibatte nel grembo di ripugnanti elementi, ed in tale posizione trovasi dalla forza degli eventi collocata da confortare l'Italia nel sentiero della sua rivoluzione, da mettere in paralisi tutte le Potenze nordiche, e gittare lo sgomento nell'animo di quanti v'hanno nemici della libertà.

L'Ungheria reclama la sua assoluta indipendenza d'Austria, e parte dal principio ch'essa non potrà mai patteggiare con l'altra senza suicidarsi. Il sovrano dell'Austria non può ad un tempo esserlo d'Ungheria, perché tantosto l'una trascinerebbe l'altra a guerre contrarie alla libertà ed al progresso. Non rimane dunque che pigliar le armi contro l'Austria. Ed a questo proposito il prode Dittatore Cossuth mettendo in rapporto la quistione veneta con la quistione ungherese, cosi ragiona in una sua lettera:La quistione italiana e l'ungherese dipendono l'una dall'altra. Vedo dai giornali che vi sono di quelli che riguardano la quistione ungherese semplicemente come mezzo di forte diversione in favore dell'Italia. Questa è un'idea falsa ed ingiusta. Non si può pretendere che la nazione ungherese si lasci adoperare allo scopo d'una mera diversione, e fermamente posso dire: non lo farà. La condizione fondamentale dell'Alleanza con l'Ungheria è che l'indipendenza dell'Ungheria sia accettata siccome scopo coordinato della guerra. Spesso sento parlare di simpatie e di doveri di contraccambio, perché per la libertà italiana si sparse anche sangue ungherese. Questi sentimenti sono proprii di cuori nobili, e meritano riconoscenza.

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Ma alla fin dei conti nella politica non è la simpatia, ma l'interesse che decide; e l'alleanza più sincera e più duratura è quella in cui gl'interessi sono eguali e reciproci.

Come sta la relazione fra questi interessi?

«Riconobbi senza esitare che noi abbisognavamo della iniziativa italiana, e dell'aiuto italiano, ma sostengo che l'Italia non ha meno d'uopo dell'alleanza dell'Ungheria. Non v'ha italiano, cominciando dal Re galantuomo fino all'ultimo facchino che voti glia rinunziare alla Venezia: l'annessione della Venezia al regno italiano una necessità. Ma Venezia non si piglia che con le armi. Il governo inglese, il quale ha il difetto di non voler comprendere che il 1861 non è il 1815, sogna una vendita. Questo si chiama in ingleseOggi non si può più condurre i popoli ad un mercato, il danaro non sceglie quistioni di nazionalità. Venezia non è da vendersi; l'Austria non la vende. D'altra parte l'Italiano sarebbe pazzo se volesse comprarla. Il danaro che ne darebbe servirebbe all'Austria per preparativi di guerra.

«Altri consigliano d'indennizzare l'Austria, per la cessione del Veneto, in Oriente. Ma all'epoca nostra non si può disporre dei popoli senza di essi, e le popolazioni orientali non vogliono sapere dell'Austria.

«La quistione veneta adunque non può essere sciolta altrimenti che con le armi. Ma gl'Italiani soli non bastano, essi han bisogno di aiuto; e non vi ha alleanza più opportuna per gl'Italiani che l'ungherese.

«Ecco come sta la cosa. L'Ungheria forma anche numericamente 2j5 della forza totale austriaca, molto più poi per intensità. Se quindi la forza austriaca è 10, l'Ungheria vi figura per 4; ma questi quattro per gl'Italiani non sono 4, perché bisogna non solo levar quattro dalla forza nemica, ma aggiungere altrettanti alla italiana, e ne risulta la differenza di 8. Nessun'altra potenza può dare all'Italia altro che un'armata; noi le diate mo una nazione intera. Nel 1859, la Francia le diede circa 200 mila uomini; tanto possiamo darle anche noi, basta che ci fornisca i mezzi di spiegare le nostre forze, e ciò in poche settimane.

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«In quanto poi al ogni altro aiuto potrebbe riuscire assai caro, tirare dietro a sé compensazioni, o almeno una dice pendenza più o meno penosa; mentre nel nostro caso il reciproco servigio si compenserebbe anche a vicenda.

«Senza di noi l'Italia difficilmente può batter l'Austria, nemmeno, mentre ogni caporale sa che una vittoria tattica, senza un risultato strategico non termina una guerra, n non scioglie una quistione.

«La vittoria strategica consiste in ciò che il nemico battuto non «possa ristaurarsi e continuare la guerra.

«Il piano stabilito era questo: prima consolidare Napoli, e trasformarla in sorgente di forze; indi Roma, perché solo Roma può «unificare l'Italia; e in fine Venezia. Non voglio discutere sulla (logica del piano. in dico soltanto: per lunghi mesi avete sperimentato questo progetto senza riuscita; la causa italiana non è progredita, e perché non è progrediti è retrocessa.

«Se voi potete effettuare quel piano cosi presto da non mettere a rischio la futura cospirazione dell'Ungheria, ne sarò lieto, ma in opposto vi prego di non sagrificare lo scopo in mezzo.

«Bisogna, secondo me, invertire il piano impraticabile, e porre in prima linea Venezia in combinazione con l'Ungheria. Non bisogna dimenticare che quello che oggi è ancora possibile, anzi certo, può essere assolutamente impossibile da qui a qualche mese.

«Venezia in prima filale non troverete ostacoli a Parigi.

«Venezia in prima fila! altrimenti l'Ungheria può andar perduta, ed allora l'avvenire dell'Italia è assai incerto, perché Il l'Italia sarà ridotta all'alternativa; o, o l'Austria saprà profittare tanto dell'una quanto dell'altra.

Questa lettera di Kossuth è la voce della Provvidenza che porla all'Italia, è un astro che le rischiara la via dell'avvenire. E noi aggiungiamo che l'Italia avrebbe dovuto tantoppiù volentieri profittare dell'Ungheria, e tantoppiù facilmente il destino di quella sarebbe stato assicurato dalla cooperazione di questa, in quanto che la posizione dell'Ungheria del 1861 differiva per troppo da quella del 1848, quantunque l'Austria, ed è d'uopo non dissimularcelo, allora trovavasi assai men forte che ora.

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Allora l'Austria non avea che 300 mila uomini, ed era esercito cotesto più di parata che di guerra, il suo sistema di fortificazioni è divenuto ora assai più perfetto di quel che allora non era. Oggi l'Austria ha 500 mila uomini, ha artiglieria raddoppiata, immenso materiale da guerra, esercito agguerrito. Ma d'altro canto son pure di lunga mano migliorate le condizioni dell'Ungheria. Allora erano i soli Magiari che lottavano contro l'Austria e gli Slavi, comandati dal bano della Croazia, il famoso Sellaciclo, non servirono che di reazione contro le generose aspirazioni magiare. Ora Magiari e Slavi trovansi uniti come vedesi nell'indrizzo della Dieta di Pesth, e nella protesta della Dieta di Agram, e nel rifiuto di tutti i paesi slavi di mandare i deputali al Consiglio dell'Impero a Vienna. Né l'Impero può ora come nel 48 contare sulla Croazia, ove son tutti soldati. Allora la rivoluzione italiana era finita, e trovavasi circoscritta appena nella sola Venezia: allora devote le truppe, oggi in cospirazione.

Oltre Kossuth, capi del movimento ungherese sono Deak e Klapka. Quest'ultimo ha il suo piano di organamento, come Kossuth lo ha di azione, Klapka in una lettera diretta a Garibaldi espone cotesto suo piano, e mette innanzi una Confederazione danubiana,, nella quale ciascuna nazionalità conserverà la propria sua autonomia, e di cui come alta necessità, il punto di accentramento federale dev'essere la razza magiara.

Intanto la quistione ungherese si agita fra le seguenti alternative. Le Diete diverse unanimi reclamano la loro indipendenza, e ferme nei proponimenti loro rigettano ogni concessione che venga dall'Impero, e che l'assoluta indipendenza non sia, e cosi respingono il diploma del 20 Ottobre, e la patente del 26 Febbrajo. L'Imperatore insiste, chiede rappresentanti al Consiglio dell'Impero, e reclama le imposte: quelli non vanno, queste si negano, e non si, possono altrimenti riscuotere che a viva forza. Proteste per parte delle Diete, (a) nuovi autografi dell'Imperatore,

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durre all'ubbidienza, e spaventare i riottosi (b). Alle minacce imperiali rispondono i manifesti del popolo: ai manifesti ed alle pro

ristabilire la piena osservanza di quei principii. perché la Dieta potesse occuparsi nella discussione di nuove leggi, era prima di tutto necessario che in conformità alle leggi venisse completata la Dieta, fosse ristabilito il ministero responsabile, e si richiamassero in vigore le leggi indebitamente sospese. A questo noi abbiamo prima d'ogni altra cosa pensato, ma i nostri replicati indrizzi rimasero senza risultato e l'attività della Dieta dovette quindi limitarsi alla difesa de' dritti del paese, al quale atto, eziandio nello stato presente di Dieta non completa, noi non solamente eravamo autorizzati, ma strettamente obbligati. -Il regio rescritto ha rotto di fatto le file delle deliberazioni dietali, svolgendo con violenza dispotica in opposizione a' trattati fondamentali, la nostra avita costituzione ne suoi principii fondamentali, e volendo restringere le nostre deliberazioni tra i limiti stabiliti dai diplomi, e dalle patenti imperiali entro i quali noi non potevamo legalmente lasciarci confinare. I rescritti sovrani ci han convinto che S. M. non ha intenzione di ristabilire, in conformità della prammatica sanzione, la nostra costituzione, alla quale noi non mancheremo giammai. E questa nostra esecuzione verrà rinfrancata quando, in luogo del ristabilimento del governo parlamentare, e del completamento della dieta, in conformità delle leggi, si procede al minacciato scioglimento della dieta Stando all'art. 1.° delle leggi del 1818 la Dieta non può essère sciolta, se prima il ministero non abbia presentato il risultato coll'amministrazione finanziera dell'anno precedente, ed il bilancio preventivo per l'anno successivo, e la Dieta non abbia deliberato su questo argomento. Ma a questa disposizione di legge non fu. data esecuzione, e nemmeno potrà darsi se prima non sia nominato il ministero responsabile, e non sia completata la Dieta, non esistendo ancora un governo legale, il quale abbia facoltà di presentare il bilancio, e non potendo la Dieta, finché si pongono ostacoli al suo completamento, deliberare sul bilancio. La legge prescrive àncora che dopo lo scioglimento della Dieta abbia ad esser convocata entro tre mesi una nuova Dieta. Che se questa convocazione non abbia luogo nel termine stabilito, avremo una nuova violazione della legge. Noi ci troviamo Quindi obbligati a dichiarare fin da ora che un tale procedere è una violazione della costituzione, ed una nuova conseguenza del sistema di assolutismo seguito negli ultimi dodici anni. Noi non possiamo oppor resistenza alla violenza, ma protestiamo solennemente contro tutti gli atti che potessero farsi in questo senso, e dichiariamo che ci manterremo fedeli & tutte le nostre leggi legalmente esistenti. ed in conseguenza eziandio a quelle del 1848 sanzionate dai re e non mutata dalle Dieta, e che considereremo come una violazione della costituzione tutti i fatti in opposizione di quelle leggi.

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teste si risponde con di tutti i dispotici, con lo stato di assedio (c).

(b) Le risoluzioni del governo austriaco circa l'Ungheria furono finalmente fatte note da un autografo imperiale diretto al conte Forgach. Ed in vero assai strano il vedere come mentre si sopprimono le Congregazioni dei comitati, mentre si sostituiscono con proprie creature i conti supremi nominati dal barone di Vay, e si costringono i conti ereditarii ad abdicar» i loro poteri nelle mani di amministratori nominati a Vienna, nello stesso tempo si protesta la propria devozione por la costituzione dello stato. Ma come se la soppressione di tutta l'amministrazione ungherese fosse insufficiente cosa, si aggiunge ancora la creazione di giudici dipendenti da Vienna, e che debbono siedere in luogo dei tribunali indipendenti, e delle corti marziali che dovranno pronunziare in tutte le cause che hanno carattere politico. - Ecco il testo dell'autografo.

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La Polonia ha deciso di emanciparsi dal dispotismo della Russia, e costituirsi in nazionalità autonoma ed indipendente. La sua resistenza è tutta passiva, e quando lo Czar spedisce bajonette e cannoni a soffogarvi ogni aspirazione nazionale, i Polacchi si genuflettono, incrociano le braccia, e con la preghiera sulle labbra si lasciano distruggere in massa. Spesso li vidi rifuggir nelle chiese, ed attendere che fin quivi dentro, adontando la civiltà e la religione, il ferro o la mitraglia del despota s'inoltri per isgozzarveli, o per mutilarveli.

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E poi, ad intenerir l'Europa tutta, quasiché di tenerezza fosse capace la diplomazia Europea, li vedi girar per le strade in gramaglia, recitando preci, ed irrigando i loro visi di lagrime. La Polonia ammaestrata dalle passate sventure non osa, e vuol conciliarsi, vuol commuovere la diplomazia con le sofferenze, e con la rassegnazione.

A tutto ciò non risponde la ragione, il dritto, la pietà, ma la solita ragion di stato, il principio tradizionale del dispotismo russo, e lo stato di assedio è proclamato a Varsavia. Ascoltatene gli effetti.

Sono già due settimane che lo stato di assedio è stato proclamato, due settimane di fiere persecuzioni, di rigori atroci, e nulla, nulla ne fa prevedere la fine.

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Le truppe bivaccano sempre in mezzo alla città - le pattuglie percorrono te strade, ed arrestano i passanti- ogni notte la soldatesca invade le case, e fa nuove vittime che vanno a riempire le casematte della cittadella. Ieri l'altro abbiamo visto passare un convoglio di 108 prigionieri, uomini e donne, arrestali sulle strade senza alcun motivo. Ieri tre convogli dello stesso genere hanno attraversalo la città. Nella notte del 26 al 27 ottobre, venne arrestalo il pastore Otto, ch'era stato già orribilmente maltrattato due settimane dietro - Un forte distaccamento di truppe e guardie di polizia ha invaso il Circolo della Res vi ha tutto messo sotto sopra, e le perquisizioni vi son durate per tutte la notte. Il governo sperava di scoprire le tracce d'una cospirazione, d'un comitato ségretò, al quale si avesse potuto imputare la direzione del movimento - grande inganno, poiché se vi ha una cospirazione è la nazione intera che cospira per rivendicare i suoi dritti, e che non ha bisogno di direzione per manifestare i suoi sentimenti e la sua volontà - Il governo vorrebbe credere che tutto cotesto movimento debbasi attribuire ad influenze occulte, e si dimena a torto e a rovescio per iscoprirle, arresta persone inoffensive, e moltiplica le perquisizioni per trovare le armi nascoste. In verità non ci vuole altro che uno straordinario acciecamento per supporre che se noi avessimo delle armi, ci saremmo lasciati impunemente arrestare, ed oltraggiare dai Cosacchi nelle strade e nelle chiese - Presentemente non vi è più sicurezza per alcuno: siamo sotto un regime selvaggio e barbaro. Del resto lo stesso avviene a Pietroburgo. I partigiani del vecchio sistema fanno tutti i loro sforzi per soffogare le aspirazioni novelle, e se l'Europa non saprà trar profitto dall'attuale posizione della Russia, Dio sa ciò che ne potrà accadere. - I prigionieri sono trattati col massimo rigore: le condanne sono improntate d'una crudeltà inaudita. Un tale ch'è stato arrestalo come asportatore di un bastone o di una lanterna non conforme ai regolamenti, per un abito di colore oscuro, qualche volta perché sul suo volto traspariva una nube di tristezza, spesso perché i soldati supponevano trovar la sua borsa ben fornita, si vede condannato a tre o quattro anni di ferri, o al servizio militare in vita. - Nelle Provincie gli eccessi non sono minori.

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A Leuczvea la truppa ha circondato la chiesa, ed ha ferito gravemente parecchie persone. Il clero ha fatto chiudere la chiesa. - Il governo russo sembra preso di vertigine, e lavora alla propria rovina. Egli crede di atterrirci, e non riesce che ad ispirarci un sentimento di avversione e di disgusto che va del pari con l'orrore che noi sentiamo per qualsiasi dominazione straniera.

Altra quistione non meno importante è la germanica. Mentre l'Austria si dissolve, la Germania cerca rendersi sempreppiù compatta, e costituirsi in unità, onde i diversi Stati omogenei si agglomerano fra loro, e vanno in traccia di un nucleo comune. Il primo ed il più positivo concetto dell'unità germanica si manifesta nello Zollwereiw, ch'è una lega doganale, organata sul sistema del libero-cambio, fra tutti gli Stati germanici, esclusi quelli soggetti all'Austria. Ma l'unità di tutti gli stati germanici altrimenti non si concepisce da tutti i patrioti tedeschi che sotto l'egemonia della Russia.

Sarà da tale il Re Guglielmo da secondare il movimento germanico, mettendosi alla testa delle aspirazioni liberali di quelli stati? É questo il gran problema da cui con ansia somma, e con generale interesse si aspetta la soluzione in questo periodo della storia di Europa. Ma il Re di Prussia trovasi in lotta fra il feudalismo la borghesia, fra i principii tradizionali di dritto divino, ed il principio progressista del libero suffragio. Guglielmo tentenna;non rigetta lo assumerò l'egemonia sugli stati germanici, ma vuol farlo coi principii tradizionali, e con le vecchie istituzioni. E chi vuol conoscere il programma col quale il Re di Prussia intende assumere l'egemonia sugli stati germanici, lo troverà nel discorso da lui fatto in Conisberga, al cospetto dei rappresentanti del popolo, ed in occasione della sua incoronazione. egli dice, èQueste parole che richiamarono l'attenzione dell'intera Europa, e che furono l'oggetto di lunghi comenti spiegano abbastanza il Re Guglielmo non esser fatto per secondare le aspirazioni liberali della Germania.

L'attenzione è rivolta tutta sulle elezioni dei rappresentanti della nazione prussiana; e se risultano liberali, la Germania crede potersi bene augurare de suoi destini.

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Grave quistione si agita fra la Germania è la Francia, e concerne le rive del Reno. Male rive del Reno non potrebbero essere che il prezzo della cooperazione francese a prò dell'unità germanica, a prò della costituzione della nazionalità tedesca.

Oltre queste quistioni flagranti, altre non meno importanti si veggono in prospettiva, e van costituendo l'avvenire più o meno prossimo della civiltà europea. Non mai quant'oggi l'Europa si atteggia ad una totale trasformazione de' suoi destini: apresi oggi un'era novella per le nazioni tutte.

In Russia tra breve 60 milioni di uomini saranno in piena guerra civile; ed in Turchia 12 milioni di Cristiani saranno in piena rivolta contro i Turchi. La Grecia è sul piede d'una rivolta. Anch'essa vuol riunire le sparse membra e costituirsi in nazionalità, con un Re che nasca dal suffragio universale, che sappia stare all'altezza dei tempi, e non sconosca il progresso, e la civiltà delle nazioni. Le Isole Ionie sono in lotta con l'Inghilterra, ed aspirano a riunirsi alla Grecia. I Ducati Danesi anch'essi cercano riunirsi al tronco da cui furono divulsi. In somma 300 milioni di uomini ci si presentano in agitazione. Ma non è la barbarie che gli agita, non è un moto cieco ed irrazionale quello, cui essi sono in preda, è in nome del dritto e della giustizia che l'Europa si solleva.

Secondo ogni probabilità prevedesi una lega tra la Russia e la Francia. I Montenegrini insorgono contro la Porta. A Loja scoppia una insurrezione repubblicana. A Pietroburgo si cospira contro la vita dell'Imperatore. A Berlino lo studente Beker attenta alla vita del Re Guglielmo. A Compiègne si conviene la neutralità della Prussia nella probabilità d'una guerra contro l'Austria, e si accenna al disegno di una grande campagna sul Reno. Altrove le conferenze tra il Re di Svezia e l'Imperatore dei Francesi mettono in soggezione la Russia.

Son queste le condizioni di Europa nella seconda metà dell'anno 1861. Ma chi volesse formarsi una idea ancor più chiara di tale politica situazione vegga fra i documenti l'opuscolo ufficioso che ha per titolo - L'Imperatore, Roma, e il Re d'Italia.

In quest'epoca era grave preoccupazione in Italia intorno al riconoscimento del nuovo Regno italiano.

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Ansiosamente attendevasi almeno dalle potenze amiche, ed in ispecial modo dalla Francia, e con ciò reputavansi assicurati i nostri futuri destini.

A noi sembra che gl'Italiani accordassero troppa importanza al loro riconoscimento, e che se ne impromettessero quello che tutti i riconoscimenti del mondo non possono dare. La teorica dei ricoscimenti è della più grave importanza in dritto pubblico. v'ha un riconoscimento di fatto, ma puro e semplice, e senza guarentigia di sorta. V'ha un riconoscimento di fatto e di dritto, ma anche questo può esser puro e semplice. v'ha in fine un riconoscimento di dritto, il quale implica il fatto non solo, ma la guarentigia di questo fatto, come conseguenza del dritto, e si estende a tutte le conseguenze che possono derivare da questo dritto riconosciuto. La diplomazia ha saputo dare forme svariatissime, ed indole diversa al riconoscimento, onde esimersi da tutte le conseguenze e da tutte le complicazioni che una rivoluzione può portar seco. L'Italia aveva bisogno di un riconoscimento di dritto; bisognava che in essa si fosse riconosciuto il principio di nazionalità non solo, ma della sua indipendenza. Ma ciò non solo, perché il riconoscimento d'Italia per confortarla tanto per quanto essa se ne credette confortata bisognava che avesse implicato ancora il suo dritto su Roma e Venezia, con riconoscimento avvenuto in tutt'altra guisa altro seco non portava che la ripristinazione delle trattative diplomatiche e nulla più. Un semplice riconoscimento di fatto equivaleva ad attestare ciò che mostravasi a' sensi.

Chi non vede che riconoscere un fatto, che tutti veggono, ma senza guarentirlo, senza reputarlo legittimo, senza tenerlo come conseguenza di un dritto, senza approvarne le conseguenze, chi non vede che tutto questo è pretta illusione diplomatica? Noi riconosciamo la vostra esistenza, dicono le Potenze all'Italia, ma non entriamo nella legittimità della vostra esistenza. Ciò che è fatto sta, salvo quel che ne possa venire di seguito.

Tale fu il riconoscimento del Regno d'Italia per parte di tutte quelle potenze per conto delle quali ebbe luogo. E che sia cosi avvenuta la cosa noi riportiamo gli atti diplomatici, che tali riconoscimenti contengono.

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In questo punto si presentano al nostro esame due importanti documenti, cui la storia contemporanea non può non tenere gran conto. Questi consistono nelle note diplomatiche, scambiatesi tra il governo francese e l'italiano intorno al riconoscimento del Regno d'Italia.

Notiamo i più importanti brani della nota del signor Thouvenel.

Il Governo di sua Maestà non ascose in alcuna circostanza «la propria opinione sugli avvenimenti che l'anno scorso scoppiarono nella penisola. Dunque il riconoscimento dello stato di te cose che si è risultato non potrebb'esserne la garanzia, come non potrebbe implicare la retrospettiva applicazione d'una politica, sulla quale ci siamo costantemente riservati intera libertà di valutazione.

«Ancor meno l'Italia avrebbe ragione a trovarvi un incoraggiamento ad imprese di natura da compromettere la pace generale.» La nostra maniera di vedere non ha punto cangiato dopo il convegno di Varsavia, ove ebbimo occasione di farla conoscere alti l'Europa come al gabinetto di Torino. Dichiarando allora che considereremo il principio del nonintervento come regola di te condotta per tutte le potenze, noi avevamo aggiunto che un'aggressione da parte degl'Italiani, qualunque ne potessero essere le conseguenze, non otterrebbe l'approvazione del governo dell'imperatore. Noi siamo rimasti nei medesimi sentimenti, e decliniamo anticipatamente qualunque solidarietà in progetti, dei quali il governo italiano solo dovrebbe correre i pericoli e subire le conseguenze

«Il gabinetto di Torino dal canto suo saprà tener calcolo dei doveri che ci sono imposti dalla nostra posizione verso la S. Sede, ed in crederei cosa superflua lo aggiungere che nello stringere le relazioni ufficiali col governo italiano, noi non vogliamo in alcun modo indebolire il valore delle proteste fatte dalla Corte di Roma contro l'invasione di parecchie Provincie degli Stati pontificii. Il governo di Vittorio Emmanuele non potrebbe contestare come non in possiamo noi stessi, la potenza delle considerazioni d'ogni genere che si collegano alla quistione romana, e che devono necessariamente avere un'azione sulle nostre determinazioni, ed intenderà che nell'atto in cui riconosciamo il Regno d'Italia,

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noi dobbiamo continuare ad occupare Roma fino a tanto che gl'interessi, i quali ci hanno condotto in quella città non saranno tutelati da sufficienti guarantigic.

A questa nota del ministro francese, il nostro barone Ricasoli per mezzo del conte Gropello nostro incaricato di affari a Parigi, rispondeva con queste parole che formano i passaggi più culminanti della sua nota.

«Chiamato dalla fiducia del Re a succedere al conte di Cavour nella presidenza del Consiglio, e nella direzione della politica estera, in ho trovato il mio programma già traccialo nei voti recenti che le due Camere del 'Parlamento ebbero occasione di pronunziare sulle quistioni più importanti per l'avvenire d'Italia. Dopo lunghe e memorabili discussioni, il Parlamento nell'affermare in modo solenne il dritto della nazione a costituirsi nella completa unità, ha manifestato la speranza che i progressi che la causa d'Italia va facendo ogni giorno nella coscienza pubblica, condurrebbero poco a poco, e senza scosse alla soluzione tanto ardentemente desiderata dagl'Italiani.

«Questa fiducia nella giustizia della nostra causa, nella saggezza dei governi europei come pure nell'appoggio ogni giorno più potente della pubblica opinione che il conte Cavour manifestava con tanta eloquenza poco tempo prima della sua morte si trasfuse pienissima nell'amministrazione alla quale ho l'onore di presiedere. Il Re ed i suoi ministri sono sempre convinti che coll'ordinare le forze del paese, e col dare all'Europa l'esempio di un progresso saggio e regolare, noi riusciamo a tutelare i nostri dritti, senza esporre l'Italia a sterili agitazioni, e l'Europa a complicazioni pericolose.

«Voi potete dunque, signor Conte, rassicurare pienamente il governo dell'Imperatore, rispetto alle nostre intenzioni circa la politica estera.

«Ciò non ostante, le dichiarazioni del signor Thouvenel relativamente alla quistione romana, mi obbligano ad aggiungere alti cune parole a questo riguardo.

«Voi conoscete, signor conte, in qual modo il governo del Re consideri quella quistione. Il nostro voto è quello di restituire all'Italia la sua gloriosa capitale, ma è nostra intenzione di nulla togliere alla grandezza della Chiesa, alla indipendenza del capo augusto della religione cattolica.

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Noi vogliamo in conseguenza i sperare che l'Imperatore potrà tra breve richiamare le sue truppe da Roma, senza che quella risoluzione faccia provare ai cattolici sinceri timori, che noi saremmo i primi a deplorare. Gli stessi interessi della Francia, noi ne siamo convinti, condurranno il governo francese a prendere questa determinazione. Lasciando all'alta saggezza dell'Imperatore il giudicare dal momento in cui Roma potrà senza pericolo essere abbandonata a sè stessa, noi considereremo sempre nostro dovere il facilitare questa soluzione, e speriamo che il governo francese non ci rifiuterà il suo concorso per indurre la corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di fortunate conseguenze per l'avvenire della Religione, come pei destini d'Italia.

Tulio ciò non significa dire: «vi riconosco, salvo a me fare quel che mi piace in avvenire: vi riconosco, ma non dovete muovervi di un passo, vi riconosco, ma non dovete toccare il Papa? Che cosa dunque riconosce l'Imperatore in Italia?

Il riconoscimento del Belgio non avvenne in forme più soddsfacenti; senza parlare di quello della Russia, la quale disse in termini espliciti: in riconosco il fatto, ma non il principio di nazionalità. Esaminiamo gli atti. Il conte Rechberg rispondeva alla nota di Thouvenel. Noi ci affrettiamo innanzi tutto ad esprimere a V. A. la soddisfazione con la quale noi prendiamo atto dell'assicurazione data dal signor di Thouvenel che il governo dell'Imperatore dei Francesi non aderirà per parte sua a nessuna combinazione incompatibile col rispetto che si professa per la indipendenza e la dignità della S. Sede, e con ciò che sarebbe in disaccordo con lo scopo che ha la presenza delle truppe francesi a Roma.

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«Queste assicurazioni son tali da calmare le oppressioni recenti e tanto vive che le ultime manifestazioni del Parlamento di Torino avevano fatto nascere in seno di tutti i paesi cattolici.

«L'Austria e la Spagna si erano fatto organo di queste apprensioni: pieni di confidenza delle intenzioni della Francia, noi desiderevamo per altro esser raffermati nella convinzione che il Santo Padre non vedrebbe punto la sua triste situazione diventare ancora più penosa, e che il sovrano Pontefice non sarebbe punto ridotto alla crudele alternativa o di abbandonare la sua capitale, o di dover dividerne il possesso co' suoi spogliatori.

«Noi volevamo in fine constatare una volta dippiù che non eravamo disposti a prestare alla Francia dal momento che lo avrebbe desiderato, il nostro premuroso concorso per mettere in salvo l'indipendenza del Capo della Chiesa.

«Questo fu lo scopo del nostro ufficio, e crediamo di poter oggimai felicitarci di averlo compiuto. In fatto sino a tanto che la protezione della Francia resta come adesso assicurata al santo Padre, gli avversarli della Santa Sede sono condannati alla impotenza, ed il Sovrano Pontefice può al pari di tutti i fedeli atti tendere con calma e confidenza il momento della risoluzione definitiva d'una delle più gravi quistioni che abbiano mai agitato il mondo. Questa soluzione definitiva - ho in d'uopo ripeterlo ancora - non può consistere secondo noi che nel mantenimento integrale della sovranità temporale del Papa.

«Il signor Thouvenel dichiara che ai suoi occhi esiste una stretta la connessione tra l'assestamento definitivo dei fatti che hanno modificalo in maniera tanto notevole la situazione della penisola e la soluzione di darsi alla quistione romana. Io non so se la parola assestamento definitivo possa interpetrarsi nell'unico senso che noi possiamo consentire ad attribuirle; vale a dire e nel senso di un ritorno alle basi del trattato di Zurigo, solo punto di partenza legale, a nostro avviso, per l'assestamento della situazione della penisola: sotto questa riserva noi riconosciamo volentieri la connessione di cui parla il signor Thouvenel, e noi saremo sempre disposti a considerare sotto questo duplice aspetto la quistione di cui si tratta.

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«Mi sia permesso aggiungere, dacché ho citato il trattato di Zurigo, che l'art. 19 di quel' trattato ci sembra abbastanza esplicito, e tanto che le difficoltà inerenti agli affari di Roma non e possono formare il solo ostacolo al riconoscimento per parte della Francia del sedicente regno d'Italia.

La Spagna, rispondendo alla comunicazione francese, afferma non potersi associare al riconoscimento della Francia, imperocché il farlo importerebbe non solo l'approvazione delle usurpazioni commesse in passalo dal Piemonte sul dominio temporale del Papa, ma eziandio un tacito impegno di approvare le usurpazioni future.

Ma ben giungi dall'esser noi riconosciuti dalla Spagna, ci trovammo con essa in piena vertenza, conseguenza necessaria della niuna adesione di quel governo verso quel principio che informava il nostro, e la cagione ne fu la seguente.

Il Console di Francesco II che ancor rimanevasi a Madrid, non riconoscendo il nuovo regno d'Italia, si ricusava di consegnare l'archivio diplomatico al nuovo invialo dal Re Vittorio, quindi recriminazioni, e reclami, e d'intervento della Francia. Ma in quali sensi?

Il Ministro di S. M. Vittorio Emmanuele residente a Madrid ricevette dal governo del Re l'ordine di abbandonare quella capitale, lasciando ad un segretario di legazione la cura di provvedere agli affari correnti. Il Barone Ricasoli, Presidente del Consiglio in quel tempo dava alle diverse legazioni italiane all'estero le seguenti spiegazioni sul fatto. Il console spagnuolo à Lisbona aveva ricevuto l'ordine di ritirare gli archivii dall'ex-consolato napolitano. Questa misura diede lùogo ad una discussione abbastanza lunga fra i due governi. Essa era stata presa, a quanto pare, all'insaputa del presidente del Consiglio del gabinetto spagnuolo, ed il signor Calderon Collantes ministro degli affari esteri di S. M. cattolica, si era dato dapprima a renderla a piccolissime proporzioni. Ciò nulla meno, giunse ben tosto a conoscenza del governo italiano che somiglianti ordini erano stati impartiti ad un numero abbastanza grande di consoli spagnuoli.

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Avendo essi dal detto governo ottenuto la certezza che non trattatasi più di un fatto puramente accidentale, di una serie di misure che annunziavano un sistema ben determinato per parte del ministro di S. M. cattolica, il governo di Vittorio Emmanuele credè di dover indirizzare al governo di Madrid le sue osservazioni.

La Spagna non aveva infatti nessun dritto sugli archivi napoletani divenuti proprietà del governo italiano ed il gabinetto spagnuolo, il quale avea dichiarato di non voler intervenire in alcun modo negli affari d'Italia, prestava con quest'atto un appoggio diretto alle pretensioni dell'ex-re di Napoli. Esso prendeva per tal modo in realtà una posizione del tutto diversa dalle sue dichiarazioni. Esso conferiva i dritti di potenza belligerante ad un pretendente caduto dal suo trono in seguito ad una rivoluzione, uscito dal suo antico territorio in forza d'una capitolazione regolare; esso impediva al governo del Re Vittorio Emmanuele di esercitare una pórzione dei dritti e di adempiere una parte degli obblighi a lui deferiti dalla volontà delle popolazioni italiane.

In seguito ai savii consigli del governo francese, che interpose amichevolmente i suoi buoni ufficii, il governo spagnuolo dichiarò ch'era pronto a rimettere alle autorità locali i documenti concernenti gì interessi particolari dei sudditi italiani. Ma soggiunse che quanto ai documenti di ordine pubblico, esso non credeva potersene spodestare.

Dopo la discussione profonda che si era fatto sulla quistione di dritto, questa distinzione non era ammessibile. Al punto in cui si trovavano le trattative, non si avrebbe potuto accettare la restituzione di una parte dei documenti, senza riconoscere nello stesso) tempo alla Spagna il dritto di ritenere l'altra parte. La quistione di dritto, quella ch'era divenuta più importante, sarebbe stata dunque risoluta implicitamente in una forma sfavorevole al governo del Re Vittorio Emmanuele.

Vi fu un momento in cui il gabinetto di Madrid parve riconoscere esso medesimo la giustezza di questa ragione. Dal suo canto il governo del Re riconoscendo gli sforzi che la Francia non cessava di fare per dar termine amichevolmente a questo conflitto, credette doversi mostrare altrettanto conciliante nella forma quanto avea dovuto mantenersi fermo sul fondo della quistione.

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Fu in allora che il signor Calderon Gollantes propose di rimettere alle autorità locali tutti i documenti contenuti negli archivii, dichiarando che il governo spagnuolo erasi persuaso che quelle carte non avevano tratto ehe ad interessi particolari.

Insistendo per una restituzione diretta, il governo del Re avrebbe potuto apparire come quegli che domandava un atto implicito di ricognizione per parte della Spagna. Questo pensiero era lontano da noi,, giacché noi avevamo troppo profondo sentimento della dignità del paese per non esser convinti che l'Italia non vorrebbe punto una ricognizione ottenuta col mezzo di tali spedienti. Il Barone Ricasoli adunque accordava la sua adesione alla soluzione proposta, raccomandando solidamente al ministro del Re a Madrid d'inserire nella sua risposta qualche riserva destinata a prevenire qualunque erronea interpetrazione.

Questa proposta del ministro degli affari esteri di Sua Maestà Cattolica con grande stupore della diplomazia italiana non venne approvata dai suoi colleghi, e si fece domanda al Barone Tecco, perché ritirasse le due note, ove era stata svolta la quistione di dritto. Evidentemente era impossibile accògliere questa dimanda, senza apporvi una condizione che dette alla transazione un carattere di perfetta reciprocità. Ricasoli quindi non accettava la soluzione proposta, fuorché nel caso che il governo spagnuolo rinunziasse da parte sua d'indicare negli ordini da darsi ai suoi consoli che gli archivii non contenevano documenti politici. Essendosi rifiutalo il governo spagnuolo ad ammettere quest'ultimo mezzo di conciliazione, il Ricasoli dovette sottoporre al Re l'ordine del richiamo pel suo ministro da Madrid.

A proposito del riconoscimento del Regno d'Italia per parte del Belgio, in quella Camera aveva luogo la seguente discussione.

Il signor Nothomb dimostra di proposito che la neutralità obbligala e permanente del Belgio non autorizza questa infrazione, ossia questo riconoscimento, e dice che la condotta che il governo dovrebbe seguire rispetto all'Italia era: non parzialità, non preferenza esclusiva, non pratiche segrete.

L'alto di riconoscimento, secondo l'oratore, apparecchia giorni pericolosi alla patria, e forse la caduta del Belgio.

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A questo punto si sollevarono nell'assemblea energiche interruzioni, e proteste da ogni parte. - Il signor sostiene non esistere quell'Italia che si è riconosciuta, perché manca dei suoi confini, e della sua capitale. L'Inghilterra, e la Francia, dic'egli, si disputano tacitamente per l'avvenire i mezzi per farsene un i strumento.

Il signor ministro degli affari esteri chiede al signor Dedeker se avesse riconosciuto l'Italia qualora fosse al suo posto. Il signor Dedeker risponde negativamente. Allora il ministro continua:

Il signor Dedeker disse che sarebbe stato conveniente di aggiornare tale alto ad un qualche mese. La è dunque una quistione di tempo, di opportunità. Ebbene! Quando le due grandi Potenze garanti dell'esistenza del Belgio, cioè l'Inghilterra e la Francia, hanno riconosciuto l'Italia, quando gli Stati secondarli hanno preceduto quest'atto, la nostra condotta non era tracciata? Che cosa si riconobbe in Italia? Dei fatti. Il Belgio non riconobbe successivamente tutti i governi che si costituirono in Francia? E per questo ha sanzionati, ha adottati i loro principii?

Rispondendo alle espressioni di simpatia dei preopinanti per i governi italiani decaduti, il ministro richiama alla memoria loro quanto avvenne.

Un pugno di uomini audaci si presenta sopra un territorio italiano, segue senza ostacoli la sua marcia a traverso le provincie, e davanti a lui crollano governi e troni.

Nel 1848 un pugno di republicani si presenta alla frontiera belga, colla speranza di il nostro paese. Voi no conoscete il risultalo. perché il loro primo ed unico tentativo riuscì a vuoto? perché le nostre popolazioni erano contente della loro posizione, esenti d'abusi, e da oppressioni che traggono seco la caduta dei governi.

Mi si spinge a svelare alla Camera - fu il signor Nothomb che lo disse - i sentimenti e le opinioni che condussero il governo all'atto di riconoscimento. Il governo fu giudicalo soltanto dagl'interessi del paese. Quanto agl'intimi nostri sentimenti, il signor Nothomb li conosce, ed in non glieli dirò.

Il ministro insiste sull'interesse nazionale, ch'esigeva il riconoscimento.

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I Belgi erano male accolti in Italia con diffidenza, e disfavore: si rimproverava al Governo di non seguire l'esempio delle altre potenze. Il suo ritardo viene attribuito ad una parzialità ostile. Bisognava mettere un termine a questo stato di cose che finiva con reagire sulle relazioni commerciali. E questo fu fatto (a)

(a) Son questi i documenti relativi al riconoscimento del regno d'Italia, da parte del Belgio.

Ora che queste circostanze han cessate di esistere, il governo del Re non dubita che questa notifica non riceva dal governo belgico una risposta non meno conforme ai suoi principii che ai sentimenti di amistà che gli ha sempre attestato. -Conte di Montalto.

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In questo luogo bene a ragione i nostri lettori ci chiameranno a render conto della politica estera del barone Ricasoli; politica grave, gravemente implicata nella quistione romana, e nella condotta da tenersi dal governo italiano

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verso il governo francese, di questo che si eleva, più che a tutore, ad arbitrio. dell'Italia, che ne fiscalizza i destini, che ne reprime le aspirazioni, e l'apre d'innanzi un incognita dolorosa, desolante (a) E noi in obbligo di risponder loro, di chiarirli sul proposito, noi potremo meglio far che seco noi traendoli ad assistere alle ultime tornate della Camera dei deputati ch'ebber luogo nello scorcio

1861.

S. E. Il Conte Montalto ec. ec. a Brusselles.

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Quivi ed i documenti presentati dal Presidente del gabinetto italiano, e le calde e le lunghe discussioni avvenute la posizione chiariranno abbastanza. - Cominciamo dai documenti sulla questiono romana presentati nella tornata del 20 novembre dal presidenteconsiglio al Senato ed alla Camera dei deputali.

A bella prima ci si para d'innanzi una lettera del barone Rica soli al Pontefice, la quale mette la quistione in termini tanto netti da non esser trasandata.

Compiono ormai dodici anni, comincia a dire il Ministro italiano, dacché l'Italia commossa dalle parole di mansuetudine e di perdono uscite dalla vostra bocca, sperò chiusa la serie delle sue secolari sciagure e aperta l'era della rigenerazione. Ma poiché i potenti della terra l'avevano divisa tra signori diversi, e vi si erano serbato patrocinio ed imperio, l'opera della rigenerazione non si poté svolgere pacificamente dentro i nostri confini; e fu necessità ricorrere alle armi per emanciparsi dalla signoria straniera accampata fra noi, perché le riforme civili non fossero impedite, e sino dai loro esordi soffogate e distrutte. Allora voi, beatissimo padre, memore di essere in terra il rappresentante di un Dio di pace e di misericordia,

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e padre di tutti i fedeli, disdiceste la vostra cooperazione agi italiani nella guerra eh era sacra per essi della loro indipendenza; ma perché voi eravate pure principe in Italia, cosi quest'atto arrecò grande amarezza. Se ne irritarono gli animi, e fu spezzato quel vincolo di concordia che rendeva lieto ed efficace il procedere del nostro risorgimento. I disastri nazionali che quasi immediatamente susseguirono, infiammarono vieppiù l'ardore delle passioni e attraverso un funesto alternarsi di avvenimenti deplorabili che tutti vorremmo dimenticati, s'impegnò fin d'allora fra la nazione italiana e là sede apostolica un conflitto fatale, che dura pur troppo ancora, e certo riesce ad ambedue pur troppo pregiudizievole. La battaglia si finisce sempre o con la disfatta e la morte di uno dei combattenti, o con la loro riconciliazione. I dritti della nazionalità sono imperituri, come imperitura per promessa divina è la sede di S. Pietro. Poiché pertanto qualcuno degli avversarli può mancare sul campo, è necessario conciliarli per non gettare il mondo in una perpetua ed orribile perturbazione. Come cattolico ed italiano reputai doveroso di meditare lungamente e profondamente l'arduo problema che il nostro tempo ci propone a risolvere; come ministro del regno' italiano reputo doveroso sottomettere alla Santità vostra le considerazioni per le quali la conciliazione fra la santa sede e la nazione italiana dev'essere non solo possibile, ma utilissima, mentre apparisce più che mai necessaria. Così operando non solo in segno l'impulso del mio intimo sentimento, e degli obblighi del mio uffizio, quanto i convincimenti de' miei colleghi; ma ubbidisco ancora alla espressa dichiarazione di S. M. il Be, che fedele alle gloriose e pie tradizioni della sua casa, ama con pari ardore la grandezza italiana, e la grandezza della chiesa cattolica.

Questa conciliazione pertanto sarebbe impossibile, né gl'Italiani eminentemente cattolici oserebbero desiderarla, non che dimandarla, se. perciò' fosse d'uopo che la chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o, di quei dritti che appartengono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell'Uomo-Dio. Noi chiediamo che la Chiesa, la quale, come interpetre e custode del Vangelo portò nelle umane società un principio di legislazione soprannaturale, e per quello si fece iniziatrice di progresso sociale, segna la sua divina missione,

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e mostri sempreppiù la necessità di sé stessa nelle inesauribile fecondità de' suoi rapporti con ciò che ha una volta iniziato ed informato. Se ad ogni passo della società precedente ella non fosse atta a creare nuovi forme sulle quali far consistere i termini successivi dell'azione sociale, la chiesa non sarebbe una istituzione universale e sempiterna, ma un fatto temporale e caduco. Dio è immutabile nella sua essenza, eppure è infinitamente fecondo in creare nuove sostanze ed in produrre nuove forme. Di questa sua inesauribile fecondità diede, fin qui la chiesa splendidissima testimonianza, trasformandosi sapientemente nelle sue attinenze col mondo civile ad ogni nuova evoluzione sociale. Quelli che oggi pretendono ch'ella rimanga immobile oserebbero essi affermare che non ha mai cambialo nella sua parte esterna, relativa formale? Oserebbero dire che la parte formale della chiesa sia da' Leone X a noi, quale fu da Gregorio VII a Leone X, e che questa già non fosse mutala da quella che durò da Pietro a Gregorio VII? Sul principio fu bello alla chiesa raccogliersi nelle catacombe alle contemplazioni delle verità eterne, povera ed ignorata dal mondo; ma quando i fedeli per la conseguita libertà uscirono all'aperto e strinsero nuovo vincolo fra loro, allora l'altare si trasportò dalla nudità delle catacombe allo splendore delle basiliche, e il culto ed i ministri del cullo parteciparono a quello splendore; e all'ascosa preghiera aggiunse la chiesa il pubblico e solenne eloquio dèi magistero, che già cominciava ad esercitare splendidamente sulle genti».

«Nella confusione e nel cozzo dei vàrii e spesso contrarii elementi coi quali si proponeva nel medioevo l'era moderna, mercé della chiesa il concetto cristiano si realizzò nelle relazioni di famigliaci città, di stato, suscitò nella coscienza il dogma di un dritto pubblico, e nella sua legislazione ne chiari l'uso e fe sentirne i vantaggi; e allora la chiesa divenne anco potere civile, e si fe giudice dei principi e dei popoli. Ma quando la società si fu educata ed ebbe ammaestrata ed illuminata la sua ragione, cessò il bisogno, e col bisogno si sciolse il vincolo della tutela clericale; si ricercarono e si ripresero le tradizioni della civiltà antica, ed un pontefice meritò per quell'opera di dare il suo nome al suo secolo.

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Se dunque la Chiesa imitando Dio suo archetipo, il quale benchè onnipotente ed infallibile, pure modera con sapienza infinita l'esercizio della sua potenza in guisa che non ne soffra scapito la libertà umana, seppe finora contemperarsi, conservando intemerata la purità del dogma, alla necessità derivate dalle varie trasformazioni sociali, coloro che la vorrebbero immobile ed isolata dalla società civile, nimicandola allo spirito dei tempi nuovi, non sono essi che le recano ingiuria, non sono essi che la danneggiano anziché noi, i quali solo le dimandiamo ch'ella conservi l'alto suo magistero spirituale, e sia moderatrice nell'ordine morale di quella libertà, per cui i popoli, ormai giunti alla maturità della ragione hanno dritto di non obbidire né a leggi ne a governi se non consentiti da loro nei modi leggittimi?

«Come la chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, cosi non può non essere amica dello svolgimento delle nazionalità. In provvidenziale consiglio che la gente umana venisse così a ripartirsi in gruppi distinti secondo la stirpe e la lingua con certa sede dove potessero, e dove quasi ad un modo contemperarsi in una certa concordanza di affetti e d'istituzioni, né disturbassero le sedi altrui, né patissero di esser disturbati nelle loro proprie. Quale sia il pregio in che debba averli la nazionalità l'ha detto Iddio, quando, volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi, metteva mano al castigo più terribile di tutti dando quel popolo in balia di gente straniera. Voi stesso l'avete mostrato, beatissimo padre, quando all'Imperatore d'Austria scrivevate nel 1848 esortandolo a cessare una guerra che non avrebbe riconquistato all'impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, giustamente alteri della propria nazionalità.

Il concetto cristiano del potere sociale, siccome non comporta l'oppressione dell'individuo a individuo, cosi non comporta da nazione a nazione. né la conquista può mai legittimare la signoria di una nazione sovra un'altra, perché la forza bruta non è. capace a creare il dritto. Non voglio in appoggio di questo vero autorità migliore delle parole solenni del vostro predecessore nella cattedra di S. Pietro Gregorio XVI. «Un ingiusto conquistatore con tutta la sua potenza non può mai spogliare la nazione, ingiustamente conquistata dei suoi dritti. Potrà con la forza ridurla schiava, rovesciare i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti, ma non potrà giammai

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indipendentemente dal suo consenso a lecito o espresso privarla dei suoi originali relativamente a quei magistrati, a quei tribunali, a quelle forme cioè che la costituivano imperante».

Gl'Italiani pertanto revindicando i loro dritti di nazione, e costituendosi in regno con liberi ordinamenti non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso o civile;nella loro fede di cristiani e di cattolici non hanno trovato alcun precetto che condannasse il loro operato. - Che essi mettendosi sulla via che la provvidenza loro schiudeva d'avanti, non avessero in animo di fare ingiuria alla religione, né danno alla chiesa lo prova l'esultanza, la venerazione di cui vi circondarono nei primordii del vostro pontificato; lo prova il dolore presente, e lo sgomento col quale accolsero la mischia del 29 aprile. Essi ebbero a deplorare che nell'animo vostro anziché consentire, miseramente fra loro si combattessero i doveri di pontefice con quelli di principe; essi desideravano che una conciliazione si potesse ottenere fra le due eminenti qualità che si riuniscono nella sacra vostra persona. Ma sventuratamente pei proteste ripetute, e per fatti non oscuri, essi ebbero a persuadersi che questa conciliazione non era possibile; e non potendo rinunziare all'esser loro, ed ai dritti imprescrittibili della nazione, come non avrebbero mai rinunziato alla fede de' padri loro, crederanno necessario che il principe cedesse al pontefice. Non potevano gl'Ilaliani non tener conto delle contraddizioni nelle quali, a causa della riunione di queste due qualità nella stessa persona, frequentemente incorreva la fede apostolica. Queste contraddizioni mentre irritavano gli animi contro il principe, cerio non giovavano a crescere riverenza al pontefice. Si veniva allora ad esaminare l'origine di questo potere, i suoi procedimenti e l'uso, e bisogna pur confessare che questo esame un gli tornava sotto più riguardi favorevole. Si considerava sua necessità, la sua utilità nelle relazioni con la chiesa. L'opinione pubblica non rispondeva favorevolmente sotto questo aspetto».

Porgendo il vangelo molti detti e fatti di spregio e di condanna dei beni terrestri, né meno porgendo Cristo molti avvertimenti a ai discepoli che non si abbiano a dar pensiero né di possesso, né d'imperio, non riuscirebbe agevole trovare anche un solo dei dottori,

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e dei teologi della chiesa il quale affermasse necessaria all'esercizio del suo santo ministero il principato.

Un tempo forse, quando tutti i diritti erano incerti ed in balia della forza che alla indipendenza della chiesa giovò il prestigio di una sovranità, temporale. Ma poiché del caos del medioevo uscirono gli stati moderni, e si furono consolidali con le successive aggregazioni dei loro elementi naturali, ed il dritto pubblico europeo si fondò sopra basi ragionevoli e giuste, che giovò alla chiesa il possedere piccolo regno, se non ad agitarla fin le contraddizioni e le ambagi della politica, distrarla con la cura degl'interessi mondani dalla cura dei beni celesti, farla serva alle gelosie, alle insidie dei potenti della terra? in vorrei che la rettitudine del vostro intelletto, e della vostra coscienza, e la bontà del vostro cuore giudicassero soli, se cioè sia giusto ed utile e decoroso alla santa sede ed alla chiesa.

Intanto questo deplorabile confitto arreca le più triste conseguenze non che per l'Italia che per la chiesa. Il clero già si divide fra se, già si divide il gregge da' suoi pastori. Non vi hanno prelati, vescovi, sacerdoti che apertamente ricusano associarsi alla guerra che si fa da Roma al Regno d'Italia, molti più vi ripugnano nel loro segreto (2). Le moltitudini veggono con indignazione ministri del santuario mescolarsi in cospirazioni contro lo stato e negare al voto pubblico la preghiera dimandata dall'autorità, e fremono impazienti quando odono dal pergamo abusata la divina parola per farne istrumento di biasimo o di maledizione contro tutto ciò che gl'Italiani appresero ad ammirare e benedire. Le moltitudini non use a distinguere troppo sottilmente le cose, potrebbero alla fine essere indotte ad attribuire il fatto degli uomini alla religione, di cui son ministri, ed alienarsi da quella comunione alla quale da diciotto secoli gl'Italiani hanno la gloria e la fortuna di appartenere.

Non vogliate sospendere sull'abisso del dubbio un popolo intero che sinceramente desidera potervi credere e venerarvi. La chiesa ha bisogno d'esser libera, e noi renderemo intera la sua libertà: noi più di tutti vogliamo che la chiesa sia libera, perché la sua libertà è garenzia della nostra; ma per esser libera è necessario ch'ella si sciolga da' lacci della politica, pe' quali finora ella fu strumento contro di noi in mano or dell'uno or dell'altro dei potentati.

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La chiesa ha da insegnare le Tenta eterne con l'autorità divina del suo celeste fondatore, che mai non le manca di sue assistenza, ella dev'essere la mediatrice fra i combattenti, la tutrice de' deboli e degli oppressi; ma quanto più docili orecchi troverà la sua voce, se non si potrà sospettare che interessi mondani la ispirino? Voi potete anco una volta innovare la faccia del mondo, voi potete condurre la sede apostolica ad una altezza ignorata per molti secoli dalla chiesa. Se volete esser maggiore dei re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguagliano a loro.

L'Italia vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova. Ella venera il pontefice ma non potrebbe arrestarsi innanzi al principe; ella vuole rimaner cattolica, ma vuol esser libera ed indipendente nazione. Che se voi vorrete ascoltare la preghiera di questa figlia prediletta, guadagnerete sugli animi lo impero che avete rinunziato corno principe, e dall'alto del vaticano, quando voi leverete la mano per benedire Roma e il mondo, vedrete le nazioni restituite ai loro dritti curvarsi riverenti innanzi a voi, loro giudice e patrono.

Contemporaneamente lo stesso ministro Ricasoli scriveva al Commendatore Costantino Nigra inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Re d'Italia a Parigi, nei seguenti sensi.

Dalle ultime comunicazioni che ho avuto l'onore di cambiare colla S. V. Illustrissima, ella avrà potuto rilevare come sieno incessanti, e ognora più gravi le preoccupazioni nel Governo del Re intorno alla quistione romana.. Mentre il Governo non si dissimula i le difficoltà che si oppongono ad una soluzione, quale i dritti e le necessità italiane la vogliono, per la moltiplicità e la grandezza de interessi che vi sono implicati, non può d'altro canto dissimularsi i pericoli d'una troppo lunga dilazione, i quali per varie cause si vanno facendo di giorno in giorno più urgenti. Non vi è quasi difficoltà interna di cui l'opinione pubblica fra gl'Italiani non riferisca l'origine alla mancanza della capitale Roma. Nessuno è persuaso che possa stabilirsi un assetto soddisfacente dell'Amministrazione dello stato, finché il centro dell'Amministrazione non sia traslocato a Roma, punto egualmente distante degli estremi della Penisola.

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La logica dell'unità nazionale, sentimenti che oggi prevale fra gl'Italiani non comporta che l'unità sia spezzata dal lo inframmetterli nel cuore del Regno d'uno stato eterogeneo, e per dippiù ostile. Poiché bisogna pur dire che le impazienze legittime della nazione pel possesso della sua capitale sono attizzate del contegno della Curia Romana nelle cose di Napoli. Non insisterò in questo punto sul quale la S. V. ebbe le più ampie informazioni nel mio dispaccio circolare del 24 agosto decorso, ma richiamerò la sua attenzione sugli argomenti che ne emergono in favore d'una pronta risoluzione degli affari di Roma. '

Il Governo del Re per altro se da un lato sente questa urgenza non ha dimenticato dall'altro gl'impegni presi con sé stesso in faccia all'Europa con le sue solenni dichiarazioni, e se anche queste non fossero, egli già sarebbe per proprio sentimento persuaso del dovere di procedere con ogni rispetto verso il Pontefice in cui venera il capo della cattolicità, e con ogni riguardo verso S. M. l'Imperatore dei Francesi nostro glorioso alleato, il quale con la presenza delle sue truppe intende guarentire che la sicurezza personale del Papa e gl'interessi cattolici non soffrano nocumento. -Ritenuto per tanto negl'Italiani l'incontestabile dritto di avere Roma che appartiene alla nazione e per conseguenza nel Governo italiano l'imperscrittibile dovere di condurre le cose a questo termine di rimpetto alle attitudini della unanime pubblica opinione; per evitare gravi disturbi, ed impeli inconsiderati sempre deplorabili anche se prevenuti o repressi, il Governo ha stimato di fare un ultimo appello alla rettitudine della mente e alla bontà del Pontefice per venire a un accordo sulle basi della piena libertà della Chiesa da una parte abbandonando il governo italiano qualsivoglia immistione nelle materie religiose, e della rinuncia, dall'altra, del potere temporale.

» La S. V. troverà alligata in copia la lettera che per ordine espresso di Sua Maestà ho avuto l'onore d'indrizzare su questo proposito alla Santità del Papa Pio IX. La S. V. si compiacerà comunicare questo documento al governo di Sua Maestà l'Imperatore dei francesi presso il quale ella è accreditato, pregandolo innanzi tutto che voglia commettere al rappresentante del Governo imperiale a Roma di far pervenire alle mani di Sua Santità l'indirizzo qui acchiuso e il capitolalo annesso.

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La mancanza di ogni rapporto diplomatico fra il governo italiano o la santa sede non ci permette di far pervenire al Santo Padre in modo diretto questi due documenti, né la irritazione degli animi che disgraziatamente esiste a Roma verso di noi permette nemmeno d'inviare colà a questo fine una missione straordinaria con la quale la Corte Romana ricuserebbe probabilmente ogni specie di rapporto».

» La benevola mediazione della Francia è adunque indispensabile affinché i due documenti sopra accennali possano giungere fino alle mani di S. S. e possa in tal guisa sperimentarsi anche questo modo d'intelligenza e di accordo».

» I benefìcii d'una conciliazione sono tanto grandi ed evidenti per tutti che in nutro fiducia che in contemplazione della possibilità dei medesimi il Governo di sua Maestà l'Imperatore si compia., cera di aderire al desiderio del Governo italiano».

» Ella vorrà inoltre ricordare che nella mia nota del 21 giugno al conte di Groppello in dichiarava che lasciando all'alto senno dell'Imperatore di stabilire il momento opportuno in cui Roma senza pericolo potesse lasciarsi a sé stessa, noi ci saremmo fatto un dovere di facilitare la soluzione di quella quistione con la speranza che il governo francese non ci avrebbe rifiutati i suoi buoni officii per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di fauste conseguenze alla religione ed alla Italia».

» Ella è incaricata per tanto d'invocare i buoni officii, cui qui si accenna non solo perché la nostra preghiera pervenga al santo Padre ma eziandio perché sia presso di lui efficacemente patrocinata. Nessuna voce può essere più autorevole a Roma, né con più condiscendenza ascoltata di quella della Francia che veglia colà da dodici anni con la sua possente e rispettata tutela».

» Mentre la S. V. avrà cura di esprimere governo di S. M. T. quanto sia piena la nostra fiducia nelle sue benevoli disposizioni e nell'efficacia intromissione in questa rilevantissimo affare ella vorrà ancora far sentire che il governo del Re se questo ultimo tentativo per disavventura venisse a fallire, si troverebbe ravvolto in grandissime difficoltà, e che malgrado tutto il suo buon essere per temperare le dolorose conseguenze che potessero emergere da un rifiuto della Curia Romana sia nell'ordine religioso,

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sia nell'ordine politico, non potrebbe impedire però che lo spirito pubblico degl'Italiani non venisse vivamente e profondamente a commuoversi.»

» Gli effetti d'una ripulsa si possono più facilmente prevedere che calcolare: ma è certo che il sentimento religioso negl'Italiani ne riceverebbe una grandissima scossa, e, ohe le impazienze della nazione che finora sono contenute dalla speranza d'una risoluzione più o meno prossima diverrebbero molto difficilmente frenabili.»

» Innanzi di por fine al presente dispaccio in credo non inutile prevenire un obbietto che forse potrebbe venirle fatto riguardo alla forma seguita in queste grave occorrenza. Può sembrare a taluni non conforme agli usi, alle tradizioni e forse anche alla riverenza che l'indirizzo rivolto al sommo Pontefice sia firmato da me, anziché da S. M. il Re nostro. Questa deviazione dalle pratiche generalmente accettate riconosce due cause. Prima di tutto è da sapersi, e V. S. Ili, non lo ignora per certo che in altre occasioni analoghe a quella in cui ci troviamo S. M. si è personalmente indirizzata al Papa, e, o non ne ha ricevuto risposta, o ne ha ricevute di tal genere da recare offesa alle dignità regia. Non era dunque possibile, dopo tali precedenti esporre a nuovo pericolo di offesa il decoro del nostro Sovrano. È sembrato dippiù al Governo del Re che in una occasione in cui rispettosamente si rivolge la parola al Sommo Pontefice a nome della Nazione Italiana l'interpetre consueto delle deliberazioni del potere esecutivo, che soprattutto in assenza del Parlamento Italiano si è quello che rappresenta la nazione medesima dovesse pure esser quello che si facesse interpetre dei suoi voti e dei suoi sentimenti».

E con la stessa data il medesimo Barone Ricasoli al Cardinale Antonelli scriveva così.

Il Governo di S. M. il Re Vittorio Emmanuele gravemente preoccupato delle funeste conseguenze che tanto nell'ordine religioso quanto nell'ordine politico potrebbero derivare dal contegno assunto dalla Corte di Roma verso la nazione italiana ed il suo governo, ha voluto fare appello ancora una volta alla mente ed al cuore del Santo Padre, onde nella sua sapienza, e nella sua bontà consenta ad un accordo che lasciando intatti i dritti della Nazione provvederebbe efficacemente alla dignità ed alla grandezza della Chiesa.

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Ho l'onore di trasmettere all'È. V. la lettera che per ordine espresso di S. M. il Re ho umiliato alla Santità del Pontefice. - Per l'eminente sua dignità nella Chiesa, pel luogo cospicuo che ha nell'amministrazione dello stato non meno che per la fiducia che sua Santità in lei ripone, ella meglio che ogni altro potrebbe porgere in questa occasione utili ed ascoltati consigli. - Al sentimento dei veri interessi della chiesa non può non accoppiarsi nell'animo dell'E. V. il sentimento della prosperità d'una nazione, cui ella appartiene per nascita, e quindi spero che si studierà di riuscire in un'opera che la farà benemerita della Santa Sede non solo, ma di tutto il mondo cattolico.

Il Capitolato di cui parlasi nei precedenti documenti è il seguente:

Art. 1.° Il sommo Pontefice conserva la dignità; la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri sovrani che sono stabilite dalle consuetudini.

I Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano i titoli di principe, e le onorificenze relative.

Art. 2.° Il Governo di S. M. il Re d'Italia assume l'impegno di non proporre ostacolo in veruna occasione agli atti che il Sommo pontefice esercita per dritto divino come Capo della Chiesa e per dritto canonico come Patriarca di Occidente e Primate d'Italia.

Art. 3.° Lo stesso Governo riconosce nel Sommo Pontefice il dritto d'inviare i suoi nunzii all'estero, e s'impegna a proteggerli finché saranno sul territorio dello Stato.

Art. 4.° Il Sommo Pontefice avrà libera comunicazione con tutti i Vescovi ed i Fedeli,, e reciprocamente senza ingerenza governativa.

Potrà parimente convocare nei luoghi, e nei modi che crederà opportuni i Concilii ed i Sinodi ecclesiastici.

Art. 5.° I Vescovi nelle loro diocesi, ed i Parrochi nelle toro parrocchie saranno indipendenti da ogni ingerenza governativa nell'esercizio del loro ministero.

Art. 6.° Essi però rimangono soggetti al dritto comune quando si tratta di reati puniti con le leggi del Regno

Art. 7.° S. M. rinunzia ad ogni patronato sui benefizii ecclesiastici.

Art. 8.° Il Governo Italiano rinunzia a qualunque ingerenza nella nomina dei Vescovi.

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Art. 9.° Il Governo medesimo si obbliga di fornire alla S. Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata.

Art. 10.° Il Governo di S. M. il Re Italia all'oggetto che tutte le Potenze e tutti i popoli cattolici possono concorrere al mantenimento della santa sede, aprirà con le potenze stesse i negoziali opportuni per determinare la quote, per la quale ciascheduna di esse concorre nella dotazione di cui è parola nell'articolo precedente.

Art. 11.° Le' trattative avranno altresì per oggetto di ottenere guarantigie di quanto è stabilito sugli articoli antecedenti.

Art. 12.° Mediante queste condizioni il sommo Pontefice verrà col Governo di S. M. il Re d'Italia ad un accordo permesso di Commissioni che saranno al tale effetto delegate.

Come furono giudicati in Parlamento cotesti documenti del Barone Ricasoli?

Il deputato Ferrari li giudica così.

La vostra proclamazione di Roma è un fatto puramente accademico o è un fatto troppo concludente? È un fatto accademico se proclamate Roma capitale d'Italia: essa lo è, lo è stata sempre, è la città sacra il centro storico e naturale d'Italia. Ma se la vostra proclamazione vuol dire che si debba trasportare colà il centro del nostro Regno, noi non possiamo che andare incontro ad un urto inevitabile. Ora sa doveste retrocedere, il Regno sarebbe perduto; se v'inoltrate il pericolo è troppo grave........... quale fu il risultato dei nostri sforzi? in fui meravigliato nel vederlo ridotto a tre documenti, a tre composizioni letterarie, a tre lettere particolari. Qual è il senso di tali documenti? Se mi permettete, lo ridurrò in una sola parola: che desideriamo andare a Roma al più presto possibile, che ci è indispensabile. Questo è buono per noi, ma per il Papa? Egli deve rinunziare a quanto possiede. -Ma che cosa avrà detto l'Imperatore del Francesi, leggendo questi documenti? in non parlo della personalità di Napoleone, ma del capo della Francia, di quella nazione la cui storia è grande come un concetto astratto, ed è a tutti nota. L'imperatore dei Francesi avrà detto: in Francia gli enciclopedisti hanno comincialo una lunga guerra contro il potere spirituale; ma dopo un mezzo secolo la guerra morale divenne materiale.

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Gli altari furono abbattuti, i sacerdoti carcerati, il cullo distrutto: la statua della Dea Ragione era eretta in tutte le cattedrali della Francia. Il popolo capi allora che il nuovo culto era tirannico, e poco dopo la statua della Ragione fu abbattuta. Furono erette le statue di un nuovo Carlo Magno, ma solo perché egli era l'Imperatore della libertà dei culti. Ora quale sarà stato il pensiero del discendente del nuovo Carlo Magno, leggendo i documenti del Regno d'Italia? Avrà egli fissalo il suo sguardo alla statua della Dea Ragione, o a quello dell'Imperatore Napoleone I.? …....... Ma a chi spella discutere gli atti interni della

Chiesa? Spetta a coloro che ne hanno il potere, a chi può fare le rivoluzioni della Chiesa, ai grandi pontefici, ai santi. Come un ministro d'Italia può usurpare la parte di un santo? La Chiesa. progredirà, in lo credo. La Chiesa professa i principii della libertà, non riconosce la proprietà assoluta, permette le rivoluzioni nella proprietà, purché fatte dai poteri costituiti da Dio......Voi dite che il dominio temporale della Chiesa è incompatibile col potere spirituale. Ma che ne sapete voi? Che ne sappiamo noi? Che ciò debba avverarsi, in lo credo, l'ho detto più volte, e lo ripeto, ma ora, coi poteri cosi costituiti, col nostro stesso statuto, come potete crederlo possibile? -Ci è poi una frase in quella nota che in non posso accettare:Noi non abbiamo né libera Chiesa, né libero Stato; e nessuno Stato europeo ha libera Chiesa e libero Stato. Libero Stato è quello che non ammette libera Chiesa, è quello che non paga i sacerdoti, che non ha sagramenti né Te uno stato inconcepibile. La Chiesa non fu libera che due volte, cioè a Roma nel medioevo, ed ai nostri giorni in America. Ma noi siamo in condizioni eccezionali nelle quali non possiamo parlare di libera Chiesa, né di libero Stato.

E dopo questo esame l'onorevole, deputato Ferrari cosi conchiude. Io vi prego d'imitare il Piemonte dal 1849 al 1859. Che fece il Piemonte dopo la battaglia di Novara? Il Piemonte tacque, ma ricominciò il suo lavoro in modo nuovo, sconosciuto dallo stesso Carlo Alberto. Esso disse: in voglio che queste Provincie siano cosi libere, così felici che tutti vogliono essere con loro. Ora siamo costituiti in 22 milioni, ma la guerra non è finita, anzi è appena alla metà.

Che cosa dunque dobbiamo fare?

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Dovete fare che questi 22 milioni siano così felici che tutti siano impazienti di essere con noi. Il conte di Cavour come un grand'uomo che proclama un principio nuovo sentì che un'era nuova si andava ad incominciare. Dopo l'annessione il Conte di Cavour proclamò il principio che il nostro Regno doveva dicentralizzarsi, udii poscia parlare di regioni, in non ne parlai ma tutti sentivano il bisogno d'un organizzazione stabile ed alta a far felici questi popoli, in modo che potessero attendere per alcuni anni ancora il gran giorno. Ma voi signori Ministri siete entrati in questa iniziativa per la felicità dei 22 milioni come per lo antico Piemonte?

Il Deputato Mussolini nei seguenti termini giudica i documenti in quistione.

Le comunicazioni fatte dal Governo relative alla quistione romana non mi hanno per nulla soddisfatto. - La politica seguita del governo in tale quistione è dannosissima all'Italia, perché la troppa fiducia nella Francia, fa troppo arrendevole ai di lei desiderii. Abbiamo perduto troppo tempo collocandoci in vane speranze,. in scongiuro la Camera in nome della Monarchia, in nome della salvezza d'Italia, ad emettere un voto decisivo in questo argomento. Il nostro amore con lo straniero, e particolarmente con Francia rassomigliano a quei babbioni i quali più amano le loro donne, quanto più sanno le infedeltà loro. Io vorrei mi si accennasse in quale anno la Francia fece del bene all'Italia!-Eppure si presentaron tante occasioni. Nell'89 strozzò le due repubbliche sorelle Genova e Venezia: nel'1804 la repubblica Cisalpina si ribattezzò in Regno d'Italia, ma le altre italiane rimasero smembrate: net 1820 scoppiò la rivoluzione a Napoli ed in Piemonte, e la Francia dà il suo voto all'Austria, perché venga a reprimere la rivoluzione: nel 1831 la rivoluzione di Parigi fa il suo controcolpo in Bologna, il governo di Luigi Filippo fa la spedizione di Ancona, e di concerto con gli Austriaci ristabilisce il caduto dominio temporale. Nel 1848 il glorioso Carlo Alberto discende in campo per redimere l'Italia. I francesi concentrano un corpo di osservazione sulle Alpi: fummo battuti ed i francesi non ci mossero, e perché?... Nel 1849 fu decisa la spedizione romana e la Francia schiacciò la repubblica sorella.

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-In somma la Francia ogni qual volta s'immischiò nelle nostre faccende lo fece con grandi paroloni, ma con pochi fatti. Se la Francia facesse i conti con noi oh! di quanto ci sarebbe debitrice. - Giunto finalmente il 59 l'Imperatore Napoleone ci diede la Lombardia perché servisse di base all'unità italiana! Voi, o signori, badale all'apparenza soltanto; non siamo noi che abbiamo guadagnato, il gabinetto delle Tuilleries fu quello che guadagnò noi. Noi abbiamo lavorato per lui, noi facemmo, e facciamo le sue spese. - La proclamazione del principio del non intervento fu soltanto per isolare tanta parte di terrene da giustificare la cessione di Nizza e Savoja. Ecco a che cosa in fine dei conti si ridusse l'alleanza tra noi ed il governo Francese. Da Villafranca in poi citatemi un fatto in cui la Francia abbia detto di si: sempre no, e poi no- Sentiamo il giudizio del Deputato Brofferio -............

In mezzo a questi disordini che fa il signor Ricasoli? Vuole andare a Roma. Ha armati? Viaggiano le compagnie raccoglitori di danaro di S. Pietro, s'odono dai pulpiti prediche contro l'Italia. Si vuole andare a Roma, ma a che fare? Per formare la capitale d'Italia? No! A baciare il piede del S. Padre piuttosto. Furono deposti documenti sulla quistione romana. Erano alti che dovevano inoltrarsi col mezzo del governo del nostro alleato. Che ha risposto la Francia? Non lo sappiamo. La lettera diretta al Papa che somiglia molto ad una dissertazione del padre Tosti che effetto produsse? Al del papa bisogna rispondere col cannone. - Con quel capitolato voi avrete fortificato il papa più di quello che ora lo è. Voi credete che il papa non vi tema! Siete in errore. Egli avrebbe potuto chiudervi i templi con una scomunica, ma non lo ha fatto. - Voi avreste voluto andare a Roma con un concordalo, nel quale si sagrificasse ogni nostra libertà. Dopo tanti sagrifizii che offriste al papa, quali ne chiedeste a lui? Nessuno. Anziché richiederlo d'una abdicazione assoluta, voi gli offrite di nominare commissioni, le quali decideranno. Se noi dovessimo perdere l'Italia, la nostra libertà, la nostra indipendenza per colpa del ministero, qual onta! L'Italia non è fatta, perché non è armata; non è fatta per l'antagonismo fra i suoi cittadini, non è fatta, perché non sappiamo che domandare la indipendenza dallo straniero.

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Il Deputato Mancini alla sua volta crede la quistione romana non potersi troncar con la spada, sebbene col trionfo della ragione e della pubblica opinione. Combatte le osservazioni che si fecero contro lo proposte del nostro gabinetto alla Corte di Roma. Nega che possono dirsi senza scopo, perché ora vennero accettate. Vie ne poscia a dimostrare diffusamente la formola, essere la vera soluzione del quesito politico. Si accordi la chiesa con lo stato egli conchiude, e questo potrà donare a quello tutte le sue libertà.

La possibile applicazione della formola fu anche sostenuta dal deputato d'Ondes Reggio.

Ascoltiamo in ultimo il Presidente della Camera signor Rattazzi.

La quistione romana non è che una quistione essenzialmente civile.

Roma appartiene all'Italia, è capitale d'Italia. Ciò fu proclamato dal parlamento, e già ben prima era deciso dalla coscienza d'ogni italiano.

La quistione è di tempo e di consiglio. Roma è capitale d'Italia, è naturalmente capitale d'Italia; ma sgraziatamente è tutelata dalla bandiera francese; Roma non potrà appartenere all'Italia finché non sia libera dalle truppe francesi. A nessuno di noi certo viene in mente di farla libera e sgombra dalle truppe francesi per la ragione che non possiamo rompere i vincoli di riconoscenza che ci stringono a quella nazione. - Ma deve essere eterna l'occupazione? Ma la Francia intende perpetuamente mantenere il conflitto di una nazione che vuol risorgere colla forza militare che gliela impedisce? - Ho l'interno convincimento, o signori, che il governo francese possa volere certamente la liberazione 'di Roma, che l'intenzione di quel governo sia che questo giorno non ritardi. - L'occupazione francese solleva il malcontento nel gran partito liberale francese, il quale soffre di malanimo che la sua bandiera impedisca all'Italia la sua ricostituzione, nel partito retrivo, perché non pago egli di questa temporanea protezione, vorrebbe che le truppe restituissero alla santa sede il suo territorio; non soddisfa al santo Padre, perché egli accetta diffidente la protezione della Francia, anzi vedrebbe più volentieri che uscisse dai suoi stati. É singolare che egli fu difeso nella sua capitale della Francia ed abbandonato dall'Austria nel 59 accetti gli ordini che gli vengono da Vienna, e disprezzi i consigli che gli vengono dal gabinetto francese.

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-Ma evvi un'altra ragione che mi persuade. Il governo francese ha interesse che cessi questo stato di cose. È evidente che non può essere costituita solidamente la nazione italiana senza Roma. Checché ne dice l'onorevole Mussolino, è vivissimo desiderio della Francia che questa nazione possa solidamente unirsi ed entro un breve termine costituirsi. Ciò lo desumo da due fatti- Dopo la pace di Villafranca il governo francese pareva volesse la confederazione, credeva che la confederazione fosse mezzo pronto per costituire l'Italia forte; ma dal momento che il governo francese sente che la confederazione avea la disapprovazione degl'italiani, e s'accorse che il voto era per l'Unità, non era certo il governo francese, saggio ed illuminato che volesse frapporsi, perché non avrebbe fatto che accrescere le difficoltà e rendere più difficile il consolidamento e la forza degl'italiani.

Dopo di avere accarezzato la confederazione, che facesse buon viso all'unità la prova in primo luogo la proclamazione del non intervento, e quindi il riconoscimento del regno d'Italia. É palese che se dopo la pace di Villafranca il governo francese avesse voluto opporsi all'unità nostra, poteva lasciare che l'Austria e le potenze che ci avversavano venissero ad impedircela. Avrebbe potuto fare come fecero tutti i governi che lo precedettero, e che pur si dissero liberali, o si univano essi a chi voleva soffogare le nostre aspirazioni, o almeno rimanevano indifferenti, e tolleravano che venivano a soffogarci gli altri. L'imperatore in vece ha non solo proclamato il non intervento, ma lo ha sostenuto e fatto rispettare. Se avesse avversato l'unità italiana, se avesse voluto che l'Italia fosse divisa e dipendente, che cosa lo costringeva a riconoscere il regno d'Italia? Ma la ricognizione ebbe luogo dopo che il Parlamento aveva proclamato che Roma apparteneva all'Italia, e che essa doveva essere la sua capitale.

Del resto son due le politiche che la Francia poteva seguire. - La tradizionale cioè quella di fare che l'Italia fosse serva e divisa onde esercitare su essa la influenzalo quella di farla forte e solidale per averla alleala quando le circostanze potessero far si che la nostra alleanza le fosse utile. Abbiamo la prima?

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Ma non avrebbe mandato le sue truppe a combattere a Magenta e Solferino. Dunque si appigliò ad averci alleati, ed è giusto perché questa alleanza ha solida radice negl'interessi comuni e nella solidarietà dei vincoli che congiungono queste due nazioni.

Ci crediamo in debito di non omettere neanche i giudizii della stampa estera sui documenti concernenti la quistione romana. E cominciamo da quello che ne da il, come il più notevole che ci sembri.

La lettera al papa ed il non uscirono ancora dal dominio delle semplici idee per entrare in quello della politica; ed il signor Ricasoli comunicando l'uno e l'altro al parlamento di Torino è ridotto a darli come una pruova, non tanto di quello che fece, quanto di quello che avrebbe voluto Care. Non è men vero che la lettura di questi documenti produrrà viva impressione. Questa singolare circostanza che i progetti del signor Ricasoli non possono ottenere alcun immediato risultamento, non toglie nulla dei loro interesse. Non sappiamo anzi se essa non vi aggiunga qualche cosa. È la prima volta, in fatti, che si vede un problema, del quale il mondo attende ansiosamente la soluzione,. rimanere cosi a lungo in sospeso, ed il ministro di un grande stato costituzionale costretto a deporre, a titolo di documento in appoggio, non già veri dispacci diplomatici, messi al corrente della vita, e circolanti nel corpo politico, ma dispacci in certo modo ideali che portano l'indrizzo di una persona reale, trattano la più urgente delle quistioni, indicano una soluzione positiva, ma però non uscirono dal portafoglio del ministero, ove non furono scritti che per passare sul banco di una Camera, ove non si farà che commentarli, come potrebbero fare alcuni filosofi speculativi intorno ad un capitolo dello spirito

D'altra parte se il dispaccio al papa è condannato a restare, almeno al presente, nello stato di memoria da consultare, e se, per aver veduto chiudersi la via della Cancelleria romana, tanto diretta, quanto indiretta, divenne in vece un manifesto al popolo italiano, esso muta bensì di carattere, ma non perde d'importanza. Dal linguaggio del signor Ricasoli si desume ohe non è un ambizione gratuita quella che spinge l'Italia quale fu costituita degli avvenimenti

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a guardare senza posa dal lato di Roma, ed il gabinetto italiano a reclamare il possesso della città eterna. Se il Re Vittorio Emanuele conoscesse il modo di far senza di Roma, possedendo il resto dell'Italia, è a credersi ch'egli si rassegnerebbe a porre la sua capitale p. e. a Spoleto o a Perugia, anziché prendersi la briga di trattare con tutto il mondo per ottenere il permesso di stabilirsi a piede dei selle colli. Ecco quanto si rileva dai dispacci del signor Ricasoli. Tale è la situazione piena di pericoli ch'essi tendono a dimostrare.

Anche i giornali inglesi fanno i loro commenti sugli stessi documenti. Il dice essere possibile che gl'Italiani non abbiano molta ragione di dolersi del rifiuto della Corte romana, ma anzi congratularsi ch'essa non abbia accettato un così ampio sagrifizio delle prerogative, e dei dritti reali, quale non fu mai chiesto alla sede romana, né a lei offerto pei momenti di maggiore potenza. I consiglieri del re d'Italia mostrarono abbastanza il loro desiderio di accordare al papato guarentigie per il libero esercizio delle sue spirituali funzioni, molti più importanti di quelle ch'esso possiede ora, ad onta della presenza del corso di occupazione dei francesi nella città dei Cesari. Del resto l'accettazione da parte della corta romana sarebbe stata una disgrazia per il popolo italiano; poiché non sarebbe corso molto tempo, senza che si rinnovasse la lolla fra la Chiesa, e lo stato.

Il loda assai la franchezza con la quale il ministro Rica soli confessa al mondo ed alla Chiesa che l'Italia non si acquieterà e non farà pace col potere ecclesiastico che a patto di aver Roma per capitale. Qui non è possibile un equivoco. Non si propone né Roma città libera sotto il governo papale, né il Valicano coll'orto. Un poco alla volta, tutti del resto si persuaderanno che il Pontefice non potrà governare in pace la Chiesa finché egli non abbia ceduto la sua posizione dell'Italia centrale. Le condizioni che gli si offrono saranno umilianti per il Papa come principe, ma non come vescovo cristiano e non dovrebbe esitare ad accettarle.

Qual sarà il nostro giudizio sui documenti presentati dal Barone Ricasoli?

La costituzione del principio di nazionalità in Italia si rende assai più difficile che ogni altra questione analoga presso qualsiasi altra nazione di Europa.

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Ciò perché una soluzione di tal fatta non si può ottenere in Italia senza una riforma del papato; ed il papato così qual esso si trova, oltre che poggia sulle coscienze di dugento milioni di cattolici, non può non esser sostenuto da bajonette straniere. Quando non fosse la Francia, com'oggi, che si facesse a sostenere il papato, non mancherebbe certo una Potenza in Europa che assumesse il compito stesso.

L'Italia quindi per costituirsi in nazionalità si troverà in ogni caso di fronte e 200 milioni di cattolici ed un esercito straniero. né si dica che l'elemento cattolico trovasi affievolito nella sua potenza, e circoscritto nel suo impero, non si dica che le coscienze del nostro tempo abbastanza illuminate non più valutano granfatto il papato, che vannosi tuttodì spogliando dei pregiudizii religiosi, e tendono verso una religione più razionale, non si dica tutto ciò, poiché dall'89 fin oggi gl'Italiani lavorarono per una riforma politica, che nulla mai fecero per una riforma religiosa. Gli stessi grandi patrioti italiani non si vollero spingere tant'oltre temendo di turbar le coscienze, e con le riforme religiose gittare il discredito sulle riforme politiche ed alienarne le masse. Si progredì dunque nell'opposizione politica, ma nella religione non si fece un sol passo; e quindi nel momento in cui la riforma politica dovea connubiarsi con la religione, allora si son respinte a vicenda, e l'umanità si è arrestata.

Se in Italia avesse luogo una rivoluzione solenne, completa, sociale, violenta, eminentemente riformatrice, il papato allora si avrebbe potuto sottomettere alla legge del progresso umanitario, e le coscienze delicate intimorite dalla esplosione, e dalla virulenza rivoluzionaria avrebbero taciuto, dissimulato almeno, e col tempo avrebbero dovuto di necessità rassegnarsi al nuovo ordine di cose. La riforma si sarebbe imposta in questo caso, non ottenuta con la convinzione, e col trionfo del principio, ed il cattolicismo non avrebbe mai potuto organarsi con una reazione compatta a segno da rovesciare il regime novellamente stabilito. Ma tutto ciò non è avvenuto, perché l'Italia non ha avuto rivoluzione: qui non fuvvi che un tentativo di rivoluzione, una iniziativa rivoluzionaria. Qui non vediamo che un governo, il quale volte estendersi suoi dominii, istigando i popoli a dargliene l'occasione.

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Qui fu il potere monarchico che giacente da un canto su morbide piume volte voltarsi dall'altro canto, ove trovavasi assai più comodo, e continuare tranquillamente il suo riposo. Disse ai popoli: ajutatemi a collocarmi in una posizione più agiata, e ciò fatto ha soggiunto: ora lasciatemi tranquillo, ritornate ai vostri antichi casi, rassegnatevi, o farò un appello alle mie bajonette. Cosi il disinganno pria ed il torpore poscia hanno invaso l'Italia, ed il papato si è adagiato e fatto forte sul disinganno, e sul torpore.

In tale stato di cose si grida a Roma, si vuol Roma in ogni conto, se ne vede la necessità, ed il Ministro Ricasoli vede tutta la responsabilità che pesa su di lui per simile fatto. Ma come fare? L'esercito francese è là, a piedi dei Sette Colli: il papa fulmina, e dice: guai a chi mi tocca. Che rimaneva a fare al Barone Ricasoli in tale stato di cose? Non altro al certo che un tentativo cosi come le circostanze comportavano, un tentativo quale poteasi avventurare innanzi ad un papa ostinato, non men che irritalo, concedergli tutto, settomettersi a tutto, ma così e non altrimenti poteasi sperare qualche cosa. Erano a tale le cose che delle pretensioni più avanzate sarebbero state non che inutili, ma sempreppiù irritanti. Ma che cosa ci avremmo noi guadagnato? Il traslocamento della Monarchia a Roma; il tempo avrebbe pensato al resto, e non era poco nelle circostanze in cui l'Italia si trovava. Ma era conceder troppo, era una conciliazione per la nazionalità italiana. Ma che cosa potevasi fare di meglio frammezzo ai tanti ostacoli in cui trovavasi costituita l'Italia? Se il papa avesse accettato quelle condizioni per quanto umilianti per la nazionalità italiana, il centro del Regno d'Italia si sarebbe costituito a Roma, il Parlamento, il trono sarebbesi trasferito a Roma, e ciò era già troppo, ciò avrebbe abbastanza calmate le irritazioni, soddisfatte le generali aspirazioni.

Quindi se si considerano le circostanze in cui fu fatto il Capitolato dal Barone Ricasoli, e l'effetto che alla peggior lettura avrebbe potuto produrre, si vedrà che esso non è tanto ridevole quanto a primo aspetto si è giudicato.








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