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CRONACA
DELLA
GUERRA D'ITALIA
1861-1862
PARTE QUARTA

RIETI
TIPOGRAFIA TRINCHI
1862

02

(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)

Alcuni fra questi dispacci risguardano l'assedio di Gaeta e la presenza delle navi francesi in quelle acque. Le pratiche fatte dall'Inghilterra per indurre la Francia a richiamare la sua dotta, e Francesco II a lasciare quella fortezza, appaiono assai bene dai seguenti dispacci:

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Lord John Russell al conte Cowley

Foreign Office, 13 dicembre 1860

Milord. Quando l'Imperatore dei Francesi inviò l'ordine al suo ammiraglio a Napoli d'impedire il bombardamento di Gaeta dalla parte della squadra sarda,

il governo della regina domandò se quell'ordine mirava alla protezione personale del re delle Due Sicilie, o se dovevasi riguardare come intervenzione armata nella guerra fra il re di Sardegna e il re delle Due Sicilie.

La risposta fu pronta e decisiva. L'ordine spedito all'ammiraglio francese non era inteso che alla protezione personale del re, e della famiglia reale di Napoli.

Ma il re, ora rinserrato in Gaeta, ha in più modi manifestato apertamente la determinazione di difendersi fino agli estremi. E' non vuol accogliere offerta alcuna di ritirarsi, ma confida nella forza della sua posizione per protrarre la guerra civile nel regno di Napoli, e si crede a ciò incoraggiato dalla protezione francese.

Desidero che voi facciate notare al sig. Thouvenel come il generoso disegno dell'Imperatore sia stato pervertito, come siasi fatto abuso del suo nome per propositi ch'egli non può sancire. Il re di Napoli ha la via aperta per ritirarsi; perché non lo fa?

Secondo il parere del governo della regina, l'Imperatore dei Francesi dovrebbe, non solo consigliare il re di lasciare Gaeta, ma porre un termine al suo ingerimento. La sua autorità non dovrebbe coprire gli sforzi inutili e l'effusione gratuita di sangue umano che ora avviene intorno a Gaeta.

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II Conte Cowley a lord John Russell.

Parigi 47 dicembre 1860

Secondo l'istruzione contenuta nel dispaccio di V. S. del 13 corrente, ho letto il medesimo al sig. Thouvenel, soggiungendo, essere opinione del governo della regina che il governo francese dovrebbe consigliare Francesco II a lasciare Gaeta, e chiamare la sua squadra che ora tien gettate le ancore nelle acque di quella fortezza.

Lord John Russell al conte Cowley

Foreign Office, 22 dicembre.

Quando il conte Ludolf mi disse che l'Imperatore aveva assicurato il suo re che l'ammiraglio francese aveva ordine di proteggere la sua posizione a Gaeta e che l'aveva in pari tempo consigliato a lasciar quel luogo, io gli diedi la seguente risposta:

Dissi che il governo della regina, non avendo dato alcun aiuto al suo signore, non aveva diritto di consigliarlo; che ciascuno ammirava lo spirito con cui il re aveva diffuso in questi ultimi giorni la dignità della corona da lui ereditata e dell'esercito da lui comandato, ma soggiunsi che s'appressava il tempo in cui le esigenze dell'onore sarebbero rimaste soddisfatte, e in cui una difesa protratta non sarebbe cagione che di stragi inumane ed inutili; che non stava in noi di dire quando questo momento sarebbe giunto, o se non fosse già venuto; che questa era cosa da

247

Questo è, come vedete, il vero linguaggio del non intervento negli affari d'Italia: e questa è la politica che il governo della regina ha costantemente mantenuto.

Lord John Russell al conte Cowley

Foreign Office, 24 dicembre

Milord. 1l governo della regina confida aver quanto prima l'annunzio che la flotta francese ha lasciato Gaeta. Dopo la recente proclamazione del re Francesco la flotta non rimarebbe colà che facendo atto d'intervenzione nella guerra fra il re Vittorio Emanuele e il re Francesco II.

Ma se fosse stato conforme alla politica pubblicamente annunziata dall'Imperatore de' Francesi lo intervenire a favore del re delle Due Sicilie, tale intervenzione avrebbe dovuto farsi sul principio del conflitto fra il campione dell'unità italiana e U truppe del re Francesco.

Se l'Imperatore dei Francesi avesse adoperate le sue forze per sostenere il re di Napoli sul trono ereditato dal padre, la sua condotta sarebbe stata assai biasimevole, ma pure intelligibile, ed avrebbe forse avuto buona riuscita. Ma che l'Imperatore siasi tenuto appartato, mentre che la Sicilia e mentre che il continente napolitano andavano perduti pel re Francesco II: e all'undecima ora poi si faccia innanzi per dare un tardo ed inefficace aiuto, onde si difenda per poche settimane ancora ed a costo del sangue e delle vite umane e dei tesori pur anco, un promontorio sul margine de suoi antichi dominii: è un atto cotesto che non sembra potersi conciliare colla condotta che dee guidare il monarca d'una grande potenza.

248

Ma nel ritirare la sua flotta, l'Imperatore mostrerà che sebbene abbia alquanto pervertita la sua politica a fin di salvare la dignità d'un sovrano immiserito, e non intese mai contrastare al mezzogiorno d'Italia quella libertà d'azione che ha tanto potantemente patrocinata nel settentrione.

Sono, ce.

J. RUSSELL.

AFFARI DELL'ITALIA MERIDIONALE.

Il barone di Talleyrand al ministro degli affari esteri

Torino, 7 maggio 1860.

Essendo stato incaricato da V. E. di denunciare al governo del re la spedizione che preparavasi impunemente a Genova e a Livorno, mi sono creduto in dovere di significarvi l'impressione che mi cagionarono le circostanze nelle quali è avvenuta la sua partenza.

Ho passato in conseguenza al conte di Cavour la nota confidenziale di cui V. E. troverà qui unita la copia.

Devo aggiungere per essere imparziale, che i miei colleghi inclinano a pensare, che il conte Cavour avrebbe fatto a Genova un esperienza pericolosa impegnando una lotta seria per impedire la partenza dei volontarii. Quale che ne fosse stato l'esito, egli sarebbe probabilmente caduto in conseguenza della contrarietà, che quest'atto avrebbe destato; poiché è incontrastabile,

TALLEYRAND

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Il barone di Talleyrand al conte di Cavour

Torino 7 maggio 1860

Signor conte. V

engo più con dolore che con maraviglia a sapere, per informazioni giuntemi dal console generale di Francia a Genova, che una spedizione composta di 1400 uomini s'è imbarcata nella notte dal 5 al 6 sopra due battelli a vapore sardi, il Piemonte e il Lombardo.

Questa spedizione si dirige nella Sicilia, e assicurasi che il generale Garibaldi ne fa parte.

Essendo stato in parecchie occasioni incaricato dal governo dell'imperatore di far conoscere al gabinetto di Torino le mene dei comitati veneti, romani e napoletani, e la completa libertà di azione che viene loro conceduta, io credo oggi, dinanzi a un fatto tanto grave quanto è quello che mi si denuncia, di dovere innanzi tutto porre la mia responsabilità al coperto da qualunque rimprovero;

io dichiaro quindi che, se il governo del re fu impotente a prevenire la spedizione, non gli mancarono né gli avvisi officiosi, né gli avvertimenti a tempo opportuno.

Alla fine di gennaio passato, fui invitato a chiamare la più seria attenzione di V. E. sulla necessità evidente, che c'era pel governo del re di opporsi nelle provincie lombarde alle mene e alle eccitazioni, che tendevano a far insorgere la Venezia contro l'ordine stabilito. Voi, signor conte, mi avete risposto, che se delle mene si facevano a questo fine, esse erano senza dubbio poco temibili per l'Austria, essendo che il governo sardo non ci prendeva parte a modo nessuno; che lo scopo dei comitati di emigrazione era piuttosto caritatevole, che politico; che si soccorrevano gli emigrati veneziani, come in altro tempo erano stati soccorsi dovunque i polacchi; che d'altronde il numero sempre crescente dei rifuggiti, vi aveva indotto a interessare i comitati 3 far si che, per quanto dipendeva da essi, l'emigrazione veneta non venisse continuamente crescendo.

250

Un mese dopo, vale a dire dopo la fine di marzo, io ebbi incarico di indicare a V. E. i fatti che si collegavano col tumulto di Roma, dai quali sembrava derivare che il governo del re dovesse prendere misure gravi, allo scopo di dimostrare che egli respingeva da se qualunque partecipazione alla propaganda rivoluzionaria Italiana; io ebbi in quel tempo la soddisfazione di di sentire Vostra Eccellenza e il signor Farini affermare, che il gabinetto di Torino sconfessava altamente tutto quello che si tentava nell'Italia centrale per farvi nascere il disordine e l'anarchia. Il governo dell'imperatore ha ricevuto con vivo piacere queste assicurazioni. Secondo la sua opinione, era nondimeno della più alta importanza pella Sardegna, non solamente di astenersi da qualunque misura minacciosa per la tranquillità degli altri Stati italiani, ma ancora di impedire in seguito le dimostrazioni dello stesso genere che si organizzassero sul suo territorio. E per questo ed in questo intendimento, che io fui ultimamente invitato ad intrattenere V. E. del cattivo effetto prodotto dalle bandiere volate che si videro all'entrata di S. M. Sarda a Firenze. Voi stesso, signor conte, avete qualificato questo avvenimento come spiacevole.

Dopo il 28 aprile ho prevenuto V. E. che una spedizione per la Sicilia si preparava a Livorno e a Genova, e in seguito non ho mancato di significarle i fatti, di cui ero stato informato, e che non lasciano dubbio alcuno sull'esistenza di una vasta congiura.

Parimenti ebbi l'onore di avvertirla che gli agenti del le compagnie dei vapori francesi a Livorno avevano dovuto in parecchie occasioni rifiutare il noleggio dei nostri bastimenti, che loro era stato dimandato con intenzione più che sospetta, come pure l'imbarco di parecchie bande d'individui notoriamente arruolati per prender parte ad un' impresa rivoluzionaria. Io vi nominai, signor conte, gli uomini incaricati di distribuire danaro e di dare le istruzioni. Vi ho pure indicato i nomi dei vapori sardi

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I ragguagli abbondarono adunque, io ripeto, e se essi non riuscirono a scuotere la soverchia confidenza del governo del re, questo è tanto più spiacevole, in quanto la perspicacia de' suoi agenti non venne meno allorché si e trattato d'arrestare alcuni subornatori pontificii.

Mille e quattrocento uomini arruolati apertamente in tutte le grandi città del regno potevano imbarcarsi impunemente a Genova con uno scopo ostile ad un governo che non è ora in guerra con alcuna delle potenze europee.

Questo fatto non ha sciaguratamente bisogno di commento per meritare la riprovazione generale, e le assicurazioni che V. E. mi diede indussero il governo dell'imperatore a credere che il gabinetto di Torino non vedrebbe con minor dispiacere di lui una impresa la quale può far revocare in dubbio la lealtà delle intenzioni del governo del re.

TALLEYRAND.

Qui, nel volume, è riferita una brevissima lettera del sig. Talleyrand, al ministro degli affari esteri, colla quale è accompagnata una copia della nota 18 maggio 1800, riferita nella Gazzetta Ufficiale del Regno,

tendente a sciogliere la responsabilità del governo dalla spedizione di Garibaldi.

Il ministro degli affari esteri

al sig. barone Brenier a Napoli

Parigi 8 giugno 1860.

Signor barone. La corrispondenza che m'avete fatto l'onore

252

Senza dissimularsi la poca probabilità di successo che presenta una interposizione di questa natura in presenza d'una insurrezione vittoriosa, il governo di S. M. non credette di dover dare un rifiuto,

dal momento che la corte delle Due Sicilie si mostrava disposta a fare le necessarie concessioni.

Tuttavia, non poteva essergli conveniente di prendere sopra di sé tutta la responsabilità di una tal pratica, e pose per prima condizione che essa farebbesi col concorso delle altre potenze ed avrebbe un carattere collettivo. In secondo luogo e in tutti i casi il governo di S. M. non potrebbe intendersi co suoi alleati se non in quanto la corte di Napoli accettasse le tre basi indicate nel mio dispaccio telegrafico del 5, vale a dire:

1. separazione della Sicilia, sotto un ramo della casa regnante di Napoli;

2. costituzione a Palermo ed a Napoli

3; patto d'alleanza tra Napoli la Sicilia e la Sardegna.

Finché le condizioni che ho indicate non sieno accettate, non esiste alcun principio o preliminare di mediazione, e voi non avete signor Barone, che a tenervi in una attitudine d'aspettativa, rinnovando all'occasione, come già avete fatto consigli d'umanità per impedire l'effusione del sangue od i disastri d'un bombardamento, cui nessuna necessità militare giustifica.

Vengo a sapere, col mezzo del vostro dispaccio telegrafico in data di ieri, che il re di Napoli invia a Parigi il signor de Martino, latore d'una lettera per l'Imperatore, e che prima di spiegarsi in proposito sulle tre basi la cui accettazione è la condizione preventiva delle nostre trattative, il governo napolitano aspetta di conoscere la risposta di S. M. Il sig. de Martino, che deve aver lasciato Roma questa mattina non tarderà ad arrivare ed io avrò cura di farvi conoscere senza indugio l'oggetto ed il risultato della missione ch'ei viene ad adempiere a Parigi, e che a mio parere non può modificare in alcun modo le risoluzioni del governo di S. M.

Avete ricevuto il mio dispaccio telegrafico di ieri; il quale Vi annuncia, in risposta alla vostra del 7, l'invio di tre vascelli nelle acque di Napoli, per assicurare al bisogno la sicurezza dei nostri nazionali.

253

Quando questo dispaccio vi giungerà, que' bastimenti il cui comando è affidato al viceammiraglio de Tinan, saranno senza dubbio pervenuti alla loro destinazione.

THOUVENEL

Il barone Brenier

al signor ministro degli affari esteri.

Napoli 26 giugno 1860

Signor ministro. Ho l'onore di trasmettere a V. E. il giornale ufficiale che contiene l'atto Sovrano con cui il re di Napoli fa conoscere la sua determinazione d'accordare a suoi popoli le concessioni ch'egli crede le più proprie a soddisfare alle esigenze della situazione. Allorquando il ministero sarà definitivamente costituito, i cinque articoli contenuti nell'atto sovrano riceveranno successivamente il loro sviluppo e la loro esecuzione. La formazione del gabinetto incontrò qualche difficoltà. Il potere reale, quale fu esercitato finora, eccita diffidenze sì grandi che poche persone osano affrontare la responsabilità cui trae seco questa grave situazione. La memoria degli avvenimenti del 1848 è ancor presente a tutti gli animi. L'arbitrario, le vessazioni esercitate dal governo da dodici anni, hanno gettato nella classe illuminata una diffidenza cui nulla può distruggere, e le persone stesse che accettano le nuove concessioni come un soddisfacimento inatteso ai loro voti, non consentono ad esporsi alle illusioni, alle persecuzioni che forse sa

BRENIER.

254

Lord John Russell al conte Cowley.

Foreign Office, 25 giugno 1860.

Milord. Rimetto a V. E. qui inchiusa copia del dispaccio del ministro degli esteri dell'Imperatore dei Francesi all'ambasciatore di S. M. a questa Corte. Questo dispaccio mi è stato consegnato dal signor Persigny il 22 corr.

In esso il signor Thouvenel dichiara essere giunto il tempo per la Francia di venire ad un accomodamento colle potenze d'Europa, affine di porre l'art. 92 del trattato di Vienna in armonia coll'art. 2. del trattato di Torino. Questo può essere fatto, secondo il sig. Thouvenel, in uno di questi Ire modi:

1. Per mezzo d'una Conferenza delle potenze che firmarono il trattato di Vienna;

2. Per mezzo d'uno scambio di note identiche, nelle quali la Francia assumerebbe e l'Europa riconoscerebbe che la Francia è tenuta verso l'Europa e la Svizzera da quelle stesse condizioni con cui la Sardegna aveva posseduto la Savoja;

3. Per mezzo d'un negoziato preliminare fra la Francia e la Svizzera a finn di determinare i loro diritti e doveri scambievoli.

Di questi tre modi il governo delle regina preferisce il primo. Questo è ciò che è stato domandato dalla Svizzera, la quale è la più interessata nella controversia, ed è quello che condurrà più agevolmente ad una discussione franca ed amichevole.

Il governo della regina accetta la proposta della Francia che l'oggetto della conferenza sia il riconciliare l'art. 92 del trattato di Vienna coll'art. 2. del trattato di Torino; che il luogo della conferenza sia Parigi,

e che la Svizzera e la Sardegna partecipino in queste deliberazioni.

Sono, ecc.

J. RUSSELL

255

Lord J. Russell a lord Loftus.

Foreign Office, 4 luglio 1860. (Estratto)

La pubblica attenzione in Venezia è stata attratta da un ordine del governo di Vienna, secondo il quale i documenti ufficiali riguardanti il Veneto sieno intitolati dal «Regno Lombardo-Veneto».

Tale ordine, se non fosse veramente dato dal governo austriaco, non sarebbe conforme colle stipulazioni del trattato di Zurigo; e siccome il governo della regina non può credere che il governo austriaco intenda dare ordini contrari a quelle stipulazioni, voi domanderete al conte Rechberg se l'ordine è stato trasmesso; ed in tal caso, quale sia il significato di «Regno Lombardo Veneto».

Lord J. Russell a lord Cowley.

Foreign Office, 5 luglio 1860.

Milord. Vostra Eccellenza desidererà sapere l'opinione del governo della regina riguardo al risultato pratico a cui può riuscire la Conferenza sulla Savoja.

Il governo della regina ha manifestato la sua opinione che la neutralità della Savoia fu stabilita nelf interesse dell'Europa e della Svizzera; che il trasferimento delle obbligazioni o servitù della Francia non darebbe all'Europa od alla Svizzera un equivalente per le stipolazioni contenute nell'art. 92 del trattato di Vienna; e che il solo equivalente efficace sarebbe l'estensione del territorio svizzero sulla sponda meridionale del lago della Ginevra.

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Il governo francese, d'altro lato, sostiene che quella parte di Savoia fu neutralizzata nel 1814 e 1815, solo nell'interesse del Piemonte; che la Francia, assumendo le obbligazioni della Sardegna, adempie agli obblighi delle potenze d'Europa contenute in quest'articolo e che non può consentire ad alcuno smembramento del territorio che essa ha acquistato col trattato di Torino.

Tali vedute opposte sarebbero in una Conferenza delle gran di potenze più che vuote, sarebbero come sorgente d'irritamento le cui acque tosto o tardi traboccherebbero.

Mentre che tale diverebbe la situazione d'Europa, quella della Svizzera diverebbe peggiore. Un senso di mal volere fra la Francia e la Svizzera sarebbe certo maggiormente pernicioso al più debole che al più forte. In pari tempo, sembra al governo della regina che il cambiamento prodotto sullo stato del possesso territoriale dal primo caso d'aggrandimento della Francia in Europa dal 1815, richiede una conferenza ed una franca discussione.

Se da tale discussione apparisse che niun accomodamento può farsi nella Conferenza, i rappresentanti delle potenze europee si potrebbero ritirare manifestando il desiderio che la Francia offra alla Svizzera ogni sicurtà, esclusa la cessione di territorio, che valga a calmare i suoi timori e a provvedere alla conservazione de buoni rapporti fra i due popoli. Nel caso che quattro o cinque settimane spese in negoziati avessero a condurre a tale risultato, la Conferenza potrebbe di nuovo adunarsi e, ricordando i termini dell'accomodamento, confermare solennemente le presenti guarentigie della neutralità e indipendenza della Svizzera.

257

Il governo della regina fa questa dichiarazione nella speranza e credenza che la Francia consideri come punto cardinale della

Sono ecc.

J. RUSSELL

Il conte Cowley a lord J. Russell.

Parigi 12 luglio.

Milord. Ho colto l'opportunità, mentre che ragionava in questo pomeriggio col sig. Thouvenel sugli affari d'Italia, di menzionare le voci che sono giunte fino al governo della regina, e delle quali fa allusione il dispaccio di V. S. del 10 corrente, che la cessione dell'isola di Sardegna all'Imperatore dei Francesi è preveduta in alcune contingenze; ma ho soggiunto che il governo della regina è convinto che queste dicerie sono senza ragione.

Il sig. Thouvenel ha detto che il governo della regina giustamente crede essere queste voci inesatte; poiché niente può essere più assurdo delle medesime. Egli può soltanto conghietturare che tali dicerie erano derivate da un' elezione a Sassari, ove il deputato eletto, un Siciliano di nascita, era stato indotto ad accettare l'incarico, dicendoglisi che se non era eletto egli, lo sarebbe stato Napoleone.

Niente può essere più fermo che il modo come il Sig. Thouvenel ha ripudiato ogni disegno della Francia sulla Sardegna.

258

Ha

Ho ecc.

COWLEV.

Il conte Cowley a lord John Russell.

Parigi 12 luglio 1860.

In un colloquio oggi avuto col sig. Thouvenel, S. E. è tornato sullo stato delle relazioni tra la Sardegna e Napoli. S. E. ha detto ch'egli ha udito dal sig. di Persigny che V. E. concorre nell'idea di dover far tentativi per conseguire una tregua in Sicilia, confinando le parti contendenti a certi luoghi, i quali potrebbero essere Messina o Siracusa per le truppe regie, e Palermo e Catania per lo forze di Garibaldi e che V. S. credeva che le parti non occupate dovrebbero essere collocate sotto un governo provvisorio, composto di Siciliani.

Il sig. Thouvenel ha detto che potrebbevi essere qualche difficoltà nel formare un governo provvisorio e che il fine principale e solo dovrebbe esser la tregua. Egli ha ripetuto che se l'offerta della Sicilia alla Sardegna fosso fatta da una parte ed accettata dall'altra, le cose non rimarrebbero così. Il possesso della Sicilia per parte della Sardegna ispirerebbe il desiderio e quindi il tentativo di aggregare il continente napoletano. Le Marche sarebbero poi l'altro punto d'assalto e finalmente le fortezze dell'Austria nella Venezia verrebbero assalite.

Egli non sa come il governo della regina vedrebbe un movimento aggressivo contro

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Il signor Thouvenel spera che V. S. terrà conto della posizione differente dei due governi. E forse cosa di poco momento pel governo della regina quello che può dirsi l'opinione delle potenze continentali rispetto alla Sardegna; ma la Francia non può riguardare quest'opinione con indifferenza. Egli non intende perciò dire che la Francia, per rispetto di queste potenze, voglia in alcun modo intervenire colle armi; ma non può rifiutarsi ad adoperare quell'influenza che può avere a Torino per indurre il governo sardo ad entrare in una discussione franca ed amichevole col governo napoletano, onde comporre gli affari d'Italia su basi liberali e costituzionali.

Il sig. Thouvenel ha poi detto ch'egli teme che le sue rimostranze a Torino non avranno alcun effetto se non saranno cordialmente secondate dal governo della regina. Tutto quel che desidera si è che il governo sardo acconsenta ad aprir negoziati con Napoli con giusto e liberale intendimento. Forse tali negoziati non sortiranno alcun effetto. ma sarà, egli dice, una soddisfazione per P Europa che siasi fatto un tentativo.

Lord John Russell a lord Cowley

Foreign Office, 14 luglio 1860.

Milord. L'ambasciatore francese venne ieri al foreign-office e mi consegnò un dispaccio del signor Thouvenel, in cui si mostra al governo della regina l'opportunità di raccomandare al governo di Torino una tregua in Sicilia, onde venire ad un accomodamento fra la Sardegna e Napoli. Il conte di Persigny fece poi notare il grave pericolo che corrono i Siciliani da un assalto delle truppe regolari napoletane condotte fuori di Messina da un destro generale, e il biasimo che incorre agli occhi dell'Europa il governo sardo, lasciando continuamente partire spedizioni

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dalle vicinanze di Livorno e di Genova, contro il diritto delle nazioni, e violando le relazioni di pace e di amicizia fra la Sardegna e Napoli. Il signor Thouvenel allude particolarmente alle rimostranze fatte dalla Prussia a questo riguardo.

Io gli ho detto, che il governo della regina concorda nelle osservazioni fatte; e purché il re di Sardegna sia lasciato libero di soccorrere la Sicilia, nel caso che la tregua non terminasse colla pace, il governo della regina giudica che Cavour dovrebbe convenire nell'armistizio proposto. Gli ho poi mostrato un telegramma inviato a Torino e la risposta avutane. Questi telegrammi sono del seguente tenore: S. E. avendomi detto che il suo governo crede non potersi sperare al presente un accordo completo fra il re di Sardegna e il re di Napoli riguardo alla sorte della Sicilia, il governo francese è di parere che una tregua indeterminata quanto al tempo, dovrebb'essere, se è possibile, conchiusa fra il re di Napoli e Garibaldi.

In seguito di che io ho osservato a sir John Hudson che il governo della regina vedrebbe volentieri questa tregua effettuata, sempre a condiziono che siavi una guarentigia sufficiente; che se in avvenire si facesse un tentativo dal re di Napoli, d'imporre colla forza un governo sulla Sicilia, il re di Sardegna sia libero di operare come il caso gli suggerirà. La tregua potrebbe provvedere che le forze napolitane ritengano la loro presente posizione, e Garibaldi continui ad occupare Palermo e Catania; il rimanente dell'isola sia lasciato in mano dei Siciliani.

Il conte di Cavour disse in risposta a sir John Hudson, che il governo sardo non ha alcuna influenza sul generale Garibaldi il quale ha ordinato al sig La Farina di lasciare la Sicilia. Secondo il mio parere, finché Messina è nelle mani dei Napoletani sarebbe senza speranza di riuscita ogni proposta di tregua fatta al generale Garibaldi.

Ho chiuso il mio colloquio al conte di Persigny dicendo che dopo tale risposta noi non vediamo qual cosa possa farsi.

Sono ecc.

JOHN RUSSELL

261

Lord Loftus a lord J. Russell.

Vienna 12 luglio 1860

Milord. Rispetto al dispaccio di V. S. del 4 corrente, in cui si domanda il significato del titolo «Regno Lombardo-Veneto» usato dalle autorità imperiali per ordine del governo di Vienna, ho l'onore di ragguagliare V. S. che il conte Recherg, in risposta alla sua. domanda, ha detto che, nei negoziati di Zurigo, fu agitata la quistione del titolo, ma non essendosi venuto ad alcun accordo si era creduto meglio lasciare la cosa indecisa, ciascuna parte rimanendo libera d'usare o d'assumere quel titolo che credeva.

Sua Ecc. ha osservato che il ducato di Mantova, il territorio di oltrepò, e Peschiera sono tutte parti di Lombardia e non furono mai comprese nella Venezia. Perciò il titolo di «Regno Lombardo-Veneto» era valido e ragionevole, S. Ecc. ha inoltre osservato che la popolazione di Mantova non desidera punto essere considerata come appartenente soltanto alla Venezia.

Sono ecc.

AUGUSTO LOFTUS

Il conte di Persigny al ministro degli affari esteri:

262

Londra, 30 giugno 1860.

Signor ministro, il primo segretario di stato, che io aveva disegno di visitare oggi, mi ha fatto pregare di recarmi da lui per parlarmi degli affari di Italia. Egli mi chiese sulle prime se io conoscessi i consigli dati dall'Imperatore al re di Napoli.

Risposi, che tutto quello che io sapeva si riduceva, come gli aveva già detto, a questo, che la Francia non potendo più intervenire tra i due Stati, il re di Napoli doveva tentare di mettersi d'accordo col re di Sardegna per pacificare l'Italia e per procedere d'accordo nella via di un governo nazionale. Ho aggiunto che qualsiasi conciliazione mi sembrava ben difficile fino a tanto che non si fosse fatto o in un senso o nell'altro un passo più decisivo. Lord John Russell rispose che tuttavolta sarebbe desiderabile che si potesse combinare una tregua per sospendere le ostilità, per dar tempo di formolare lo proposte e per calmare gli animi. Come potete crederlo, io approvai caldamente queste idee, ed essendomene congratulato con lui, lord John Russell rispose che al postutto sarebbe ben più vantaggioso per tutti quanti che l'Italia formasse due Stati amici e congiunti da un interesse comune, anzi che correre dietro ad una unità forse impossibile ad ottenere, e la conseguenza più inevitabile della quale sarebbe di condurre immediatamente ad una nuova guerra contro l'Austria.

Ho fatto nuovamente le mie congratulazioni con lord John Russell per queste sue saggie disposizioni, e gli ho fatto osservare in conferma di queste sue opinioni il vantaggio che si avrebbe dell'evitare, mediante una riconciliazione dei due sovrani, le complicazioni che petevano sorgere dal malcontento delle potenze del nord, in presenza dei fatti contrarii al diritto della genti che avvengono presentemente in Italia.

Firmato F. DE PERSIGNY.

263

Il barone di Talleyrand al ministro degli affari esteri.

Torino 30 giugno 1860

Signor ministro. Io non ho celato al conte di Cavour il giudizio pronunciato da V. E. sull'attegiamento ch'egli aveva assunto. Gli ho detto che agli occhi nostri ne risultava provata l'impotenza sua a dirigere e perfino a contenere gli avvenimenti; che il perseverare su quella via era lo stesso come mettere il governo del Re in conflitto colle potenze le quali fino ad ora gli avevano dato prove di benevolenza; finalmente che le determinazioni prese dal governo napoletano gli fornivano occasione a modificare il suo atteggiamento facendo conoscere senza ambiguità i sentimenti dai quali il gabinetto viene animalo.

Il signor di Cavour mi rispose: Confesso che gli avvenimenti progredirono con tale rapidità che in parte venni preso alla sprovvista. Nullameno telegrafai immediatamente al signor Villamarina perché col governo napolitano si tenesse sul piede di un certo riserbo benevolo, in atteggiamento di ascoltare senza respingere le trattative che gli verrebbero fatte relativamente all'accordo da stabilirsi tra i due gabinetti. All'indomani gli scrissi che vi avevano tre punti sui quali lo pregava di richiamare particolarmente l'attenzione del governo napolitano.

«Anzi tutto, non v'ha alleanza possibile, probabile accordo, sinché durerà la guerra civile. Bisogna dunque, anzi tutto, terminare gli affari di Sicilia, senza una più grande effusione di sangue. Non possiamo essere alleati del re, se non che il giorno in cui non tirerà più il cannone conico i Siciliani.

» In secondo luogo, senza voler prescrivere al re l'atteggiamento che gli converrà prendere di fronte all'Austria, abbiamo qualche diritto di chiedere che ci accordi una parte dell'intimità ch'esso riservava esclusivamente ai nostri vicini. Noi stessi non siamo disgustati con l'Austria, non desideriamo una rottura, ma se non altro un po' meno d'intimità.


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264

In terzo luogo crediamo necessario di avvisare ai mezzi di porci di fronte

«Questi tre punti devono formare l'oggetto delle nostre trattative. Siamo disposti ad ascoltar tutto e volentieri. Ma non posso nascondervi la poca confidenza che ispireranno le nuove disposizioni della corte di Napoli, sinché non saranno garantite dai fatti. É urgente far riconoscere la confidenza tra il popolo ed il sovrano, poiché senza reciproca confidenza non è possibile l'esistenza di un governo costituzionale. Quanto a noi non chiediamo al re una politica più nazionale che libera, e sotto questo punto di vista gli resta di soddisfare a tutti.

«Firmato: TALLEYRAND.

Il barone di Talleyrand al signor ministro degli affari esteri.

Torino 9 luglio 1860.

Signor ministro. V. E. mi spedì per telegrafo l'ordino di appoggiare presso il governo sardo le proposizioni che il nuovo gabinetto napolitano aveva incaricato il suo invialo a Torino di presentare al conte di Cavour. Benché i miei tre ultimi telegrammi vi abbiano fatto conoscere i risultati dell'azione che fui chiamato ad esercitare, non credo fuori di proposito entrare in qualche particolare sui miei recenti abboccamenti col presidente del consiglio.

Tosto dopo che ricevetti il dispaccio di V. E. volli assicurarmi se il commendatore Canofari avesse portato a conoscenza del gabinetto sardo le domande del suo governo, e seppi che aveva diffatti sollecitato vivamente l'intervento del Re presso Garibaldi. Tuttavolta si ammetteva che la importanza dello scopo poteva giustificare l'irregolarità del mezzo.

265

Fu dunque spedito immediatamente un ufficiale al Re che cacciata sulle alture del Tanaro, onde pregarlo a tornare prontamente a Torino.

Durante i tre giorni che scorsero sino al ritorno di S. M. , le disposizioni dei ministri subirono una notevole modificazione, sotto le dimostrazioni della stampa e delle recrudescenze della pubblica antipatia.

«Il re mi disse il sig. di Cavour quando lo rividi, ci diede in consiglio la sua risposta. S. M. non crede poter esercitare una grande autorità sul generale Garibaldi, che si mostrava già poco disciplinato quando era legato al re per giuramento e pel suo grado nell'esercito. Oggi egli opera solo e per lui stesso.

«Tuttavolta S. M, , benché più abituato ai campi di battaglia che a quelli della diplomazia, non si rifiuta a comparirvi. Ma non sarà disposto a farlo e ad incaricare una persona di confidenza d'un messaggio per il dittatore, senonché sotto una espressa e preventiva condizione: il re di Napoli s'impegnerebbe, quale esser debba il risultato delle negoziazioni, a non «riprendere le ostilità; in una parola, non] più imporre ai Siciliani uno scioglimento colla forza delle armi. Diedi conoscenza a lord John Russell della condizione posta dal Re, e mi fece rispondere che la trovava moderata.»

Non potrei trattenermi dal dire, signor ministro, che fui lontano dal dividere questo giudizio; che secondo il mio modo di federe, chiedere oggi al re di Napoli una rinuncia al ricupero della Sicilia colla forza delle armi, era un esigere che il re firmasse l'abdicazione a cui dovevano tendere le negozazioni, quindi pregiudicarle ed isterilirle, poiché lo scopo principale era di già raggiunto. Che d'altronde il re era posto di fronte ad una rivoluzione più straniera che nazionale, e che poteva rifiutare a Garibaldi ciò che poteva accordare ai Siciliani.

La posizione che si voleva prendere mancava di equità, ed io non poteva prendere la risposta che mi veniva data, se non come un mezzo termine per nulla ricevere.

«Ma, soggiunse il sig. di Cavour tutto in favore del re di Napoli. d'altronde perché non negoziare durante le ostilità?

266

Per la semplicissima ragione, io replicai, che le ostilità devono condurre inevitabil

Fui tosto convinto, sig. ministro, dell'inutilità di continuare una controversia, che evidentemente deve rimanere senza risultato.

Il ministro di Napoli ha quindi, in una nota officiale, formolate le proposizioni del suo governo.

Il signor di Cavour rispose per iscritto con termini identici a quelli che usò con me. Assicurò inoltre il sig. Canofari, che gl'inviati di S. M. napoletana che devono recarsi a Torino, sarebbero ricevuti con tutti quei riguardi imposti dall'importanza della missione loro, e che il governo sardo veglierebbe con cura a che gl'insorti di Sicilia non ricevano rinforzi.

Firmato TALLEYRAND.

Il barone di Talleyrand al sig. ministro degli affari esteri.

Torino 16 luglio 1860

Signor ministro, l'ultima spedizione che voi mi avete fatto l'onore di dirigermi mi giunse il 14. Stabilii senza ritardo l'abboccamento col sig. conte di Cavour per comunicargli il nuovo giudizio di V. S. sulle gravi questioni che si dibattono in Italia.

Gli mostrai come prossimo prezzo della sua insistenza nella linea di condotta adottato verso il re di Napoli, la rottura imminente delle relazioni diplomatiche tra la Sardegna e le corti di Prussia e di Russia: l'indipendenza stessa d'Italia messa in pericolo da una politica riprovata dalla nostra coscienza e rettitudine, la guerra europea infine, risultante dalla rivoluzione italiana e che doveva trascinare la Francia a mettersi là ove la chiamerebbero i suoi interessi e non più quelli di Re Vittorio Emanuele.

267

Il conte di Cavour, signor ministro, mi porse ascolto commosso. «Se noi facessimo quello che ci si domanda, mi disse, ci getterebbero dalle finestre. Non potrebbe coprirci la popolarità del re stesso. Nessuno in Italia potrebbe consigliarmelo, perché nessuno crede al re di Napoli. Egli farà quello che i fece suo padre e suo avo. Le situazioni sono identiche e l'esperienza è là per dirci quello che sarà l'avvenire. Immensi, Sodo i pericoli e le difficoltà. Non è una delle posizioni le più i difficili in cui mi sia trovato; ma anzi conosco che è la più difficile.»

Dissi al signor di Cavour che per il momento ci limitiamo a consigliare uno spirito di serio esame, un desiderio d'accordo nella negoziazione che stava per aprirsi; che domandiamo di favorire l'armistizio e di non iscoraggiare sin da principio gli inviati napoletani con pretese inammissibili per la Sicilia, abbandonando un poco agli avvenimenti l'assestamento ulteriore delle difficoltà della soluzione: «Mio Dio! mi rispose il signor di Cavour, noi «siamo gente seria che desideriamo intenderci e non respingere. «Noi ascolteremo e risponderemo dopo a quello che ci verrà detto. Noi non vogliamo per nulla precipitare, e può darsi che i signori Manna e Winspeare mi dicano cose tali che mi facciano cambiar d'avviso. In ogni caso gli inviati saranno ricevuti coi dovuti riguardi.»

Due giorni più tardi, rividi il signor di Cavour. Parvemi ammettesse che la quistione di Sicilia non doveva impedire che le trattative si aprissero sui punti riguardanti il regno di Napoli io particolare. Mi disse che forse si potrebbe trovare una redazione che permettesse di appoggiare l'armistizio, riservando in pari tempo ai Siciliani il diritto di disporre da loro stessi. So che il conte di Cavour tenne un linguaggio analogo all'incaricato d'affari di Russia, il quale era venuto ad annunciargli che il suo governo appoggiava le proposizioni portate dai signori Manna a Winspeare.

Domani il signor di Cavour riceve a mezzo giorno i negoziatori napoletani, che già giunsero a Genova.

Firmato TALLEYRAND

268

Il ministro degl'affari esteri al signor conte di Persigny a Londra.

Parigi 22 agosto 1860

Signor conte, lord Cowley volle darmi lettura di molti di spacci di lord John Russell, relativi alla situazione d'Italia nei quali il primo segretario di Stato di S. M. britannica, in risposta alle comunicazioni che siete stato incaricato di fargli «non si mostra punto preoccupato al grado stesso del governo dell'Imperatore, delle conseguenze estreme del movimento che agita oggi la penisola. Lord John Russell è convinto che Garibaldi non potrebbe pensare ad attaccare l'Austria senza il soccorso della Sardegna e che la Sardegna dal canto suo non aggredirà la Venezia se non le è permesso di sperare l'appoggio della Francia.

Posta in questi termini, signor conte la questione tenderebbe a far pesare sul governo dell'Imperatore una responsabilità che io devo declinare in nome suo nel modo il più formale. Ecco quello che scriveva al signor barone di Talleyrand al momento in cui il gabinetto di Torino malgrado le rappresentazioni nostra, si disponeva a consumare l'annessione della Toscana :

«Quali essersi vogliano le nostre simpatie per l'Italia, e specialmente per la Sardegna, che sparse il suo sangue col nostro, S. M. non esiterebbe a testificare la sua ferma ed irremovibile risolazione di prendere gl'interessi della Francia per unica guida della sua condotta. Come dissi al signor di Persigny, dissipare le pericolose illusioni, non è abusivamente restringere l'uso che la Sardegna e l'Italia ponno voler fare della libertà, la quale sempre ci onoreremo di averli aiutati a conquistare e che constatano definitivamente le ultime dichiarazioni che il governo dell'Imperatore ottenne dalla corte di Vienna; è semplicemente lo ripeto. rivendicare l'indipendenza della nostra politica e

269

Gli avvenimenti che si sono compiuti dopo quel tempo non modificarono né l'opinione, né il linguaggio del governo dell'imperatore, e la Sardegna sa a qual partito appigliarsi sulla fermezza e l'invariabile insistenza delle nostre intenzioni. Nulla meno il suo atteggiamento in presenza della rivoluzione che scoppia nel sud d'Italia, indica abbastanza che essa, sia per mancanza di volontà o di forza, rinuncia a moderare il movimento che essa ha lasciato nascere imprudentemente. Come supporre d'altronde ch'essa possa comprimerlo nell'ultimo istante, che il Re Vittorio Emanuele al contrario non sia fatalmente trascinato a cedervi?

Ben lungi, signor conte dal credere con lord John Russell che il lavoro che si opera nella penisola non abbia per iscopo finale una guerra contro l'Austria, parevami presso a poco impossibile di ammettere che questa lotta suprema non divenisse una necessità logica della situazione. Non vi aveva che un mezzo solo per impedirla, cioè come il governo dell'imperatore l'aveva offerto al governo di S. M. britannica, che la Francia e l'Inghilterra imponessero coll'influenza loro e coprissero della loro garanzia una tregua, durante la quale il governo napoletano, organizzandosi su basi nazionali e costituzionali, avesse potuto intendersi col governo sardo per la conclusione di una alleanza sincera e permanente.

Quest'opinione non ottenne la soddisfazione del gabinetto di Londra, e mentre che le negoziazioni seguite a Torino riuscivano a nulla, l'esercito destinato ad invadere il regno di Napoli tenevasi pronto a traversare lo stretto del Faro; ancora forse qualche giorno e noi intenderemo che esso si è impegnato in una lotta coi soldati di re Francesco II. La crisi dalla quale è signoreggiato il mezzogiorno d'Italia è particolare in questo, che ha lo scopo, non di riformare quegli Stati ma di distruggerli confondendoli in una unità che sembrava respinta dalle tradizioni e dalla storia loro, che in pari tempo attacca interessi non solo della Penisola, ma dell'Europa intera.

270

La Francia, per causa della sua posizione continentale, è obbligata pesare codeste considerazioni con grandissima cura, e le importa di non lasciare che l'opinione scambi il vero carattere della sua politica. Il governo dell'Imperatore deve per la sua dignità difendere in Italia solo gli atti che si sono compiuti col suo concorso: è questa una parte della sua missione, a cui non verrà meno; ma il trattato di Zurigo stabilì fra esso e la corte di Vienna una pace che non potrebbe esser posta in pericolo pel fatto altrui. Se tutte le clausole di questo trattato non furono eseguite, l'Austria sa che non deve imputarsene alla Francia e confidiamo fermamente che in nessun caso essa si prevarrebbe dell'imprudenza dell'Italia per richiamarci alle condizioni, che terminarono la guerra dell'anno scorso.

Sotto questo punto, sig. conte, io ora dirò che noi non dobbiamo che attendere indifferenti l'avvenire; vedremmo al contrario con profondo dispiacere svolgersi la serie degli avvenimenti che trascinerebbero l'attacco della Venezia, ma ciò che voleva precisare si è che abbiamo tutto posto in opera per scongiurare una catastrofe, e che il giorno in cui l'Italia perdesse le sue illusioni, non dovrebbe rimproverare la Francia, come quella che le avesse incoraggiate.

Voi siete autorizzato a dar lettura e copia del presente dispaccio a lord John Russell.

Firmato THOUVENEL

COLLOQUIO DI VARSAVIA

Ecco alcuni documenti della corrispondenza passata tra le corti di Russia e di Francia in proposito del congresso di Varsavia.

«Il duca di Montebello al ministro degli affari esteri a Pietroburgo, 17 settembre 1860.

271

(Estratto)

«Signor ministro! Vi enunciai ieri l'altro per telegrafo che l'imperatore Alessandro avea chiesto di vedermi. Voi sapete, m'ha detto S. M. che il Principe reggente di Prussia e l'Imperatore d'Austria verranno a vedermi a Varsavia: l'opinione pubblica si è molto preoccupata di questo convegno, prima che fosse deciso, e ci volle vedere il germe d'una coalizione, i Ho voluto spiegarmi seco sulle disposizioni colle quali io andrò colà: non fa duopo dirvi ch'esse saranno amichevoli per la Francia. Io non vado a far coalizione a Varsavia, ma a cercar i conciliazioni, e son lieto di vedere che il Principe reggente è animato da eguali sentimenti. Dite all'imperatore Napoleone che egli può riporre in me tutta la sua confidenza.»

«Firmato. DUCA DI MONTEBELLO.

«Il ministro degli affari esteri al duca di Montebello, a Pietroburgo:

«Parigi, 25 settembre 1860.

«Signor duca! Annunziandovi la conferenza che debbo aver luogo a Varsavia tra gl'Imperatori di Russia e d'Austria e il Principe Reggente di Prussia, il principe Gortschakoff ci ha informato come il suo sovrano brami di profittare di questa riunione per preparare un accordo generale tra le grandi potenze, e far cessare quelle diffidenze che sono sì pregiudicevoli agli interessi generali.

«L'imperatore Alessandro si è degnato darvi direttamente le medesime assicurazioni, e confermare su tutti i punti il linguaggio del suo gabinetto. Animata da queste disposizioni la cor

272

Bramando corrispondere a queste iniziative, io tolsi a considerare l'eventualità che preoccupa tanto i gabinetti, cioè una possibile aggressione del Piemonte sulla Venezia, ed è indicata nel qui annesso memorandum l'attitudine che noi crederemmo dover tenere nel caso in cui si avverasse quell'ipotesi.

«Voi siete autorizzato, sig. duca, a comunicare questo documento al principe di Gorschakoff e il gabinetto di Pietroburgo ne potrà far l'uso che creda. Tuttavia, nel faro questa comunicazione al sig. ministro degli affari esteri di Russia, vorrete fargli notare che il nostro ragionamento è unicamente fondato sulla previsione d'una aggressione d'Italia contro l'Austria, e che all'infuori di tal congettura non prevediamo circostanza veruna a cui tali basi fossero applicabili. E questo un punto sul quale ci rechiamo a dovere di illuminare intieramente il gabinetto di Pietroburgo il quale non dubitiamo voglia apprezzare la lealtà delle nostre spiegazioni.

Firmato THOUVENEL.

Memorandum

annesso al dispaccio del 23 settembre:

1. Nel caso in cui l'Austria fosse aggredita in Venezia la Francia è risoluta a non prestare alcun appoggio al Piemonte.

Perché questo impegno categorico conservi sino alla fine un valore obbligatorio, è presupposto che le potenze tedesche si manterranno in un'attitudine d'astenzione.

2. E inteso come lo stato di cose che fu il motivo determinante dell'ultima guerra non potrebbe essere ristabilito.

La guarentigia contro il rinnovarsi di questa situazione sarebbe costituita in sistema federativo e nazionale sotto la salvaguardia del diritto europeo.

273

3. Tutte le quistioni relative alle circoscrizioni territoriali dei rari stati dell'Italia ed allo stabilimento dei poteri destinati a governarla saranno esaminate in un congresso sotto il duplice aspetto dei sovrani attualmente spodestati e delle concessioni necessarie per assicurare la stabilità del nuovo ordine di cose.

4. Anche allorquando il Piemonte venisse a perdere gli acquisti fatti all'infuori delle stipulazioni di Villafranca e Zurigo, il trattato col quale esso cedette la Savoja e la contea di Nizza alla Francia non potrebbe esser oggetto di alcuna difficoltà.

Il ministro degl'esteri al Sig. Duca di Montebello a Pietroburgo.

Parigi 17 ottobre 1860

Sig. Duca, le comunicazioni del sig. conte Kisseleff non furono che Io sviluppo e la conferma dei vostri dispacci. In attesa della risposta dell'imperatore alla lettera dell'imperatore Alessandro S. M. disse al conte Kisseleff di adottare le basi che d'altronde avevo proposto con suo beneplacito; ma fate osservare al sig. ministro di Russia che la sola ipotesi della quale avrei ragionato era quella d'un attacco contro Venezia. Prevedendo quest'avvenimento avevamo fatto lealmente conoscere al gabinetto di Pietroburgo le condizioni nelle quali ci era possibile: 1. di non prendere parte alle ostilità; 2. di contribuire, in un congresso, al ristabilimento d'un ordine di cose nella Penisola, stabile e normale.

Le idee più saggie hanno bisogno di un mezzo favorevole

274

Le grandi questioni non si risolvono unicamente colla forza. Un azione materiale potrebbe senza dubbio metter termine alle invasioni del Piemonte; però non basterebbe a ricostituire l'Italia ed assicurare la tranquillità d'Europa. Gli antichi governi reintegrati col mezzo d'un intervento straniero, si sosterrebbero solo con una occupazione prolungata, e l'esperienza provò ad oltranza il lato radicalmente debole di simile sistema. Non faremmo che ricollocarci in un circolo vizioso riconosciuto da tutti e che presto o tardi di nuovo si romperebbe. Secondo il mio modo di vedere, è dunque indispensabile che l'Italia possa solo accusare se stessa dei disinganni che si avrebbe apparrecchiati. Colpita dai rovesci provocati dalla sua imprudenza, accetterà dalle mani dell'Europa come beneficio, quello che oggi le sembrerebbe atto di violenza.

Se concepisco queste due ipotesi di mediazione, signor duca, aggiungerò che per nulla comprendo come si potrebbe fare per vibrare un colpo di forza. Non potrebbe essere quistione di mettere di nuovo la Penisola in mano dell'influenza austriaca. La Prussia e la Russia, in fatto di repressione, sono fuori di causa per la loro posizione geografica; e per confessione dello stesso barone di Schleintz, la pubblica opinione non faciliterebbe le risoluzioni del gabinetto di Berlino. Diffatti resteremmo soltanto noi per compiere una missione che, lo confesso senza reticenze ripugnerebbe profondamente agli istinti della gran massa della nazione francese, sarebbe in contraddizione manifesta col ricordo dell'istoria nostra, e di cui un ministro devoto non consiglierebbe giammai a prendere la responsabilità. La Francia, in una parola, non potrebbe ricominciare in Italia, sotto Napoleone III, ciò che fece in Ispagna sotto Luigi XVIII. Non sono convinto che la Russia in presenza di risultati diversi che produsse, voglia rifare in Ungheria la sua campagna del 1849.

In questo senso, Signor duca, mi spiegai francamente col signor conte di Kisseleff. La Francia imperiale non è rivolu

zionaria.

275

L'odio da essa eccitato in certi campi dimostra abbastanza come sia una nemica terribile decisa della demagogia; ma non istanno né nella sua natura, ne nella sua potenza le cadute o le trasformazioni che il tempo e gli errori degli uomini hanno cagionate. La malevolenza e la calunnia possono solo pretendere che l'imperatore non abbia veduto, con un profondo dispiacere, svolgersi gli avvenimenti negli Stati Romani e nel regno di Napoli. Noi non approviamo tutto quello che succede in Italia; la coscienza nostra disconosce i mezzi adoperati, e la nostra ragione d'altro canto non ci permette di farci campioni di regimi distrutti. Che cosa sortirà da questo vulcano in eruzione? Nessuno lo sa, e sarebbe ben temerario chi volesse tracciare dapprima una linea di condotta. Consacrare tutti gli sforzi per prevenire una guerra generale e disastrosa alla civiltà, cercare che le grandi potenze europee, mercé un accordo intelligente e leale apparecchino uno scioglimento a problemi temibili; ecco, a mio avviso, lo scopo che devono proporsi i gabinetti, e l'opera a cui noi siamo pronti a concorrere.

Firmato: THOUVENEL

Il conte di Rechberg al principe Gortschakoff.

Varsavia 26 ottobre 1860

Mio principe. L'imperatore, mio augusto sovrano, ha preso nella più seria considerazione le proposte emanate dall'Imperatore de' Francesi, e che Sua Maestà Imperiale di tutte le Russie si è compiaciuta di comunicargli.

Adempio innanzi tratto gli ordini dell'imperatore, facendomi interprete de' sentimenti di sincera riconoscenza che inspira a Sua Maestà la cortese sollecitudine colla quale l'imperatore Alessandro ha cercato di liberare la situazione politica da' dubbi e dalle incertezze che si librano sopra di essa e che, scuotendo la pubblica fiducia, riescono a suscitar pericolo per tutti.

276

Le quattro proposte sono state concepite nella supposizione che la guerra fra l'Austria ed il Piemonte sarebbe ormai inevitabile. Nell'interesse dell'umanità noi ricusiamo di ammettere questa necessità. Noi crediamo anzi che sarebbe degno delle grandi potenze d'adoperare la loro autorità collettiva per impedire al Piemonte di eseguire i disegni di aggressione che sta meditando. L'imperatore, affine di risparmiare a' suoi popoli gl'immensi sacrifici che una nuova guerra loro imporrebbe, sarebbe disposto a concorrere, sia a negoziati, sia ad un congresso di tutte le grandi potenze, che manterrebbero, assicurandone l'esecuzione, le basi convenute a Villafranca e stipulate a Zurigo. Che se invece trattasi di negoziati, quali lungi dall'escludere l'eventualità della guerra, tenderebbero ad accrescerne la probabilità, col garantire fino ad un certo segno l'impunità all'ingiusto aggressore, mentre che la potenza aggredita rimarrebbe esposta a tutte le vicissitudini della guerra, l'Imperatore non potrebbe entrare in una combinazione, la quale non terrebbe la bilancia uguale fra le due parti.

Nel caso che l'Austria fosse aggredita, non importa l'aggressione provenga dall'esercito regolare del Piemonte o da' corpi franchi organati sui territorii ch'esso occupa. L'Imperatore non potrebbe alienare anticipatamente la libertà d'azione che la leggo internazionale accorda a qualsiasi potenza belligerante.

Per queste ragioni io credo opportuno non contare per ora nell'esame particolareggiato delle quattro proposte le quali, stante la differenza dei rispettivi punti di partenza, avrebbero d'uopo d'esser modificate per poter servire di base ad una negoziazione quale noi intendiamo.

277

Ma basti di constatare che mentre prendiamo atto con grande soddisfazione delle risoluzioni della Francia di non dare alcun appoggio al Piemonte in caso in cui l'Austria fosse attaccata nella Venezia, non potremmo però ammetterò la supposizione del gabinetto di Parigi, riguardante l'attitudine delle potenze tedesche, che sotto la riserva espressa del diritto della Confederazione germanica di prendere, in caso di una guerra che minacciasse le sue frontiere o violasse il suo territorio. le disposizioni prevedute dalle sue leggi costitutive.

Firmato RECHBERG

278

CAPITOLO V.

SOMMARIO

I. A TONNO IL SENATO VOTA L INDIRIZZO AL RE IL TESTO DISCORSO DEL PRESIDENTE ZANOLINI ALLA CAMERA DEI DEPUTATI PROGETTO DI LEGGE PER DARE A VITTORIO EMANUELE IL TITOLO DI RE D'ITALIA - LA CITTÀ DI TORINO OFFRE AL RE UNA CORONA D'ORO - INDIRIZZO DEL CAV. CIBRARIO II. DIMOSTRAZIONI IN ROMA ALLA NOTIZIA DELLA PRESA DI GAETA ORDINE DEL GIORNO DEL GENERALE DE GOVON AGITAZIONE ANCHE IN VENEZIA SEVERI PROVVEDIMENTI PRESI DAL GENERAL COMANDANTE DELLE TRUPPE AUSTRIACHE OPUSCOLO PUBBLICATO A PARIGI COL TITOLO LA FRANCIA, ROMA, E L'ITALIA - SUNTO - NOTA DEL CARDINALE ANTONELLI CONTRO QUEST'OPUSCOLO - IL PAPA E LA DIPLOMAZIA, DEL S. VETILLOT IL PADRE PASSAGLIA CHIEDE UN'UDIENZA AL S. PADRE, LA QUALE GLI VIENE NEGATA NOTA SEGRETA DEL GABINETTO AUSTRIACO A QUELLO FRANCESE SUL PROPOSITO DI ROMA III. DISCUSSIONE DEL PARAGRAFO DELL'INDIRIZZO RIGUARDANTE LA QUISTIONE ITALIANA, AL SENATO FRANCESE COLPO D'OCCHIO SULLA COMPOSIZIONE DI QUEST'ASSEMBLEA - DISCORSI DEI SIGNORI LAROCHEJAQUELIN, PIETRI. E IL PRINCIPE NAPOLEONE, DEL CARDINALE MATHIEU E DEL CARDINAL DONNET -

279

DISCORSO DEL S. BILLAUT MINISTRO SENZA PORTAFOGLIO, E RISPOSTA DEL BARONE DU BOISSY L'IMPERATORE COMPLIMENTA IL SUO CUGINO, PRINCIPE NAPOLEONE, SUL SUO DISCORSO - IL RE VITTORIO EMANUELE SCRIVE AL MEDESIMO UNA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO IV. NAPOLI - DIMISSIONE DI LIBORIO ROMANO PARTENZA DELLA FLOTTA BRITANNICA BANCHETTO I CONGEDI DI SIMPATIA VERSO LA CAUSA ITALIANA PER PARTE DEI MARINARI INGLESI V. PALERMO NOMINA DI UN COMANDANTE MILITARE SUO PROCLAMA PROVVEDIMENTI PRESI DALLE AUTORITÀ PER ASSICURARE LA TRANQUILLITÀ PUBBLICA SANGUINOSI AVVENIMENTI A SANTA MARGHERITA.

CAPO IV.

I.

Una contesa delle più vive si apparecchiava nelle camere francesi sulla questione italiana, della quale abbiamo schierato agli occhi dei nostri lettori tutti i documenti diplomatici. Di già la camera dei deputati di Prussia aveva espresso la sua simpatia verso la causa italiana, adottando la mozione Winke ad una maggioranza di 159 contro 146, tuttavia la maggior parte dei senatori, e dei rappresentanti del corpo legislativo francese non sembravano dover mostrare idee così liberali come in Prussia.

280

Il che

vedremo più tardi in questo medesimo capitolo per mezzo del testo del progetto d'indirizzo del Senato all'Imperatore, e per la discussione dei paragrafi relativi all'Italia. Ma da principio seguendo l'ordine delle date vediamo ciò che si passava nel nuovo parlamento italiano. Intantoché la camera dei deputati si occupava della verifica delle elezioni, il senato passava alla discussione del progetto d'indirizzo in risposta al discorso del re Vittorio Emanuele. Ecco il tenore di questo indirizzo.

Sire,

La voce di V. M. ei annuncia l'avvenimento per cui li adempie quel voto di unità politica, vagheggiato da tanti eletti spiriti, promosso da tanti nobili cuori, accompagnato da tanta pietà e da tante lagrime.

Travaglio di molti secoli, spiegasi ora mercé di un prodigioso concorso di cause diverse tutte a noi propizie la grandezza d'Italia. Il valore degli eserciti, il senno dei popoli hanno raggiunto tale scopo che pochi anni addietro pareva eccedere ogni umana previsione.

Fidando nell'appoggio dell'opinione delle genti più civili, . e nella conformità di principii ispirati da liberali inclinazioni, e sorretti da illuminata esperienza, noi francamente speriamo che ci si darà modo di mostrare come chi rivendica il suo diritto è per ciò stesso più disposto a rispettare l'altrui; come l'Italia costituita nella naturale sua condizione è destinata a raffermare anziché a turbare la vera armonia e il giusto equilibrio delle potenze d'Europa.

Il Senato è felice di unirsi alla Maestà Vostra nel credere che l'Imperatore dei Francesi non abbandonerà i generosi propositi che furono a lui sorgente di splendida gloria, a noi di valido aiuto, che vennero consacrati dalle gesta dei prodi, dalle acclamazioni dei popoli.

281

Tra i valorosi facile è sempre l'intendersi. La moderazione ola calma sono la prerogativa dei forti. E noi che seguimmo con procellosa gioia gli ardimenti vostri, Sire, noi oggi ascoltiamo riverenti i consigli di prudenza che escono dal vostro labbro. Conoscere le ragioni del tempo presente è assicurarsi quelle dell'avvenire.

La nazione intera non potrà se non applaudire a tutto che si faccia onde afforzare l'esercito e l'armata navale, verso di cui nessuno elogio sarebbe mai troppo. L'indole militare del popolo italiano, che si spiegava con tanto impeto da una gioventù gagliarda, guidata da un Capitano di virtù antica e che ben si può chiamare figlio prediletto della vittoria, accenna che ormai l'Italia si procaccerà colle sue proprie forze, sotto la protezione della Provvidenza, gli elementi tutti della disciplina interna, e dell'esterna difesa.

Il sangue latino non disdirà la sua origine, e le varie vicende delle sorti passate si confonderanno in un mutuo accordo d'interessi, d'aspirazioni e di affetti.

Quel conforto che la libera e possente Inghilterra arrecò nei più gravi cimenti alla causa dei popoli liberi, non è mancato nelle presenti contingenze all'Italia come non può venirci meno nell'avvenire.

Non sarà vana al certo la fiducia che noi riponiamo nello schietto giudizio e nel profondo sentire della generosa Germania, dove ad un Principe degno della nazione che regge, già si sono per cura sollecita di Vostra Maestà aperti i sensi di onoranza e di simpatia che gli si addicono. L'ordinamento del nuovo regno formerà oggetto delle più assidue meditazioni del Senato affinché risponda a quanto ricerca il presente e raccomanda il passato.

La Casa vostra, Sire, aveva da' più remoti tempi pigliato il grande assunto di vegliare sui casi di Italia, di procurarne l'indipendenza. Il magnanimo vostro Genitore ravvivò ed ampliò l'illustre concetto col largire ai suoi popoli le franchigie costituzionali e coll'iniziare il moto del nazionale riscatto.

282

Voi, Sire, foste chiamato alle ultime e decisive lotte, nelle quali ponendo a cimento vita e corona, ne riportaste il meritato guiderdone, l'amore d'Italia, l'ammirazione d'Europa.

Immediatamente dopo il voto di questo indirizzo, il ministro

presentò al senato il progetto di legge conferente a Vittorio Emanuele, e suoi successori il titolo di re d'Italia.»

Questa proposizione sommessa alle deliberazioni del primo corpo dello stato, fu accolta con applauso fervoroso e moltiplicato, che spesso interrompevano le seguenti parole pronunciate dal presidente:

Signori Senatori

I maravigliosi eventi dell'ultimo biennio hanno con insperata prosperità di successi riunite in un solo Stato quasi tutte le sparse membra della Nazione. Alla varietà pei Principati fra se diversi e troppo soventi infra di sé pugnanti per disformità d'intendimenti e consigli politici, è finalmente succeduta l'unità di governo fondata sulla salda base della Monarchia Nazionale. Il Regno d'Italia è oggi un fatto; questo fatto dobbiamo affermarlo in cospetto dei popoli italiani e dell'Europa.

Per ordine di S. M. e sul concorde avviso del Consiglio dei Ministri, ho quindi l'onore di presentare al Senato il qui unito disegno di legge, per cui il Re nostro Augusto Siguore assume per sé e per i successori suoi il titolo di Re d'Italia.

Fedele interpetre della volontà nazionale, già in molti modi manifestata, il Parlamento, nel giorno solenne della Seduta Reale coll'entusiasmo della riconoscenza e dell'affetto, acclamava Vittorio Emanuele II Re d'Italia.

Il Senato sarà lieto di dare per il primo sollecita sanzione al voto di tutti gli Italiani, e di salutare col nuovo titolo la nobile Dinastia, che nata in Italia, illustre per otto secoli di gloria e di virtù, fu dalla Provvidenza Divina serbata a vendicare le sventure, a sanare le ferite, a chiudere l'era delle divisioni italiane.

283

Col vostro voto, o signori, voi ponete fine ai ricordi dei provinciali rivolgimenti, e scrivete le prime pagine di una nuova storia nazionale.

Intanto la camera dei deputati avendo terminato i suoi lavori preparatori, il presidente Zanolini disse il seguente discorso, che determina la fisionomia della nuova assemblea;

Nel cedere questo seggio all'uomo illustre, sul quale cadde, con voto pressoché unanime, la vostra libera scelta, sento il debito di ringraziarvi dell'animo benevolo che mi avete dimostrato, sento il bisogno di salutare con viva gioia questo giorno desiderato, in cui il Parlamento italiano è legalmente costituito.

Già nelle assemblee costituzionali di grandi nazioni si udirono oratori, per fama, per grado, per alta consanguineità autorevolissimi esaltare il nostro risorgimento, ribattere stolti pregiudizii e le calunnie scagliate contro di noi dai nemici di Italia, di ogni progresso civile, e dimostrare la necessità che la nazione italiana si consolidi, si fortifichi, si compia, si glorifichi riponendo in Roma la capitale del regno (Applausi) Ed a noi rappresentanti di questa Italia, costretti di attendere che si verificassero i nostri mandati, fu impedito finora di esprimere i voti, i bisogni, i diritti sacri di un popolo libero.

Ora non v'incresca che, sciolto dai vincoli che m' imponeva il temporaneo ufficio, io sia primo a rompere questo silenzio involontario.

Di provincie divise da secoli e rivali fra loro si è di volere concorde formato un regno di ventidue milioni, ed è stata opera di pochi mesi. L'Italia è nostra, e sono pur nostre quelle parti d'Italia sventuratamente tuttora distaccate dal regno. Non vi ha chi ignori, chi in buona fede ponga in dubbio i confini naturali e la città capitale d'Italia.


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284

Poniamo fede, o signori, nei destini d'Italia, e nella giustizia della nostra causa. Non si può a lungo tollerare che dei

Ma se converrà ricorrere alle armi, tutta la gioventù italiana le impugnerà con lieto animo per accorrere, seguendo i nostri eserciti, non a conflitto civile, ma a giusta guerra contro l'oppressore straniero. (Bene!) Là nella sua Caprera sta attendendo quell'ora colla mano sull'elsa l'ardito e invitto capitano. (Bravo! )

La vecchiezza, prossima al suo fine, è impaziente d'indugi; ma una lunga esperienza insegna che non si distrugge in brev'ora l'opera di molti secoli, che è da saggio lo adoperarsi nello assodare, nell'ordinare, nello afforzare l'acquisto prima di mettersi a nuove imprese, e che a bene riuscire uopo è si accompagni la prudenza all'ardire,

Rammentate le parole onorevoli che dianzi vi indirizzava il Re. - l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra.

Frattanto diasi al regno appropriato e stabile ordinamento, savie leggi, ed avanti tutto, quella forza d'armi che si può maggiore, ed io porto ferma speranza che mi sarà concesso, nonostante la grave età, non solo di assistere alla riunione di questo Parlamento italiano sulle venerande alture del Campidoglio (bene!) ma ben anche di stringere la mano ai fratelli redenti della Venezia e di rendere loro i segni di affetto, che m' ebbi là sulla laguna, allorché fui tratto da quelle prigioni ad un esilio di oltre a tre lustri.

Ora lasciate pur anco che primo pel privilegio dell'età, io muova il fausto grido da noi tutti a gran pena rattenuto finora:

Viva Vittorio Emanuele II RE D'ITALIA

(Vivi e generali applausi)

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Appena compiuto tale discorso, continua:

«Invito gli onorevoli comm. Rattazzi e segretari eletti a prendere il posto. «

Il nuovo presidente commendatore Rattazzi si avvicina al. seggio presidenziale e dopo aver dato un amplesso all'onorevole Zanolini, legge il seguente discorso.

Presiedere al lavoro legislativo di questo nobile consesso eletto dal suffragio di ventidue milioni di cittadini, che dalle falde dell'Alpi si estendono agli estremi lidi della ferace Sicilia, è officio che oltrepassa di gran lunga la misura delle mie forze.

Conscio della mia pochezza, non so vedere nell'onore, che mi venne da voi conferito, altro che una testimonianza d'affetto all'antica Camera subalpina, la quale sostenne per dieci e più anni con ogni sorta di sacrifizio il governo del re nelle tre grandi guerre intraprese per l'indipendenza nazionale.

Il principe ed il popolo camminarono di conserva ispirandosi l'uno e l'altro a quel sentimento, da cui cotanta vita si diffonde nelle più belle pagine della nostra letteratura e della nostra storia.

Gli è per questo che tutta Italia, prima ancora che si unisse in un solo Parlamento, e sotto lo scettro del valoroso e leale monarca che ci regge, era già una negli animi, negli intendimenti e nei voleri. Al plebiscito dell'urna precedente quello dei cuori; il primo non fu che la parola sensibile con cui manifestaiasi all'Europa il voto interno che l'esilio, i dolori, la dignità conculcata, l'indipendenza della patria manomessa avevano maturato nell'animo di tutti.

Al ristauro della nostra nazionalità concorsero con maraviglia armonia gli intelletti e le forze tutte della Penisola.

Da Goito a Marsala il soldato ed il volontario mandarono un solo grido,

levarono una sola bandiera. E questa, possiamo dirlo, non fu oscurata da macchia, non contaminata da quei disordini e da quelle vendette che spesso si accompagnano ai ripentini rivolgimenti.

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Poche nazioni seppero superare tanti ostacoli, e passare per tante peripezie, senza che venissero menomamente turbati i grandi principi! sui quali poggia l'ordine pubblico.

Questo fatto venne testò rammentato con parole di lode dalla tribuna della liberissima Inghilterra, e da quella del Senato francese in di splendidi discorsi che colà si pronunziarono in nostro favore, e specialmente in qtillo dell'illustre principe che, legato all'Italia da vincoli di sangue, dimostrasi così franco propugnatore della sua unità, e così giusto estimatore delle nostre condizioni politiche.

Il sacro diritto, che così a noi, come a tutti i popoli della terra compete di rivendicare la loro indipendenza, riportò pure non ha guari una segnalata vittoria nell'assemblea di Berlino, rappresentante anch'essa le generose aspirazioni della nazionalità germanica.

Il riconoscimento del nostro dritto per parto dell'opinione pubblica l'Europa è uno di quei fatti chi pronunziano prossimo il termine delle dolorose vicissitudini, cui va da tanti anni soggetta la nostra patria, e per cui fu condannata sino ad ora a vivere vita misera, inoperosa, senza coscienza di se, fatta ludibrio e scherno de' suoi oppressori.

Il tratto di via che ancora ci separa dalla meta è ingombro da ostacoli di varia natura. Le due città più grandi, più potenti pel passato, più italiane, se così posso esprimermi, di tutte le altre della penisola rimangono ancora fuori della cerchia della monarchia nazionale. Noi non possiamo non rivolgere a quelle i nostri desiderii, certi quali siamo, che la gran legge dell'attrazione morale, a cui obbedisce il nostro moto, sortirà per quelle gli stessi benefici effetti, che già sortì per tutte le altre che fanno ora parte del nazionale consorzio.

Questa Assemblea chiamata ad ordinare la monarchia ed a continuare l'opera nazionale, non poteva trarre auspicii di più lieto incominciamento che dalla presa dell'ultimo baluardo della reazione e del despotismo. L'assedio di Gaeta porse occasione al valoroso nostro esercito ed alla nostra artiglieria,

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di aggiungere nuovo lustro alle glorie già acquistate, e di porre fine ad una guerra provocata per l'offesa fatta dal governo borbonico al sentimento nazionale.

E fu questa la vera cagione per cui mossero contro quello da tutte le terre d'Italia coraggiosi giovani animati dall'amore di far grande e libera la patria, e la fiducia riposta nell'illustre loro capo, di cui mal sappiamo se più debba lodarsi in lui o la fede costante nella libertà, o l'affetto straordinario per l'Italia, o la devozione cavalleresca al più cavalleresco dei principi. (Applausi. )

Il moto popolare dell'Italia meridionale non vuol essere col diritto sanzionato dai trattati, ma con quello che trae la sua forza dalla coscienza pubblica e dal sentimento patrio, il quale è al disopra di tutti i trattati e di tutte le esigenze diplomatiche. L'Inghilterra, la Francia, la Spagna, il Belgio la Grecia e l'America obbedirono, nei loro moti nazionali, alla stessa legge, eseguirono gli stessi principii. La lotta per l'indipendenza nazionale è antica tanto nel nuovo quanto nel vecchio mondo. E se tristi avvenimenti c' impedirono di tentarla prima, e se tentata l'attraversarono, non fecero, e non faranno che ripresa più e più volte con tenacità di volere e con concordia di proponimento, non sia per condursi a compimento

Il lavoro legislativo, cui siamo per porre mano, avrà appunto per iscopo di raffermare i legami che corrono fra le nuove e le vecchie provincie, di rassodare tutti gli ordini dello Stato, di moltiplicare i mezzi che si richiedono al conseguimento dell'assunto nazionale. La varietà dello nostre tradizioni, dei nostri costumi, delle condizioni economiche troverà nella sapienza e nella larghezza dei vostri provvedimenti legislativi quell'equo componimento che l'indole speciale della Penisola comporta.

É questa l'opera grande e difficile intorno alla quale dovremo travagliarci, se vogliamo dare forma esteriore e sensibile alla personalità nazionale dell'Italia.

Lo scioglimento di un tanto problema, mentre agevolerà il compito della nostra indipendenza, coronerà altresì la lunga e faticosa opera della nostra restaurazione.

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Cosi l'Italia potrà final

mente affermare se stessa al cospetto d'Europa nell'unità della monarchia e del Parlamento. (Vivissimi generali applausi)

Nell'atto che prendo possesso del seggio di presidenza, credo di essere interprete della Camera facendo distinti ringraziamenti al sig. presidente decano ed all'intiero ufficio provvisorio per l'opera da loro con tanto senno e con tanto zelo prestata nella verificazione dei poteri.

Presid. Invito quei deputati che per anco non lo prestarono a pronunciare il prescritto giuramento.

Si fa l'appello nominale dei deputati che non giurarono. Appena si pronunciano i nomi di Ricasoli e Farini, lunghi applausi partono dagli scanni e dalle tribune pubbliche.

Finita questa operazione, il presidente del consiglio, conte Cavour presenta il seguente progetto di legge:

«Articolo unico. Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia.»

La presentazione di questo progetto viene accompagnata da fragorosi e ripetuti applausi.

Presidente. Fa d'uopo che la Camera si occupi immediatamente del progetto, onde poter domattina procedere alla discussione e votazione dello stesso.

Cavour (pres. del consiglio) Domanderei che venisse dichiarato d'urgenza.

Vien dichiarato d'urgenza.

Questo progetto di legge era stato presentato alla camera dal conte di Cavour nella sessione dell'11 Marzo; accompagnato dal rapporto che segue:

Signori

Ho l'onore di presentare alla Camera dei deputati il qui unito disegno di legge, col quale il Re nostro augusto signore assume per se e suoi successori il titolo di Re d'Italia.

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La commozione che desta negli animi cotesta proposta, il plauso onde fu accolta, significa altamente che un gran fatto si è compiuto, che una nuova era incomincia.

E una nobile nazione, la quale per colpa di fortuna e per proprie colpe caduta in basso stato, conculcata e flagellata per tre secoli da forestiere e domestiche tirannie, si riscuote finalmente invocando il suo diritto, rinnovella se stessa in una magnanima lotta per dodici anni esercitata, ed afferma se stessa in cospetto del mondo.

E questa nobile nazione che, serbatasi costante nei lunghi giorni delle prove, serbatasi prudente nei giorni delle prosperità insperate, compie oggi l'opera della sua costituzione, si fa una di reggimento e d'istituti, come già la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell'intiero riscatto.

Interpreti del nazionale sentimento, voi già avete, net giorno solenne dell'apertura del Parlamento, salutato Vittorio Emanuele II col nuovo titolo che l'Italia da Torino a Palermo gli ha decretato con riconoscente affetto. Ora è mestieri convertire in legge dello stato quel grido d'entusiasmo.

Il Senato del regno l'ha di già sancita con unanime voto: voi, o signori, io ne sono certo, la confermerete colla stessa concordia di suffragi affinché il nuovo regno possa presentarsi senza maggior indugio nel consesso delle nazioni col glorioso nome che gli compete.

Non si dee credere che questo progetto non desse luogo ad alcuna discussione negl'ufficj della camera, di cui erano stati nominati commissari

Bettino Ricasoli, Cipriani, Paternostro, Pepoli Gioacchino, Giorgini, Macciò, Audinot, e Baracco.

Che anzi la discussione fu vivissima su diversi punti concernenti la redazione della legge.

Le principali divergenze nacquero sul punto di sapere, se il re d'Italia prenderebbe il titolo di

primo, o se continuerebbe l'antico appellativo di Vittorio Emanuele II.

Si decise che si conservasse il titolo di Vittorio Emanuele II, come il suo predecessore aveva conservato quello d'Amadeo II, quando montò sul trono di Sardegna.

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In alcuni offici, volendo conservar tuttavia il titolo di Vittorio Emanuele II,

si proponeva d'aggiungere le parole

primo re d'Italia. Ma, siccome era duopo per questo modificare tutto il testo della legge proposta, ch'era di già stata approvata dal senato,

si rinunziò a questa giunta.

Altri avrebbero voluto, che si facesse menzione della nuova origine del diritto pubblico italiano, aggiungendo queste parole:

per il voto della nazione, o per il consenso della volontà nazionale. Quest'idea fu generalmente approvata, ma fu deciso, di votare la legge senza alcuna modificazione, per dare all'Europa una prova di concordia, riservandosi però a consacrare questi principi in un'altra legge, che doveva essere votata più tardi per fissare la formola solenne d'intestazione agli atti pubblici.

Senza aspettare la discussione del titolo del nuovo re d'Italia, la città di Torino aveva votato per una soscrizione, come già menzionammo in altro capitolo, una corona a Vittorio Emanuele, e il cav. Cibrario, nel presentargliela a nome degli abitanti di Torino, s'espresse in questi termini:

Sire

Sebbene Vostra Maestà e per naturale inclinazione e per l'eccelsa missione che ha ricevuta dalla divina Provvidenza sia cittadino d'Italia, nondimeno i Torinesi non possono dimenticare che questa città le fu culla, che qui si è maturato nel generoso animo suo l'affetto per la gran patria italiana, che qui si Sodo maturati i vasti disegni per la compiuta indipendenza della gloriosa Penisola.

Ond'è che gli abitanti di questa città, teneri di queste glorie, hanno creduto ora che l'ardua missione è omai compiuta, che a loro s'appartenga d'offrire a V. M. , reduce dalle belle provincie teste aggiunte alla monarchia, una corona che simboleggi il nesso delle virtù guerriere per cui si è tanto segnalato l'ereditario valore dei Principi di Savoia,

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con quelle civili virtù che

Noi deponiamo, o Sire, ai piedi di V. M. quest'umile omaggio, supplicandola di guardare non alla tenuità dell'oggetto, ma all'animo devoto e riconoscente degli oblatori, e più ancora all'alta sua significazione.

VIVA IL RE D'ITALIA!

Questo indirizzo scritto a modo delle antiche pergamene con bellissime minature del cav. Bertolla

, impiegato al ministero degli affari esteri,

è racchiuso in una ricca legatura di marocchino a fregi d'oro lavorata dal sig. Vezzosi.

La Corona composta di due fronde d'alloro e di quercia con una stella in diamanti, venne con rara finitezza lavorata, specialmente nella cesellatura delle foglie, dal sig. Thermignon; nel nastro d'oro che riunisco i due tronchi è impressa la seguente iscrizione dettata dal cav. Cibrario:

Victoria EmanueliII

Italici Imperii Restauratori

Cives Taurini,

1860

Sovra il nastro ricamato sul cuscino leggesi questo verso d'Orazio proposto dal conte Sclopis:

«Lucem redde tuae, dux bone, patriae»

Aug. Tour. 1860

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Il disegno del cuscino era del barone G. C.; i ricami furono eseguiti dalla signora Pepiore, sotto la direzione del conte di Sambuy.

II.

Il giorno, in che Francesco II giungeva a Roma, la popolazione era in movimento per le dimostrazioni, che la parte liberale aveva voluto fare, rallegrandosi della presa di Gaeta. Infatti erano state innalzate delle grida precisamente al corso mentre che fuochi di bengal tricolori brillavano in diversi punti della città. Il comitato nazionale aveva fatto circolare un proclama ai Romani felicitandoli di queste dimostrazioni in favore della causa italiana; ma essendo in questo documento dell'espressioni di lode verso le truppe della guarnigione francese per la loro attitudine tenuta in questo dimostrazioni, il generale conte di Govon, comandante in capo, credette dovere indirizzare alle medesime truppe il seguente ordine del giorno:

Roma 19 febbrajo 1861.

Soldati!

Un preteso comitato nazionale di Roma ha fatto spargere una piccola stampa indirizzata ai Romani. Esso chiama imponente la puerile scappata del 14 corrente a sera; noi l'avevamo trovata sì poco degna della generosità, del nobile ed intelligente carattere romano, che non avevamo neppure pensato a farne la menoma menzione, tanto più che i fischi e gli inviti al silenzio dominavano le grida provocatrici rimaste senza eco,

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malgrado i fuochi di Bengala; ma questo scritto che si è fatto pervenire nelle nostre mani, osa permettersi di lodare noi tutti della nostra attitudine. Ciò è da parte del preteso comitato nazionale una impudenza che non posso tollerare, e che devo segnalare alla vostra indignazione.

Noi non dobbiamo ricevere felicitazioni che dai nostri capi. Abbiamo senza dubbio a compiere qui una missione difficile, delicata ed anche ingrata, giacché ci prepara sempre ostilità, seguendo anche la linea più diretta de' nostri doveri; ma le lusinghe, come le minaccie, sono e devono essere su noi senza effetto. I nostri doveri impostici dal nostro Imperatore sono la nostra unica regola; e sapremo compierla fino al fine. Onde non dare alcun pretesto alla malevolenza, ricordo che il dovere di ciascuno si è quello di ritirarsi dalle folle che hanno un carattere ostile, affinché non possano essere incoraggiate da un' innocente presenza, e non far sospettare del nostro doppio carattere di Francesi e di soldati.

Generale Comand. supr. del Corpo

d'occupazione, aiut. di campo dell'Imperatore

G. DE GOYON

NB. quest'ordine sarà letto all'appello; e l'ordine di ritirarsi dalle folle e rendersi alle caserme, o dietro le truppe messe in rango, sarà sovente ricordato.

Alla notizia della caduta di Gaeta una certa agitazione si manifestò egualmente sopra diversi punti della Venezia. Similmente accadde nella provincia di Fiume, onde il governo austriaco prese

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Ecco il proclama che si leggeva nella gazzetta di Fiume su questo proposito, in data del 15 Febbraio:

PROCLAMA

I continui tumulti avvenuti di recente sulle pubbliche vie, e le dimostrazioni, le quali resero la città di Fiume lo spettacolo di una sfrenata lotta di partiti, dipoi la tendenza di trattenere l'inviamento legalmente regolato alla trasformazione politica del paese mediante brutali sfoghi di violenza, e che necessariamente devono avere funeste conseguenze pel commercio, e da ciò dipendente benessere della città, fanno si, che si rende necessario di opporre forza a si arditi traviamenti.

Egli è perciò duopo dichiarare con ciò la città ed il distretto di Fiume in istato d'assedio.

A seguito di ciò, incominciando da oggi vengono levati dalla competenza delle autorità penali e civili, e verranno inquisiti e puniti dal giudizio di guerra, che con oggi viene posto in attività dietro le vigenti leggi militari, i seguenti delitti e contravenzioni, le quali verranno commesse da persone civili entro il suesposto circondario:

A. Alto tradimento.

B. Offesa alla maestà sovrana, ed ai membri della casa imperiale.

C. Perturbazione della pubblica tranquillità.

D. Sollevazione.

E. Ribellione.

F. Tutti i casi di pubblica violenza verso le autorità civili o militari in affari di servizio, contro un' adunanza chiamata dal governo per affari, od altre corporazioni legalmente riconosciute.

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G. Maliziosi danneggiamenti ed impedimenti delle strade ferrate o telegrafi.

H. Illecito possesso ed occultamento d'armi o munizioni. I Tumulto.

K. Partecipazione a società segrete ed inibite.

L. Vilipensione delle disposizioni delle autorità, e lo inci citare contro autorità dello stato o singoli agenti del governo.

M. Eccitamento ad ostilità contro nazionalità.

N. Diffusione di notizie false o allarmanti, o predizoni.

0. Offese verbali o reali a pubblici impiegati ed agenti dell'autorità civili e militari in servizio o fuori del servizio.

T. Illecite istruzioni nell'esecuzione de servizi pubblici, tendenti ad impedirli.

Q. Il prestare ajuto a tutte le suesposte azioni penali.

R. Finalmente tutti quei delitti che dietro le vigenti leggi sono riservati alla giurisdizione militare, cioè l'illecito arruolamento, seduzione e prestato ajuto a ledere i giurati doveri di servizio militare - come pure lo spionaggio e tutte lo altre azioni contro la forza di guerra dello Stato.

L'i. r. Comando di truppa in Fiume è oltreciò autorizzato di rilasciare tutte quelle disposizioni, che si renderanno necessarie per la manutenzione del pubblico ordine e tranquillità, ed a queste dovrassi prestare assoluta ubbidienza, tosto che saranno pubblicate a scanso di pena entro comminata.

Zagabria, li 15 febbrajo 1861.

SOKCIVIC M. P.

i. r. tenente maresciallo, Bano

della Croazia, e Slavonia, governatore

di Fiume.

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Questo proclama del generale in capo delle truppe austriache a Venezia, che coincideva con l'ordine del giorno del general comandante l'armata d'occupazione a Roma, testimoniava gli sforzi che faceva il partito nazionale per giungere a realizzare l'unità italiana, la cui idea s'era di già sostituita a quella della confederazione. Roma occupata dalla Francia, e Venezia dall'Austria erano dunque i punti, intorno a' quali si aggirava l'opinione pubblica. Due opuscoli celebri, e di cui abbiamo già fatto parola avevano provato di determinare il comento di questa opinione, luno per quel che riguarda Roma, l'altro per Venezia Ma la questione non aveva fatto un passo di più. La Santa Sede e l'imperatore d'Austria duravano tuttavia incrollabili, quando il Sig. De Lagueronierre uscì fuori con una nuova proposta di soluzione per la questione romana in un altro opuscolo intitolato: La Francia, Roma, e l'Italia, di cui ci apprestiamo a dare un sunto in poche linee.

L'autore vi fa in sul bel principio un esposizione della questione romana.

Dice che il ponteficato spirituale è fuori di questione ma il temporale attraversa una grave crisi. Spiega la causa della crisi coll'antagonismo fra il Ponteficato e l'Italia, colla dissidenza tra il Vaticano e le Tuilleries; se il Papa è isolato dall'Italia di chi è la colpa? La politica francese ha essa mancato di devozione, di pazienza, di preveggenza?

Bisogna infine che le responsabilità si definiscano. L'opuscolo espone quindi la storia delle relazioni del Papato con l'Italia cominciando dal 1848. Conchiude che l'Italia è affrancata, ma non costituita, che l'ostacolo alla sua organizzazione è Roma. Finché durerà l'antagonismo tra l'Italia ed il Papato temporale, non si troveranno le condizioni di equilibrio.

É così difficile di supporre l'Italia senza il Papa, come il Papa senza l'Italia. Frattanto l'Imperatore lascerà la sua spada a Roma per proteggere la Sicurezza del Santo Padre; egli non può sacrificare l'Italia alla corte di Roma, né abbandonare il Papato alle rivoluzioni. Ciò è impossibile.

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Egli aspetterà con pazienza l'ora in cui il governo Pontificio finalmente disingannato sul conto dei peri

Quest'opuscolo sollevò, non meno che i precedenti, dei numerosi commentari nella stampa europea, e diè luogo a più numerose supposizioni relativamente alle intenzioni del governo francese sulla questione romana. Così La Patrie giornale semiofficiale dell'impero non tardò a pubblicare un articolo concepito nella seguente maniera:

Si legge nella Patrie del 18 Febbraro

Un buon numero di giornali italiani ed inglesi che si occupano dell'opuscolo di La Guéronniere, ne traggono questa induzione, che la politica francese tende ad abbandonare il potere temporale del Papa e a ritirare da Roma le nostre truppe che proteggono il Santo Padre. Ci sembra utile dichiarare nuovamente che coteste interpetrazioni, che paiono essere il risultato iii una specie di parola d'ordine sono assolutamente erronee. La politica del governo francese quale rilevasi da tutti gli atti, da tutti i documenti, è apertamente contraria alle speranze che certi giornali propagano con tanto scalpore, e in quanto all'opuscolo di La Guèronniere di cui tentano snaturare lo spirito, la sua conclusione è nettamente determinata per quanto possibile nel passo seguente.

«Finché durerà il funesto antagonismo che si è creato tra forze la cui unione risponde a tanti interessi, l'Italia e il Papato temporale non troveranno le condizioni del loro equilibrio. Si uniscano, e da questa alleanza escirà la loro grandezza comune.»

Noi siamo convinti che fino a tanto che le potenze cattoliche non sieno riuscite a trovare una combinazione per sperare questo ravvicinamento, la Francia non si crederà sciolta dal dovere di protezione che essa adempie in Roma presso il Santo Padre.

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Per quali che fossero le assicurazioni date dall'imperatore Napoleone al governo pontificio, questo restò profondamente tur

bato all'apparire di siffatto opuscolo; onde il cardinale Antonelli ne fece una confutazione in una nota diplomatica, di questo tenore:

A MONSIGNORE MEGLIA

Incaricato d'affari della Santa Sede a Parigi. In occasione dell'opuscolo La Francia, Roma e l'Italia:

Monsignore,

Ella avrà già letto senza dubbio l'opuscolo pubblicato recentemente a Parigi sotto questo titolo. La Francia, Roma e l'Italia. Esso contiene una specie di commentario, tanto dell'esposizione ufficiale della situazione fatta nel mese corrente dal signor Baroche al Senato e al corpo legislativo di Francia, quanto della scelta dei documenti pubblicati dal Governo francese, riguardo agli ultimi avvenimenti d'Italia. Ella si sarà accorta senza dubbio che lo scopo principale di quest'opuscolo è di riversare sul Santo Padre e sul suo Governo la causa dello stato deplorabile, a cui sono giunte le cose in tutta l'Italia, e specialmente nei dominii Pontificii. Ella conosce perfettamente la serie dei fatti che si sono succeduti in questi ultimi tempi, e conosce da altra parte i diversi atti emanati da Sua Santità, come pure il dispaccio da me inviato a Monsignore Nunzio a Parigi, il 9 febbraio dell'anno scorso; e questo già le basta per respingere tale ingiusta imputazione. Infatti se si considerano con qualche attenzione gli argomenti sui quali essa è appoggiata nell'opuscolo, si vedrà di leggieri che non vi ha una sola asserzione la quale non sia vittoriosamente confutata dagli atti di cui le parlai. Tuttavolta, siccome quest'opuscolo col mezzo di vaghe generalità, e di aneddoti estranei alla questione;, o d'allegazioni puramente inimaginarie, si sforza di presentare i fatti sotto un falso aspetto per far loro dire il contrario di ciò che esprimono, io ho creduto opportuno di opporvi alcune considerazioni pel maggiore schiarimento della verità.

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Questo motivo aggiunto alla considerazione del carattere ufficiale, sotto cui l'opuscolo si pretende pubblicato, mi ha indotto ad occuparmene per la parte che riguarda più da presso la Santa Sede e il suo Governo.

E io prima io non mi fermerò qui a qualificare latto d'un uomo che osa scagliar pubblicamente un' accusa sì grave contro il Capo augusto e venerabile della Chiesa cattolica; e ciò nel momento in cui, tranne i ciechi ed eterni nemici d'ogni ordine, tutti ammirano e lamentano in lui la vittoria dell'ingratitudine e della perfidia più rara che fosse mai. So bene che l'autore si scusa dall'accusare Sua Santità col dire che il suo cuore è stato sorpreso ed ingannato da alcuni di quelli che lo circondano. Ma questo artifizio è troppo volgare per evitare il rimprovero d'irriverenza quando si osa biasimare colui che ha tanti titoli al più profondo rispetto e alla più sincera gratitudine e venerazione. Del resto, ciascuno comprende facilmente che una simile scusa è peggiore dell'accusa medesima.

Ma checché sia dell'appreziazione morale, e, se si vuole, politica di questa imputazione, veniamo a considerarla in se stessa e nel suo valore intrinseco. L'opuscolo pretende che l'ostinatone del Santo Padre a non concedere alcuna riforma e a rifiutarsi a tutti i consigli e soccorsi benevoli del Governo francese sia la sola e vera cagione di tutte le perdite temporali che soffre al presente la Santa Sede. Non amando da mia parte le generalità Taglie ed astratte, che valgono solo ad oscurare e travisare la verità, io chiamo l'autore sul terreno dei fatti particolari e precisi. Di qual tempo egli parla e di quali circostanze? Bisogna ben confessare che, se la pretesa ostinazione è cosa reale e non immaginaria, essa ha dovuto mostrarsi in un dato tempo e in una data congiuntura.

Ora a questo riguardo si possono distinguere tre epoche: la prima si estende dai primi anni del pontificato di Sua Santità fino al suo esilio a Gaeta; la seconda comprende i dieci anni che trascorsero dal suo ritorno a Roma fino agli ultimi torbidi sopravvenuti in Italia; e la terza infine i due anni, in cui ebbero luogo questi scompigli.

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Sarebbe certo una follia a voler rifondere la pretesa ostinazione sulla prima di queste epoche, allorché il mondo intiero salutava nel Sovrano Pontefice regnante l'iniziatore spontaneo di accordare riforme senza timore di vederle degenerare in colpevole licenza per opera di coloro che cercavano di abusarne. Ciò è tanto vero che ultimamente ancora fu confessato dal ministro di una Potenza protestante in un' assemblea pubblica.

E se le generose e larghe concessioni del Santo Padre si sono vedute ricompensate per parte dei perfidi mestatori della rivoluzione colla più ingiusta ingratitudine e fellonia, ciò servi a mostrare fin d'allora la vanità della confidenza esagerata che molti ripongono in sì fatti rimedi; vanità di cui per mala sorte si è avuto, pochi dì fa, un nuovo esempio.

Quando il Santo Padre fu ristabilito nel possesso dei suoi Stati pel favore di tutte le Potenze e col concorso delle armi cattoliche, in cui la Francia ebbe una sì gran parte da meritarsi tutta la nostra riconoscenza, come gliel'abbiamo espressa e gliela esprimiamo di nuovo, quali furono allora i desideri! che gli testimoniarono di comune accordo le Potenze cattoliche, compreso per conseguenza il Governo francese? Si era il riorganamento delle finanze scompigliate soprattutto dalle spogliazioni dell'anarchia rivoluzionaria; si era l'attuazione delle riforme convenute a Gaeta coi plenipotenziarii dei principali Stati cattolici: si era infine la formazione di un esercito proprio che potesse mettere un termine all'occupazione contemporanea della Francia e dell'Austria.

Ora qual è quello di questi tre desiderii che non sia stato compiuto? Grazie alla saggezza ed alla continua solleciludine di Sua Santità s'era non solo riuscito ad abolire la carta moneta, ma anche ad ottenere un' eguaglianza perfetta tra le entrate e le spese, con qualche eccedente dalla parte entrate, e ciò seni aggravare di nuove imposte i sudditi. Quanto alle riforme, se ne eccettuano due che a ragione delle circostanze gravi ed eccezionali, provocate dall'attitudine ostile e rivoluzionaria del Piemonte, furono differite, esse erano state messe ad esecuzione, come ho dimostrato nel mio dispaccio precedente;

301

e il rapporto del Sig. conte di Rayneval, d'illustre memoria, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, ne avea già reso un' irrefragabile testimonianza. L'esercito non ostante la condizione particolare dello Stato Pontificio in cui esso formasi, come si sa, per via d'arruolamento volontario, potea dirsi costituito in numero sufficiente. Così quando nei primi giorni del 1859 si voleva trovare un pretesto per la guerra d'Italia nella permanenza delle truppe straniere sul territorio Pontificio, Sua Santità potè liberamente invitare la Francia e l'Austria a ritirare, quando volessero, le loro truppe.

In che cosa adunque consisté la pretesa ostinazione del Santo Padre nei dieci anni di cui parliamo? l'opuscolo in questione invece di declamare in termini generali avrebbe fatto meglio di dire in particolare, e citando fatti e documenti, ciò che avrebbe voluto il Governo imperiale e gli altri Governi amici della S. Sede. Quanto a noi non troviamo in tutto l'opuscolo niente di specificato su questo punto, salvo le parole seguenti. «la condotta medesima del Governo Pontificio, il suo rifiuto persistente di compiere le riforme e le sue simpatie confessate per l'Austria contribuivano ad accrescere le paure del patriottismo italiano.» Col che s'intende di stabilire due cose: il rifiuto delle riforme e la simpatia per l'Austria. Ma sul primo punto abbiamo già dimostrato il vero coll'autorità medesima del rappresentante della Francia. Quanto al secondo si citi un fatto solo in cui Sua Santità abbia esternato maggior deferenza pel Governo imperiale, che per qualsiasi altro Governo cattolico, e specialmente pel Governo imperiale di Francia. Non si potrebbe invece e con più fondamento muovere l'accusa contraria?

Resta adunque la terza epoca, quella dell'ultimo movimento sopraggiunto in Italia, e conviene occuparsi di questa più lungamente, giacché pare che a quest'epoca si riferisca specialmente l'accusa recata dall'opuscolo.

L'autore descrive a pagina 21 quale dovea essere in una tale commozione l'attitudine dell'Imperatore dei Francesi, ed ecco le sue parole:

«

l'Italia rispettata nella sua indipendenza,

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il Papato protetto nella sua potenza temporale, tale era dunque il doppio scopo che dovea proporsi la politica imperiale». In faccia a quest'attitudine dell'Imperatore quale doleva essere quella del Santo Padre? Il suo compito non era certamente di cominciare una guerra offensiva contro nessuno, perché ò il padre comune di tutti, e rappresenta sulla terra il Dio della pace. Non dovea nemmeno concorrere alla spogliazione de' principi legittimi, perché è egli medesimo l'araldo e il vendicatore delle leggi eterne della giustizia in mezzo agli uomini.

Infine egli non dovea abdicare di suo buon grado, né lasciarsi impunemente strappare i suoi proprii Stati, non essendone che il depositario in nome della Chiesa obbligato da giuramenti solenni ed irrevocabili a conservarli nella loro integrità. Ora, lo ripeto, quale doveva essere il suo contegno affine di mostrarsi favorevole all'indipendenza italiana, senza mancare ai sacri doveri di pontefice? Non ve n' era altro certamente che di accettare e realizzare, quanto stava in lui, una combinazione qualunque che gli fosse proposta, e che assicurasse l'indipendenza nazionale senza offendere né i diritti degli altri né i principii inviolabili della Chiesa. Ora chi al mondo può provare che il Santo Padre siasi mostrato su questo punto, non dirò ostinato, ma difficile a consentire? Diciamo piuttosto la verità: quale è la combinazione che sia giammai stata proposta a Sua Santità nei limiti da noi tracciati? Non se ne conosce che una sola, quella della Confederazione dei diversi Principi italiani aventi a capo il Sovrano Pontefice come presidente onorario. Ebbene tale proposta fu mai rigettata dal Santo Padre? Per contrario non venne formalmente accettata? L'autore dell'opuscolo si lagna amaramente che quando fu proposto questo aggiustamento fosse accolto con sarcasmi a Roma ed a Parigi. Io non so nulla dei sarcasmi di Parigi, ma quanto ai sarcasmi di Roma, se vi furono, non vennero certamente dal Governo Pontificio.

Non parlo qui d'una proposta che partiva da uno scrittore privato, il quale senza dubbio non aveva la pretesa di venire considerato come una Potenza.


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E vero ch'egli ci dice,

che scriveva avendo l'onore di esporre un programma, ma si è solamente oggidì che ci fa questa rivelazione: e l'indole del suo scritto era ben lontana allora dal farcela sospettare. La proposta officiale della Confederazione e della Presidenza non venne che in seguito ai preliminari di Villafranca e del trattato di Zurigo, e il Santo Padre, come ho già detto, si mostrò disposto ad accettarla, quando, com'era giusto, ne fossero definite le basi. L'autore nondimeno dice che allora non era più tempo, ma troppo tardi. Però egli non si avvede che, dicendo ciò, fa un ingiuria al suo proprio Principe, come se egli e gli altri avessero proposto quale punto di partenza d'un trattato solenne, e quale mezzo di riconciliazione, una cosa che non era più possibile, né opportuna. Cecché ne sia, si è allora che la proposta venne fatta da colui che avea autorità di farla, ed è ingiusto pretendere che Sua Santità l'avesse prevenuto di suo proprio moto. Ora, ripeto, poiché non è in seguito ad un rifiuto del Santo Padre, che questa combinazione non sia riuscita, come si potrà senza una spudorata calunnia accusarlo giammai in ciò d'ostinazione?

Non trattandosi più di questo assestamento, il quale da un lato avrebbe risposto al contegno dell'Imperatore dei Francesi rispettando l'indipendenza italiana in modo da proteggere nello stesso tempo il potere temporale del Sommo Pontefice, e che dall'altro lato era d'accordo col contegno conveniente alla S. Sede, permettendole di concorrere, nei limiti della giustizia all'indipendenza italiana, senza sacrificare la sua propria autorità temporale; qual altra proposta che riunisse somiglianti condizioni venne mai fatta?

Qui l'opuscolo entra in un tristo laberinto, riferendo le proposte che furono fatte in seguito, ma sono costretto a tenergli dietro per quanto sia grande la pena che ne provo. Comincia col riferire la lettera scritta dall'Imperatore, nella quale s'invitava il Santo Padre a cedere al Piemonte il possesso delle Romagne con un titolo di Vicariato, ed a non differire più oltre la concessone delle riforme reclamate dall'Europa da trenta anni. Qui vi sono due cose; le riforme già mentovate e la cessione delle Romagne.

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Quanto alla prima fa meraviglia che si parli di riforme

Viene il secondo punto che è il Vicariato dello Romagne. A questo il Santo Padre rispose con un rifiuto coraggioso; e ve diamo se avea ragione di farlo. Per me non so davvero come l'autore dell'opuscolo concilii nel suo scritto la parte che assegna all'Imperatore, la quale è di proteggere il potere temporale del Sommo Pontefice colla cessione delle Romagne, che gli viene consigliata. É una protezione veramente singolare quella che permette la spogliazione, benché palliata e parziale, del suo protetto, e che si duole che questi non la favorisca colla sua propria accondiscendenza.

L'opuscolo dice che non si poteva fare altrimenti perché ora divenuto impossibile il ricuperare le Romagne. Chi le avrebbe ricuperate? L'Austria vinta non osava; la Francia vittoriosa non doveva, affine di non mancare a' suoi principii, il Sommo Pontefice non poteva per mancanza di soldati. Mi astengo qui da ogni indagine sulle circostanze che impedivano l'Austria di farlo,

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e dirò solamente che essa aveva preso in mano la protezione del dominio temporale della Santa Sede, come l'opuscolo stesso ne conviene. Se d'altro lato questa protezione comportava la presenza delle truppe francesi a Roma, non si vede perché essa non la comporterebbe a Bologna. Aggiungerò finalmente che il Sommo Pontefice lo poteva, avendo già un esercito sufficiente per ripigliare le Romagne; e se nol fece, l'autore dell'opuscolo devo saperlo meglio di chicchessia se, e perché fu impedito dal farlo.

Ma supposto che questo consiglio dato potesse accordarsi coll'ufficio di protettore, chi non vede d'altro lato che la sua accettazione non poteva accordarsi colla coscienza del Santo Padre? Dimostrai io stesso nel dispaccio più volte citato, del 29 febbraio 1860, le ragioni che giustificavano questo rifiuto, ma desidero di qui ricapitolarle. Detta accettazione non poteva conciliarsi colla coscienza del Sommo Pontefice, perché il principio messo innan zi per tale cessione, potendo di sua natura stendersi al resto degli Stati Pontifici, essa importava virtualmente l'abdicazione totale di questi medesimi Stati. Essa non si conciliava colla coscienza del Santo Padre, perché è obbligato dai giuramenti solenni innanzi a tutta la Chiesa di trasmettere integralmente al suo successore questo Stato che appartiene alla Chiesa stessa, ed all'integrità del quale tutto il mondo cattolico è interessato, come lo provano le solenni testimonianze della cattolicità tutta quanta. Essa non si conciliava colla coscienza del Sommo Pontefice, per ché era un abbandonare il terzo de' suoi sudditi alla tirannia d'una frazione immorale e irreligiosa, che ne avrebbe fatto la sua vittima per i costumi e per la pietà; come l'evento l'ha poscia provato senza contestazione. Anche un Principe laico con una tale prospettiva non avrebbe potuto in buona coscienza fare simigliante cessione, e come si pretenderebbe che potesse essere fatta dal Sommo Maestro della morale cattolica?

Chi non sa d'altra parte da' fatti diversi dell'istoria, ciò che accadde alla Santa Sede per somiglianti vicariati? Ed il Piemonte stesso non ne diede nuovo esempio in questi ultimi tempi?

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Farsi illusione sul valore di somigliante combinazione sarebbe un errore imperdonabile. Non è che un lepido ritrovato che copre la reale abdicazione, sotto l'apparenza di un falso nome. Egli è adunque con

Non trattandosi neppure della proposta del Vicariato, che rimane ancora per provare l'ostinazione di S. Santità? Non havvi più che la proposta di un corpo d'esercito somministrato dalle Potenze cattoliche per il mantenimento dell'ordine nei dominii pontificii, quella d'un sussidio pecuniario dato dalle stesse Potenze, e la domanda d'una pronta promulgazione di riforme già convenute. Or, quanto alla promulgazione di queste riforme, abbiamo già dato le ragioni, per cui essa non era conveniente, e quindi è inutile di ripeterle. Quanto al corpo d'esercito, non fu rifiutato, ma fu solamente risposto che S. Santità avrebbe accettato con maggior riconoscenza non già il diritto, come è detto nell'esposizione, di cui si è parlato sul principio, ma si la facoltà di arruollare per suo conto ne' varii paesi cattolici i volontari che avessero voluto servirlo nella difesa della Chiesa. d'altro lato ognuno può facilmente capire quale sarebbe stato più convenevole, sia per evitare le rivalità tra i corpi dipendenti dalle dif furenti Potenze, sia per conservare più pienamente l'indipendenza Pontificia, sia infine per ovviare ad ogni complicazione nelle relazioni in caso di guerra tra le Potenze che avrebbero somministrato i loro contigenti. Finalmente, riguardo all'accettazione dei sussidi, bisogna osservare che, senza parlare di altri inconvenienti numerosi che ne sarebbero risultati a detrimento dell'indipendenza e della dignità del Sommo Pontefice, avrebbe ancora avuto l'apparenza d'un prezzo fissato per la spogliazione offerta.

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Ed è perciò che il Santo Padre, sull'esempio dei suoi illustri predecessori, preferiva l'oblazione spontanea dei fedeli che avrebbero voluto soccorrere G. Cristo nella persona del Vicario. L'obolo del povero era più onorevole al Sommo Pontefice nella

Ora riduciamo a' loro minimi termini i capi di accusa. Mettendo da parte le asserzioni gratuite, le calunnie manifeste, i fatti estranei alla causa che riempiono l'opuscolo, tutta l'ostinazione che esso rimprovera al Santo Padre, si riduce ad aver rifiutato un' abdicazione che gli era proibita dalla sua coscienza; ad avere differito, fino a che le provincie rivoltate rientrassero Dell'ordine, la promulgazione delle riforme ulteriori a cui aveva già acconsentito: ad avere preferito il soccorso spontaneo dei fedeli ad un sussidio pregiudizievole somministrato dai Governi che non sono tutti, né sempre, animati da intenzioni egualmente benevole.

E questi atti di fermezza, di nobile disinteresse, che sembrerebbero ad occhi non pregiudicati degni di grandi elogi, che eccitarono e che eccitano ancora l'ammirazione perfino degli eretici, sembrano al cattolico autore dell'opuscolo meritare tanto biasimo che non ne troverebbe di più se scrivesse contro quelli che sono veramente risponsabili dei lamentevoli disordini dei nostri giorni.

Ma questo appunto è ciò che reca stupore maggiore. Il Governo imperiale di Francia aveva dato dei consigli a Sua Santità, ne aveva del pari dato al Governo piemontese. Se il Santo Padre è accusato di non averli ascoltati, il Governo piemontese non pare essere stato più docile. Anzi bisogna notare che laddove Sua Santità fece rifiuti, che si possono chiamare puramente negativi, il Governo piemontese fece dei rifiuti positivi. Sua Santità non credette spediente di fare molte cose che desiderava il Governo di Francia, ma il Piemonte fece di molte cose che quel Governo dichiarò pubblicamente di non volere. Il Governo imperiale proibiva che si violasse la neutralità degli Stati Pontificii, ed il governo piemontese rispondeva occupando le Romagne.

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Il governo imperiale disapprovava le annessioni, ed il Governo piemontese rispondeva compiendole.

Il governo imperiale proibiva anche con minacce, che s'invadessero le Marche e l'Umbria, e il Governo piemontese rispondeva mitragliando il piccolo esercito Pontificio e bombardando Ancona per terra e per mare, e non osservando nemmeno le leggi della guerra riconosciute da tutte le nazioni civili. Il governo imperiale insisteva, perché si ritornasse ai preliminari di Villafranca e al trattato di Zurigo, e il Governo piemontese rispondeva ridendosi dei preliminari e del trattato. E cosi noi potremmo continuare a lungo questa enumerazione; ma bastano queste indicazioni. Ora chi il crederebbe? l'autore dell'opuscolo, che adopera sì crudelmente la sua penna contro il Santo Padre, non trova una parola di biasimo pel Governo piemontese. Eppure ognuno sarebbesi aspettato non solo di leggere parole di rimprovero contro un alleato così ingrato e compromettente, ma anche un invito alla Francia di reprimere una volta e punire una tale temerità. Nulla di tutto ciò. Chi può dunque spiegare un tale contegno?

Tuttavia la spiegazione è a Ratto naturale; e l'opuscolo ce la dà infine nell'ultima pagina dove dice che l'Imperatore dei Francesi non può sacrificare l'Italia alla Corte di Roma, ne abbandonare il Papato alla rivoluzione: ciò che riesce a dire doversi sacrificare la Corte di Roma alle esigenze della Penisola, e doversi abbattere il dominio temporale della Santa Sede, perché serve d'ostacolo alla costituzione e all'organamento dell'Italia, e che bisogna farlo, affinché il papato o il potere spirituale non cada setto i colpi della rivoluzione. L'autore dello scritto ha egli riflettuto che l'Italia, a cui bisogna sacrificare il dominio temporale del Papa, non avrà altro padrone che questo Piemonte, il cui Governo chiamò se stesso rivoluzionario, il Piemonte che invade i territorii di coloro che non si danno a lui, che porta il ferro e la strage in mezzo ai popoli che rifiutano il suo giogo, che viola non solo la fede dei trattati più solenni, ora sotto il pretesto della loro antichità, ora per puro capriccio, ma anche il diritto delle genti, che in fine somministra

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le armi e il danaro per sollevare le masse affinché esse trovinsi di poi in istato di consumare l'atto di ribellione contro i loro Sovrani? E quale differenza mette l'autore tra quel Governo possibile al quale egli dà fin qui il nome di rivoluzione,

Privando così tante anime de loro legittimi pastori, non si fa che attaccare sempre più la religione. Su ciascuno di questi punti V. Eccellenza troverà più ampi particolari negli atti pontificii già citati, e ne' miei dispacci precedenti che vi si riferiscono. Tuttavia non ostante questi fatti e checché ne pensi l'autore dell'opuscolo, una cosa ci rassicura, ed è il pensare che ha con tro di se le assicurazioni ripetute del suo stesso Sovrano e dei ministri di lui, il trattato di Zurigo, in cui sono riconosciuti e ammessi come incontestabili i diritti del Santo padre, e finalmente lo slancio unanime di tutto il mondo cattolico.

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Con ciò che le ho fin qui esposto brevemente. Vostra Ecellenza può concepire l'idea principale di questo scritto. Tutto ciò che accumula oltre a relazioni, per vero dire, poco diplomatiche di aneddoti, di ciancie raccolte nelle anticamere, di millanterie esagerate e di proteste religiose in quella che vilipende ed ingiu

Tuttavia, poiché l'opuscolo associa principalmente una parte del Clero francese al S. Padre facendogli l'ingiuria di rappresentarlo come il docile istrumento di astuti intriganti, sono condotto a confondere tanta audacia con un solo raziocinio che salta agli occhi di tutti. Il movimento religioso in Francia, per la caasa della Santa Sede, non fu realmente diverso da quello che si è manifestato nel Belgio, in Alemagna, in Irlanda e altrove. Un effetto universale dimostra una causa del pari universale. Si dovrà dunque dire che tutta l'Europa si è trasformata in una grande Vanda? Se dalla Francia parecchie centinaja di valorosi sono venuti a schierarsi sotto la bandiera Pontificia, da altre contrade ne venne un numero ancora più considerevole.

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Si dirà forse che l'opposizione dinastica all'Imperatore dei Francesi ha spinto a questo magnanimo sacrifizio i figli generosi di queste differenti nazioni? Ma a chi ragionasse in siffatto modo sarebbe tempo perduto il cercare di rispondere. É vero che in Francia il movimento religioso per la difesa del Pontefice assalito si è manifestato con più di vivacità e di ardore; ma il motivo ne è più nobile di quello che pensa l'autore dell'opuscolo. Biso

Ora si fanno oggidì tutti gli sforzi, perché questa grande opera, che è presso il mondo cattolico la gloria più invidiata e più pura della figlia primogenita della Chiesa, cada in ruina, in disprezzo delle assicurazioni molteplici sia pubbliche, sia private, colle quali, come ho già detto, quando l'Imperatore dei Francesi, e quando i suoi ministri hanno dichiarato che il potere temporale non sarebbe scosso, ma invece consolidato.

E se voglionsi ritrovare altre cause di queste apprensioni, si potrebbero forse rinvenire sia nel famoso proclama imperiale indirizzato da Milano agli Italiani, sia nell'interpretazione data comunemente al colloquio ch'ebbe luogo a Sciamberì tra l'Imperatore dei Francesi e un generale piemontese sia nell'introduzione del principio del non intervento esteso in guisa da favorire la rivolta ed impedire le Potenze cattoliche d'accorrere in difesa del Sovrano Pontefice; sia nell'opposizione alle misure che avrebbero efficacemente arrestato la spogliazione sacrilega degli Stati della Chiesa; sia nell'offerta di proposte inammissibili. Tutte queste cause, per tacerne molte altre, si concatenano col ricordo di ciò che avvenne nel Congresso tenuto a Parigi nel 1856.

Io metto fine a questa triste discussione, alla quale mi condusse, mio malgrado, l'audacia dell'opuscolo.

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Per conchiudere farò osservare che, se è vero, come dicesi nell'ultima pagina, che la Santa Sede è destituita d'ogni umano soccorso (come l'autore sa meglio che qualsiasi altro), non è priva del soccorso di Dio; e Dio senza dubbio è più potente degli uomini.

Checché avvenga, il Santo Padre avrà la consolazione di essere stato fedele ai doveri della sua coscienza, e nei tempi di sì profondo avvilimento e di si grande perfidia, d'avere con un' im

Le poche considerazioni che vi trasmetto serviranno a V. E. d'istruzione e di regola, affinché, presentandosi il caso, Ella pos sa confutare le obbiezioni che si potessero trarre contro la Santa Sede dall'opuscolo suddetto, e sono, ecc.

Roma, 26 febbrajo 1861.

G. Cardinale ANTONELLI.

Nel medesimo tempo il Sig. Veuillot antico redattore dell'Univers catholique faceva uscire in Francia un' altro opuscolo intitolato il Papa e la diplomazia, in risposta a quello del Sig. DeLagueronierre. Questo è il contenuto del nuovo opuscolo:

«Incominciando a confutare l'opuscolo del Sig. de la Guerronière sento che faccio un' opera inutile. I cattolici furono piuttosto stomacati che sedotti dai suoi paradossi; per gli altri, che formano la turba dei liberali e dei rivoluzionarii, egli fece opera inutilissima: non hanno bisogno né d'incoraggimenti, né di pretesti: l'Europa è sul punto di un abisso, e nessuna forza umana può impedire che vi precipiti. Scrivo adunque senza speranza di successo non per illuminare l'opinione che tra breve vedrà chiarissimo tra le fiamme dell'incendio, che sta per iscoppiarc: ma scrivo solamente per aggiungere una protesta al piccolo numero di quelle che si fecero vedere contro al corteggio trionfale della bugia.

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Al tempo in cui viviamo, ogni cristiano deve ricordarsi che è traditore della verità non solo chi la impugna con bugiarde prove, ma anche chi non la proclama con libertà.»

A quest'epoca stessa il padre Passaglia ex-gesuita che le opi

nioni politiche e religiose avevano costretto ad abbandonare Roma, vi era tornato domandando un' udienza al Santo Padre, la quale gli venne rifiutata. Si credeva il padre Passaglia portatore di proposizioni verbali per parte del gabinetto di Torino. Noi non facciamo più che indicare questa supposizione: ma checché ne fosse, il giornale l'Armonia così ne fece parola:

«Da un'altra nostra corrispondenza rileviamo che il Santo Padre non ha voluto ricevere D. Passaglia reduce a Roma, e ciò per due ottime ragioni: la 1. perché l'udienza che gli avesse accordata Pio IX poteva dare luogo a nuove ciancio e supposizioni e sospetti ingiuriosi alla Santa Sede: la 2. perché era ben (naturale che chi avea trovato così buona accoglienza in Torino, e tanta amorevolezza e ospitalità presso il conte di Cavour, non ne rinvenisse altrettanta presso il Romano Pontefice, vittima de' suoi tranelli e delle sue congiure.»

Finalmente per adempiere al nostro assunto di cronista dobbiamo aggiungere che l'attitudine dell'Austria in faccia all'Italia aveva raffermato il governo pontificio nella sua resistenza. La corte di Vienna in fatti avea dichiarato in una~nota confidenziale trasmessa al Sig. di Metternich e la quale doveva esser communicata al Sig. Thouvenel; 1° che giammai ella non riconoscerebbe Vittorio Emanuele a re d'Italia, 2° che nel caso in cui le truppe francesi si ritirassero da Roma vi sarebbero immediatamente surrogate da una guarnigione austriaca.

Fu in questa situazione di cose, che si aprì nel senato Francese la discussione della questione romana.

III.

Diremo alcun che della composizione di quest'assemblea

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perché i nostri lettori possano avere un determinato concetto sul vero carattere dei dibattimenti, de' quali siam per riprodurre i principali discorsi. Dopo la caduta della republica del 1848 il nuovo impero fu costituito in Francia da Napoleone III. sotto la stessa forma del primo; fu creato adunque un senato, che si compose di tutte le notabilità ecclesiastiche, civili, militari, che avevano abbracciata la causa del nuovo imperatore per timore o per astio contro il regime republicano testé rovesciato. Il senato per conseguenza si trovò composto d'imperialisti, di leggitimisti, e d'Orleanisti: i primi assolutamente devoti al capo del governo, gli ultimi due partiti congiuntisi di più o men buona fede, e non veggenti nell'imperio che una transizione alla forma monarchica, la quale è oggetto delle loro speranze, ciascuno la sua. Noi pertanto vedremo in qual maniera verrà accolta in quest'assemblea la questiono dell'indipendenza Italiana.

Si trattava del voto dell'indirizzo in risposta al discorso che l'imperatore aveva pronunciato all'apertura della sessione parlamentale, che di già i nostri lettori conoscono. Una commissione era stata nominata per redigere quest'indirizzo e dopo vivi dibattimenti ella aveva presentato il suo lavoro di cui noi riportiamo solamente quel tanto, che si riferisce alla questione italiana.

«Se ora gettiamo lo sguardo sulla penisola italiana, noi restiamo colpiti, come V. M. negli avvenimenti che colà si successero dopo la ultima sessione. Due interessi di primo ordine che l'imperatore volle conciliare si sono accozzati l'un l'altro e la libertà italiana è in lotta colla corte di Roma.

«Il vostro governo ha tentato tutto ciò che può suggerire l'abilità politica e la lealtà per prevenire ed arrestare questo conflitto. Agli uni indicaste la via del diritto delle genti, agli altri quella delle transazioni. Là vi siete separato dalle aggressioni ingiuste; qui vi affliggeste delle resistenze impolitiche; dappertutto vi siete commosso alla vista di nobili infortunii e di rovine dolorose. Insomma furono aperte tutte le vie eque, e voi non vi arrestaste che davanti l'impiego della forza; dacché i pensieri di conciliazione non si realizzano cogli interventi armati.

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«D'altronde Vostra Maestà non dimenticò che in altri tempi fu fatto della Francia quello d'aver preteso di reggere l'Italia dopo averla liberata; e volesse sollevare la politica francese da ciò che aveva formato il suo imbarazzo, pensando che per aver dovuto intervenire in favore dell'Italia oppressa dallo straniero, non «bisogna intervenire per obbligare le volontà dell'Italia resa libera.

Questo sistema di non intervento, il migliore ad impedire le conflagrazioni generali, chiuderà il campo alle nostre secolari rivalità coll'Austria; e se, malgrado sinistre predizioni, la guerra non iscoppierà questa primavera, ciò avviene perché Vostra Maestà si chiuse in una saggia e ferma attitudine ed ha resistito ai trasporti di ardenti passioni, come non ha mai ceduto alle esigenze delle reazioni. E questa pace sarà un beneficio tanto per l'Italia come per noi. Giacché l'Italia non sarà compresa dal mondo che la guarda fuorché provando di non volere agitare con la sua libertà l'Europa, dopo averla scossa colle sue disgrazie. Si ricordi che il cattolicismo le ha confidato il Capo della Chiesa, il rappresentante della più grande forza morale della umanità. Gli interessi religiosi della Francia le chiedono di non discostarsene; le memorie di Magenta o di Solferino ci fanno sperare ch'essa vorrà tenerne conto.

«Ma la nostra più ferma speranza sta nella instancabile e tutelare mano di Vostra Maestà. La vostra affezione figliale per una santa causa, che non confondete con quella degl'intrighi, a questa foggia mascherati, si è segnalata incessantemente nella difesa e nel mantenimento del potere temporale del Sovra no Pontefice, ed il Senato non esita punto ad accordare la sua più intiera adesione a tutti gli atti della vostra politica, leale, moderata e perseverante. Continueremo per l'avvenire a porre la nostra fiducia in un monarca che copre il papato col vessillo i francese, che lo ha assistito nelle sue prove e che per Roma e pel trono pontificio s'è costituito sentinella la più vigile e la più fedele.

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«Sire, rimpetto a questioni che sembra si vogliano manifestare in Europa, la Francia è forse il paese dove men che in altro e è a fare, a motivo di quel che fu fatto. Pure una nazione come la nostra non saprebbe restare inattiva. Il lavoro ed il progresso stanno nei suoi destini, e da V. M. partono i più fervidi impulsi. Qualunque sia la parte nel movimento nazionale riservata al Senato, V. M, può contare sul suo zelo, sulla sua devozione e sul suo amore al bene pubblico ed alla verità. «

Fu nella seduta del 28 Febbraio, che s'aprì la discussione dei paragrafi relativi alla questione italiana, di cui abbiamo riportato il testo.

Erano presenti S. A. R. il principe Napoleone, Baroche. Magne, Billault, Parieu, i generali Allard, Boinvilliers e Vuillefrov e Vuitrv, ecc.

Dopo alcune osservazioni di Boissy e di Dupin sur una quistione regolamentare, il presidente dà la parola al marchese di De la Rochejaquelein.

De la Rochejaquelein, dopo aver constatato con piacere la nuova situazione che le riforme introdotte dal decreto 21 novembre fecero al Senato, dichiara che egli si sente pronto a dire, per parte sua, rispettosamente ciò che gli detterà la sua coscienza.

Ma bisogna però aver la libertà di dir tutto; bisogna essere liberi nel Senato quanto in un consiglio di ministri; la terità non può essere faziosa in bocca di un senatore.

Bisogna felicitare l'Imperatore della libertà resa ai grandi Corpi politici; fin qui la stampa sola alzava la voce; essa si arrogava la dittatura dell'opinione e, ciò che è tristo a dirsi, era la stampa rivoluzionaria che parlava più alto, ed era aiutata sotto un governo monarchico dalla complicità di una stampa officiosa posta sotto la mano dell'amministrazione.

E tempo che l'anima della nazione sia stampata a queste occasioni politiche.

Egli è tempo che i cattivi tremino, e che i buoni si rassicurino.

Il marchese di Larochejaquelein ricorda gli antecedenti del la campagna d'Italia. L'aggressione dell'Austria aveva costretto la Francia ad intervenire.

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Dopo quella campagna gloriosa, l'Imperatore aveva il diritto di parlare da padrone, ma richiedeva un tempo opportuno. Dopo Villafranca, andò sempre diminuendo la nostra influenza in Italia. Il Piemonte non faceva alcun conto del trattato di Zurigo né dei consigli della Francia. La Francia si trovò alle prese colla cattiva volontà del Piemonte e colla complicità della poco benevola alleata l'Inghilterra. Fu allora che ebbe luogo l'annessione di Nizza e Savoia. Questa annessione è pienamente approvata dall'onorevole Senatore.

Egli esamina in seguito gli avvenimenti delle Romagne e si maraviglia di quanto fece il Piemonte, dopo che l'Imperatore medesimo aveva dichiarato il 3 maggio 1860 non esser egli venuto per iscuotere l'autorità del Papa ed essere anzi suo intendimento che la fosse rispettata. Era allora un dovere di coscienza per il papato il fare appello alle potenze cattoliche e l'onorevole senatore dice che i pretesi torti della corte dì Roma nelle sue relazioni della Francia non erano un motivo sufficiente per mettere il papato in questione e per dichiararsi contro la cattolica Roma.

Si è fatto parimente un torto a Roma d'aver organizzato un' armata di volontari! Non si deve però dimenticare che essa ciò fece, non già per guerra esterna, ma per sedare la rivoluzione. Cosi l'intendeva pure l'Imperatore; che se egli non fece tosto cessare l'occupazione di Roma, era per dar tempo all'armata pontificia di organizzarsi. L'oratore parla pure del progetto di chiamar truppe napoletane nelle Marche. Il re di Napoli rifiutò; ebbene, poco dopo si vide il Piemonte invadere gli Stati Romani. Se il redi Napoli vi avesse avuto le sue truppe, che sarebbe avvenuto? Non si può egli supporre che il Piemonte, dichiarando di non opporsi all'ingresso dei Napoletani nelle Marche, non avesse cercato che un mezzo più facile di compromettere e di sacrificar Napoli? E so il giovane re non avesse presentito il laccio, egli non avrebbe avuto il tempo di far vedere al mondo come un re difenda la sua corona. (Leggero movimento)

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Il Sig. Larochejaquelein dice che a torto si fece fondamento sul principio del nonintervento, poiché risulta dai dispacci medesimi dei ministri degli affari esteri di Francia e del Piemonte, che la S. Sede può sempre chiamare in sua difesa le potenze cattoliche.

La corrispondenza del Sig. di Gramont ed i dispacci del Sig. Thouvenel dimostrano sovrabbondantemente che il governo sardo è stato avvertito delle mene rivoluzionarie che preparavano sul suo territorio spedizioni armate, e non prese alcun provvedimento per impedirne la partenza. Garibaldi arrivava senza ostacoli in Sicilia dove le società segrete organizzate dal Piemonte ed eccitate dall'Inghilterra gli preparavano buona accoglienza. Bisogna pur rammentare che il sig. Brenier aveva segnalato a Napoli l'arrivo del nuovo ambasciatore sig. Villamarina ed il modo con cui questo ultimo avevalo ingannato dicendogli d'essere venuto con intenzioni conciliatrici.

Dal canto suo il sig. di Talleyrand non si lasciava ingannare dal conte di Cavour. Egli invitavalo, in una nota confidenziale, a prendere degli energici provvedimenti per provare che il governo piemontese era estraneo alle mene rivoluzionarie che mettevano l'Italia sottosopra.

Si vede adunque che la Francia aveva fatto tutti gli sforzi contro i preparativi che il Piemonte incoraggiava sottomano, pur fingendo di protestarsi contro, quando la Francia gli prodigava consigli a questo proposito. L'8 giugno l'Imperatore accetta la parte di mediatore tra il re di Napoli ed il Piemonte. I dispacci del signor Brenier fanno temere una cattiva riuscita, ma i dispacci del sig. Persigny sono più rassicuranti. Il primo segretario di S. M. brittanica comprende che può esser vantaggioso per l'Inghilterra, che l'Italia sia trasformata in due gruppi. Ma notate la condotta dell'Inghilterra: dichiarando contraria al diritto delle genti la condotta del Piemonte, lord John Russell domanda tuttavia il nonintervento. Or dunque il nonintervento non è già francese, ma bensì inglese. Conseguenza di tutto ciò fu che mentre il re di Napoli si fidava alla Francia, noi l'abbiamo abbandonato all'Inghilterra.

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Qui l'oratore parla dell'avviso dei plenipotenziari a Torino cercando sempre di far risaltare dalla parte del gabinetto sardo

un'insigne duplicità, e dice che la Francia faceva proporre, il 21 luglio, al primo segretario di S. M. britannica di dare agli ammiragli delle due nazioni l'ordine d'impedire a Garibaldi di passare lo stretto. L'oratore si lagna che la risposta dell'Inghilterra fosse negativa, e dagli avvenimenti che allora si precipitarono tira la conseguenza che il Piemonte voleva guadagnare del tempo affine di compromettere la Francia nella sua politica. Egli lagnasi pure che non tutti i documenti siano stati pubblicati, giacché essi avrebbero sparsa una luce giovevolissima sulla condotta della Francia in quel la serie di avvenimenti deplorabili.

Parlando dell'andata del re di Napoli a Gaeta e dei ministri delle potenze estere che ve lo seguirono, perché, dice l'oratore, il ministro di Francia si è ritirato? Aveva egli degli ordini? Come dunque conciliarsi coll'insieme della nostra politica? sono tenebre che devono essere rischiarate; l'onore del gabinetto vi è impegnato. L'onorevole senatore non sa comprendere come il Piemonte il quale deve tutto alla Francia e può temer tutto da essa, la sfidi pur tuttavia, operando manifestamente contro tutti i consigli e le proteste della medesima; e dice che se tali proteste fossero se rie, né il conte di Cavour, né Vittorio Emanuele oserebbero mettersi in così evidente contrasto colla Francia. La Francia è sfidata; tocca ai grandi corpi politici il far conoscere la sua opinione al governo. L'oratore continua a stimatizzare il Piemonte, relativamente all'affare delle Marche e dell'Umbria e lo fa nei termini più energici. Passa in seguito a parlare dell'udienza che ottennero a Sciamberì dall'lmperatore i signori Cialdini e Farini, rammenta gli incidenti ed i commenti che ebbero luogo, dice che i documenti diplomatici non hanno chiarito il fatto, ma che qualche luce si troverà nei fatti accessori. Mentre Cialdini invadeva le Marche, il sig. Gramont notificò al console di Civitavecchia che la Francia si opporrebbe all'azione del Piemonte. Ma quando si fece sapere a Cialdini il tenore del dispaccio, egli rispose che la Francia ed il Piemonte erano d'accordo.

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Il sig. Thouvenel credette di dover protestare controuso delle armi, prosegue l'oratore, non era nemmeno necessario: bastava una parola della Francia; ma la longanimità del governo è stata eccessiva. Si può anzi dire che il suo contegno non fu d'accordo colle sue parole. E un eccesso d'indulgenza di cui profittò l'Inghilterra. So avessimo agito altrimenti, l'Inghilterra ci avrebbe maggiormente rispettati e non saremmo oggi sul punto di vedere il re d'Italia salire sul trono a Roma sua capitale.

L'onorevole Senatore parla poi del re di Napoli e domanda perché la Francia l'abbia prima protetto, poscia abbandonato a Gaeta.

Egli fa vedere l'estrema indifferenza con cui l'Europa ha lasciato cadere quel re infelice; dice che la caduta di Roma deve seguire inevitabilmente quella di Gaeta e che il Senato deve respinger siffatto conseguenze.

Dopo alcuni momenti di pausa, il sig. di Larochejaquelein fa osservare come il discorso del Trono non contenga che una frase relativa all'invio di nuove truppe a Roma; ma solenni impegni sonosi presi in favore del papato, ed il clero saprà chiedere all'Imperatore che non lasci disfare l'opera di Carlomagno.

Giornali inglesi e piemontesi hanno dichiarato che si era l'accordo per finiir la questione romana. No; Roma non sarà abbandonata all'Inghilterra finché evvi dell'onore francese. L'oratore concede che riforme interne siano state chieste indarno al papa, ma dice che le esitazioni del Papa a questo riguardo sono ben giustificate. Egli fa la storia delle riforme iniziate da Pio IX nel 1848, ricorda la morte di Pellegrino Rossi e quel che accadde in appresso; fa pur cenno di quella famosa lettera che menò tanto rumore a quel tempo e che taluni riguardarono con un atto calcolato contro Roma per poterla dominare più tardi. L'oratore trova cosa naturalissima che la S. Sede, in presenza di aggressioni rivoluzionarie che da due anni si producono in Italia e colla riminiscenza del 1848, siasi astenuta dal concedere le riforme domandate. D'altronde, se nel 1860 la S. Sede si fosse rivolta


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alla Francia mostrandosi disposta alle concessioni, le si sarebbe potuto rispondere, come al re di Napoli.

«E troppo tardi!»

E la S. Sede doveva trovarsi, a questo riguardo, in un grande imbarazzo, giacche si disse persino e fu scritto in una lettera di lord Cowley, che il Piemonte era spinto dalla Francia all'invasione delle Legazioni.

Vi sono cose difficili a dirsi, ma l'esitazione non è più permessa quando la religione è minacciata. Si deve dunque riconoscerlo, la situazione era tanto piena di difficoltà che, per parecchi anni, l'ambasciatore francese presso la S. Sede, confidando nella sua abilità e credendo senza dubbio di servir meglio la Francia, non aveva diviso le vedute del suo governo ed aveva dato incoraggiamenti alla corte di Roma nelle sue resistenze piuttostoché spingerla nel senso delle concessioni chieste dalla Francia. (Interruzione, reclami diversi).

Il sig. Thouvenel protesta contro queste ultime parole per l'onore del sig. Rayneval. Si oppongono il Principe Napoleone, il conte Walewski, il Presidente, il sig. Baroche.

Il sig. di Larochejaquelein riprende la sua argomentazione. Come potevasi domandare a Roma delle concessioni? Credesi forse che a Roma l'uccisione di Rossi non fosse una ragione di aggiornamento così forte come i fatti che aggiornarono in Francia il coronamento dell'edificio? Si fanno accuse al papa per meglio opprimerlo. Si serve cosi al Piemonte ed all'Inghilterra, ma si comprendono male gli interessi del governo francese. L'onorevole Senatore dice che possono esservi a Roma delle influenze ostili alla Francia, ma che i vescovi ed il clero di Francia non sono certamente ostili alla Francia. Egli cerca quindi di provare colla storia alla mano che l'Italia non debb'essere una, che tale era l'opinione di Napoleone e che lo stesso espresse Napoleone III nella lettera che scriveva il 20 ottobre del 1839 al re di Sardegna.

Dice che il nonintervento è un idea inglese e non francese e che solo il gabinetto inglese ne tira profitto pe suoi interessi in Italia. Affinché l'alleanza della Francia e dell'Inghilterra sia buo

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L'oratore riassumendo rimprovera al governo francese di non avere una politica stabilita. Bisogna ritornare alla politica abbandonata dopo Villafranca e non far sperimenti a spese della Francia e della religione. Bisogna far rispettare il trattato di Zurigo, dell'Austria e del Piemonte. Bisogna convocare un congresso, ove l'Imperatore non esiterà a combattere la rivoluzione e risponderà alla sfida gettatagli teste dal conte di Cavour nel proclamare Vittorio Emanuele re d'Italia.

Se la Russia e la Prussia vedessero la religione che esse professano minacciata, farebbero certamente tutti i loro sforzi per difenderla.

La Francia deve ella fare di meno? Il ristabilimento della religione condurrà il buon accordo, e la Francia non sarà accusata di difendere e di abbandonar poi i principj in nome dei quali si è impegnata.

Terminando, l'onorevole senatore dichiara che egli non voterà l'indirizzo come è proposto, perché esso non da alcuna forza al Sovrano e non è conforme alla dignità del Senato. Egli non crede che si possano trattare in egual modo due interessi così diversi, come quello della libertà della Chiesa e quello della libertà italiana, e che si possa sacrificar Pio IX a Vittorio Emanuele, come sembra farlo l'indirizzo. Egli non capirebbe che si facesse ricorso al Piemonte per difendere il S. Padre.

La Francia non ha fiducia che in se stessa per difendere il potere temporale della S. Sede, il Senato debbe dire se vuole o non vuole abbandonare Roma: ma esso deve confessare la sua fede, e la risposta che ci si oppone non è degna di noi. Sulla questione politica, aggiunge l'oratore, potrei rimettermi all'Imperatore, ma sulla questione religiosa, non mi rimetto ad alcuno e voglio sempre poter dire di aver fatto tutto e cogli atti e colle parole per difendere la religione.

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Il barone Heeclkeren dichiara di approvare il progetto d'indirizzo nel suo spirito, ma vorrebbe più nettezza sulle due questioni che occupano presentemente tutti gli animi; la rivoluzione italiana 0 la questione di Roma, ed insiste sulla necessità di associarsi con maggiore fermezza ai voti e alle simpatie espressi dall'Imperatore. La quistione di Roma ha un doppio carattere religioso e politico e su quest'ultimo punto l'onorevole membro vuole presentare alcune osservazioni.

Due paesi rappresentano attivamente fuori delle loro frontiere la loro attività religiosa, e sono Inghilterra protestante e Francia cattolica. Ma nel mentreché, in conseguenza del carattere nazionale l'Inghilterra protegge al di fuori gl'interessi religiosi con conati individuali, la Francia che se ne rimette volentieri alle cure del governo, lascia difendere fuori i suoi interessi religiosi da missioni che rilevano dal Papato.

Ma il Papato non può proteggere i missionari e ne farebbe dei martiri se queste che intendono la loro parola non divenissero i clienti della Francia. Abbandonar Roma gli è compromettere cotesta situazione. Si dice, è vero, che resterà al Papa la sua autorità spirituale, ma se è spoglio del potere temporale non vi è dubbio che il potere spirituale sia diminuito - Che cosa era il Papa a Fontainebleau? E vero che non si pretende fare del papa un esule; egli continuerà a sedere nel Vaticano sotto la protezione del Re Vittorio Emanuele che si degnerà vegliare sopra di lui. (si ride)

Il Papa non vorrebbe questa situazione. Lasciando da parte i trattati e tutti i principii di diritto, l'onorevole senatore dice che tutte le tradizioni della politica francese le vietano di abbandonare il papa. In appoggio di questa opinione ricorda che il governo del 1830, nonostante uscito da una rivoluzione che si era fatta da parte contro il predominio del elencato ha sempre mantenuto il potere del Papa. Questa politica fu seguitata da tutti i ministri del governo di luglio, Perier, Broglie e Guizot, e questa parimente è l'opinione di Thiers, lo storico nazionale.

E dopo il 1848 quando il sig. Barrot chiedeva il ristabilimento del Papa si crede che fosse per interesse religioso?

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No! era in

nome della politica degli interessi della Francia (approvazione) perciò l'onorevole membro è convinto che la occupazione francese continuerà sino a tanto che sarà minacciata la sicurezza del Papa.

Passando alla quistione della rivoluzione italiana, l'oratore ricorda il giudizio severo e meritato fatto dall'Imperatore sulla condotta del Piemonte, quando egli dichiarava che la Francia non esiterebbe mai a condannare la violenza e l'ingiustizia e quando rendeva nel medesimo tempo omaggio al valore spiegato a Gaeta. Ebbene! dice, io domando al Senato di associarsi alla dichiarazione dell'imperatore. L'onorevole membro esamina poi la condotta del Piemonte nella lotta impegnata in Italia, e fa osservare appoggiandosi sul testo medesimo dei dispacci del ministro degli affari esteri di Francia, il carattere aggressivo di cui è costantemente improntata. Egli opina che la Francia non possa tollerare questa condotta.

I consigli furono sempre respinti, citazioni numerose lo proverebbero, ma sono inutili quando si voglia ricordare che il sig. Cavour, associato a Garibaldi avea dichiarato che il Piemonte otterrebbe la Venezia colla diplomazia ovvero colle armi; ma il gabinetto inglese che probabilmente ha interessi nell'Adriatico vedeva con dispiacere un attacco contro la Venezia; essa fu abbandonata; e, cosa singolare, fu vista accordare all'Inghilterra che non avea fatto nulla per l'Italia ciò che era stato ricusato alla Francia che avea prodigato sangue e denaro sui campi di battaglia della Lombardia.

Il Piemonte ha sdegnato tutti gli avvertimenti della Francia, non ha tenuto verun conto delle sue proteste, si è riso del minacciato richiamo dell'ambasciatore in Francia, perocché il giorno che il nostro ministro in Torino annunziava questa determinazione del suo governo nel caso che le truppe piemontesi varcassero la frontiera romana, il generale Cialdini senz'aspettar risposta da Roma al suo ultimatum invadeva gli Stati della Chiesa.

Gli amici del Piemonte vanno dicendo che questa invasione aveva per iscopo di proteggere quegli Stati e preservare il Santo Padre da un attacco meditato da Garibaldi.

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I fatti smentiscono una siffatta spiegazione; in realtà i Piemontesi facevano in Ancona la stessa parte di Garibaldi a Napoli e l'accordo era completo malgrado le false apparenze di disunione.

Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi hanno sempre agito d'accordo, e Mazzini egli stesso ha qualche volta lavorato per essi spianando loro la via negli Stati napoletani.

In tal modo Mazzini preparando, Garibaldi invadendo, Vittorio Emanuele prendendo possesso, ecco la conquista e la sua trilogia

(segni di assenso).

Ancora una parola: ci vuol molto denaro per fare la guerra e le sottoscrizioni particolari non avevano dato che ottocento mila franchi. Chi ha fornito adunque il resto dei fondi? Se il Piemonte, egli mentiva alla Francia, se l'Inghilterra, essa aveva interesse che una rivoluzione scoppiasse nelle due Sicilie.

In queste contingenze il patriottismo impone un dovere; quello di biasimare altamente il governo piemontese e ringraziare T Imperatore che ha disapprovato questi fatti rendendo un giusto e solenne omaggio ad un nobile infortunio.

In sostanza l'oratore approva lo spirito dell'indirizzo in questo senso ch'esso sii associa alle speranze espresse nel discorso imperiale in favore della santa sede e al biasimo contro gli atti che hanno prodotto la caduta del redi Napoli; ma opina che il Senato per entrare nel pensiero dell'Imperatore avrebbe potuto dire più esplicitamente quali atti bisognasse colpire di severo giudizio, avrebbe potuto essere egualmente più esplicito nella espressione delle sue speranze avvenire.

(Segni numerosi di approvazione su molti banchi).

Pietri dice che dal cominciamento del suo regno l'Imperatore rimase costantemente fedele al programma che si era tracciato. Sia ne' suoi discorsi, sia ne' suoi atti, egli non cessò di inspirarsi alle idee civilizzatrici onde son pure improntati gli scritti che ha pubblicato. Dopo il giorno in cui l'armata francese mosse a riaprire al Papa le porte di Roma, evvi nell'Imperatore una logica ammirabile, che seppe conciliare gli interessi della Francia colle norme del diritto e della giustizia, senza dimenticare gli obblighi inerenti al titolo di figlio primogenito della Chiesa.

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Egli ristabilì il Papa, perché il suo decadimento era stata l'opera di una fazione. Ma da quel momento chiedeva a Pio IX numerose riforme reclamate dai più legittimi interessi. Il governo della Santa Sede promise, ma ne differì sempre l'adempimento. Non è l'Imperatore che si deve rendere responsabile delle continue oscitanze della Corte Romana.

Quando si decise a far guerra contro l'Austria per rendere l'Italia a sè stessa, quali opposizioni non incontrò la sua politica sino in seno del governo! Ma questa opposizione non fu per la Francia che un' occasione di più per manifestare i suoi sentimenti, e dal momento che parlò l'Imperatore un magnifico slancio animò il paese. Dopo Solferino si potò un istante temere che il programma non rimanesse inadempito; ma l'Austria affievolita non era più né una minaccia né un pericolo: l'Imperatore poteva dunque fermarsi.

Forse oggi egli deve dolersi di non aver proseguito più in là. Si sarebbero tolte senza dubbio delle difficoltà che sono sorte dopo; ma non devesi tuttavia riconoscer meno che colla pace di Villafranca l'indipendenza d'Italia era proclamata, e che era no assicurate le più giuste soddisfazioni per lo stabilimento di una confederazione italiana.

Ora, se gli eventi non hanno corrisposto alle speranze con cepite, se la confederazione italiana non ha potuto esser fondata, bisogna muoverne accusa ai governi italiani che si sono lasciati dominare da idee di reazione; non bisogna farne carico all'imperatore. Napoleone III non è responsabile della non esecuzione della pace di Villafranca. L'imperatore ha biasimato le aggressioni del Piemonte contro le Romagne e contro Napoli. Ha richiamato il suo ambasciatore. Di più non poteva fare. Non poteva difender colle armi governi che si perdevano volontariamente. Avrebbe compromesso il prestigio dell'origine del suo potere imperiale.

E d'altronde a profitto di chi si sarebbe esercitato cosiffatto intervento? A profitto del duca di Toscana che era vassallo dell'Austria e che aveva postate contro di noi le armi a Solferino? A profitto del duca di Modena che non avea riconosciuto

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L'Impero? A profitto del re di Napoli che non ha mai voluto tener conto dei nostri consigli? Necessitava forse, pur coprendo il papato colla nostra protezione, compromettersi a pro del governo pontificio che non voleva accordare alcuna riforma?

Se non siamo riusciti a salvare i governi italiani, la colpa fu degli interessati.

Il governo delle Due Sicilie si era suicidato non era necessaria la spedizione di Garibaldi per far precipitare cotesto governo condannato.

A Roma tutti gli sforzi della Francia furono impotenti: l'Imperatore voleva far garantire le Romagne col vicariato di Vittorio Emanuele. Questa proposta fu respinta. L'imperatore non si scoraggiò. Si mise innanzi il piano d'una garanzia degli Stati pontifìcii fatta da tutte le potenze cattoliche con una guardia somministrata in comune a S. Santità; nuovo rifiuto.

Bisogna qui ricordare l'incidente doloroso dell'enciclica mandata ad alcuni giornali. Poi il governo pontificio creò un' armata; chiamò a capo della medesima un generale, che, per odio dell'Imperatore aveva ricusato di servire il suo paese da dieci anni. A questo segnale i vecchi partiti risvegliarono: Roma divenne una nuova Coblenza, noi diventammo novi pellegrini politici. Alcuni prelati francesi non esitarono di unirsi a queste manifestazioni. Si sa cosa diventò quest'armata del Papa. Il generale Lamoricière, spogliò del suo prestigio militare, lasciò il campo di battaglia che fu si funesta alla sua gloria. Che fece il Papa? Gettò una specie d'interdetto sull'impero francese, rifiutando l'instituzione canonica ad alcuni vescovi nominati dall'Imperatore.

Così l'Imperatore ha fatto tutto per il Papa, ma tutti i suoi voti rimasero sterili. Cosa si debbe dunque far oggi? Bisogna limitarsi a salvare il potere spirituale del Sommo Pontefice! Il potere temporale debbe considerarsi come perduto.

La pace vera non può nascere che da una soluzione compiuta, da una giustizia compiuta. A questo solo prezzo voi avrete una pace durevole nella Chiesa. Ma bisogna affrontare risolutamente le difficoltà. La Francia e l'Italia si pongano di accordo per dare una soddisfazione al Papato sotto il punto di vista spirituale.

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Questo potere del Papato sta al disopra delle nostre discordie e dei nostri interessi.

Il Senato non si limita nell'espressione dei suoi voti a forme dubbiose ed equivoche; sarebbe perdere il benefizio del sangue sparso a Solferino a Magenta il voler spingere l'Italia nella via dello reazioni. Le assemblee che non seppero, che non osarono parlare liberamente, non hanno salvato alcuna dinastia. L'attitudine della reazione mostrerà la nostra condotta.

La reazione rialza la testa, il suo linguaggio è fazioso, e degno dei tempi più luttuosi. Non è in tal momento che la Francia debbe sacrificare i suoi alleati naturali. L'Italia ha trecento mila uomini da mettere a lato della nostra armata al momento della lotta che pare ci minacci. L'oratore approva con calore le riforme del 24 novembre. Esse hanno provato che la Costituzione del 1852 conteneva i germi di tutti i progressi. Bisogna marciare coll'Imperatore. L'oratore dà pure tutta la sua approvazione alla circolare, in cui il ministro dell'interno faceva appello alla conciliazione. Lamenta però che fosse solo questione degli uomini degli antichi partiti.

Nella seduta seguente vale a dire quella del primo di Marzo il principe Napoleone prese la parola, e pronunciò un discorso, che per lungo che fosse, pur si conciliò intieramente l'attenzione dell'assemblea. Riprodotto dal Moniteur officiel, occupò sette colonne e mezzo. Noi ne faremo un sunto fedele, e ne trascriveremo i passi di maggior momento;

Il principe incomincia con molta veemenza biasimando il discorso del signor De La Rochejacquelein e pronuncia le parole già recateci dal telegrafo, le quali meritano di essere compiutamente ripetute.

«Signori Senatori, vi sono degli attacchi che onorano, ed io lascio la cura di rispondere agli oltraggi che avete intesi, all'opinione liberale di Europa, al patriottismo italiano, ai 200, 000 soldati, i quali coll'Imperatore alla testa hanno fatto la campagna d'Italia (viva approvazione); essi sapranno difendere il Re Vittorio Emanuele dagli attacchi che ci diressero contro di lui (nuova approvazione).

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Voi non lascierete che il signor De La Rochejacquelein pur da ieri sedente in Senato e che va debitore della propria elezione allo spirito conciliante dell'Imperatore, voi non lascierete

«Si! Ed egli se ne gloria, perché egli è fra i re un parvenu come rappresentante dei principii liberali, dei principii dell'89. (Viva e lunga approvazione. ) I popoli non si ingannano, essi contano sopra Napoleone III che non fallirà alla sua missione. (Nuova approvazione. Benissimo Benissimo. )

«l'imperatore nel suo discorso ha detto alcune parole che ebbero l'approvazione dell'Eckeren. Signori queste parole erano parole di pietà, erano parole di alta convenienza per un sovrano sventurato. Non bisogna, o signori, confondere la pietà colla simpatia. Le nostre simpatie sono per la gloriosa causa italiana; sono per quegli alleati che versarono il proprio sangue al nostro fianco a Magenta e a Solferino. Ecco ove sono le nostre simpatie (benissimo).

Il principe continua dicendo che il senatore Eckeren ha perfettamente ragione di stimmatizzare i tradimenti di alcuni membri della famiglia reale di Napoli. Esso dice che questi fatti ricorrenti nelle storie dei Borboni saranno estranei sempre a quella dei Napoleonidi.

Indi passa a rispondere al signor La Rochejacquelein sull'argomento dell'alleanza inglese. «Certamente il march. De La Rochejacquelein è conseguente a se stesso negli attacchi che dirige contro questa alleanza, che noi dal canto nostro siamo conseguenti a noi stessi prendendone la difesa. L'alleanza inglese, non già l'alleanza con qualche ministro, ma col gran popolo liberale inglese è quella colla quale noi possiamo difendere i grandi principii di libertà e di progresso; senza dubbio possiamo essere forzati a questo scopo a fare delle concessioni su punti secondarii, ma sopratutto bisogna che il paese sappia

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che noi vogliamo questa alleanza, la quale ci condurrà a fare delle grandi cose.» S. A. soggiunge che la politica del sig. La Rochejacquelein ha il merito della franchezza. Essa ci formola una seconda spedizione di Roma, guerra col Piemonte.oratore prodiga i più grandi elogi alla politica francese. Nel 1849 gli spiacque la spedizione di Roma; ma dal 1849 in poi l'attitudine della Francia e quella d'un gran popolo. Gli atti che esso approverà in ispecial modo sono: i rimproveri diretti ai governi che si ostinano a seguir tradizioni per sempre condannate; è il principio del non intervento, principio da cui deriverà l'unità dell'Italia, e infine il richiamo della nostra flotta da Gaeta. Questa politica, l'oratore lo ripete, condurrà all'unità dell'Italia, che è un bene.

Il principe continua ricapitolando i fatti. Dice che la guerra d'Italia fu popolare in Francia, e contesta l'asserzione contraria. Ciò che fu impopolare piuttosto fu la pace di Villafranca. Eranvi due cose in questa pace: la cessione della Lombardia, fatto positivo, e l'espressione di alcuni desiderii dei principi, fermo il nonintervento armato. Osserva che se le condizioni di Villafranca furono violate dal Piemonte, non furono punto mantenute dall'Austria. Quanto alle popolazioni dell'Italia centrale, nessuno poteva impegnarle. Il re Vittorio Emanuele, sottoscrivendo il trattato di Villafranca, aggiunse di propria mano: approvato per ciò che concerne il Piemonte: Poteva esso impegnarsi ad imporre colla forza alle popolazioni italiane i patti di Villafranca?

Arrivando alla cessione di Nizza e Savoia, l'oratore ne constata la giustizia ed aggiunge che il Piemonte mostrò una lealtà perfetta in questa circostanza. «Esso doveva della riconoscenza al suo grande alleato ed ha nobilmente pagato il suo debito.

Aggiunge che se è vero che debbansi rispettare i trattati nessuno può non meravigliarsi della tenerezza che taluni mostrano per quelli del 1815 fatti contro la Francia e violati sovente ma soltanto contro la Francia.

Signori Senatori, la gloria dell'Imperatore è di aver stracciati i trattati del 1815 colla punta della sua spada, (benissimo, benissimo) ed il popolo gliene è riconoscente.»

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Incomincia l'esame dei documenti diplomatici. Quanto all'autorizzazione data al generale di Lamoricière, S. A. dice che

Dopo altre citazioni storiche l'oratore torna ai fatti alterati; parla dei rapporti del cardinale Antonelli colla nostra diplomazia. Dopo aver lamentato come furono respinte tutte le proteste fatte in favore della Corte romana, conchiude: «È egli questo un trattar seriamente i grandi affari?» Negli argomenti avversari il principe non trova che un idea giusta. Il signor de Larochejaquelein ha detto che esso non voleva la riunione del temporale e dello spirituale, e che perciò domandava l'indipendenza di Roma. «Anch'io, o signori, dice il principe, sono un energico oppositore della riunione dello spirituale e del temporale nelle stesse mani»; ma non bisogna ammettere a Roma ciò che si restringe a Parigi. Egli se ne appella alla logica. «Non è però nelle nostre intenzioni di distruggere il potere temporale oggi, noi lasciamo questo compito al tempo, al progresso ed ai popoli.

Ritornando sui fatti dell'Italia meridionale, l'oratore dimostra che dipendettero non già dai maneggi piemontesi, ma dalle colpe e dagli errori dei rispettivi governi, e lo prova coi documenti antecedenti alla spedizione di Garibaldi. Il Governo piemontese ha la sua giustificazione nei dispacci degli stessi agenti francesi.

Volevasi, dice, che il Governo piemontese prestasse tutta la sua fede alle promesse dei Borboni? «Non vi sono spergiuri di cui non si sia resa colpevole la dinastia napoletana. E può destare meraviglia che il Piemonte non avesse confidenza in un gio vane che ha del coraggio e si. è condotto bene a Gaeta, ma che secondo i precedenti stessi che egli trovava nella sua famiglia si sarebbe creduto più tardi in diritto di ritirare le sue concessioni, di mancare alla sua parola, di gettare i suoi ministri nel fondo di una prigione?»

É falso che l'intervento per l'unità fosse una idea ambiziosa, che la stessa unità nazionale non fosse che il sogno di un soldato fortunato; essa aveva origino negli avvenimenti, dice il principe,

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ed era nelle previsioni di tutti. Era nell'atmosfera come una di quelle correnti, alle quali non si può resistere, e come un' idea feconda che deve riuscire e che riuscirà perché è buona ed utile alla Francia, malgrado la contraria opinione emessa dal ministro degli affari esteri che la temeva e la deplorava, ma che riconosceva che era troppo tardi per arrestarne il progresso.

Il principe affronta la questione più difficile, la questione legale. Evidentemente il diritto scritto non fu rispettato; ma tutto sta nel vedere se vi sono circostanze che ne giustifichino la violazione.

Il colpo di stato del 1851 era una necessità sociale, benché non fosse nella legalità, e così dicasi di innumerevoli altri fatti di cui è piena la storia del mondo. La caduta del governo borbonico non si poteva impedire. Della stessa natura è la caduta del potere temporale,

Certamente il Papa deve conservare la sua indipendenza, e l'oratore riconosce che il Santo Padre non può diventare il sud dito di un nuovo sovrano. In ciò appunto consiste la difficoltà della questione di Roma, ma non è impossibile di risolverla.

Il Papa è il capo spirituale della Chiesa. Non potrebbe esso risiedere a Roma con tanto d'indipendenza che lo faccia essere né capo, né suddito di nessuno?

La situazione geografica di Roma, divisa dal Tevere in due città perfettamente distinte, sembra offrire una soluzione. Si assicuri l'indipendenza del Papa in una delle parti della città con una guarnigione e con un bilancio garantito da tutte le potenze.

Il card. Mathieu; Signori Senatori, avanti ieri, il nostro onorevole collega, sig. Pietri, ha espresso la sua opinione sugli affari di Roma; egli ha trovato che l'agitazione che prendea campo era prodotta dallo spirito di partito, e il rimedio che gli parve più conveniente fu l'abolizione del potere temporale del Papa, da cui lo spirituale guadagnerà, egli disse, in indipendenza e in rispetto.

Io mi permetterò primieramente di domandare al nostro onorevole collega s'egli sia ben sicuro del suo punto di partenza, e se sia realmente lo spirito di partito che ha sollevato l'agitazione da cui egli è preoccupato. La quistione non è indifferente giacché secondo che l'agitazione sarà religiosa o politica

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la con

Se l'agitazione fosse politica il dovere del governo sarebbe di fare delle investigazioni. Se i suoi agenti nulla scoprissero, essi potrebbero congetturare, indagare, e allora il potere si troverebbe impegnato in una sgraziatissima via di inquisizione. L'attuale agitazione sembra essere un emozione, un' ansietà religiosa. Si dirà: «Come la religione è ella in pericolo? E il governo non la protegge? A che queste amare grida? A che questo minaccio?

Signori, se vi furono minaccie, esse sono state disapprovate da noi. Non è già colle minaccie che si difende una causa giusta e salda. Quanto al dolore e all'affanno, ahimè io ve ne scongiuro, degnatevi di soffrirli.

Permettetemi una supposizione, essa non ha alcunché d'inverisimile in un paese sconvolto com'è il nostro. Io suppongo che il capo di una delle nostre famiglie patriarcali siasi trovato, a seguito d'una catastrofe politica, sotto il peso d'un grave affare; un generoso intervento lo ba salvato, egli però ha perduto tutti i suoi beni, e l'antica abitazione, culla de' suoi antenati. I suoi figli sono stati felici di poter dargli un asilo. Essi però non posson trattenersi dal gettare uno sguardo sulla rivoluzione che ha spogliato il padre loro. Vorrete voi dunque trattar questi figli come cospiratori e ribelli!

Signori, se l'agitazione è puramente religiosa, la quistione muta completamente d'aspetto. La religione non fa sommosse. Essa non crolla il trono del principe, non porta la mano sulla corona di lui. Guardatevi bene però di far passare coi rigori della repressione la questione religiosa nelle ragioni politiche.

Il nostro onorevole collega ha parlato dei vescovi con termini che mi hanno commosso. Ohi se egli li conoscesse un po' più egli si sarebbe servito d'altre espressioni. Io me ne appello a voi tutti, Signori, che per le vostre relazioni, per le vostre comunicazioni colla Francia intera,

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avete potuto apprezzar l'opera dei nostri pastori. Io confido nella vostra testimonianza.

Si propone la soppressione del dominio temporale del Papa; ma allora si presenta una quistione. Se il Papa viene spogliato del suo dominio, chi regnerà in sua vece? Quegli che l'avrà spogliato. Primieramente, ciò è giusto e conveniente? poscia questo sovrano porterebbe a Roma quella massa di pellegrini che vi chiama la sede del cattolicismo? No' Roma diverrà deserta, sconosciuta a tutti coloro che non vi saranno chiamati se non dai loro affari civili. La corona religiosa sarà surrogata dalla corona civile.

Inoltre, se si sopprime il dominio temporale del Papa, qual indipendenza rimarrà al Santo Padre? Quali risorse avrà egli per mantenere presso di sè quest'impiegati, queste congregazioni, questi tribunali necessari i all'esercizio della sua autorità spirituale? E supponendo anche ch'egli possa conservarli, quali conflitti non avranno a temere col potere necessariamente sospettoso che comanderà in Roma?

Se finalmente si sopprime il poter temporale, si dovrà accordare una lista civile al Papa; e allora quale sorgente di difficoltà! Negli stati costituzionali, essa sarà votata dalle Camere, non senza discussioni, né agitazioni, e questa lista civile come verrà essa garantita? La s'inscriverà, si dice, al gran libro del debito pubblico; ma non dovrà ella subire quelle ritenzioni, quelle consolidazioni, quelle bancherotte stesse di cui finora non si è perduta la ricordanza? Il Papa allora perderà il suo reddito.

Sig. de la Rochejacquelein: Sì, se non si ò contento di lui. (Mormorio. Silenzio. Udite! )

Il card. Mathieu, rispondendo alle diverse allegazioni portate contro la Santa Sede dal sig. Pietri dichiara non essere esatto che la corte di Roma abbia ricusato l'istituzione canonica dei vescovi nominati dall'Imperatore; e che abbia messa, per così dire, la Francia in interdetto. L'istituzione canonica è stata improvvisamente ritardata da quistioni personali che non fu conveniente di render pubbliche.

Quanto alla separazione tra il potere spirituale ed il potere temporale, si è certamente nell'errore;

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l'autorità del S. Padre

Passando al discorso di S. A. il principe Napoleone, S. Eminenza lo considera come il rovesciamento di tutti i principii e dice che certo il Senato non vorrà associatisi. La parte fon (lamentale di questo discorso é la questione del non intervento; il principe lo ha detto, e bisogna esaminarla per riguardo al diritto pubblico e per riguardo alle conseguenze della sua applicazione.

Il Cardinale cita l'autorità di Grozio il quale stabilisce la legittimità dell'intervento, quando esso si fonda, sia sulla parentela, come sul vicinato, sulla conformità di vedute, di sentimenti. Il forte che difende il debole, dice Sant'Ambrogio, è il giusto per eccellenza. Cita pure Puflendorf, Barbevrae, Wolf, Wattel, in appoggio della sua opinione per l'intervento. Ecco, secondo P oratore, ciò che era incontestato al principio dello sconvolgimento che ebbe luogo verso la fine dell'ultimo secolo. Quando la tempesta rivoluzionaria fu passata, gli stessi principii furono rivelati, nel 1803, dal sig. di Rayneval, in un trattato intitolato. Istituzione del diritto delle genti. Tra i moderni, Baroli e Taparelli hanno conservato la purezza della dottrina, stabilendo tra le altre cose, l'obbligo di andare in soccorso delle nazioni che lo domandano.

Tale è l'istoria del diritto. Come va che questo ha piegato? Non bisogna attribuirne il pensiero alla Francia, ma piuttosto ricercarlo dall'altra parte dello stretto, in quel paese dove si subordinano le dottrine ai bisogni, e dove, secondo gli interessi, si fa dell'eccezione la regola, o della regola l'eccezione. L'oratore parla di Solferino e di Villafranca e segnatamente della condizione ivi stipulata pel ritorno dei principi spodestati; esso lamenta che il trattato di Villafranca sia rimasto lettera morta, con gran stupore di tutti, eccetto che di coloro i quali di ciò profittavano senza pericoli.

La lettera del 30 gennaio 1860, faciente parte dei documenti comunicati al Senato, prova che a Londra si apriva un nuovo diritto pubblico che negava alla Francia come all'Austria il diritto

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oratore ricorda i consigli dati dal sig. Talleyrand al Piemonte, e trova che il suffragio universale, a cui si ebbe ricorso, è buono in Francia perché quivi è libero; meno buono in Italia dove la libertà è dubbia. Passando a parlare dell'Italia meridionale, l'oratore dice che l'impresa di Garibaldi era rinnegata in parole dal Piemonte, ma in fatti da esso incoraggiata, e che frattanto la spada della Francia restava inchiodata nel fodero per il principio di non intervento. Singolare contrasto I esclama il cardinale: da un lato, intervento a profitto della rivolta d'un paese, e dall'altro, non intervento a profitto del diritto. Tale è stata la parte del Piemonte.

E ciò degno di uno Stato che rispetti se medesimo? E non abbiamo noi a gemere, vedendo la nostra bandiera assistere silenziosa al lugubre dramma di Gaeta? L'oratore dopo aver reso uno splendido omaggio alla condotta della Francia militare, sui campi di battaglia italiani, dice che, sul terreno politico, tutto fu incertezza e confusione. Ieri, egli dice, ci fu data la chiave di questo stato di cose. Finora avevamo creduto che la Francia volesse salvare l'Italia non unificarla; avevamo creduto che essa volesse difendere il potere temporale del Papa e lasciar Roma capitale del mondo cristiano. Oggi le illusioni cadono...

Si è sempre voluta l'unità dell'Italia. Affinché si compia l'opera, ci si mostra un Papa ostinato ed ingrato rimpetto alla Francia!

Signori Senatori, dopo la situazione nuova che questo discorso fa alla Francia ed alla Chiesa, io supplico i consiglieri della corona a dirci se esso rappresenta il pensiero del governo.

Il cardinale Donnet legge un discorso in cui comincia per dichiararsi assai commosso da una reminiscenza dolorosa. Egli

ha inteso trattare, ieri, senza riguardo, tutto ciò che le convinzioni della sua fede, la pubblica onestà gli avevano insegnato a circondare di amore


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e di rispetto. Fu attaccata la santità del potere religioso, la maestà delle antiche dinastie, l'inviolabilità della sventura e della virtù.

Quale idea diversa si faceva della politica l'augusto fondatore della dinastia imperiale che prendeva tutte le più antiche razze sotto la sua protezione e riguardavasi come il loro successore! S. Eminenza crede obbedire ad un sentimento patriottico respingendo quest'accusa passionata contro il papato e contro i re.

Il principe Napoleone dissotterrò dalla storia tutto ciò che poteva accusare il governo romano e non tenne conto né delle virtù dei papi, né dei servigi resi da essi alla causa della civiltà. Si dimenticò la liberalità con cui Roma offerse sempre asilo ai proscritti della politica e delle rivoluzioni. Era utile che siffatte parole non passassero senza protesta. L'oratore dice che quando nel 1852 la Francia invocò l'Impero contro l'anarchia, i suoi voti non s'ispirarono che alla prospettiva di un avvenire di pace; egli non disconosce quello che l'Imperatore ha fatto finora, e vive nella certezza che la nazione francese persevererà nella sua sincera devozione per il vicario di G. C. La Chiesa ha ricostituita l'Europa, essa non può perire, non può che soffrire, e con essa tutta quanta l'umanità.

Prosegue l'oratore, da un anno le sciagure della chiesa si aggravarono. I piemontesi invasero gli stati tutti della santa sede. L'Italia è in preda agli intrighi e alle violenze e noi vediamo oscillare quella sacra pietra che è la più forte assisa delle moderne società. Si dà il segnale di guerra contro tutte le dinastie; dobbiam noi gettarci in questo movimento? Sappiamo dapprima dove ci mena? Non si tratta dei principii del 1789 scritti in fronte della nostra costituzione, si tratta della rivoluzione universale, Se il Piemonte entra in Roma, tutto l'ordinamento della Chiesa è rovesciato, ogni vincolo religioso diviene un vincolo di servitù.

Si rimprovera al Papa di non aver fatto concessioni, ma il Piemonte le rese impossibili colle sue invasioni, colle sue violenze. Come mai il Papato potrebbe aver fiducia in un tale protettore, in un tale vicario? Le parole sfuggite al principe Napoleone hanno rivelato quali fossero in fondo i progetti di Vittorio Emanuele.

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L'oratore si appiglia poi a giustificare la Santa Sede dei rimproveri di mal volere verso il governo francese. Non è vero, dice che abbia rifiutato le istituzioni canoniche ai prelati recentemente scelti dall'Imperatore; ciò doversi solamente ascrivere a ritardo.

Egli ignora, dove sarà il termine di tutto quello che accade in Italia, ma non può a meno di prostrarsi dinanzi al pontefice re così grande per la sua fermezza nel diritto e nel dovere, che non volle fuggire, che rifiutò qualunque patto coll'iniquità e in mezzo all'universale abbattimento degli animi proclamò e rivendicò i diritti della religione e della giustizia. Un ministro inglese lord Russell fu obbligato, egli dice, di rendergli omaggio dall'alto della tribuna, ei lo chiamò uno spirito di grande abilità, un cuore animato dei più generosi desiderii.

Dopo avere egualmente reso omaggio al valore e alle virtù del re e della regina di Napoli l'oratore continua così. «Si disse che il Papa verrebbe tollerato a Roma sulla riva dritta del Tevere ma sarebbe anche il suddito del principe che gli desse un asilo. Venga un' elezione, congiuntura gravissima, e il sovrano protettore non sentirà di ottenere la nomina di un papa disposto ad entrare nelle sue mire? E se il papa non è più indipendente se egli non si mostra al cristianesimo colla benedizione in una mano e l'anatema nell'altra egli non avrà più che a scegliere fra li spergiuri, l'esiglio o la morte.» (sensazione)

Il venerabile prelato, ricordando l'appoggio dato dalla Francia al Piemonte nel 1859, domanda se la potenza che conquistò la Lombardia per Vittorio Emanuele e distrusse l'influenza dell'Austria in Italia non avrebbe potuto trovar modo di proteggere Rologna e Ferrara? Però, conchiude l'oratore, il male non è irreparabile se la Francia fedele a' suoi antecedenti sa far rispettare il principio di non intervento che il Piemonte viola costantemente, perciò egli dichiara che voterà per l'adozione dell'emendamento presentato da alcuni de' suoi onorevoli colleghi chiedente la spada della Francia continui a proteggere non solo la

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sicurezza della persona del Papa ma anche la sua indipendenza e il mantenimento del potere temporale.

Il sig. Billaut, ministro senza portafoglio, comincia in questo modo il suo discorso, dopo che ebbero parlato i cardinali Mathieu e Donnet.

«I rappresentanti del governo non avevano intenzione di prendere la parola nella discussione generale.

Essi volevano soltanto dare alcune spiegazioni nella discussione dei paragrafi. Ma da due giorni la discussione si è ridotta tutta alla quistione italiana, e prese tale una importanza, che il governo non può lasciarla continuare senza far conoscere le sue idee.

Furono esposte molte buone ragioni; molte altre esiggono una risposta. L'imperatore mostrando il desiderio che il senato facesse conoscere schiettamente la opinione sua sullo stato degli affari, ha fatto un appello alla vostra lealtà ed alla vostra coscienza; ma nessuno ha diritto di parlare in suo nome; egli non può essere vincolato dalle parole di alcuno, salvo che da coloro che sono incaricati di parlare in nome del governo.

Si è portato gran lume sulla questione, e noi desideriamo che si tolga ogni oscurità. L'imperatore, in questi ultimi dieciotto mesi, ha egli lottato con energia e convinzione per il mantenimento della politica da lui proclamata, oppure ha egli rappresentata una commedia indegna della Francia, indegna dell'imperatore?

Non vi ha via di mezzo, lo vengo adunque, nella qualità di oratore del governo a discutere seriamente la questione ed a dissipare tutte le nubi che la circondano.

Non è questa la prima volta che gl'interessi della Francia e quelli della Santa Sede si trovano in opposizione. Non è la prima volta che si tratta di sciogliere il quesito del modo di conciliare il rispetto dovuto alla religione coi più evidenti interessi del nostro paese. I nostri padri erano cattolici sinceri, ma non sacrificarono mai la causa dello Stato a quella del potere temporale del papato ed alle esigenze di Roma. So che tutti non sono di questo

parere. Ma l'uomo distato non deve considerare le cose dal punto di vista celeste e spiritualista, egli deve consultare le necessità umane.

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Per questa ragione io ho bisogno di chiedere che conserviate la pacatezza che sta nelle vostre antiche abitudini e che mai più fu tanto necessaria quanto oggi. L'oratore continua facendo l'esposizione di tutte le ragioni che indussero l'imperatore a muovere guerra ali Austria, della condotta della Francia verso la Santa Sede, dei negoziati successivi con Roma, giustifica l'opuscolo II Papa e il Congresso; poi venendo a parlare del Piemonte, dice avere inteso con dolore le parole appassionate che furono pronunciate nel Senato.

Per quanto poco si sia d'accordo con un sovrano nelle assemblee di una grande nazione come è la Francia, è dovere il servirsi di un linguaggio di moderazione.

Dopo avere in qualche modo ripetati gli argomenti dell'opuscolo del signor Laguéronnière, il ministro ricorda un fatto importante. Vi ebbe un altro ministro del Pontefice che pagò col suo sangue la devozione verso la Santa Sede. Ebbene che cosa diceva nel 1832 Pellegrino Rossi? Diceva esservi incompatibilità assolute tra il governo romano e le popolazioni, e che rimaneva al potere temporale una sola via di salvezza: la conservazione dell'alto dominio ed un tributo di tutti i paesi cattolici. E così le proposte che l'imperatore faceva alla Santa Sede erano state fatte lungo tempo prima e da un uomo che conosceva bene Roma e l'Italia.

Esposta la condotta del governo imperiale in presenza dei rivolgimenti dell'Italia meridionale, continua spiegando i motivi per i quali la Francia non poteva intervenire.

Il ministro conchiude il suo discorso colle seguenti parole:L'Imperatore tentò tutte le combinazioni per fermare il torrente che minacciai le possessioni temporali del S. Padre e più tardi per conservare lo statu quo.

Al cospetto del Re di Sardegna l'Imperatore impiegò, tutti i mezzi a sua disposizione per manifestare la sua disapprovazione.

Resta un ultimo mezzo. Si doveva impiegare la forza?

Qui si colloca un principio. Il nonintervento che fu vivavamente attaccato qui ed altrove, che si presentò come l'arca

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Non vi ha punto di vero; esso non è favorevole alle insurrezioni; quando esse non isconvolgono la totalità d'un popolo, un governo è sempre in condizione di difendersi; quanto all'origine inglese, non è più reale delle altre.

Questo principio fu già proclamato in un parlamento francese, in una discussione dello stesso genere, in un epoca in cui si dimandava l'intervento in Italia contro l'oppressione austriaca. In allora un uomo di Stato diceva dall'alto della tribuna, che la Francia non poteva farsi riparatrice di tutti i torti, né incaricarsi della polizia delle nazioni.

Il diritto diplomatico attuale riconosce un principio superiore: noi abbiamo bisogno dell'assenso dell'Europa per un intervento: se l'Europa lo giudicasse necessario noi lo faremmo; ma non siamo soli arbitri del destino del mondo: noi non siamo padroni delle nazioni, ma siamo un gran popolo che si rispetta, e ne siamo rispettati.

Che avremmo noi fatto altrimenti? Potevamo forse all'indomani della battaglia di Solferino rivolgere le nostre armi contro il re di Sardegna? Per fare che? Oh se dopo aver colle nostre armi conquistata Roma ed averla restituita al Santo Padre si avesse potuto conservarla al Pontefice, forse avremmo tentata questa avventura. Ma chi può asserirlo? Non è forse da quaranta anni che è mantenuta dalle baionette francesi od austriache?

Non siamo stati noi che abbiamo resa difficile la situazione del Papa a Roma. Non abbiamo noi fatto il possibile perché il S. P. non abbandonasse la sua capitale come era consigliato da quelli che ci accusano di averlo abbandonato?

Ora ci si domanda di quello che saremo per fare? Ma in presenza delle rivalità dell'Europa, del lavoro della diplomazia, far conoscere il nostro pensiero e le concessioni a cui siamo determinati a giungere, non sarebbe degno nemmeno d'un primo aspirante alla carriera diplomatica.

Il sig. Marchese de Boissy prese la parola per rispondere al

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Finalmente nella seduta del 4 Marzo il progetto d'indirizzo fu votato secondo le conclusioni dell'oratore del governo, cioè che tutti gli ammendamenti proposti furono rigettati, e il testo del progetto rimase integro.

Pur nondimeno l'imperatore Napoleone aveva fatto dei complimenti al principe suo cugino sul proposito del suo discorso al senato, e questo discorso era stato pubblicato per intiero nel giornale officiale Le moniteur des communes.

Il re Vittorio Emanuele indirizzò egualmente al principe Napoleone una lettera di ringraziamento in suo nome come in nome d'Italia per aver preso con tal calore la difesa della sua causa.

IV.

L'ultima volta che ci siamo occupati di Napoli, o della Sicilia, abbiamo segnalata l'istallazione del principe di Carignano come locotenente del re nelle provincie napolitano accompagnato dal conte Nigra suo Segretario, abbiamo pubblicato il suo proclama alle popolazioni: oggi troviamo il principe e il suo segretario in una grande attività per organizzare l'amministrazione, e dare dell'impulso ai grandi lavori d'utilità pubblica.

La questione delle ferrovie, e quella della costruzione d'un nuovo porto, li occupavano più seriamente. Disgraziatamente gli sforzi del conte Nigra non erano secondati dai consiglieri. Cosi anche non v'era accordo nelle regioni governative, dove lo vedute dei ministri erano ben lungi da quell'armonia che le rende efficaci. Di ciò fu prova la dimissione del Sig. Liborio Romano, che era stato nominato ministro dell'interno, la quale cagionò il ritiro di tutti gli altri membri del consiglio di luogotenenza. L'andamento delle coso ci par bene indicato dai documenti che seguono:

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Altezza Reale,

L'altezza Sua venendo tra noi vide le gravi difficoltà in cui versava l'amministrazione di queste provincie, e con somma saggezza proclamava la necessità della concordia fra tutti gli onesti cittadini, onde potesse il Governo giovarsi di tutte le probità e le capacità, e procedere franco e risoluto in questo novello indirizzo.

Animato di tale spirito di conciliazione mi sobbarcai a far parte del nuovo consiglio sperando così poter vigorosamente organizzare la Guardia Cittadina, primo presidio di ogni libertà civile, spingere alacremente le opere pubbliche, dando con esse pane e lavoro al popolo pur troppo afflitto del caro dei viveri, moralizzare le diverse branche della pubblica amministrazione.

Ma sventuratamente queste mie speranze andarono frustrato, sì per positive e profonde divergenze suite fra i membri del Consi glio intorno all'indirizzo governativo, sì per l'assoluto difetto dei mezzi pecuniari superiormente promessi, e sì infine per gli ostaco li, che altri ha frapposto a procurarli. Il perché una mala contentezza preoccupa la pubblica opinione, ed il governo più non gode il suffraggio di quella maggioranza che proclamò il memorando Plebiscito. In questa spiacevole condizione di cose, io credo mio precipuo dovere sottomettere a Vostra Altezza Reale ciò che a rendere il Governo forte, compatto, ed accetto all'Universale, sia necessario.

1. Riformare prontamente e radicalmente il Consiglio di Luogotenenza.

2. Prendere le più energiche misure per tutelare l'ordine e la sicurezza pubblica mercé la cooperazione dell'esercito, e della Guardia Cittadina.

3. Organare, ed armar questa immantinenti.

4. Procedere al modo stesso al prestito Nazionale dei 25 milioni, e chiedere di urgenza al Parlamento più larghi sussidii per le opero pubbliche.

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5. Moralizzare i diversi rami della pubblica amministrazione chiamando al servizio del paese tutti gli onesti cittadini a qualunque gradazione politica appartenessero.

Le quali cose tutte io sommetto a Vostra Altezza Reale; e chiamato altresì dall'indeclinabile mio dovere a recarmi al Parlamento Nazionale, la prego di voler accogliere la mia dimissione.

Napoli, 12 marzo 1861.

LIBORIO ROMANO.

Alcuni giorni dopo, il principe riceveva questo dispaccio:

A. S. A. R. il Principe di Savoja Carignano.

Altezza Reale,

Considerando le ragioni di dimissione messe a stampa dal sig. Liborio Romano, le quali tornano in altrettanti capi di accusa lanciati in mezzo al pubblico, per modo nuovo e senza giustificazione alcuna, contro al resto del Consiglio di Luogotenenza, noi non sapremmo come meglio provvedere alla responsabilità che ci deriva da tale atto, se non le rassegnassimo, come le rassegniamo, le nostre dimissioni, facendo appello al testimonio ed al senno supremo dell'A. V. la quale conosce appieno il vero.

Napoli 17 marzo 1861.

345

I membri del Consiglio di Luogotenenza

Firmati Paolo Emilio Imbriani

S. Spaventa

Antonio Laterza

Luigi Obertv

Giovanni d'Avossa

Pasquale Stanislao Mancini.

S. A. R. accettò tale dimissione disponendo che gli attuali consiglieri continuerebbero nella spedizione degli affari finché non fosse provvisto alla ricomposizione dell'amministrazione.

Tuttavia alcuni giorni prima che si manifestasse questo disaccordo fra il ministro e il locotenente del re, la flotta inglese), che aveva ricevuto l'ordine di abbandonare Napoli per ridursi a Malta, offrì per l'intermediario dell'ammiraglio Mundi una testimonianza luminosa della sua simpatia verso le autorità locali e la causa italiana. Un grande banchetto d'addio riunì presso il Sig. Carveu Segretario della legazione britannica il conte Nigra, il conte Bardarono, il marchese Curtanz, il baron Perrone, l'ammiraglio Corkrane, l'ammiraglio Mundy, il Sig. De Martino. Dei numerosi brindisi furon fatti al re Vittorio Emanuele, e alla regina Vittoria, come alla prosperità d'Italia.

E già prima che il banchetto avesse luogo, l'ammiraglio inglese aveva indirizzato al conto Nigra la seguente lettera:

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Annibale, nave ammiraglia

Rada di Napoli

Signore.

Avendo ricevuto da S. M. britannica il comando di recarmi a Malta colla squadra che trovasi sotto i miei ordini, ho l'onore di far noto all'E. V. che mi propongo di far vela il 27 del corrente mese, lasciando in questa baia il legno di linea Vittorio Emanuele

Nel comunicarvi questa notizia prendo l'occasione di esprimere all'E. V. la mia riconoscenza per la cortesia mostrata e le attenzioni che i navigli di S. M. britannica hanno in ogni occasione ricevuto dal governo di S. M. il re di Sardegna, e più specialmente per l'uso accordatomi dello stabilimento di Nisida; il quale fu tanto utile agli ammalati ed in generale agli interessi del servizio di S. M. la mia graziosa regina.

Dopo un soggiorno di dieci mesi sulle coste di Sicilia e di Italia, i quali includono tutto il periodo della gran rivoluzione sociale che ebbe compimento, mi licenzio coll'augurare al popolo italiano ogni sorta di felicità e rinnovandovi i miei sensi di stima e di rispetto mi professo di essere

Vostro affezionatissimo servitore

G. Rudney Mundy

RetroAmmiraglio

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A questo gentile dispaccio, il commendatore Nigra risposo colla lettera che il comandante della squadra inglese inviò sin da jeri ai lordi dell'ammiragliato.

A S.. E. I' ammiraglio Rodney Mundy,

Napoli.

Ill.mo Sig. Ammiraglio,

L'annunzio della prossima di lei partenza che V. E. si compiacque di darmi col suo foglio di ieri, mi fu cagione di rammarico, poiché io sperava che il suo soggiorno fra noi si sarebbe ancora protratto per qualche tempo. Questi sentimenti sono pur quelli, non ne dubito, della popolazione di Napoli, nella quale è così viva e profonda la simpatia per la nazione inglese. Confido che V. E. abbia potuto acquistare la convinzione, e vedere quanto fossero vere le parole colle quali S. M. il Re, all'apertura del Parlamento, esprimeva la gratitudine degli Italiani verso il governo della vostra graziosa regina.

I voti che V. E. fa per noi ci sono di ottimo augurio per l'avvenire, ed io vedo in essi una prova che il patriottismo degl'Italiani e gli sforzi che si fanno per rendere unito e libero il loro paese parvero a V. E. meritevoli della sua simpatia e di un felice successo. Io la prego, signor ammiraglio, di far buona e sincera testimonianza di noi presso il governo e il popolo del Regno Unito, e di dire in quale stato d'ordine e di tranquillità ella ha lasciata questa bella città. Ella potrà soggiungere che qui popolo e governo non tendono che ad uno scopo, quello di organizzarsi fortemente e con ordine per essere in misura di affrontare ogni pericolo, di superare ogni ostacolo, nel fine di arrivare all'unità politica ed alla completa indipendenza del proprio paese.

Nel manifestare a V. E. questi sentimenti comuni

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a tutti

Voglia gradire, illustrissimo signor ammiraglio, queste sincere espressioni e mi creda

Napoli, 29 febbraio 1861

Suo devotissimo servitore

Costantino Nigra

In seguito degli avvenimenti di Sicilia, dei quali abbiamo già reso conto, il maggiore generale Cadorna era stato nominato comandante militare dell'isola. Prendendo possesso del suo posto egli aveva pubblicato questo proclama:

COMANDO

GENERALE MILITARE DELL'ISOLA

DI SICILIA

Ufficiali, Sotto Ufficiali, e Soldati

Assumendo il comando militare della Sicilia, sarà mia cura particolare di affrettare quel giorno in cui gli ordinamenti militari assimilati costituiranno una forza omogenea e compatta, che tanto conferisce a rendere la Nazione unita, rispettata in ogni evento.

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Onde provvedere a questa prima necessità di chi è maturo, ai destini gloriosamente compiuti colle armi, col senno, e con spontaneo voto, io faccio assegnamento sulla continuazione del concorso delle varie autorità, sull'abnegazione che è militare virtù, sui sensi patriottici di tutti, ed in quello spirito di conciliazione che, in tempi difficili sopratutto, ognuno deve recare in tributo sull'altare della Patria.

Il Magg. Gen. Com. la 13. Div.

Com. Mil, della Sicilia

CADORNA

Il locotenente generale del re aveva pubblicato un gran numero di decreti, e fatti molti cangiamenti nel personale amministrativo.

Il 20 febbraio, fu accettata la rinuncia al posto di Consigliere di Luogotenenza pel Dicastero dell'Istruzione Pubblica fatta dall'avv. Salvatore Marchesi, che ritorna alle sue funzioni giuridiche presso la Gran Corte Civile di Catania.

Il 20 detto fu accettata la rinuncia al posto di Consigliere di Luogotenenza pel Dicastero di Grazia e Giustizia fatta dall'avv. Filippo Orlando, che ritorna alle sue funzioni giuridiche presso la gran Corte Civile di Palermo.

Il 22 detto l'avv. Filippo Santocanale fu nominato Consigliere di Luogotenenza pel Dicastero di Grazia e Giustizia e temporaneamente incaricato della firma pel Dicastero della Pubblica Istruzione; e il conte Michele Amari, Consigliere di Luogotenenza pel Dicastero dell'Interno, fu temporaneamente incaricato della firma pel Dicastero delle Finanze.

Malgrado tutti questi provvedimenti, non tardarono a sollevarsi dei tumulti: dei quali vogliamo offrire la narrazione:

Ecco la relazione che troviamo nel Precursore del 6, foglio di Palermo, dei luttuosi fatti avvenuti in S. Margherita.

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Domenica sera verso due ore di notte mentre ritiravasi a casa, il dottor Giuseppe Montalbano da Montevago, domiciliato fra noi, ebbe tirati addosso tre colpi di fucile e ferito gravemente di li a poco spirava. Egli era onesto cittadino di fermi ed operosi principii liberali. Prestò sin dal 1848 distinti servigi alla patria, e ristaurata la tirannide, n' ebbe a soffrire incessanti persecuzioni, arresti arbitrarii e sevizie inaudite.

Nel 1860 si trovò pronto alla chiamata della patria, e nei moti d'aprile fu tra gli insorti di Palermo e Carini. Appena seppe lo sbarco dei mille formò a proprie spese una guerriglia, raggiunse i nostri a Partanna, e diede ovunque prove di valore incontestabile. Questo attirò sudi lui l'odio dei borbonici.

Qui ci è stata una topaia nel vero senso della parola. Varii borbonici nelle vicinanze vi si vennero a rifugiare. Or questa combriccola, mal soffrendo l'influenza del Montalbano, decise assassinarlo, e gli esecutori di tanta infamia si dice che furono il sig. Pietro Giambalvo, il sig. Bartolomeo De Giuseppe ed un certo Ventimiglia. L'indomani della morte si eseguiva la pompa funebre, e una compagnia di Guardia Nazionale accompagnava il cadavere. Intanto si cominciò a spargere nel popolo il nome degli assassini, alcuno dei quali, con affinata impudenza, faceva parte del corteggio funebre. Allora molti del popolo che amavano il Montalbano arsero di sdegno e vollero vendicarlo. Armatisi alla sei a assalirono il Casino di Compagnia, dove s erano raccolti alcuni degli assassini, e molti della combriccola che con altri estranei al fatto se ne stavano a giocare ed a chiacchierare.

Quaranta colpi di fucile partirono a un punto, e per isventura furono colpiti degli innocenti e sbagliati i colpevoli. Fiore di gente onesta perì, fra gli altri uno de Chetti e un ragazzo di appena cinque anni. Vari furono feriti gravemente, e forse più degli altri il signor G. Ruggieri. I rimasti illesi, notate ch'erano tutti borbonici, corsero all'attigua caserma della Guardia Nazionale e impadronendosi delle armi, salirono sul tetto della casa comunale, e sostennero il fuoco contro il popolo sino a stamattina. Per quanto se ne sapeva i morii fin allora erano nove.

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Intanto giungeva avviso di siffatta sciagura all'intendente di Sciacca, il quale, con quella solerzia che lo distingue, faceva in modo che qui venissero i militi a cavallo del circondario e le guardie nazionali Sciacca, Mentì, Sambuca e Montevago. Allora il popolo gli accolse a fucilate; poscia gridando Viva Garibaldi, fraternizzò con loro.

In quel punto un colpo tirato dal Giambalvo, ch'era anche egli sul tetto della casa comunale, uccise un fanciullo. Il popolo s'inasprì grandemente e non si quotò prima di aver dato alle fiamme la casa comunale. Non si sa quante sieno le vittime di questo ultimo eccidio, per altro tutte borboniche. Ora il paese sembra quieto: ma le autorità locali sono nascoste o fuggite. Forza ce n' è per ora; ma si aspetta con ansietà la forza militare che valga a rimettere la tranquillità in questo desolato comune e tolga gli allarmanti sospetti de circonvicini.

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CAPO VI.

SOMMARIO

I. IL PARLAMENTO ITALIANO DISCUTE E VOTA LA LEGGE CHE CONFERISCE A VITTORIO EMANUELE, E A' SUOI SUCCESSORI IL TITOLO DI RE II ITALIA RAPPORTO SULLA NUOVA ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA DEL REGNO QUADRO DELLA FORMAZIONE DELL'ARMATA ITALIANA TI. ASSEDIO DELLA CITTADELLA DI MESSINA - CAPITOLAZIONE DI QUESTA PIAZZA CIVITELLA DEL TRONTO PARIMENTI ASSEDIATA PERSISTE NELLA SUA RESISTENZA - CIRCOLARE DI FRANCESCO II ALLE POTENZE ASSALTO DATO DAL GENERALE MEZZACAPO AL FORTE DI CIVITELLA, CHE S' ARRENDE IL 27 MARZO - III. PARAGRAFO DELL'INDIRIZZO RELATIVO ALL'ITALIA, DISCUSSO AL CORPO LEGISLATIVO FRANCESE RENDICONTO DELLE SEDUTE, IN CUI EBBE LUOGO QUESTA DISCUSSIONE ALLOCUZIONE DEL PAPA AL CONCISTORO SEGRETO DEL 18 MARZO IV. DISCUSSIONE DELLA QUESTIONE ITALIANA AI PARLAMENTI INGLESE E SPAGNOLO SUNTO DI QUESTE DISCUSSIONI V. LE INTERPELLANZE DIRETTE AL MINISTERO ITALIANO CIRCA LA SITUAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLETANE PROVOCA LA DIMISSIONE IN CORPO DEL GABINETTO - DISCORSO DEL C. CAVOUR PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, CHE ANNUNZIA ALLA CAMERA QUESTA DETERMINAZIONE UN NUOVO MINISTERO É COMPOSTO - SUA COMPOSIZIONE VI. INTERPELLANZE SULL'ITALIA MERIDIONALE SEDUTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI TESTO DEI DISCORSI L'ORDINE DEL GIORNO BONCOMPAGNI SULLA QUESTIONE ROMANA E ADOTTATO.

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CAPO VI.

I.

Forte della nuova esistenza politica, finalmente ottenuta, l'Italia senza preoccuparsi dei discorsi che i partigiani degli antichi governi caduti fulminavano contro di lei nei parlamenti stranieri, proseguiva sua strada verso l'unità, col mezzo della parola, e della spada.

La camera dei deputati italiani s'avanzava a discutere la legge, di cui abbiamo pubblicato il progetto in un precedente capitolo, e che conferiva a Vittorio Emanuele e a' suoi successori il titolo di re d'Italia. Fu una memorabile seduta nei fasti d'Italia quella del 10 Marzo 1861.

Le tribune erano affollatissime e quasi tutti i deputati al loro posto. Assistevano alla seduta parecchi personaggi appartenenti al corpo diplomatico.

Il presidente legge una lettera del dep. Ghislanzoni, colla quale mostra il suo rincrescimento per non poter assistere alla discussione della legge surriferita e dichiara di votare nel senso della stessa.

Giorgini si avvicina alla tribuna e legge la relazione stessa con molta enfasi.

Viene lungamente applaudita.

Il Pres. dà lettura dell'articolo di legge, che conferisce a Vittorio Emanuele ed ai suoi successori il titolo di re d'Italia, e dichiarando aperta la discussione, dà la parola all'avvocato Brofferio.

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Brofferio. Ecco l'Italia risorta, libera ed una. Onore al popolo, gloria al Re che col valore in una guerra, colla fede in pace sostenne, difese, ordinò ed a novella vita compose 22 milioni d'Italiani. Dopo la sciagurata caduta dell'antica Roma, non mai fa un giorno si bello. Esultiamo tutti, senza studio di parte, senza animosità d'opinione. Chi colla penna, chi colla spada, tutti contribuirono a questo meraviglioso avvenimento.

Ma la gioja del presente dovrebbe farci dimenticare la gratitudine delle antiche memorie? Per ottocento anni ci volle tutto il senno dei nostri pubblicisti, tutta la fantasia dei nostri poeti, tutta la facondia dei nostri oratori, tutto il valore dei nostri soldati per giungere a questo risultato. Galileo, Petrarca, Macchiavelli, Romagnosi, Parini, Alfieri, Cola di Rienzi, Giovanni da Procida, Dante di Castiglione e molti altri, e più grande di tutti Giù seppe Garibaldi! (Vivi applausi)

Rallegriamoci, o signori, che il regno d'Italia sia stato serbato ad un Re Galantuomo. Cosi la più bella delle corone sarà premio condegno alla più bella delle virtù, (bene)

Così faremo degna risposta ai rimpiangitori del passato che da Francia, da Inghilterra e da Spagna ci scagliano acerbe paro le. I Dupaloup, i Donnei e tutti quei vescovi e cardinali ci veggano tranquilli del nostro diritto, perché possano por fine alle loro declamazioni furibonde. (Bene)

Lieve cosa sarebbe se fossimo chiamati a sancire un voto dato dalla volontà nazionale, ma il ministero, facendosi iniziatore di tale progetto, tolse una grandissima parte agli allori della nazione. Vero è che spetta al capo della nazione l'iniziativa degli atti politici, ma quando si trotta appunto del capo della nazione l'iniziativa spetta alla nazione. Il primo a proclamare il Re d'Italia sulle rovine borboniche, fu il dittatore Garibaldi il quale, se fatti avversi non si fossero frapposti, fors'anco avrebbe piantata la sua bandiera in Campidoglio. (Qualche rumore)

Poiché si voleva che questo iniziamento preso in piazza, si compiesse in Parlamento, doveva il ministero convocarci non ad offrirla, ma ad approvare una corona offerta.

Un Re ed un regno d'Italia non sono cosa straordinaria per

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noi, e se non vi si attribuisce una speciale significazione, non potremmo aspirare ad altro che a titolo di rimescolatori di antiche tradizioni.

Re d'Italia furono i Goti, i Visigoti, i Longobardi e ce lo diceva la corona ferrea della cattedrale di Monza che con mano ladra a noi rapirono gli Austriaci, e re d'Italia fu Napoleone I. No, o signori, noi non faremo questo; respingiamo ogni tradizione feudale: il nostro Re; il nostro Regno ha una grande significazione perché abbraccerà tutta l'Italia Monsivio all'Etna, dalle Alpi all'Adriatico.

Qual è quello che deve creare il diritto politico costituente questo re? Si voleva in Senato aggiungere la dizione: per Divina Provvidenza e voto della nazione Re d'Italia.

Io non rigetto la voce della religione, ma non sono però di quelli che riconoscono la divina Provvidenza in tutti gli avvenimenti. Ma ad ogni modo, non si vuole che dappertutto v'abbia il dito di Dio? Non facciamo adunque pleonasmi, non pronunciamo il nome di Dio invano; inchiniamoci e facciamo. I re per grazia di Dio furono quasi sempre re per disgrazia del Popolo. (risa)

Ma il regno d'Italia ed il suo Re si proclamano per voto del popolo e per sentimento della volontà nazionale. Qual maggiore diritto di questa più stupida legittimità che esista sulla terra?

Gloriosa per atti nobili, per virtù splendidissime fu la dinastia di Savoia: ma chi dicesse Vittorio Emanuele II correrebbe rischio d'inaugurare una tradizione dinastica che ricorderebbe una conquista, perché se casa Savoia fu gloriosa fu però sempre conquistatrice: sebbene le sue imprese venissero dettate dalla ragione e diritto.

Ma volete, mi si dirà, che Vittorio Emanuele il prode di Palestro e di San Martino cangi il suo nome!

Vi presenterò, per via di conciliazione una proposta.

Il relatore disapprova la forma di legge, e dice, che ne vorrebbe altra intorno all'intestazione degli atti, e si riferisce alle promesse fatte in Senato. Signori, quand'anche io abbia molta fede nelle promesse dei ministri, allorché vengono fatte al cospetto delle nazioni, però da 12 anni si sa quanto valgano codeste

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Però, signori deputati, quello che dovete far oggi, non lo rimettete a domani.

Ora vi sottopongo la proposta, da me in unione ai miei colleghi politici formulata: volemmo togliere l'iniziativa improvvidamente pigliata ministero, conciliare la diversità fra la denominazione della famiglia reale, e dar fondamento solidissimo al titolo costitutivo di questo regno.

Vi propongo la soppressione dell'articolo presentato ministero ed accettato dalla Commissione ed in pari tempo la sostituzione del seguente.

«Vittorio Emanuele II è proclamato popolo Italiano per sè e suoi successori primo Re d'Italia»

In questo modo il popolo proclama, non il ministero che propone.

Accettate questa proposta che vi sottomettiamo nella persuasione che soddisfi il Re ed il popolo, dichiarando tuttavia che in ogni evento saremmo disposti a deporre nell'urna voto accanto al vostro, perché quando si tratta della nazione e del suo profitto tutti gli Italiani devono essere d'accordo. (Bene)

La nostra rivoluzione fu una rivoluzione gloriosa; vediamo agitarsi la Grecia, la Valacchia e l'eroica Polonia di spargere nuovo il sangue: questa Polonia che si chiamava nell'infortunio sorella d'Italia, possa esserci sorella nel risorgimento!

Qual giorno di gioia sarà quello in cui potremo stringere la mano ai deputati di Roma e Venezia! Abbiasi il nuovo Re per raccomandata da noi la regina dell'Adria che portava la bandiera di libertà per tutti i mari (Quanto a Roma conchiuse con due versi del Petrarca che ci sfuggirono)

Pepoli Gioacchino. So negli uffizii si manifestarono differenze sulla forma, sulla sostanza furono tutti d'accordo. - L'opportunità politica di votare questa legge mi pare urgente.

A quei signori del Corpo legislativo che con tanta rabbia si scagliano contro noi che vogliamo farci nazione, dobbiamo mandare pronta e solenne risposta.

Essi osano negare che la nazione sia unita con nodo indissolubile al nostro Re ed alla sua gloriosa dinastia; mostriamo loro concordemente e solennemente il nostro volere. (Bene)


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Grassi dichiara di votare puramente e semplicemente per il progetto di legge.

Cavour (presidente di consiglio). Non entrerò nelle quistioni di merito sollevate dall'onorevole Brofferio, non esaminerò se la forma da esso proposta sia migliore di quella del ministero, mi limiterò a rispondere a ciò che nel suo discorso può considerarsi come questione estranea al merito della legge.

1 onorevole Brofferio avrebbe desiderato che questa fosse sorta dall'iniziativa del Parlamento e fa una nuova proposizione.

Vi farò o signori, una questione pregiudiziale. deputato non può proporre una nuova proposizione, bensì può fare emendamento alla proposta: non può insomma togliere alla corona il diritto di iniziativa.

Perciò io non posso riconoscere in lui la facoltà di respingere progetto di legge e proporne nuovo.

Del resto io credo che la Camera non dividerà la censura dell'avv. Brofferio. Io mi associo alle eloquenti parole del relato re della Commissione: ma mi sia lecito dirlo, che pegli ultimi avvenimenti l'iniziativa spettò al governo (bene), inquantochè fu il governo che prese l'iniziativa di proclamare altamente i diritti d'Italia al congresso di Parigi (bene, applausi); noi crediamo che questa politica sia in gran parte dovuta al governo e quindi ha fatto egli atto saggio nell'assumere tale iniziativa.

La proclamazione del regno d'Italia sarà accolta in tutta la penisola con grida di gioia perché io non posso supporre che anche tra quella minoranza che ci osteggia non vi sia taluno che involontariamente si, ma pur non senta battersi il cuore e non senta d'essere italiano (Bene). È questo uno dei più grandi fatti che ricordi la storia dei tempi. Ma credete voi che venga accolto con favore in tutte le parti d'Europa?

Importava assai che questo voto si compiesse con tutta la solennità possibile: ed era opportuno che l'iniziativa venisse presa potere esecutivo, perché non lo si avesse a prendere per voto di entusiasmo, per uno sfogo delle passioni popolari.

Nessuno tra voi potrà credere che la Corona fosse spinta da puerile vanità nel far questo. La condotta sua negli ultimi tempi la ripone al riparo da codesta imputazione.

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Io ripeto alla Corona quanto esposi alla Commissione, che tutte le questioni che potranno sorgere, voi potrete aver f opportunità di discuterle fra pochi giorni. L'avv, Brofferio avrà il campo allora più libero; più bello per sostenere le sue proposte, e forse potrà maggiormente riescire, inquantochè molti, che in oggi si farebbero uno scrupolo perché non venisse meno la solennità di questo giorno, troveranno essi bene allora di accettarlo.

Per amore della concordia, nell'interesse stesso della questione da esso sollevata, prego l'on. preopinante a rimandarla al giorno in cui verrà presentato il progetto di legge per l' intestazione degli atti, e non tema che sia molto lontano, perché a nome del mio collega il ministro guardasigilli, posso assicurarlo che tal progetto verrà presentato ai primi della vegnente settimana.

Ritiri la proposta ed grido d'entusiasmo risponda alle accuse dei nostri nemici d'oltr'Alpe. (Applausi)

Brofferio. Ogni discussione la quale si facesse troppo addentro nei principii politici, sarebbe oggi inopportuna. Per sentimento della concordia italiana, fo sacrificio della mia proposta, con riserva di discuterne poi tutte le particolarità, quando il sig. ministro presenterà la legge sull'intestazione degli atti (lunghissimi e ripetuti applausi)

Voci. Ai voti ai voti.

Riccardi. Domando la parola...

Voci. Ai voti ai voti.

Pres. Legge l'articolo di legge.

Bixio. Dichiaro di dare la mia dimissione se non mi si accorda la parola. (Alterato)

Pres. Ho letto l'articolo, perché la Camera chiese la chiusura della discussione. Se del resto gli onor. dep. Riccardi e Bixio vogliono parlare, io loro accorderò la parola, ma solo sulla chiusura della discussione.

Cavour. Prego la Camera di non insistere sulla chiusura: la concordia non dev'essere apparente, ma reale (Bene). Chiedo adunque che sia data facoltà di parlare a tutti gli oratori (Bravo)

Dondes Reggio. Chieggo che si passi ai voti dopo le dichiarazioni dell'onor. Brofferio alle cui parole mi associo.

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Ricciardi Il regno non essendo puranco costituito, non lo si può proclamare, mancandovi il capo ed il braccio. Avrei invece desiderato che il ministero avesse presentato uno schema di legge per chiedere denari e formare esercito onde acquistare quello che manca, Roma e Venezia (Lunghi rumori). Se si vuole mio voto coscenzioso, mi si deve lasciar parlare. Chiederei che questo progetto di legge, si dilazionasse sino al momento in cui la bandiera italiana sventolerà sulle cime del Campidoglio, sulle torri della regale Venezia e sui merli del quadrilatero. Allora proclameremo Vittorio Emanuele primo Re d'Italia una ed indivisibile e non Vittorio Emanuele secondo appartenente ad una dinastia che si basava sul diritto di conquista.

Ma per l'amore della concordia, sono pronto anche in oggi di proclamarlo riservandomi però a parlare allorquando verrà prodotto il progetto di legge. Frattanto propongo il seguente ordine del giorno:

«La camera invita il ministero a presentare il più presto possibile progetto di legge per la intestazione degli atti.

Pres. Ha la parola l'on. Bixio.

Bixio. Io non conosco partiti; qui non vi è che una coscienza, c' è l'obbligo di dire la verità, io ne sento una e mi sento obbligo di dirla: io non sono né diplomatico, né uomo di stato, ma dico la verità: io non voglio far opposizione a tutto quello che viene presentato ministero. Io non ripudio al mio passato. Mi rincresce in argomento così solenne parlar di me stesso, ma pure mi vi trovo costretto.

Fui rivoluzionario e lo sono, ed è per questo che siedo alla sinistra. Se il ministero mi dice: facciamo la guerra, risponderò facciamola, ma adesso: datemi denari e soldati e andiamo avanti. Ciò premesso, credo che il ministero abbia fatto male il togliere all'iniziativa parlamentare atto cosi solenne. Se il Parlamento parlando del Re dice I, invece che II, è certo che acquista egli più importanza in Italia.

Voci. Oh! Oh!

Bixio. Non e' è ragione di dir oh! L'Italia è fatta; diciamolo pure: è ormai fatta; tutto quello che ci han da dare, già ce lo

daranno; infin dei conti l'Italia ha fatto molto per gli altri.

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Quei signori d'oltr'Alpi chiamano l'Italia l'avanguardia della coalizione; ma gran Dio! noi l'avanguardia della coalizione! quando tutti tradivano, noi soli italiani stavamo al nostro posto. I vostri padri, o legittimisti, erano a capo della coalizione.

Io che sono una parte minimissima del generale Garibaldi, sono convinto che la maggior parte dei trionfi di quest'illustre generale si devono alla rivoluzione che aveva preparato il terreno.

In fin dei conti l'Italia è fatta; il resto ce lo andremo a prendere. - Gl'Italiani hanno l'istinto di osteggiare il governo; è impossibile che perdano le tradizioni loro. In Napoli e Sicilia tutto è fatto; vi sarà qualche matto? Ebbene, che lo caccino dentro, (Risa prolungate).

Molti credono che il governo sia nemico, la sarà una disgrazia, se vogliamo; ma pur ci sono. Il governo adunque deve aumentare l'importanza del Parlamento, onde collocare un'influenza tra esso ed il paese, influenza che deve esercitarsi preponderantemente. Il ministero attuale ha una influenza sul popolo, e bisogna pur dirlo, è troppa. Se i membri che lo compongono divenissero un tantino matti, son capaci di cacciar la nazione sulla strada. (Risa).

Il merito della legge lo combatterò, e mi riservo quando il governo presenterà il progetto sull'intestazione degli atti.

Domando scusa alla Camera, se ho parlato di dimissione, ma in un argomento così importante volevo anch'io parlare a osto di comparire un tordo. (Risa).

Voci. Ai voti, ai voti

La Farina, Plutino, Petruccelli della Gattina rinunciano alla parola, riservandosela quest'ultimo al momento della presentazione dell'altro progetto. La rinunciano pur tutti quelli che erano iscritti.

Pres. Leggo e pongo ai voti l'ordine del giorno del deputato Riccardi.

Cavour (presidente del consiglio). Mi pare che con quelle dichiarazioni che ho fatto, di presentare quanto prima il progetto, si tolga l'opportunità di questo ordine del giorno, il quale non sarebbe una riserva, ma avanzerebbe proposizioni che forse il ministero si troverebbe io necessità di combattere.

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Ricciardi ritira l'ordine del giorno.

Pres. Legge l'articolo di legge.

«Articolo unico; Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia.»

Quindi continua: Chi intende di approvare il seguente articolo di legge si alzi.

Tutti i deputati, niuno escluso, si alzano battendo le mani e gridando:

Viva il Re d'Italia. Eguali grida ed applausi a più riprese partono dalle tribune.

Il Pres. Legge quindi un dispaccio del generale Cialdini, contenente particolari dell'attacco e della resa di Messina.

La lettura è succeduta da tre salve d'applausi.

Si fa l'appello nominale e si procede alla votazione del progetto di legge.

Pres. proclama come segue l'esito della votazione. Però prima dichiara che si trovarono due voti negativi e su questo proposito dà le seguenti spiegazioni:

«Uno tra gli onorevoli deputati venne a significarmi di avere per isbaglio messa la palla bianca nell'urna nera, avendo avuto l'intenzione di votare in favore della legge proposta. Nel l'urna bianca si è trovata poi una palla nera senza rinvenire nell'urna nera la corrispondente palla bianca, per cui uno dei due voti contrarii devesi ritenere per affermativo e l'altro come nullo.

I votanti furono 294 - Maggioranza 148 - voti favorevoli 292 - contrarii 2 però dietro le spiegazioni da me date quanto ai due voti contrarii, dichiaro che Vittorio Emanuele fu unanimemente proclamato re d'Italia.

A queste parole entusiastici e ripetuti applausi partirono da tutti i lati.

L'Italia adunque era costituita in regno, ed aveva eletto il suo re. Già alla seduta della camera dei deputati che aveva preceduto a quella, di cui abbiamo testé offerto il rendimento di conto, il commendatore Minghetti, ministro dell'interno, aveva proposto una legge per l'organizzazione amministrativa del nuovo regno, mentre da sua parte il ministro della guerra aveva pro posto il quadro di formazione dell'armata - Noi riportiamo per intiero questi documenti, che sono del più gran momento per la storia dell'Italia.

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Ecco di primo tratto il rapporto del ministro dell'interno sull'organizzazione amministrativa, che sarà seguito dal quadro generale della nuova armata italiana.

Rapporto dell'organizzazione amministrativa

«La formazione dell'unità con tanta mirabile rapidità, è un fatto così grandioso che non ha riscontro nella storia. Ma la varietà immensa e secolare delle leggi, delle tradizioni, delle abitudini che vi regnarono sino ad ora, rende arduo il trapasso alla sua unificazione legislativa e civile. E ciò tanto maggiormente, che non si opera mediante la conquista, non coll'arbitrio o colla dittatura, ma colla discussione e colla libertà. La quale dando ad ogni interesse una rappresentanza, moltiplica a primo aspetto gli ostacoli e le difficoltà. E nondimeno cotale libertà è quella che crea la nostra forza; imperciocchè l'Italia intera riceverà volenterosa e riverente quel giudizio che i suoi rappresentanti avranno pronunziato, e l'autorità del Parlamento, che delibera dopo ani pia discussione, imporrà il silenzio a tutte le differenze ed i dissensi.

«Il problema che abbiamo a sciogliere fu indicato molto chiaramente nel discorso della corona. Trattasi di accordare le massime franchigie amministrative possibili, purché rimanga integra, anzi si consolidi l'unità nazionale, che fra tanti pericoli e con tante fatiche abbiamo acquistata. Ora, queste franchigie, o, in altri termini, il discentramento amministrativo può operarsi in due modi, accordando cioè ai comuni ed alle provincie maggiori attribuzioni e libertà di azione di quello che ebbero sinora, ovvero delegando alle autorità governative locali molte facoltà che sogliono serbarsi dal governo centrale. I disegni di legge che ho l'onore di proporvi hanno l'uno e l'altro di questi scopi.

«Il comune è la prima, fondamentale, più intima associazione delle famiglie.

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La legge 23 ottobre 1859, la quale è già promulgata nella massima parte del regno, è certamente una delle più liberali d'Europa; nondimeno noi abbiamo creduto che si potesse in molte parti migliorare. Nella legge che vi è data ad esaminare voi troverete primieramente allargata la base della elezione. Noi proponiamo che il diritto elettorale sia concesso a tutti coloro i quali pagano una tassa diretta, per qualsivoglia titolo.

a Ora, se voi considerate per una parte a la condizione della agricoltura italiana, dove il colono partecipa in qualche guisa alla proprietà; se considerate, per altra parte, che sistema di tasse ben ordinato dovrà colpire tutti i rami della pubblica ricchezza, non solo terriera, ma eziandio mobile, o provenga essa dai capitali, o dall'industria, o dalla professione, voi vi farete capaci che il diritto di elezione è effettivamente dato alla massima parte dei cittadini, a tutti coloro che, per una o per altra cagiono hanno interesse all'amministrazione comunale.

«Le attribuzioni del comune furono ampliate da quello che erano nella legge che ho testò citata; il magistrato esecutivo e il capo del comune furono dati alla elezione dei Consigli; fu resa più facile la riunione loro, più efficace la loro libertà.

«La provincia ha in Italia antiche origini ed ha per avventura una personalità più spiccata che in alcun altra parte d'Europa. Essa risale a quella epoca nella quale ferveva la lotta tra l'elemento democratico delle città e l'elemento feudale della campagna. Quando la città, trionfando, smantellò i castelli dei baroni, e questi costrinse a venire ad abitare entro le sue mura; quando accolse sotto la sua protezione i borghi minori, la città si formò intorno contado, un territorio, col quale strinse vincoli intimi d'interesse e di affetto. A quell'epoca risalgono i grandi miglioramenti agrarj e i grandi lavori idraulici, i quali, specialmente nella Lombardia formano uno dei più splendidi argomenti di gloria per le sue città.

«Che se in alcune altre parti della Penisola, la provincia ebbe origine diversa, non fu però meno spontanea e meno distinta; e noi troviamo sino secolo XVI i nomi e le circoscrizioni quasi identiche delle provincie napoletane.

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Pertanto il concetto, quale si partono le leggi che ho l'onore di proporvi, si è questo:

che la provincia non sia associazione fittizia, ma sia in generale,

e salvo poche eccezioni, associazione naturale fondata sopra interessi comuni, sopra tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo.

«Pertanto io rispingo la massima della formazione di provincia artificiali più o meno grandi, e create secondo le convenienze politiche e i calcoli dell'opportunità.

Ciò posto, io credo che la provincia debba esercitare ufficio molto importante nell'ordinamento amministrativo d'Italia: la libertà provinciale è, a mio avviso, insieme colla libertà comunale, la vera salvaguardia del regime costituzionale. Imperocchè, se in alcune parti d'Europa gli ordini costituzionali non fecero buone prove, è da attribuirsi principalmente a ciò, che il comune e la provincia non vi erano bene ordinati né abbastanza liberi; per la qual cosa, trovandosi l'individuo isolato di fronte alla oltrepotenza dello Stato, si corre non solo alla democrazia ma alla dittatura e al dispotismo.

"La costituzione normale della provincia è l'idea capitale del progetto che ho l'onore di sottoporvi.

«Voi scorgerete pertanto le attribuzioni della provincia aumentante grandemente da quelle che sono nelle leggi presenti. La maggior parte delle strade, la difesa dei fiumi minori e dei torrenti, l'istruzione secondaria, la sanità, e ferme lo discipline per la conservazione dei boschi e per gli usi agrarj, quella parte di beneficenza che non è comunale né di amministrazione privata, gli ospizii per gli esposti e pei maniaci, la conservazione dei monumenti viene ad essa assegnata. Le è attribuito insomma quanto era possibile di dare a quella aggregazione.

«Oltre a ciò la provincia avrà amministrazione sua propria e totalmente indipendente, cosicchè al prefetto, che oggi è il presidente nato della deputazione provinciale verrebbe tolta ogni ingerenza sopra di essa.

«Solo rimarrebbe all'autorità governativa la superiore vigilanza, la quale non credo che mai in alcuno Stato bene ordinato debba venir meno.

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E questa vigilanza versa intorno a due punti:

Tale è il concetto dell'organizzazione comunale e provinciale. Ma, procedendo più oltre nell'esame del discentramento amministrativo, io chiedeva a me stesso; se non fosse possibile di dare ancora altre facoltà all'iniziativa e all'azione dei privati e dello associazioni; e spontaneo mi veniva il concetto dei consorzj, i quali esistono in Italia ab antico, talvolta con leggi fisse, più spesso con norme consuetudinarie; ma pure esistono e provveggono a molti interessi rilevanti, specialmente in materia di acque o strade. Ora io pensava: non potrebbero i consorzi ravvivarsi, retti da nuove leggi e ben accomodate, svolgersi ed estendersi ancora a maggiori uffici?- perché, per esempio, certi istituti ai quali comune o una provincia non basterebbero da se soli, non potrebbero essere affidati ai consorzj o facoltativi od obbligatori?

«Procedendo ancora in siffatto concetto, ed esaminando tutto ciò che, senza detrimento dell'unità politica dello Stato, si possa accordare di libertà amministrativa, perché, io diceva l'istruzione superiore, perché le strade che sono ora nazionali, non potrebbero anch'esse affidarsi ad consorzio permanente di provincie aventi interessi comuni?

«Di qui o signori, nasceva l'idea di regione, la quale secondo il mio concetto, à consorzio permanente di provincie, il quale provvede alla istruzione superiore, all'accademia di belle arti, agli archivi storici, e provvede inoltre a quei lavori pubblici che non sono essenzialmente retti dallo Stato, né sono proprj dei consorzj facoltativi, o delle singole provincie.

Prima di giudicare di questa istituzione, io vi prego,

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onorevoli

«La seconda parte del discentramento ha luogo, come io diceva, per delegazione dell'autorità governativa. ll prefetto è il rappresentante del governo nelle provincie.

Pertanto, secondo il concetto che io esposi da prima, propongo di dare al prefetto estese facoltà per le quali la maggior parte degli affari abbiano esito prossimo e spedito. Molti altri, la cui definizione finora spetta al ministero, molti che mi richiedono perfino decreti reali, voi li troverete semplificati negli schemi di leggi che vi presento, per modo che essi, come hanno cominciamento così possano aver termine nel breve giro della provincia stessa.

«Ma, avendo io ammesso, sulle norme delle leggi toscane, il principio equo e liberale dei ricorsi, sorge spontanea una domanda a chi si appella in caso di ricorso? Né ciò solo; ma vi sono alcune materie le quali interessano più provincie, e dove il prefetto non sarebbe giudice competente: a chi la direzione di queste materie? Finalmente io credo che se la parte regolamentare, e per l'applicazione delle leggi, può togliersi senza pericolo al governo centrale, non può lasciarsi in balìa d'ogni singola provincia, senza creare troppa difformità, e, dirci quasi, una moltiplicità di giurisprudenze amministrative, come conciliare pertanto questa difficoltà? a chi attribuire l'approvazione dei regolamenti?

«Ora, poiché abbiamo costituito consorzio di provincie, e ne abbiamo formato una regione, perché non potrebbe in quella

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che decidesse delle questioni che hanno attinenza con più provincie; che approvasse i regolamenti di esse; che avendo, dirci cosi il pensiero del ministero esercitasse in quelle provincie collegate una comune vigilanza?

» Il governatore sarebbe, secondo questo concetto, il rappresentante dell'autorità centrale nella regione, e in lui si compirebbe il massimo discentramento amministrativo per via di delegazione.

«Se non che, o signori, male si apporrebbe chi credesse che il governatore colle attribuzioni che sono indicate, detraesse alcuna cosa alla dignità e agli uffici del prefetto. Parmi di aver già dichiarato che al prefetto sono date assai più facoltà di quelle che abbiano oggi gl'intendenti generali e i governatori, anzi tutte quelle che sono compatibili colla sua posizione. Similmente male si apporrebbe chi credesse che la regione detraesse alla provincia, e che le città minori, che ne sono il capoluogo, potessero ragionevolmente dolersi di dover far centro ad altra città che non sia la capitale. Imperocchè non è già questo togliere a loro né la libertà d'azione, né il por fine a quanti affari si possano entro la cerchia del comune e della provincia; sarebbe solo, nei casi ove ciò si possa, risparmiare loro i lunghi e difficili rapporti col governo centrale.

a Ma poniamo elio in ordinamento stabile, definitivo d'Italia, compite tutte le vie di comunicazione, unificate le leggile le abitudini, possa togliersi quest'istituzione intermediaria fra il governo centrale ed il provinciale; io credo nondimeno che, considerato come espediente temporaneo, considerato come mezzo di transazione e di trapasso dalla condizione di paesi che furono finora soggetti a legislazioni, ad ordini ed abitudini diverse, all'unità amministrativa, tale istitituzione non solo può essere di grande utilità, ma può divenire in alcuni casi una vera necessità. O si consideri adunque come uno stato di cose transitorio, o come una prova che la renda duratura, io spero che la Camera vorrà accogliere la mia proposta con benevolenza.

Giunto a questo io credo che per farsi concetto del lavoro che sono venuto delincando,

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il modo più semplice sia quello di prendere il bilancio dello Stato, ed, esaminando le categorie che sono attribuite ai varj ministeri, scernere quello che abbiamo loro tolto, che abbiamo loro lasciato. Al ministero dell'interno abbiamo tolta la maggior parte delle sue categorie, tutto ciò che risguarda sanità, teatri, esposti, manicomj, opere pie, boschi, agricoltura. Al ministero dell'istruzione pubblica abbiamo tolta l'istruzione inferiore data ai comuni, l'istruzione secondaria data alle provincie, l'istruzione superiore data alla provincie, l'istruzione superiore data alle regioni. Al ministero dei lavori pubblici abbiamo tolta tutta la materia delle acque e delle strade. Che rimane al ministero dell'interno? Rimane la categoria degli uffici governativi, e nel centro e nelle provincie rimangono la sicurezza pubblica e gli agenti di quella, e le carceri giudiziarie.

«Io ho pensato lungamente, o signori, se anche questi due servizj avessero potuto discentrarsi, ma sono convinto che, nello stato attuale dell'Italia e nelle condizioni dell'opinione pubblica, essi debbano rimanere una prerogativa del governo centrale. Che cosa rimane all'istruzione? la vigilanza e l'indirizzo per l'andamento migliore degli studj. Che cosa rimane ai lavori pubblici? Rimangono le ferrovie, rimangono le poste, i telegrafi, la cura dei porti e delle spiagge, cose tutte le quali interessarlo l'intiera nazione.

«I bilanci degli altri ministeri rimangono tutti a carico dello Stato. Gli ordini giudiziarj non possono non essere unificati. Le leggi, o signori, tendono ad assimilarsi in tutta Europa, ed in Italia sono sostanzialmente più semplificate che non paja, perché quasi tutte le legislazioni vigenti prendono inizio codice Napoleone, il quale è emanazione esso medesimo dell'antica legislazione romana, lo concedo che alle leggi vigenti in Italia sorgerà codice nuovo che sarà diverso da quelle e ne riunirà il meglio; ma, qual che esso si sia, sarà uno per tutta la Penisola.

» Similmente, io non potrei ammettere che si turbasse l'unità del sistema delle finanze. Consento di buon grado che, attesi gli ordini diversi che sono in pratica nelle varie parti del regno, sia

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«Non parlerò dell'indirizzo politico, né degli affari esteri, né della guerra, né della marina; in tali cose una direzione unica è assolutamente e rigorosamente necessaria; qualunque discentramento sarebbe funesto, qualunque concessione fatta alla vita locale potrebbe mettere a repentaglio l'unità della nazione.

ir Dopo avere, o signori, esposto l'ordine col quale le mie idee si sono venute svolgendo, mi rimane a trattare, se non abuso della vostra pazienza, del metodo che ho seguito nella proposta delle leggi.

«Ora dirò, o signori, del metodo col quale queste leggi le une alle altre si susseguono.

«Ma prima di tutto parvemi che alcuno notizie di fatto potessero essere utili all'esame e alla discussione di queste leggi, e quindi procurai che fossero compilate due tavole. L'una è la statistica della popolazione e della ripartizione territoriale presente del regno; l'altra è prospetto comparativo di tutte le leggi ora vigenti, che recentemente vigevano, e che riguardano il ministero che ho l'onore di reggere.

«Queste duo tavole saranno rimesse a voi, signori, come notizia di fatto, sulla quale potrete fondare il vostro esame. Ciò premesso, la prima legge che ho l'onore di proporvi è quella sul riparto territoriale e sulle autorità governative. Il regno Italico e quello di Napoli ebbero duo leggi distinte in questa materia, mentre nelle altre parti d'Italia il riparto territoriale e la gerarchia delle autorità governative sono determinati nella legge provinciale e comunale.

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«Io ho creduto di seguire il primo esempio, e di fare di quelle materie una legge speciale.

o Troverete qui adunque le attribuzioni dei governatori e quelle dei prefetti chiaramente divisate. E qui mi è d'uopo annunciarvi, che, fra lo varie riforme che avrò l'onore di proporre al Parlamento, essendo quella dell'abolizione del contenzioso amministrativo, poteva parere a prima giunta logico, togliere il consiglio di prefettura. Ma considerando all'utilità che può derivare in certi casi dalle decisioni collegiali; considerando che i consiglieri di prefettura possono utilmente giovare il prefetto nelle molte sue attribuzioni, ed insieme essere i capi dei varj servigj pubblici, mi risolsi a mantenere nella proposta i consigli di prefettura.

f Bensì avrei voluta l'abolizione del Circondario, siccome circoscrizione la quale, se nella parte rappresentativa è dimostrata imbarazzante o almeno superflua, non lo è meno nella parte governativa.

«Ma mi sovvenne che in alcune parti del regno, i distretti che compongono una provincia non sono ancora collegati fra loro da vie ferrate, e talvolta neppure da comode strade comuni, e mi sovvenne ancora che certe popolazioni hanno grandemente in pregio di avere rappresentante del governo in alcuni centri secondarj di popolazione; e perciò mi risolsi a mantenere il viceprefetto, ma tolsi da esso le attribuzioni che ne fanno agente governativo avente attribuzioni proprie amministrative; e seguii invece l'indole delle leggi napolitano, le quali danno al sottoprefetto solo una autorità delegata prefetto, per vigilare ed accelerare l'esecuzione de' suoi ordini.

«Quanto agli ufficj, stimai dover introdurre quella ripartizione che era già in uso nella Lombardia, e che mi sembra logica ed atta al buon servizio pubblico, voglio dire la partizione degli impiegati di concetto da quelli d'ordine. Con che non è esclusa la carriera superiore, come nelle leggi sarde è stabilito, la quale richiede più ampio cognizioni, ed è, por così dire, il vivajo degli alti funzionar] governativi.

«La seconda legge è quella dell'ordinamento comunale e provinciale.

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«Io non m'intratterrò su questa legge, avendo già dato alcuni cenni delle idee principali che la informano; di essa inoltre parla lungamente la relazione che l'accompagna; accennerò solo che essa è al tutto indipendente dalla costituzione delle regioni.

«La terza legge è quella sui consorzj.

«Questa legge è nuova, e non ha il suo riscontro in nessun'altra legislazione d'Europa. Come già accennai, esistono i consorzj, e trovano regole a loro stabilito in varie leggi speciali, ma una legge, la quale riunisse insieme queste regole, la quale determinasse le norme per costituirli, i casi nei quali fossero o no facoltativi i loro diritti e i loro obblighi, il modo di loro amministrazione, e ciò facesse in modo così liberale da favoreggiare lo svolgimento e la moltiplicazione; questa legge non esisteva ancora, signori, ed io mi compiaccio di presentarne una alle vostre discussioni.

«La quarta legge è quella dell'amministrazione regionale. Dissi che, a mio avviso, la regione è consorzio obbligatorio di provincie. Ora se il consorzio è ente morale, anche la regione dovrà essere ente morale; se il consorzio ha una rappresentanza delegata, anche la regione dovrà avere una rappresentanza delegata dai suoi mandanti, cioè dalle provincie le quali compongono tali consorzi. Se non che nell'amministrazione regionale stimai bene di adottare il principio che ora prevale nell'organizzazione provinciale tanto nelle antiche leggi napolitano e sarde, quanto nelle leggi francesi, il principio cioè di dare la potestà esecutiva ai rappresentanti del governo; laonde se le deliberazioni relative ai lavori e agl'istituti regionali appartengono alla commissione, il mettere in atto siffatte deliberazioni appartiene ai governatori.

«Così stimai d'ovviare a tutte le apprensioni che la formazione di commissioni regionali potesse mai in nessuna guisa suscitare negli animi; quelle dico di rinnovare piccoli Stati e piccoli parlamenti. Imperocché quando le materie di loro competenza sono precisamente definite e limitate; quando la rappresentanza che

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quando sono ancora aggiunte altre cautele che troverete nella legge medesima, io non ho alcun dubbio che i pericoli che da alcuni si temono, possano mai verificarsi.

«Finalmente ammettendo il consorzio delle provincie in regioni, non intendo d'escludere il concorso governativo ad alcune opere, le quali naturalmente ad esse apparterrebbero. Vi hanno delle provincie le quali, o per malignità dei governi passati, o per infelicità di fortuna, o per difetto di naturale ricchezza, si trovano in una condizione troppo grave d'inferiorità verso le altre. Ora io credo che non sarebbe equo il lasciare intieramente a loro carico certi lavori ed instituti, prima che lo Stato, direi quasi, le abbia collocate in grado simigliarne a quello delle altre regioni sorelle.

Io credo che in generale lo Stato debba lasciare il più che sia possibile all'iniziativa dei privati, dei comuni, delle provincie e delle associazioni; credo che il proprio e perenne ufficio dello Stato sia il mantenimento della giustizia e la tutela dei diritti; ma credo ancora che, in certi tempi ed in certe opere, esso abbia dovere di integrazione; che a lui spetti di compiere, di supplire a quelle parti nelle quali i comuni, le provincie e le regioni per se sole non bastassero.

«Questa è la quarta delle leggi che io vi annunciava. Anch'essa, come vedete, fa parte di tutto, ed io la raccomando vivamente alla vostra disamina; pure non può dirsi così necessaria e collegata alle altre, che non ammetterla pericolasse il generale sistema.

«Quanto al modo di compilare le leggi predette, io ebbi sempre nell'animo due pensieri: l'uno fu quello di fare delle leggi nella forma più generale e più breve possibili; l'altro di scegliere il meglio in tutte le legislazioni esistenti attualmente in Italia e anche fuori.

«La prima legge, come vedrete è di pochi articoli; ma non può esser tale quella dei comuni e delle provincie, tanto più in governo costituzionale, dove all'arbitrio non si deve lasciare cosa alcuna, ma si debbono determinare i limiti della rispettiva facoltà.

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Però, fatta questa avvertenza, la legge comunale e provinciale è di gran lunga inferiore, per numero di articoli, a quella che oggi vige nella maggior parte del regno.

«La terza e la quarta sono pur esse, come vedrete, leggi brevi di mole, e, se io non m' inganno, chiare abbastanza per potere essere discusse con facilità.

» Quanto ai punti speciali nei quali io diceva di aver imitato piuttosto l'una legge che L' altra, sarebbe troppo lungo il discorrerne, e ne vedrete alcun cenno nelle relazioni. Certo ciò che si riferisce a guarentigie liberali non poteva togliersi d'altronde fuorché dalla legge sarda, perché qui soltanto era la libertà; ma in quanto a tutte le altre parti sì dell'ordinamento regionale che dell'ordinamento comunale e provinciale, io mi studiai, lo ripeto, di accogliere dalle varie legislazioni viventi in Italia il meglio che mi poteva tornare dinanzi agli occhi.

A compiere questo disegno, altre quattro leggi mi rimangono da presentarvi: l'una sulle opero pie, la quale già ebbi l'onore di proporre nell'altro ramo del Parlamento; la seconda quella sulla sicurezza pubblica, parendomi urgente e necessario coordinare questo ramo importantissimo del servizio pubblico coi principj che hanno prevalso nelle altre leggi, delle quali finora vi ho tenuto parola; la terza sul contenzioso amministrativo; imperocchè trattandosi di abolire una istituzione, la quale è vigente in molte parti della penisola, occorre in pari tempo dare la regola pei giudizii di quelle materie, e stabilire i modi del trapasso.

«Finalmente la legge sulle pensioni e sul passaggio degli impiegati da governativi a provinciali o regionali Egli è naturale che, dando ampie attribuzioni alle provincie od alle regioni, e togliendone allo Stato, una parte di quegli impiegati che finora erano governativi, debbano passare al servizio di questi corpi morali; né la loro sorte può essere abbandonata, ma deve al contrario con gran cura regolarsi secondo le norme della giustizia e dell'equità.

«Io non dirò che con queste leggi sia compiuto tutto l'ordine


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rigorosamente richieste dall'unità del sistema: bensì rimarrà da stabilire quella del Consiglio di Stato.

«Ma egli è evidente che queste dipenderanno risultato delle deliberazioni che il Parlamento avrà preso sulle presenti leggi, imperocchè non sono la base, ma il fastigio dell'edifizio.

«Quando io proposi, o signori, alla commissione presso il consiglio di Stato le principali idee che son venuto svolgendo, ed invocai sovra di esse la pubblica discussione, io mi sentii accusato d'avere in alcuni punti mostrata una cotale esitazione. La grandezza dell'opera, la pochezza delle mie forze, la brevità del tempo concesso ne erano naturale cagione. Laonde, lungi di accogliere queste come biasimo, io lo riguardai come argomento d'onore, e mi parve che bene acconcie tornassero quelle parole del poeta:

Ma chi pensasse al ponderoso tema

E all'omero mortal che se ne carca,

Nol biasmerebbe se sott' esso trema.

«Noi, o signori, siamo tutti concordi sovra due punti, se mi è lecito dir così, negativi. Non vegliamo la centralità francese. Per quanto siano i pregi della centralità, per quanti utili risultamenti abbia dati nella Francia ed altrove, per quanto sia oggi in Europa incontrastabilmente una tendenza verso di essa; nondimeno tali sono gl'inconvenienti che generalmente seco adduce, e che resterebbero più specialmente in Italia,che io credo sia opinione comune in questa Camera e fuori, che noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema. Dall'altra parte non vogliamo neppure indipendenza amministrativa come quella degli Stati Uniti dell'America o come quella della Svizzera; anche in ciò io credo che nessuno oserebbe di discentrare l'amministrazione a tal grado, che può mettere a repentaglio l'unità politica o civile. Ma fra questi due punti estremi l'intervallo è grandissimo: possono esservi molti e varii sistemi, dei quali taluni pendano più verso questa che verso quella parte. Ora chi sa dirmi quale è il nel quale precisamente deve fermarsi e costituirsi il sistema necessario alle condizioni presenti e future dell'Italia?

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«Questo, o signori uscirà dai vostri studj, uscirà dallo discussioni del Parlamento: lo affermarlo a priori sarebbe sembrato a me grande presunzione e temerità.

» E questo sentimento non fu solo mio proprio, ma eziandio dei miei colleghi, e non solo esercitò influsso rispetto alle decisioni del ministero, ma deve esercitarlo sulla Camera.

«Il ministero, al quale io svolsi lungamente prima che a voi le mie idee, fu unanime nell'accettarlo; ma nello stesso tempo riconobbe che non si doveva, nella massima parte dei casi, farne quella che chiamasi una questione ministeriale: imperocchè le questioni ministeriali allora soltanto sono legittime, quando si tratta dell'indirizzo politico dello Stato, o quando il convincimento sopra dato tema, non solo è formolato e preciso ma immutabile.

«Questi sentimenti avranno influsso anche sulla Camera, inquantochè renderanno la discussione dello presenti leggi al tutto calma, pacata e fratellevole. Io ho ferma fiducia che, se ciascuno di voi viene a questa discussione colla disposizione a transazioni e concessioni reciproche, breve sarà il tempo che la Camera porrà ad intendersi e deliberare. Il che tornerà di sommo vantaggio, perché veramente urge di dare alle varie parti d'Italia assetto unico e comune rivestito dell'autorità del Parlamento.

«Se io avessi temuto che queste proposte potessero essere fomite di passioni politiche, o suscitare comechessia gare municipali, io avrei preferito, o signori, di lacerare le mie proposte, e di disperdere il frutto de' miei studj. Ma questo dubbio non poteva allignare nel mio cuore, ed io sono certo che la discussione vostra sarà degna del Parlamento Italiano.

«I nostri nemici, dopo la pace di Villafranca, gridarono che l'Italia non avrebbe saputo mantenere l'ordine interno, ma che necessariamente sarebbe stata travolta nell'anarchia. I popoli dell'Italia centrale mostrarono che, in mezzo alle rivoluzioni, sapevano mantener salvo ed intemerato l'ordine pubblico da qualunque violenza e saldo verso qualunque seduzione.

«I nostri nemici giudicarono che la Toscana, Napoli e Sicilia non avrebbero mai voluto riunirsi ai popoli che abitano

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la valle

«Ora l'ultima accusa dei nostri nemici ci sta ancora sul capo; essi dicono che più facile è il distruggere che l'edificare: che l'opera più ardua consiste nell'organizzazione di questo regno, e che nell'attuarla rinasceranno le dissensioni, i contrasti che per tanti secoli funestarono l'Italia: che ivi sarà disperso quello che con tanta fatica abbiamo acquistato.

«Ebbene, o signori, voi proverete all'Europa che anche questa volta essi s'ingannano. Come il popolo italiano ha saputo mostrare mirabile senso politico in ogni circostanza, così voi mostrerete che si rinnova nel Parlamento italiano il senno che fece gloriosi i nostri padri, quando furono legislatori del mondo.

NUOVO ORDINAMENTO DELL'ESERCITO.

L'esercito attivo sarà composto di sei corpi d'armata, d'una divisione di cavalleria di riserva e di una riserva generale d'artiglieria:

Eccone i ragguagli:

1. Corpo d'armata

Sarà composto della 2, 10 ed 11.a divisione, e quindi delle brigate Piemonte ed Aosta; - Ravenna e delle Alpi - Reggio e Ferrara: del 1. e 9, 21 e 27 - 13 e 19 battaglioni di bersaglieri, aggiuntovi il 1 battaglione di deposito. Avrà due reggimenti di cavalleria, vale a dire, i lancieri d'Aosta ed i cavalleggieri d'Alessandria: la 1.a, 2.a e 3.a batteria dell'8 reggimento d'artiglieria; la 9.a, 10.a ed 11. del 6°; l'8.a, 9.a 10. dell'ottavo. Avrà per truppe sussidiarie una compagnia dei zappatori del genio, del corpo di amministrazione, altro del treno ed uno squadrone di guide.

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2. Corpo d'armata

Si compone della 3.a, 6.a ed 8.a divisione, e quindi delle brigate Cuneo, Pinerolo - Brescia, Cremona - Livorno, Abruzzi. Bersaglieri 2.0 e 30.0 - 4. e 15. -8.e col 17 2.o battaglio ne di deposito. Cavalleria, lancieri Firenze, cavalleggieri Monferrato. Artiglieria 4.a, 5.a e 6.a; 1.a, 2.a e 3.a; 7, 8 e 12, tutte del sesto reggimento colle solite truppe sussidiarie.

3 Corpo a" armata

Consta della 5.a, 8.a e 12.a divisione, e quindi delle brig. Casale ed acqui - Pavia e Siena; - Modena e Calabria; del 5 e 18 - 3 e 20 - 23 e 25 nonchè del 3.o battaglione di deposito bersaglieri; dei lanceri Montebello e cavalleggieri Saluzzo e delle batterie del 7.o regg. 1, 23 - 7, 8, 9, - 4, 5, 6, più le truppe sussidarie.

4. Corpo d'armata

Consta della 4, 7 e 13.a divisione, e perciò delle brigate Regina e Savona-Como e Bergamo-Parma e Marche. Bersaglieri 6 e 7 - 11 e 12 22 e 26 col 4.o di deposito. Cavalleria lancieri di Novara, cavalleggieri Lodi. Artiglieria i, 2 e 3, 4, 5 e 6, del 5.o regg. - 10, 11 e 12.a del 7.o, più le solite truppe sussidiarie.

5. Corpo d'armata

Consta della 1.a e 15.a divisione e quindi delle brigate granatieri di Sardegna e granatieri di Lombardia - granatieri di Napoli e fanteria Forlì. Bersaglieri 14 o 16 - 24 e 34 col 5.o di deposito Cavalleria lancieri Vittorio Emanuele ed ussari di

Piacenza. Artiglieria 4, 5 e 6.a - 7, 11 e 12. dell'ottavo, più le truppe sussidiarie.

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6. Corpo T armata

Si compone delle divisioni 14, 16 e 17.a e quindi delle brigate del Re e Bologna - Pisa e Sicilia - Pistoia ed Umbria. Bersaglieri 28 e 29 30 e 31 32 e 33 col 6.o di deposito. - Artiglieria 7, 8 e 9 - 10, 11 e 12.a del 5. 13, 14 e 15 dell'ottavo reggimento Cavalleria lancieri Milano, Cavalleggieri Lucca, colle solite truppe sussidiarie.

Divisione di cavalleria di riserva

Consta della 1.a brigata composta dei reggimenti Nizza e Piemonte Reale, della 2.a brigata composta di Savoia e Genova e d'una brigata di artiglieria a cavallo composta della 1.a eia batteria a cavallo del 5.o reggimento.

Riserva generale d'artiglieria

Si compone delle seguenti batterie di battaglia 13.a e 14.a e 16.a - 13.a, 14.a, 15.a e 16.a del 6.o - 13.a, 14.a, 15.a e 16.a del 7.o e della 16.a dell'ottavo reggimento.

La forza d'un reggimento di fanteria sul piede di guerra, composto di tre battaglioni attivi e di uno di deposito, sarà di 109 ufficiali, 650 sottoufficiali, e bassi ufficiali, 360 soldati di prima classe e 1872 di seconda classe e quindi con un totale numerico di 2991 uomini.

Per ora i reggimenti di fanteria numerano dall'uno al sessantadue più sei reggimenti di granatieri.

I bersaglieri consteranno di 36 battaglioni attivi e sei di deposito. Ognuno si comporrà di quattro compagnie. Ogni battaglione di deposito amministrerà sei battaglioni attivi.

Per ogni sei battaglioni attivi ed uno di deposito sarà nominato un colonnello che avrà le attribuzioni esercitate dall'attuale comando del corpo dei bersaglieri. La forza complessiva di questo riparto consisterà in 144 ufficiali, 208 sottoufficiali, 208 trombettieri e 3,000 bersaglieri.

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I reggimenti di cavalleria saranno di sei squadroni attivi ed uno di deposito; avranno 41 ufficiali, 205 sottoufficiali, 672 soldati; avranno 682 cavalli da sella e 56 da tiro. Il reggimento delle guide avrà sette squadroni attivi con 44 ufficiali, 236 sotto ufficiali e 784 soldati; esso sarà fornito di 790 cavalli da sella e di 28 cavalli da tiro.

L'artiglieria avrà un comitato, uno stato maggiore, un reggimento operai, tre reggimenti da piazza, quattro reggimenti da compagnia, ed un reggimento di pontieri con un totale di 840 ufficiali, 5860 sottoufficiali, 430 pontieri di prima classe, 1140 pontieri di seconda classe, 5825 cannonieri di prima classe 11250 cannonieri di seconda classe. Sarà fornita di 7860 eavalli di truppa e di 20 muli.

Il genio avrà pur esso up comitato e sarà diviso in dieci direzioni. Le truppe saranno ripartite nei due reggimenti zappatori, ognuno dei quali continuerà ad essere composto di uno stato maggiore, Ire battaglioni attivi, di uno di deposito. I tre battaglioni attivi saranno di sei compagnie ciascuno, quello di deposito ne avrà tre.

Le direzioni sono stabilite ad Alessandria da cui dipendono le sotto direzioni di Alessandria, Casale, Pavia, e dei Parchi. - A Milano, a cui sono sottoposte le sottodirezioni di Milano e di Como - A Parma, da cui dipendono le sottodirezioni di Parma piacenza e Modena - Bologna, sotto direzioni Bologna e Rimini - Torino sotto direzioni Cuneo - Brescia, sotto direzioni Brescia e Cremona - Genova, sotto direzioni Genova, Spezia - Firenze, sottodirezioni Firenze, Livorno, Perugia Ancona, sottodirezioni idem - Sardegna, sottodirezioni Cagliari e Sassari.

Un reggimento di zappatori avrà 105 ufficiali, 558 sottoufficiali, 180 artisti di prima classe, 360 di seconda classe e 1800 zappatori.

Il treno d'armata viene scompartito in tre reggimenti Che avranno sede rispettivamente, il 1. a Torino, il 2. a Bologna, il 3. a Napoli.

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Ogni reggimento consterà di 84 ufficiali, 493 sott'ufficiali, carradori, sellai, ecc., 180 soldati di 1.a classe e 2,313 soldati di seconda classe.

Il corpo dei carabinieri reali avrà un comitato o sarà diviso in 14 legioni con 503 ufficiali, 3,868 sotto ufficiali, 13,078 carabinieri, 1,012 allievi; totale della bassa forza 17,958, di cui 4,468 a cavallo e 13,490 a piedi.

Il corpo dello stato maggiore finalmente si comporrà di 210 ufficiali, di cui 10 colonnelli, 20 luogotenenti colonnelli, 28 maggiori, 92 capitani, 60 luogotenenti. Vi saranno inoltre 40 luogotenenti e sottotenenti allievi. Come parte integrante del corpo di stato maggiore ed annesso al medesimo, un ufficio superiore del corpo di stato maggiore.

Riassumendo pertanto lo stato della forza quale risulta dal

le suesposte disposizioni, avremo:

Stato maggiore 210

Granatieri reggimenti 6 17,946

Fanteria id. 62 185,442 Bersaglieri battaglioni 36 attivi e

6 di deposito 24,288

Cavalleria 16 regg. a 6 squadroni 14,688

Reggimenti Guide 1,061

Artiglieria 85,340

Genio, Comitato e Direzioni 363

Due reggimenti Zappatori 6,006

Treno 3 reggimenti 9.240

Carabinieri reali 18,461

Numero complessivo uomini 303,048

Il giorno avanti che il parlamento italiano decretasse il titolo di re d'Italia a Vittorio Emanuele, le truppe italiane avevano respinto fino all'estremo loro rifugio gli avanzi dell'armata di Francesco II.

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La cittadella di Messina aveva capitolato il 15 Marzo, e Civitella del Tronto, di secondaria importanza, s'arrese il 21 dello stesse mese. Dobbiamo a' nostri lettori il racconto dei fatti che condussero alla capitolazione queste due fortezze. E prima facciamo qualche parola topografica sopra Messina.

Il porto suo è naturalmente formato da un braccio di terra a fior d'acqua, che movendo dal lato estremo d'oriente e mezzogiorno e spintosi a tramontana, volge, come da gomito piegato, verso ponente, in figura di falce: donde veniva l'antichissimo nome della città. Il braccio, da un romito del secolo XI, prese nome di San Rimero, e ripiegandosi appunto dinanzi al vortice di Cariddi, e queste pericolose acque e le agitate dello stretto serra repentinamente in un bacino di maravigliosa bellezza e sicurezza, che il Porzio direbbe, tazza d'ariento. In fondo del mezzodì distendesi il piano di Terranuova, e donde parte il braccio, a scirocco della città, s'inalza la cittadella.

Come è noto, ella fu eretta dopo la guerra che al 1674 bandi la sola Messina a tutta la monarchia di Spagna; e dopo vari casi, ridotta ad ultima estremità per i soccorsi che non solo la casa d'Austria dette a Carlo II, e i paesi dell'Italia spagnola, ma per quelli principalmente venuti dalle altre città e dai baroni di Sicilia e del reame di Napoli, datasi in braccio a Luigi XIV, il Grande, fu tradita e barattata nella pace di Nimega per tutta la Franca Contea; provincia di tanti anni dalla Francia agognata, non mai potuta torre stabilmente alla Spagna per forza d'armi; acquistata per trattato in baratto d'italiana città.

Un viceré già infame per le carneficine di Sardegna, don Francesco Benavides, conte di Santo Stefano, fu mandato a punire i ribellati con morti e con esilii. Esularono sedici mila cittadini, e i loro beni furono messi in pubblico.

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Con denaro da tal conosca riscosso si piantò il Santo Stefano in collo la cittadella, gittanto al suolo grandi case ed edificii nobilissimi che formavano e su quel terreno e su tutto quel di Terranova (così detta poi come nuovo campo di Marte) popoloso quartiere della città, abitato dai nobili e dai ricchi, con chiese e monasteri d'inestimabile valore. Il tedesco Carlo de Nuremberg, architetto di gran rinomanza nelle fortificazioni militari, studiati nelle guerre di Fiandra i nuovi modi, detti rasenti dal Vauban introdotti nelle fortezze fiamminghe, e fatto dotto nei libri del Montecuccoli, elevò una piazza che fu tra le più terribili d'Europa.

Corpo principale di essa è un pentagono, figura a quel sito soprammodo accomodata, da fosse e canali tutto ricinto, e bastionato agli angoli con ivi polveriste e cavalieri. Ha molti attorno corpi avanzati, revellini e lunette, guardie e contraguardie rasentate ilp marittimi canali, ponti e saracineschi separati o congiunti: ca pace in tutto di 300 bocche o più; accresciuta di opere sempre più appresso, e specialmente dal 48 in qua, per fiere batterie avanzate e a fior d'acqua dal lato del porto: e altre opere regie. Costò allora la somma di scudi 673937, senza gli armamenti. Cominciata nel 1680, vi s'inaugurò il reale stendardo di Carlo al di 4 novembre del 1683. - Nel 1718 sostenne lungo assedio, ma contro gli Spagnuoli che ne ebbero gran travaglio, tenuta dall'Austriaco. Nel 1848 bombardando e incendiando la città intera non sarebbe senza lei caduta Messina in mano al Filangieri e suoi diciottomila Svizzeri e Napoletani; e fu poco men che tutta la cagione della rovina della siciliana guerra.

Credesi che il governo abbatterà tutti i lati e luoghi della fortezza che minacciano la città. Il parlamento siciliano del 1848 aveva decretata la distruzione di tutte le opere militari che erano a offesa del popolo e da tempo in qua 2,400,000 Siciliani impararono troppo, che la cittadella di Messina è cittadella dell'isola.

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Era manifesto che secondo l'atto della capitolazione di Gaeta le due fortezze di Civitella del Tronto e di Messina dovevano rendersi: tuttavia i comandanti di queste piazze perduravano nella resistenza. In fatti il general piemontese Chiabrera aveva scritto colle date del 14 e 17 Febbraio al general Fergola invitandolo ad eseguire le convenzioni stipolate a Gaeta: ma quest'ultimo aveva risposto cosi:

Real Cittadella li 19 febbraio 1861

«Signore - Prestando fiducia a quanto espone coi suoi distinti fogli del 14 e 17 corrente, circa la cessione di Gaeta, per L' infausto avvenimento della esplosione di diverse riserve a pol vere, mi onoro farle conoscere che non sono tenuto a cedere questa real fortezza, non essendomi pervenuto niun ordine di S. M. il Re (n. s.) a cui dovessi dare esecuzione. - In conseguenza di che sono nell'obbligo di manifestarle che da militare di onore, starò alla difesa della fortezza con tutta la guarnigione che da me dipende, fino a che non saranno esauriti tutti i mezzi di una valida ed onesta difesa - Il Maresciallo di Campo Comandante - Gennaro Fergola.»

Senza por tempo in mezzo, il general Cialdini spedì materiale d'assedio del parco di Gaeta, e si condusse egli stesso innanzi alla fortezza assediata intanto che il general Persano riceveva l'ordine di condurre la squadra su questo medesimo

suo canto, per guarentire i suoi nazionali dai pericoli d'bombardamento, il governo inglese, dietro i rapporti del suo agente consolare, aveva egualmente spedito nelle acque di Messina una squadra, composta di 4 vascelli di 90 cannoni per notificare al general Fergola, che dove gli fosse piaciuto di difendersi indefinitamente contro le forze italiane, ei ne sarebbe stato in pie

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Simigliante notificazione era di già fatta, ed anche in parole più forti, general Cialdini: nondimeno gli abitanti della città erano in continue trepidazioni. Il 4 Marzo nel mentre che le truppe italiane s'avanzavano vivamente nei lavori d'approccio, corse la voce che il general Fergola avesse invitato la fregata Americana, e il vascello inglese il Vittorio Emanuele ad uscire porto. Si teneva forte che questo provvedimento non fosse per essere il segnale d'vicino bombardamento diretto dalla cittadella sovra la città. Partanto non fu nulla di questo: ma la città si premunì tuttavia il meglio possibile contro qualunque evenienza. La strada Austria, che mena alle porte della fortezza, fu barricata, e munita di cannoni. Due compagnie di bersaglieri furono mandati a rinforzare gli avamposti.

Il 6 Marzo individuo, che usciva furtivamente dalla cittadalla, fu arrestato siccome spia, picchetto di truppa che lo conduceva prigione, non sentendosi abbastanza forte per impedire la popolazione che non si precipitasse addosso al prigioniero, lo consegnò ad una forte pattuglia di guardia nazionale: ma invano, perché lo sciagurato fu fatto a pezzi dalla moltitudine.

La popolazione s'era eccitata per la notizia che certo numero d'officiali borbonici, usciti di Gaeta dopo la capitolazione di questa piazza, s'erano introdotti nella fortezza, trasportati da vapore prussiano, che era stato lungo tempo a servizio della squadra di Napoli, ed aveva persuaso il Com. Fergola a persistere nella resistenza.

Il giorno 6 alle 7 del mattino disertarono dalla cittadella sette soldati che trovavansi agli avamposti: i loro compagni lor tirarono addosso ma invano.

Da costoro si venne a conoscere dagli assedianti quanto Fergola si sforzava a tenere ignorante la guarnigione del vero stato delle cose, dando a sperare che una coalizione europea si proponesse di rimettere sul trono la famiglia Borbone.

Alle 11 a. m. dello stesso giorno molti colpi di cannoni fecero correre la gioventù al mare credendo che fosse una delle solite braveggiate del Com. Fergola, ma si avvide che furono lanciati dalla nave Comandante in onore dell'Ammiraglio che vi saliva.

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Alle 5. p. fu dichiarato il blocco. Nel tempo stesso entrava in porto vapore con bandiera prussiana. Esso ignaro della intima del blocco, chiamato due volte all'ubbidienza Comandante, gittò in mare una lancia che si avviò allo sbarcatoio. In quell'istante sui bastioni del Salvatore e della Cittadella comparvero a mille i borbonici facendo dei segnali alla lancia, nell'atto che dalla squadra staccavasi una lancia per andarle incontro.

Parve racchiudersi tranello, epperò una bombardiera italiana di guardia al porto le si scagliò addosso e fatta ritirare la borbonica trasse prigioniera la lancia prussiana, e la guardia nazionale si assicurò del capitano che già si era messo in terra.

In momento la cittadella era palco scenico dove rappresentavasi una pantomina: miccie accese, artiglieri in attenzione, soldati in movimento recando plichi quinci e quindi quasi volessero incutere timore, e dopo tutto questo affaccendarsi silenzio.

Al campo si lavorava con incredibile alacrità quantunque la piova non cessasse di cadere con violenza.

Il giorno 9 parlamentario recò alla cittadella diversi dispacci che il comandante la stazione militare francese pregò di far consegnare al maresciallo Fergola. Con questa occasione, il parlamentario fece osservare al generale De Martino, comandante la cittadella, quanto fosse inutile la resistenza, e lo assicurava che l'Europa intera, non che disapprovarla, la condannava.

Questo consiglio non fu ascoltato: per tutta risposta il generale De Martino disse al parlamentario di avere spedito intimazione al generale Cialdini di cessare i lavori d'approccio, mentre in caso contrario all'una pomeridiana avrebbe principiato il fuoco. La risposta del general Cialdini a tale intimazione fu, tirasse pure il Fergola sopra i suoi lavori ed anche sulla città ma si ricordasse della sua lettera.

Dopo di che, capitano di artiglieria si recò alle italiane batterie perché gli artiglieri stessero sull'avviso.

Alle due e ven

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Sulla pianura, dove sbocca in mare la fiumara Zujera, precisamente al cimiterio, veniva costrutta una batteria di dodici mortaj da 27.

In fondo alla strada, detta La Maddalene e quasi sulla spiaggia del mare, vi erano altre due batterie, una di tre cannoni da 16 rigati e l'altra di quattro da 40 lisci. All'estremità del gran piazzale, detto Terrannova, verso Porta Città, quasi a trecento metri dalla cittadella si eriggeva altra batteria di 3 pezzi da 40 lisci.

A trecento metri da questa batteria si collocavano dietro due case tre mortai da 16, dei quali appena si accorgea l'estremità del bastione D. Blasco a sud.

I colpi diretti alla Contessa giungevano appena a due teni, cioè a 2600 metri circa:

Le opere del Noviziato e dei Gemelli, che erano le sole visibili della cittadella non soffersero alcun danno dai proiettili nemici che in gran parte scoppiavano in aria.

Il giorno 10 una bandiera bianca partì dalla cittadella: parlamentari recavansi a bordo della nave Comandante ove convennero anche i vari consoli - Ivi dopo breve colloquio che a quanto pare versava a richiedere la loro corrispondenza recata legno prussiano, e a proporre la resa purchè fossero lasciati liberi a recarsi in Roma con armi e bagaglio, avutane la concisa, ma sufficiente risposta da Cialdini - resa a discrezione - ritornavano raumiliati in cittadella, minacciando per altro che alle cinque avrebbero bombardato.

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Ecco le condizioni imposte generale Cialdini alla guarnigione della cittadella:

a La cittadella è resa a discrezione e consegnata nello stato in cui si trova alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele re d'Italia, che ne prenderà possesso.

I generali ed ufficiali tutti verranno mandati a Napoli con mese di paga ed il governo s'incaricherà di scegliere quelli che potranno far parte dell'armata.

consiglio di guerra esaminerà se gli ufficiali messi agli arresti siano colpevoli di qualche reato, e nel caso affermativo deciderà sulla pena da infligger loro.

Sua Maestà sempre proclive al bene e secondando il suo generoso animo ordina che sian tutti rispettati.

I soldali che non hanno tuttora compiti i cinque anni seguiranno a servire nell'armata.

Gli altri andranno a casa loro con mese di paga e due mesi di permesso: al primo appello verranno chiamati sotto le armi.

Alle ore 11. ani. del giorno 11, parlamentario uscito dalla cittadella chiese di comunicare col vapore postale delle Messaggerie il che gli fu negato in forza del blocco. Il Comandante Fergola frattanto scriveva al general Cialdini dicendo di trovarsi costretto a tirare sul Noviziato quantunque temesse che qualche po potesse far danno alla città. Il gen. Cialdini rispose al Fergola con una lettera piena di cortesia e ben diversa dalla prima.

La cittadella continuava a tirare con poco successo; però i lavori di approccio procedevano con mirabile speditezza. Pertanto, il gen. Cialdini concertavasi coll'ammiraglio Persano per dare l'attacco all'indomani. Infatti si videro diverse fregate lasciare l'ancoraggio delle grotte e passare al sud della cittadella; e successe una generale emigrazione nella popolazione.

La flotta italiana si dispose in ordine di battaglia il giorno 12. Il gen. Cialdini diede J' ordine di attacco generale per mezzo giorno, e non si tosto fu suonata l'ora indicata, tutte le batterie vomitarono fuoco d'inferno nelle cittadella.

furioso vento di maestrale allontanò i legni della flotta

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luogo di destinazione e tanto era violento che le macchine a vapore non potevano vincerlo.

La pirofregata Maria Adelaide fu la sola a sormontare il furioso elemento, e spintasi prima a due mila, quindi a mille metri dalla cittadella per più di tre ore e mezzo fulminò la piazza.

L'estremità sud del bastione D. Blasco rispose alcuni colpi alle batterie di terra, ma presa di fianco da una batteria di cannoni a poca distanza, i quali tiravano a mitraglia, venne in breve ora abbandonata.

La batteria a casamatta della lanterna traeva contro la fregata, e la cortina a cavaliere della cittadella cercava di ribattere i colpi del Noviziato e delle batterie Gemelli: Ma i tiri delle batterie italiane erano tali che presto i borbonici fuggirono dai pezzi e non fecero più fuoco.

Il tiro così ben diretto era di terribile effetto sulla cittadella: mirabile spettacolo presentava pure la fregata ammiraglia che, sola alla pugna, lottando col vento gagliardissimo e col mare oltre modo agitato, faceva fuoco spaventevole. Gli altri legni non poterono mai entrare in lizza, ad onta dei segnali che faceva il caposquadra di stringere l'inimico.

Sul finire dell'azione la fregata Vittorio Emanuele giunse in tempo di tirare alcuni colpi. Ma dalla cittadella più non si rispondeva e si scorgeva gagliardo incendio che divampava. Lo scoppio di deposito di granate pose fine alla difesa della piazza e verso le ore 5 pom. si videro in tre punti inalberarsi bandiere bianche. Allora tanto in terra quanto in mare fu dato il segnale di cessare il fuoco.

Così dopo quasi cinque ore di fuoco, al quale la marina non prese che quella parte che lo venne consentita dalle condizioni del mare, i difensori della piazza, che pochi giorni prima avevano dichiarato di volersi seppellire sotto lo rovine della cittadella, anzichè difendersi, furono visti abbandonare le loro artiglierie e alzare le bandiere parlamentari.

In fatti il maresciallo Fergola spedì parlamentario a chiedere 24 ore di tregua. Cialdini rispose che alle ore 10 avrebbe ripigliato il fuoco.

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Tornando vano questo tentativo i borbonici de

I soldati fatti prigionieri s'imbarcheranno sul Vittorio Emanuele e sul Carlo Alberto che li trasporteranno sul continente.

Le perdite non sommarono che a 6 morti e 15 feriti. Ebbero morto e 3. o 4. feriti i borbonici.

Il generale Cialdini fece chiamare il colonnello Villamat ordinandogli di deporre la spada. Questi la presentò al generale il quale sdegnò di riceverla. Egli lo fece prendere dai Carabinieri e condurre in carcere insieme a sei ufficiali.

Si venne a conoscere che il maresciallo Fergola e gli altri generali si sarebbero resi dopo l'espugnazione di Gaeta, ma pareva certo che il Villamat con 50 ufficiali procedenti da quella fortezza avevano organizzata la resistenza di Messina, cercando di prenderne sotto mano il comando.,

Messina assumeva aria di festa e tutta la popolazione si versava sulle strade abbandonandosi a dimostrazioni di gioia.

Malgrado la dedizione di questa fortezza, Ci vitella del Tronto teneva fermo tuttavia con una maravigliosa ostinazione. Quantunque tal piazza fosse d'importanza secondaria, conveniva pure al governo di S. M. Vittorio Emanuele di ridurla alla sua obbedienza stante ch'essa poteva servire di centrale agl'insorti degli Abruzzi, e mantenere senza tregua in agitazione la provincia di Teramo. L'impresa tuttavia presentava delle serie difficoltà a causa della situazione eccezionale della cittadella, che sorge sovra ammasso di scogli quasi inaccessibili, a altezza di circa 90 metri sopra il livello del torrente Salinello. Riguardata come inespugnabile nella fronte, che è opposta alla città, e difficilissima ad attaccarsi dalle altre bande, Civitella del Tronto aveva nel medio evo respinto i tentativi del Duca di Guisa, ed aveva resistito per più mesi nel 1805 con pugno di difensori a corpo d'armata Franco-italiana, e non si rese che quando la guarnigione fu ridotta a sette uomini.

Seguendo le relazioni che ci pervennero da Ascoli,

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quando

Tuttavolta, noi dobbiamo notare, ch'certo numero di difensori della cittadella, ponendo ben mente alle conseguenze che potrebbero loro arrecarsi da una resistenza ostinata, si resero in numero di circa 70 ad Ascoli, dove si sottomisero al general Mezzacapo. La notificazione seguente del general Fanti, ministro della guerra, relativa alle truppe di Francesco I], non era stata estranea alla loro determinazione.

MINISTERO DELLA GUERRA

NOTIFICAZIONE

Colla caduta di Gaeta è scomparsa ogni ombra di Esercito Borbonico. Il rimanere in armi sotto una bandiera che più non esiste, ed il diritto che ha una Nazione di non essere turbata nei suoi interessi, nelle sue credenze, da voto unanime manifestate m' inducono a notificare quanto segue.

I militari stranieri che appartennero alle truppe Borboniche, o che servirono e servono nelle Pontificie, i quali prendessero parte colle poche bande che infestano tuttora alcune regioni montuose della parte meridionale dei Regii Stati, qualora vengano fatti prigionieri dalle truppe nazionali non saranno considerati come militari ma trattati a rigor di leggo.

Dato a Torino, addì 15 febbraio 1861:

Ministro di Guerra

M. FANTl.

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l difensori ostinati di Civitella del Tronto si componevano dunque di 300 gendarmi, 60 guardie urbane, ed una cinquantina d'avventurieri. Appena stabilito a Ponzano con lo sue truppe, il general Mezzacapo spedì il capo del suo stato maggiore col colonnello Pallavicino, parlamjntarii, offrendo agli assediati le medesime condizioni, poco innanzi offerte e accordate alla guarnigione di Gaeta.

Nulla essendosi potuto conchiudere, si fecero trasportare con sommo stento sulle erte cime che attorniano la fortezza circa venti bocche da fuoco di vario calibro, e postele in batteria, alle 8 del mattino del 24 s'aperse il fuoco. Civitella rispose con grande energia, avendo gli assediati 23 pezzi per la maggior parte di grosso calibro, il fuoco continuò tutto il giorno, né dalla parte degP italiani cessò, neppure durante la notte.

Correvano voci che fra i rinchiusi nella fortezza fossero sorti gravi dissensi; epperò il generale Mezzacapo, stimando bene di valersi di questa supposta ma probabile circostanza, che sembrava dover essere stata aggravata dalla specie di bombardamento fattosi nel giorno, dispose che il 25 di buonissima ora tre colonne muovessero a tentare l'assalto contro le tre porte principali.

I difensori ne avevano certamente avuto sentore, poichè, come le italiane truppe, superando ardua salita di 45 a 60 gradi d'inclinazione giunsero a tiro, vennero accolte da tremendo fuoco di mitraglia e di fucile. Per il che, dopo ora e mezzodì pertinaci ma vani sforzi, vedendo di non potere per allora far frutto, gli assalitori si ritirarono in perfettissimo ordine e con poche perdite: la qual cosa si dee ascrivere all'impeto con cui si fecero innanzi e si spinsero sotto le mora, che li ripararono dai tiri diretti dall'alto al basso.

Appresso questo tentativo disgraziato, ma ingegnoso, il ge neral Mezzacapo si rassegnò a cominciare i lavori d'approccio, eh' erano d'una straordinaria difficoltà a cagione della natura del terreno, e continuava a trar di cannone contro la fortezza, quando il general napolitano Della Rocca arrivò a Civitella, portatore dell'ordine espresso spedito da Francesco II, che la fortezza si arrendesse. Egli fu scortato da due ufficiali italiani,


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ma la guarnigione borbonica, malgrado quest'ordine stette salda ancora nella sua resistenza.

Fu in questa situazione che Francesco II indirizzò la seguente circolare a suoi agenti nell'estero.

Roma, 19 marzo

Signore

Come ve l'ho fatto sapere col mio dispaccio del 10, il re, giudicando che nelle circostanze attuali fosse ormai inutile di prolungare la resistenza delle cittadelle di Messina e di Civitella del Tronto, ordinò ai respettivi comandanti di quelle fortezze di entrare in trattazioni, a fine d'ottenere una onorevole capitolazione.

Il governatore di Civitella, sia per suscettibilità militare, sia che non credesse abbastanza coperta la sua responsabilità, respinse oggi stesso (19) ogni progetto di capitolazione.

Sua Maestà fece tutto il possibile, per mettere termine all'effusione del sangue a Civitella del Tronto, sempre anima!a medesimo pensiero di umanità che è stato, fino adesso la regola invariabile e costante della sua condotta. Malcontento delle misure prese e persistendo sempre nelle medesime idee, il re ordinò al maresciallo Bosco di partire immediatamente, a fine di comunicare al governo della fortezza disposizioni ancora più esplicite. La presenza del generale Bosco, di cui si conosce la devozione al re sarà per gli assediati di Civitella una guarentigia efficace di autenticità, non chè del fermo volere del re.

Verrà giorno in cui, le circostanze non essendo più le stesse, il sovrano legittimo farà appello alla fedeltà de' suoi sudditi. Nessun pensiero d'impazienza o di ambizione accelererà supremo istante. Ma intanto il re è risoluto di fare tutti i sacrifici per risparmiare al regno delle due Sicilie agitazioni inutili.

Aggradite, ecc.

DEL RE.

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Nello stesso tempo che questa circolare manifestava le intenzioni di Francesco II relativamente alla esecuzione dei patti convenuti per l'atto della capitolazione di Gaeta, il general Bosco partiva di Roma, accompagnato da due officiali francesi, per intimare al comandante del forte di Ci vitella gli ordini più pressanti di rendere la piazza. Non fu senza esitazione molta, che si stringesse la capitolazione, come avvenne il 27 Marzo 1861, con le medesime condizioni di Messina.

III.

Quando noi abbiam reso conto dei dibattimenti, ch'ebbero luogo al senato francese rispetto al paragrafo dell'indirizzo concernente la questiono italiana, avremmo potuto far seguire quelli che si passarono al corpo legislativo, e che non furono meno interessanti dei primi. Pertanto l'ordine cronologico dei fatti ci ebbe obbligati di rimetterli ad altro luogo. Ma ora siam giunti dove hanno lor posto, cioè a lato delle discussioni, che simili ebbero luogo nei parlamenti inglese e spagnuolo.

Riportiamo innanzi tratto il paragrafo del progetto d'indirizzo del corpo legislativo francese, sul quale si aprì la discussione che preoccupò così vivamente gli spiriti, come l'altra a cui fu teatro il senato dell'impero.

«Sire, l'interesse nazionale e tradizionale, che noi abbiamo pei destini d'Italia, fu accresciuto dagli energici e gloriosi sforzi che voi faceste, alla testa del nostro esercito, in favore della sua liberazione.

«Il Corpo legislativo, associandosi al rispetto che voi avete mostrato pei desiderii dei popoli italiani, approva la saggia riserva che mantenne la Francia, sul terreno dei trattati, del diritto delle genti e della giustizia, e che, senza diminuire le vostre simpatie pelle nazioni che si rialzano, non vi permise di associare la vostra politica ad atti che voi riprovate.

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«Sire, i documenti diplomatici, e l'ultimo invio di truppe a Roma, in una condizione critica, hanno provato al mondo intiero che i vostri sforzi costanti assicurano al papato la sua sicurtà e la sua indipendenza e hanno salvato la sua sovranità temporale per quanto lo permisero la forza dello coso e la resistenza a saggi consigli.

«Contenendosi a questo modo, V. M. adempì fedelmente i doveri di figlio primogenito della Chiesa, e rispose al sentimento religioso, come alle tradizioni politiche della Francia.

«Intorno a questa grave questione, il Corpo legislativo si abbandona intieramente alla vostra saggezza, ben persuaso che, nelle eventualità dell'avvenire, V. M. prenderà consiglio dai medesimi principi! e dai medesimi sentimenti, senza lasciarsi scoraggiare da ingiustizie che ci affliggono.

«Sire, in quasi dieci anni, dacchè la Francia vi affidò il suo destino, gli ostacoli e le lotte non hanno né scoraggiato la vostra prudenza, né stancato il vostro coraggio. La Provvidenza vi coperse della sua egida, e il paese delle sue acclamazioni.

«Continuate, Sire, in quella politica prudente e risoluta, liberale e ferma che tutela sotto un potere forte libertà durevoli, e non ha altra ambizione che la gloria e l'onore del nome francese.»

Fu il conte Segur Lamoignon che dopo aver fatto una digressione su diversi soggetti d'interesse francese, entrando nella quistione italiana ricordò le parole pronunciate a Saint Cloud dove l'Imperatore disse aver fatto la pace per sottrarsi al pericoloso concorso della rivoluzione ed evitare una guerra generale. L'oratore dice che le speranze concepite in quella occorrenza furono crudemente deluse.

Imputa la condotta del Piemonte all'Inghilterra che volle prendere una rivincita delle umiliazioni che i successi di Francia le aveano fatto subire. Quindi il divisamento di spingere alla distruzione del potere temporale del papa. Questo divisamento faceva del Piemonte lo strumento dei rancori e degli interessi dell'Inghilterra.

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L'Inghilterra si propone di divenire l'avanguardia della coalizione sullo Alpi.

Al principio del non intervento, non quale fu compreso da Napoleone dopo la pace di Villafranca, ma come fu sviluppato ed esteso dall'Inghilterra, si devono questi disastrosi risultameli.

Tutto quanto è avvenuto in Italia prova che il volere dell'Inghilterra, prevalesse sempre su quello di Francia; per Inghilterra gli abitanti di Roma, di Napoli, della Sicilia non sono che i figli della medesima razza: mercé questa dichiarazione il re di Piemonte percorse l'Italia intera colle armi in pugno.

La costituzione dei grandi Stati sulle frontiere di Francia, osserva l'oratore essere un'antica idea inglese, l'idea di Pitt e Castelrcagh. La Prussia fu messa in contatto colla Francia, fu creato il Regno di Olanda. L'unità d'Italia è un'ispirazione dello stesso concetto. Presa tra l'Italia e la Germania unificata, la Francia non avrà più le sue frontiere in sicuro.

Combattuta questa idea inglese della unità italiana l'oratore ravvisa egualmente la mano dell'Inghilterra negli attentati commessi contro il potere temporale del Papa. Da dodici anni è incriminata la presenza delle armi francesi in Roma. Gli abusi del governo romano sono il tema favorito delle diatribe inglesi.

Accennando alla pretesa ingratitudine del Papa verso la Francia l'oratore, enumerando i consigli dati e reietti, dall'una parte e dall'altra, dice non esservi parità di situazione e di torti tra il Papa ed il Piemonte.

Si dice che il Papato rifiuta riconciliarsi colla Italia? Quale riconciliazione gli si propone? Lo spogliamento. L'oratore non crederà mai che il nipote di Napoleone I. voglia lasciar distruggere quello che i secoli fondarono, e dare alla rivoluzione, all'Inghilterra un trionfo.

Plichon Comincia col dire, malgrado il diniego del presidente del Consiglio di Stato, che sono pur vere le inquietudini che turbano le coscienze e che si manifestano in ogni modo. Si duole che le saggio combinazioni della pace di Villafranca non abbiano avuto la loro esecuzione.

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La rivoluzione sotto il nome d'unità italiana ha trionfato. Essa tutto invase, meno Roma e Venezia a cui tende oggimai. Di questa situazione son responsabili il Piemonte e l'Inghilterra, il primo invaso dall'ambizione, la seconda, che non può perdonarci la gloria delle nostre armi, vuole costituire ordine di cose contrario al nostro.

Dice che i soldati francesi a Castelfidardo impressero una nota di vergogna sulla fronte del vincitore. Trova della pena veggendo il rappresentante delle più antiche case dell'Europa compromettere il trono e l'onore do' suoi antenati.

Qui l'oratore è chiamato all'ordine Presidente, il quale dice di attaccar pure la condotta del governo, che saprà difendersi, ma ravvisare meno conveniente e coraggioso attaccare gli assenti, anche quando sono sul trono.

L'oratore continuando dice che il prestigio dello corone in Italia fu tenuto alto da Francesco II. Se Gaeta ha soccombuto, la Provvidenza non permetterà che tanto eroismo rimanga senza ricompensa.

Plichon osserva che la Francia non ha fatto quanto doveva per assicurare le stipulazioni di Villafranca. Le intenzioni furono buone, ma v'ha per parte sua una grande imprevidenza e molta debolezza. La Francia è dominata dall'Inghilterra e Piemonte.

Il governo francese all'indomani del trattato di Villafranca doveva far occupare i paesi insorti. Il plebiscito si fece sotto l'influenza di governo rivoluzionario. La politica debole e dubbia della Francia fallì innanzi alla resistenza dell'Inghilterra e del Piemonte. Il governo francese abbandona al suffragio universale l'assestamento degli affari dell'Italia centrale e la rivoluzione riesce a annessione generale. L'impotenza della Francia si nota pure per gli avvenimenti di Sicilia, per le Marche, per l'Umbria. Questa condiscendenza verso il Piemonte e l'Inghilterra è inesplicabile, rinunzia adesso ad ogni schiarimento e spera che giorno sarà rivelato il mistero, e una politica a più larghe

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Il nonintervento so impediva alla Francia d'intervenire negli affari altrui, non autorizzava il Piemonte a violare gli Stati della S. Sede. L'oratore cerca di giustificare il governo pontificio e dice che se esso nulla ha fatto per riparare il male, si è perché ne fu impedito dalla Francia. Non è vero che il Papato sia contrario al progresso: nelle età barbare esso cessò l'oppressione e rivendicò la libertà dei popoli. ll papato ha ragione se diffida delle idee nuove, perché fu sempre la rivoluzione che impedì alle riforme le più utili di riuscire. Il Papa ebbe ragione di ricusare il Vicariato del Piemonte, perché questa combinazione sarebbe stata una concessione alla rivoluzione. Neppure Vittorio Emanuele ne era contento. I sussidii offerti al S. Padre non potevano accettarsi, poiché oltre di offenderne l'indipendenza e la dignità, avrebbero creato molti imbarazzi o inconvenienti.

L'oratore biasima il governo francese per non avere fatto quanto doveva per salvare il Papato, rileva la deferenza che si ebbe sempre pel Piemonte, il quale fa una guerra barbara facendo fucilare, anziché arrestare, come facevano i Borboni. L'unità d'Italia non è che sogno contrario alle tradizioni, allo spirito delle popolazioni italiane. Il Piemonte ò il meni Italiano di tutti i popoli della Penisola. Cavour stesso, la più splendida personificazione del Piemonte, non parla correttamente italiano.

L'unità italiana è del resto pericolo per la Francia. Attaccare tre potenze militari ai fianchi della Francia era nel 1818 una delle combinazioni che l'odio britannico aveva inventato contro la Francia. Unità italiana, unità alemanna, unità slava ecco il triplice movimento che si prepara e che primo successo renderebbe irresistibile. L'oratore lamenta gli attacchi contro l'Austria. L'Europa è grandemente interessata perché l'Austria rimanga una potenza di prim'ordine.

L'oratore conchiude il suo discorso desiderando che si ripigli la politica di Villafranca che significherebbe l'Italia ricostituita secondo l'ordine e la libertà.

S. E. il signor Baroche, ministro, presidente del Consiglio di Stato dice che la violenza degli attacchi non gli permette di serbare il silenzio,

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e che egli riassumerà la politica francese so questa questione che si tenta indarno di oscurare. Non fatti mai circostanza in cui il governo in Francia sia stato attaccato con tanto fiele e nemmeno in Austria ed in Inghilterra il governo dell'Imperatore fu mai bistrattato come adesso in una Camera francese.

Voci È vero. E vero.

Sig. Baroche, Bisogna tuttavia che noi possiamo alzare il capo, e non come accusato che voglia difendersi; noi protestiamo contro tutte le allegazioni prodottesi qui e che non avevano la scusa dell'improvvisazione, ma erano state freddamente meditate nel silenzio del gabinetto.

Si è parlato di emozioni che si sarebbero prodotte in Francia, ma voi che ne affermate l'esistenza, guardatevi farle nascere. Se giungeste solamente a far credere la centesima parte delle vostre allegazioni, vi sarebbe grande emozione nel paese.

Di che si è parlato? O piuttosto, di che non si è parlato? Si è parlato di scisma. Evvi egli pericolo di scisma in Francia? Ho sotto gli occhi le parole pronunciate dall'Imperatore a Marsiglia in occasione della fondazione di una Chiesa «Il mio governo, lo dico con orgoglio, e forse il solo che abbia sostenuto la religione per lei medesima. Egli l'ha sostenuta, non come stromento politico né per piacere ad partito....» bisogna confessare che vi sarebbe mal riuscito! [Risa di approvazione) "ma unicamente per convinzione e per amore del bene che essa ispira, come delle verità che essa insegna.» (Applausi)

Nessuno dunque crederà allo scisma.

Voi avete detto esservi in Francia malessere che deve terminarsi colla guerra e con una coalizione. Avete detto che il nome di Napoleone III suscita le diffidenze dell'Europa, e cio davanti ad una Camera la quale ha tutti i documenti diplomatici, segnatamente quelli di Varsavia, dove piena giustizia è reso all'Imperatore. (Adesione)

L'oratore ribatte gli elogi fatti sig. Plichon al governo

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L'onorevole Plichon rivolge felicitazioni all'Austria, ma non è molto che la Camera votava dei sussidii per far guerra all'Austria. Come comprendere cotesto simpatie, mentre si oltraggiano altri governi coi quali siamo in alleanza?

Io non vengo qui a difendere il Piemonte, ma finalmente, non dimenticate che l'esercito Piemontese era, non ha guari, al nostro fianco e nostro compagno di gloria. Il miglior mezzo di fare rispettare l'Imperatore, è che noi stessi rispettiamo le teste coronate. (Viva approvazione)

L'oratore passa a parlare dell'Inghilterra e delle accuse dirette contro di essa; egli dice che non solo il governo dell'Imperatore, ma eziandio tutti i governi precedenti cercarono l'alleanza dell'Inghilterra, quantunque nessuno di essi siasi posto così nobilmente di fronte all'Inghilterra, come il governo attualo della Francia. (Benissimo!)

L'oratore rammenta la pace del 1856 e l'annessione di Nizza e della Savoja fatte a malgrado dell'Inghilterra e sostiene che in tutte le cose si è sempre considerato anzitutto l'interesse francese, o che si è ricevuto quanto si è dato.

Esaminiamo ora, egli dice, la politica dell'Imperatore in Italia. Noi abbiamo fatto la guerra all'Austria la cui situazione in Italia era una minaccia permanente di guerra europea, ma abbiamo aspettato che il Piemonte fosse attaccato; non potevamo lasciar schiacciare vicino che teneva i passi delle Alpi.

Alla fine della guerra abbiamo pensato al passato; abbiamo agito in favore del medesimo.

Passo alla pace di Villafranca, così fortemente approvata, e con ragione, dai nostri contradittori. Ci si rimprovera di non aver seguito la politica di Villafranca. Noi non ce ne siamo allontanati. Né i preliminari di Villafranca, né la pace di Zurigo implicavano assolutamente il ritorno dei principi spodestati. Il loro ristabilimento doveva farsi senza alcun intervento estero.

Quanto alla S. Sede, i due Imperatori si impegnavano a volgere rispettose osservazioni al Papa per indurlo a concedere delle riforme.

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Le proposte fatte dalla Francia al S. Padre per tutelare il suo potere non datano già, come disse ieri il sig. Kolh Bernard, dalla lettera del 31 dicembre. Vi fu prima la lettera del 12 luglio 1859, scritta all'indomani di Villafranca, nella quale l'Imperatore scongiurava il Papa di accordare alle Legazioni amministrazione laica nominata da lui, con consiglio formato per elezione.

Le truppe austriache avevano abbandonato le legazioni precipitosamente o di notte, senza la scusa di pericolo. Le autorità pontificio le avevano seguite, e le popolazioni, senza eccitamenti esterni, senza insurrezione, si erano trovate in una piena indipendenza. Fu in quella situazione che si scrisse la lettera del 12 luglio.

Se in momento larghe concessioni fossero state fatte, senza dubbio sarebbero state accettate. Ma che si rispose? Che quando le Legazioni si sarebbero da se stesse riposte sotto l'autorità del S. Padre, le riformo sarebbero state accordate. Era quella una condizione impossibile, e la Francia riguardò come una sventura che non si tentasse ciò che essa consigliava.

Gli eventi procedevano. Fu scritta la lettera del 31 dicembre nella quale proponevasi al Papa di rinunziare alle Legazioni per conservare il resto. Si disse che il Papa non potea ciò fare, quantunque però non fosse quella la prima volta che il potere temporale subiva uno smembramento.

Non ricorderò tutte le proposte fatte dalla Francia al governo di Roma: trovammo sempre rifiuti e finalmente fummo ridotti a domandare al Sommo Pontefice che si provvedesse di proprie truppe per poter ritirare le nostre. Il S. Padre aveva acconsentito alla partenza della nostra guarnigione da Roma; e tutto era già regolato col nostro ambasciatore, quando si seppe in Francia che Garibaldi era partito da Genova. Nel timore di uno sbarco sugli Stati della Chiesa, fu subito ordinato a Govon di rimanere, e così il governo del S. Padre fu salvato prima ancora che conoscesse il suo pericolo.

Ecco la politica francese riguardo al papato. Era egli possibile di fare di più per difenderlo?

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L'oratore parla della Confederazione italiana che andò fallita, e dice non avervi avuto colpa la Francia. Dice pure che non fu colpa della Francia se il governo di Napoli, con 100,000 soldati cadde davanti a Garibaldi, ed ai pochi suoi compagni: come non fu colpa della Francia se, stabilito una volta a Zurigo che i principi spodestati dovessero essere ristabiliti per il solo intervento morale, essi non furono così fortunati da essere di nuovo accolti dalle popolazioni degli Stati da essi perduti. Del resto, il non intervento può essere inglese, ma è naturalizzato in Francia, e nel 1831 lo adoperarono i signori Casimiro Perier, Guizot, Dupin e Sebastiani, i quali non amavano certamente le formole rivoluzionarie.

Una voce. Ciò non impedì la Francia di prendere Ancona!

Baroche. E vero, ma nemmeno e' impedì di andare in Cina, in Siria, e di battere gli Austriaci a Magenta e Solferino né c'impedirà di battere i nemici della Francia quante volte risaranno interessi francesi da salvaguardare (Approvazioni numerose). Nel 1841 era la rivoluzione che avversava il non intervento.

L'oratore dimostra che il non intervento fu rispettato dalla Francia nel 1831. Non è dunque d'origine inglese il non intervento: discende dalla politica nazionale, anzi dalla ragione. Ci dicono che dovevamo far più che ritirare l'inviato da Torino: l'indomani di Solferino dovevamo dunque unirci all'Austria per ischiacciare il Piemonte! Se non la guerra, che cosa potevamo far di più I Ora la guerra sarebbe stata contro l'interesse francese. Ecco il perché della politica imperiale.

Il mio collega Billaut disse in un altro recinto che la con federazione forse sarebbe la soluzione dell'avvenire. Ma non abbiamo la pretesa né di prevedere l'avvenire né d'impegnarlo.

Flavigny dimanda la parola per ricordare che aveva interpellato circa un discorso pronunciato in un'altra assemblea. 'Rumori)

Baroche. Mi date occasione di richiamare un precedente. Sotto un altro governo discutendo l'indirizzo non si faceva mai cenno di ciò che si eseguiva nell'altra Camera, e qui l'oratore di cui parlate non è rappresentato da alcuno.

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Keller. Si propone di rispondere al Preside del Consiglio di Stato. Dapprima esprime la dolorosa impressione che gli hanno cagionata le severe parole indirizzate dal Consiglio di Stato al sig. Plichon. (più voci: Ciò riguarda il sig. Plichon). Il ministro ha rimproverato il sig. Plichon d'essersi sovvenuto della parte della Francia in cui egli era rappresentante. Il ministro non mi permetto di rammentarmi che io rappresenti il dipartimento in cui i partiti sono sconosciuti, e che fu uno dei più ardenti a resistere all'invasione, uno di quelli che più impazientemente hanno sopportato i trattati del 1815, ma pur uno di quelli che maggiornente sono attaccati alla lor fede, alla difesa dello idee dell'ordine, e dove gli attentati commessi in Italia causano la più viva e la più profonda indignazione.

Io restai sorpreso ieri che il Presidente del Consiglio di Stato ricusasse di rispondere all'interpellanza del signor di Flavigny. Il signor Flavigny chiedeva meno conto al governo di un discorso pronunciato dinnanzi al Senato che del dispaccio che avea attaccato a questo discorso il sigillo d'un'ammirazione ufficiale.

Questo dispaccio è stato affisso nei 40,000 comuni della Francia. Esso era di tale natura da far credere che il discorso di cui si tratta fosse il nuovo programma della politica dell'Imperatore (Più membri: É vero, non si è potuto crederlo. Di negazioni,)

Il silenzio del governo a questo riguardo e il suo silenzio sulla politica presente e futura della Francia in Italia, ecco ciò che dà un carattere speciale all'attuale discussione.

Vengo alla questione Italiana. Al punto in cui sono giunte le cose da due anni, le intenzioni del governo sembrano ispirare la stessa fiducia a coloro che desiderano il mantenimento della Santa Sede, ed a coloro che ne desiderano la rovina completa e e prossima. Frattanto queste due fiducie sono incompatibili.

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Io non voglio ricominciare il processo già giudicato dal Piemonte e dall'Inghilterra: il processo del re Vittorio Emanuele di Garibaldi, del conte Cavour, di Mazzini, il solo grand'uomo che siasi dimenticato jeri.

Il governo francese ha egli fatto tutto ciò che abbia potuto per arrestare le intraprese del Piemonte, ovvero le incoraggisce colla sua inazione e suo silenzio? Ecco la vera quistione.

Per sapere ciò che noi faremo nell'avvenire l'oratore passa in rivista ciò che abbiamo fatto da due anni; gl'impegni presi dal governo, vele a dire che la guerra non sarebbe rivoluzionaria e che i diritti temporali del Santo Padre sarebbero rispettati. Ebbene! fin da quell'epoca si manifestarono divergenze tra il corso degli avvenimenti o le assicurazioni formalmente date. Si formò armata della lega. Questo movimento, il presidente del Consiglio di Stato lo trovava naturale ma il governo lo considerò così compromettente che ciò fu una delle più forti ragioni che dessero la pace di Villafranca.

Che cosa allora chiederemo noi da questa pace? Il risorgimento dei granducl» ed una confederazione. Ora, fin dal giorno successivo, Garibaldi dichiara ch'egli andrà sino al fondo, ed aggiunse che il Papa e i sacerdoti sono il cancro dell'Italia, e che bisogna estirpare questa cancrena.

Alla stessa epoca, per una dispiacevole coincidenza, la Francia rinunzia al suo piano di Villafranca, consacra la separazione dei Romani con una necessità. Anteriormente, una lettera avea impegnato il governo pontificio a dare alle Romagne un'amministrazione laica e separata.

Giulio Favre dichiara impossibile lo statu quo nella questione romana. Dice l'agitazione, che si fa a proposito di essa questione, essere più politica che religiosa.

Ricorda il modo col quale il Papa si condusse nel 1848. Chiamato a dichiarare la guerra all'Austria, rifiutò, allegando il carattere pacifico del Pontificato. Di questa maniera il Papa riconosceva l'incompatibilità dei poteri temporale e spirituale.

La Francia, nel 1848, non voleva la ristorazione del temporale. I ministri dichiararono allora, che nulla si sarebbe fatto contro la repubblica romana. Lamoricière fece allora

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la stessa dichiarazione. L'Assemblea fu ingannata. La repubblica romana fu per sorpresa rovesciata. Il Papato rimesso a Roma dalle baionette non fu però più sovrano.

L'Imperatore per fare la guerra d'Italia consultò la coscienza, il diritto e l'interesse nazionale e non mai l'interesse privato, come, insultando all'onore della Francia, alcuni oratori hanno asserito. Fu previsto che la guerra d'Italia scassinerebbe tutte le tirannidi.

Ritirate ora la spada della Francia da Roma, il Papa non potrà più ieggersi. Favre cita documenti comprovanti che l'Europa intiera ha condannato il governo Romano. Favre glorifica Vittorio Emanuele di avere posto la sua spada a servizio della Unità Italiana. Il governo dell'Imperatore non aver osservato pussillanime la neutralità.

Rispondendo al discorso di Keller, Favre dice che è stato sorpreso di vedere indicare come causa della guerra d'Italia motivo che esso non vuol ripetere al cospetto della Camera (numerose approvazioni). Era oltraggiare il Sovrano, insultare il buon senso e l'onore della Francia (approvazioni). Favre rammenta l'origine della guerra d'Italia.

Rammenta che il governo papale a Bologna disparve coi carettoni Austriaci. Sarebbe lo stesso se lasciassimo Roma. Accenna la falsa posizione fatta ai soldati della Francia e che non può durare. Favre sostiene che la confederazione avrebbe lasciato sussistere l'influenza austriaca. Rammenta i consigli di riforma dati al Papa. Biasima che il governo abbia autorizzato l'arruolamento in Francia.

Sostiene che sarebbe impolitico il mantenere a Roma la spada della Francia per comprimere il movimento che abbiamo provocato. Roma è necessaria agli Italiani come capitale, mantenere lo statu quo è impossibile.

Cassagnac difende la relaziono della commissione. La politica della Francia è cattolica e liberale.

Vuole il Papato senza abusi, e la libertà Italiana senza utopie. Nessuno della Commissione domanda di restituire al Papa le

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Sostiene che l'interesse della Francia e della dinastia è di mantenere il potere temporale, combatte l'Unità Italiana che considera ostile alla Francia.

Riassumendo, Cassagnac dice: Vi sarà irritazione reciproca tra Roma e Torino, finché non si ravvicineranno. La Francia deve aspettare custodendo Roma e il territorio pontificio, che Roma comprenda la necessità di conciliarsi l'appoggio dell'Europa 9 nazionalità Italiana, e che Torino comprenda la necessità di conciliarsi l'appoggio della cattolicità.

La Santa Sede devo comprendere l'impossibilità d'isolarsi dall'Italia. L'Italia altresì Papato. La parte della Francia è di Conciliare l'Italia col Papato.

Finalmente appresso due lunghe sedute la discussione fu chiusa discorso importante del Sig. Billaut, ministro senza portafoglio, e che noi riproduciamo testualmente.

S. E. Billaut, ministro. Mi par giunto il momento di trattare più da vicino questa quistione d'Italia su cui da dieci giorni avete udito tante cose divergenti e tanto opinioni contradittorie.

Io penso d'entrare nella discussione senza inutili particolari, senza sviluppi oratorii, colla parola calma e fredda che conviene agli uomini politici incaricati di rappresentare grandi interessi (benissimo, benissimo).

La situazione del governo è rimarchevole in ciò che s'offrono alla sua politica due diverse proposizioni: la questione in fatti ò complessa. Da lato si è ottenuto gran successo politico, e per assicurarne la durata gran risultato che ci risguarda che eccita la nostra sollecitudine; l'emancipazione liberale dell'Italia e la prevalente nazionalità dei popoli. Ma nel complesso di questi fatti avvenne uno gravido di difficoltà. Il dominio temporale del Papa è scosso, minacciato; e la Francia riconosce il principio fondamentale su cui questo dominio si appoggia. Fra questi due interessi egualmente francesi la politica del governo deve adunque prendere una decisione.

Sagrificate, ci dicono da una parte, sagrificate il S. Padre all'unità dell'Italia; sagrificate, ci dicono dall'altra parte sagrificata

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L'imperatore seguendo questa idea complessa aveva tentato di realizzare questo problema nelle combinazioni della pace di Villafranca. Tutti riconobbero che in essa vi era la vera soluzione del problema. In seguito a fatti indipendenti dalla volontà del governo questa soluzione non venne accettata; lo sarà nell'avvenire? Iddio lo sa.

Una seconda combinazione si mise in campo; era l'abbandono delle Romagne pel papa, con garanzia data per soprappiù dei possedimenti pontificii. Questa combinazione non è meglio riuscita della prima.

Ve ne fu una terza, quella del vicariato del re di Piemonte; essa ebbe la stessa sorte delle precedenti. Ecco quali furono i tre tentativi del governo. Di queste combinazioni, la prima era buona, la seconda meno buona, la terza era cattiva. (Movimento) Non esito, o signori, a parlare con intera franchezza.

Queste soluzioni respinte, che avvenne? Bisognò attendere ed allora si cercò di assicurare provvisoriamente la posizione morale del S. Padre. Il S. Padre domandò delle forze napolitano per difendersi; noi vi acconsentimmo; il re di Napoli le ha rifiutate. Il papa levò armata o collocò alla sua testa il generale Lamoricière; e noi lo acconsentimmo. Gli avvenimenti hanno provato che questo mezzo era insufficiente. L'imperatore ha mantenuto allora le sue truppe a Roma, malgrado le eventualità che poteva far nascere l'insurrezione di Sicilia, e le mantiene ancora.

Ecco la situazione: Nei dispacci che voi avete sotto gli occhi, voi avete potuto vedere i sentimenti dell'imperatore a questo riguardo. Egli consigliava al Santo Padre di rimanere nella sua capitale e di attendere fino al giorno nel quale il Congresso

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Oggi, in virtù di grande atto, voi siete chiamati dall'imperatore a dare il vostro parere. Ma prima di dare il consiglio che vi si domanda, permettetemi di esaminare insieme le difficoltà. Noi abbiamo a trattare col Santo Padre e col re di Piemonte. Bisogna tener conto delle popolazioni, bisogna tener conto dell'Inghilterra e dell'Austria, vale a dire che vi sono difficoltà da per tutto. Non abbiamo la pretensione che ci suppongono, d'imporre cioè la volontà della Francia. Capisco che il sentimento generale che sostiene questa volontà deve prevalere, ma nel mantenimento dei grandi interessi politici bisogna, prima di tutto, aver prudenza. La violenza è il più pericoloso dei mezzi. (segni d'approvazione)

Esaminando la situazione politica dei sovrani, ho già protestato i miei sentimenti di deferenza pel Santo Padre; ma noi abbiamo a trattare con lui o conoscete la sua maniera di valutare la quistione. Egli non ha cambiato di parere: tutto o niente. Questo era il senso dell'enciclica nella quale domandava il ristabilimento dei principi italiani. Questo era il senso delle parole del cardinale Antonelli al duca di Gramont, contenute in dispaccio di quest'ultimo «Non vi è da transigere, diceva. Fuori dello stato di cose quale era ante bellum, noi non abbiamo nulla a riconoscere». Questa situazione è forse cambiata? Vi sono delle gravi difficoltà, tanto più serie in quanto che la corte di Roma è in preda agli intrighi di ogni natura, e che, più che in nessuna Corte di Europa, il partito francese e il partito antifrancese, sonvi in presenza. Si negheranno questa situazione, queste influenze?

Ma esse sono esistite in tutti i tempi; sono delle tradizioni. Il carattere elettivo del sovrano pontefice ha sempre condotto le potenze ad avere in questa Corte di Roma, così agitata, dei rappresentanti, che al momento di una elezione si sforzavano di aiutare il partito pel quale erano favorevoli e possibili.

Vi ha in Roma il partito francese ed il partito antifrancese. Il partito francese non è numeroso; l'altro lo fu, e temo che ora pure lo sia.


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lo mi limito ad indicare questa differenza marcata. Il cardinale Antonelli fu più d'una volta imbarazzato per l'esuberanza di opposizione antifrancese della quale il sovrano Pontefice era contornato. Io voglio giustificare qualcuno a questo proposito. Vi è dispaccio del nostro ambasciatore a Roma che fu messo sotto i vostri occhi, ove si faceva allusione a delle piccole agitazioni che si manifestavano sui gradini inferiori del trono pontificio. Era quadro perfettamente vero, io lo posso attestare. Quando fui ministro dell'interno, m' arrivarono sovente dei particolari, che mi hanno provata la verità di quello che l'ambasciatore scriveva al governo.

Questo ambasciatore profondamente cattolico, il duca di Gramont, ebbe recentemente col cardinale Antonelli una conversazione che era divenuta necessaria. Il 9 di questo mese, il Duca di Gramont scrisse al sig. ministro degli affari esteri dispaccio che leggo:

L'oratore dà lettura di questa lettera, della quale ecco la sostanza;

«Ho creduto di dover chiamare l'attenzione del cardinale Antonelli sulle negative provocato da passo de miei dispacci. Gli ho indicato segnatamente la corrispondenza d'generale francese, che, secondoché dicevasi, provava la mia inesattezza. Ho anche ricordato al cardinale dei colloqui in cui avevamo deplorato insieme questo ardore d'partito che tendeva a travolgere il papa negli intrighi. La memoria del cardinale si trovò d'accordo colla mia. Egli era ben lungi negare l'esattezza delle mie parole. E' mi disse che il governo officiale di S. S., che la segreteria di Stato non incoraggiava quelle mene.

Sua Eminenza aggiunse che i dati presi registro delle udienze non provava nulla, atteso che molte udienze v'erano state omesse; che era possibilissimo non essere inscritti, e che spesso non facevasi altro che menzionare sommariamente parecchie udienze. Io risposi al cardinale che la miglior prora dell'inesattezza del registro consisteva nel non recar precisamente l'annotatone delle udienze di cui io aveva dato avviso al governo francese.»

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L'ambasciatore di Francia, quando afferma una cosa, non riceve smentite da nessuno.

Signor E. Dalloz. Il fatto incriminato non aveva che valore relativo, e fu posto troppo in rilievo.

Il ministro. l'ha altro ambasciatore, di cui furono pubblicati i dispacci. Erasi manifestata qualche esitanza a proposito dell'esattezza di quei dispacci. Io dirò una parola soltanto, cioè che l'ambasciatore a cui accenno continua a godere di tutta 'a confidenza dell'Imperatore.

Chiedo perdono di queste digressioni. Ritorno a ciò che ho indicato. Voglio parlare delle potenze colle quali è d'uopo intendersi circa la questione italiana.

Ho detto quale attitudine prendesse il Santo Padre. Egli dichiarava che non conosceva se non una sola cosa obbligatoria per le potenze, cioè che gli si restituisse l'integrità de' suoi Stati.

A lato del papa v'è altra cosa, v'è la situazione del re di Sardegna. Questa situazione è interessata, impegnata, si è venuta facendo a poco a poco; si pensava da principio ad regno di Italia. I fatti e i voti sono venuti gli uni dopo gli altri; non voglio discutere questi fatti; io gli espongo. Ecco gran movimento popolare che sopravviene, ecco la consacrazione d'una nuova origine con nuovo titolo, il titolo di re d'Italia. Questa situazione dunque è assai difficile e intricata.

A lato del Piemonte che non cede, v'ha un altro interesse che è sul di giungere a completo successo; vi sono le popolazioni. Per farle piegare non v'ha che la forza. A lato di ciò v'ha l'Inghilterra e la sua politica speciale d'incoraggiamento senza sagrifizii canto suo. (Sì, sì, così è) Questo è ben chiaro ed abile [risa di adesione).

Si, o signori, noi parliamo assai liberamente dell'Inghilterra. Noi siamo vicini ed alleati, ma ciò non impedisce che noi ci

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Finalmente v'è l'Austria, colle sue inquietudini, co suoi dolori, non voglio dire colle sue speranze. l'è la Prussia, la Russia. Al cospetto di questi diversi interessi è posta la quistione. Quali consigli date voi?

Una voce. Nissuno.

altra voce. Attendere.

Il ministro. Noi abbaiamo cercato che conveniva fare fra tre situazioni. L'onorevole signor Favre ha detto abbandonate Roma, lasciate che il movimento rivoluzionario si compia.

Il sig. Favre. Ho detto, il movimento monarchico (Ilarità).

Il sig. Ministro. Non accetto la distinzione del sig. Favre; se il movimento è monarchico io me ne congratulo; il movimento è nazionale, il sig. Favre non lo negherà; ma il movimento è certo rivoluzionario (interruzione). Non v'è per noi difficoltà a dir ciò. Si tratta di manifestazioni che derivano suffraggio universale. Posso parlarne senza ritegno. Non voglio né biasimare né lodare; pongo soltanto i fatti.

Riprendo dunque come si è detto: lasciate che il movimento monarchico si compia. Questo è facile dire. Ma la Francia non può ritirarsi dagli affari del mondo, né può lasciare tutto agli altri; e lasciare eziandio la riconoscenza. Il governo non abdicherà così; sa che vi sono difficoltà e che sarebbe più facile per lui dire, me ne lavo le mani. Ma no, il governo non si lava le mani dei fatti; vi lascia la sua mano potente. (Benissimo) Potrebbesi abbandonare Roma, abbandonare la politica che segue da secoli la Francia; obbliare che Napoleone III ha fatto in dieci anni per Roma più che non facesse Napoleone I col concordato; obbliare che il papa è mantenuto da noi soltanto a Roma? Ciò è impossibile.

Respingo dunque l'emendamento del sig. Favre. Quanto agli altri emendamenti, ve ne sono due diversi nella forma, si

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Il sig. Lemercier ha detto che il sig. Favre è andato fino al fondo delle nostre premesse, e che noi ci arrestiamo a mezzo cammino. Io ciò nego. Il governo dice quale sia il suo volere. Questo mi invita a fare osservazione sopra discorso pronunciato nel Senato. Nel rendere omaggio a grand'ingegno, il governo non accetta che non appartiene alle sue proprie soluzioni.

Una voce. E il dispaccio telegrafico del ministro dell'interno?

Il ministro. Posso facilmente spiegare questa cosa. Uscendo dalla seduta del Senato, commosso come tutti i presenti per il gran successo d'membro della famiglia imperiale, il ministro dell'interno si è dato premura di far conoscere questo fatto ai prefetti. Il dispaccio era personale. Ogni giorno il governo spedisce ai prefetti dispacci più o meno rilevanti.

Or chi direbbe che non v'era importanza nel successo del principe Napoleone? Si può differire sulla soluzione proposta, ma quanto all'ingegno, all'eloquenza non vi può essere dissidenza (benissimo benissimo).

Si è fatto lamento che il discorso siasi riprodotto nel Moniteur des Communes. Questo è vero; ma insieme col principe furono riprodotti tutti i discorsi de' senatori. Le accuse dunque non sono giuste a questo riguardo. Si è parlato d'maire che fu sdegnato di dover pubblicare questo discorso; ebbene, o signori, questo maire non esiste (si ride). Io avrei voluto non discorrere di queste inezie; ma convien far conoscere la verità (benissimo). Concludo adunque che fra i due emendamenti il paragrafo dell'indirizzo dee essere adottato com'è.

V'è in ciò altra considerazione. L'onorevole signor

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Tra le preoccupazioni inspirate dagli avvenimenti d'Italia, se ne formò una al di fuori di questa Camera, che trae i suoi principali elementi da' documenti religiosi. De' Vescovi formularono questa opinione, che era necessario l'intervento di Sovrani per restituire al Santo Padre il suo dominio temporale; essi predicarono una specie di crociata, hanno dichiarato che la sovranità nazionale era sofisma, il suffragio universale inganno, che la libertà del culto era errore da proscriversi, (Reclami in alcuni banchi). Signori è una pastorale ch'io cito. Altri cercarono sotto l'impressione di preoccupazioni di cui non pongo in dubbio la lealtà, di turbare le coscienze.

V'ha una pastorale in cui si invitano anche i fanciulletti a contribuire all'opera del danaro di San Pietro, aggiungendo che quelle innocenti creature sono minacciate, secondo ogni apparenza da patimenti per la conservazione della loro fede (agitazione prolungata). Infine, al di vista politico, si proclama che l'Imperatore ingannò la cattolicità, ch'ei fu il servo ed il complice del Piemonte, che la sua politica passò di sconfitta in sconfitta, retrocedendo sempre davanti al Piemonte. Ecco il rapido compendio dell'opuscolo a cui alludo.

Noi ci troviamo dunque in faccia a questa opinione, alla ardente propaganda che si fa per diffondere nel paese sentimenti violenti che la sostengono.

In una tale condizione, è conforme alla convenienza politica non solo il non dar corpo alle false interpetrazioni, ma altresì il soffocarle risolutamente colla dichiarazione solenne

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del Corpo legislativo, di mantenere una posizione si vivamente attaccata.

Non sarebbe imprudente l'aggiungere, colla vigoria della parola, ardore allo sviluppo di tutti codesti attacchi? Il governo sente esser d'uopo il porvi termine, l'opporvi argine. Ed è tanto più necessario il togliere ogni dubbio sulla nostra comunanza di sentimenti coll'Imperatore, in quantochè i pensieri a cui faccio allusione si apersero la via anche in questo recinto. Tre oratori li espressero con molta forza. Si è ripetuto qui che la politica dell'Imperatore era pusillanime; si domandò che cosa facessero le nostre truppe a Roma, e parve si dubitasse che esse non vi si trovassero per la difesa del Santo Padre; si pronunciarono le parole missione velata; si aggiunse che i rivoluzionarii dovevano alla Francia questo detto fatale: avanti! avanti! Si è finalmente fatto sentire che v'erano governi che si suicidavano.

Certo, tutte le opinioni hanno il diritto di venir liberamente manifestate in questo recinto, ma bisogna che si sappia bene quale è il parere della grande maggioranza della Camera; bisogna che essa dica se crede che il governo sia stato pusillanime, che abbia ingannato i cattolici, che siasi subordinato al Piemonte, all'Inghilterra alla rivoluzione! (Molte voci: noi no!)

Bisogna essere espliciti, precisi, e non avvilupparsi in nugolio di parole. Importa che il paese sappia se tal linguaggio sia o non sia quello soltanto di alcune convinzioni isolate in questa assemblea (benissimo benissimo). Importa che essa dia una splendida smentita all'asserzione che si cerca di ottenere una conciliazione impossibile tra elementi inconciliabili.

Questa conciliazione, la quale è lo scopo della politica del governo, è essa veramente ineffettuabile (molte voci no! No!), o devesi aspirare ad essa con perseveranza? (sì, sì)

Certo, per usare d'una frase notissima, noi siamo i figli dei crociati; i nostri soldati sono in Siria, in Cina, al Giappone, in Cocincina, dappertutto ove hansi a difendere i principii e gli interessi della fede cattolica.

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Sì, i nostri soldati sono i figli dei crociati (viva approvazione), ma eglino sono pure i figli del 1789 (nuovo e vivo assenso). I nostri padri hanno fondato principii che diffusi da loro in Europa, vi germinarono per cinquanta anni, creando alla Francia aureola di simpatie [benissimo, benissimo).

Si disse cho so la Francia non fosse una potenza cattolica, essa non sarebbe che una potenza di secondo ordine. Ma te la Francia ritornasse al 1789. domando io, che cosa sarebbe? Nulla (approvazione)' I nostri padri ci lasciarono una doppia eredita: sentimenti cattolici, sentimenti liberali. Vorremo noi dunque raccoglierne soltanto la metà? (nono). La bandiera francese copre la fede e la libertà Date forzai date tutto il vostro concorso al governo, ed il vostro voto sarà in perfetta armonia colle vostre convinzioni di cattolici e col vostro dovere di cittadini (applausi prolungati).

Non abbiamo creduto di dover citare il testo degli ammen damenti, che erano stati proposti per modificare il paragrafo dell'indirizzo; imperocchè l'uno, emanando da deputati (in numero di cinque) rappresentanti) il partito democratico, non aveva la minima probabilità di essere adottato; quanto all'altro proposto partito legitimista, anch'osso doveva sortire piccolo successo a cagione dell'influenza del governo su i deputati, che si chiamavano i campioni di questo regime politico. Il fatto è, che il progetto d'indirizzo fu votato quasi ad unanimità, e quando il 23 Marzo l'Imperatore ricevette la deputazione che glie lo presentava, egli rispose al conte di Mornv, che glie n' aveva fatto lettura, in questi termini:

Ringrazio la Camera dei sentimenti che essa esprime, e della fiducia che ha in me. Se questa fiducia mi onora e mi lusinga come me ne credo degno per la costante sollecitudine nel considerare le quistioni sotto il di vista del vero interesse della Francia, penso convenire alla nostra epoca di conservare del passato tutto ciò che ha di buono, preparare l'avvenire svincolando il cammino della civiltà dai pregiudizii che la incagliano e dalle utopie che la compromettono.

Ecco come legheremo ai nostri figli giorni prosperi e tran

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on mi rincresce menomamente di vedere i grandi corpi dello Stato intavolare questioni politiche assai difficili. Il paese ne profitta sotto molti rapporti. Questi dibattimenti l'instruiscono senza poterlo inquietare.

Sarò sempre lieto di trovarmi d'accordo con voi. Usciti dallo stesso suffraggio, guidati dai medesimi sentimenti, ajutiamoci scambievolmente nel concorrere alla grandezza ed alla prosperita della Francia.»

Nel tempo che si discuteva in Francia sulla possibilità di conciliare l'Italia con la santa sede, il Papa in concistoro segreto, avuto il 18 Marzo, pronunciò la seguente allocuzione:

Venerabili Fratelli

Già da lungo tempo, o venerabili fratelli, vediamo in qual miserando conflitto si trovi agitata la civil società a motivo do principii fra loro pugnanti, fra la verità e l'errore, fra la virtù o il vizio, fra la luce e le tenebre, specialmente in questa nostra miserissima età. Imperocché alcuni da una parte difendono le sentenze della civiltà, siccome dicono, moderna, ed altri dall'al tra parte propugnano i diritti della giustizia e della nostra santissima religione. E i primi domandano che il Pontefice Romano si concili e si accomodi col progresso col liberalismo, come lo chiamano, e colla recente civiltà. Altri poi meritamente pregano che si conservino interi ed inviolati gl'irremovibili ed inconcussi principii della eterna giustizia, e che si serbi tutta la forza saluberrima della nostra divina religione, la quale e rende maggiore la gloria di Dio, ed offre opportuni rimedi ai tanti mali dai quali è afflitto il genere umano, ed è l'unica e vera norma, alla quale attenendosi, i figli degli uomini, in questa vita mortale, forniti d'ogni virtù, possano esser condotti al porto della beata eternità. Ma i sostentori dell'odierna civiltà non s'acquietano a questa diversità

E noi vorremmo crederli, se non ci mostrassero perfettamente il contrario qua' tristissimi fatti che tutto giorno son sotto gli occhi di tutti.

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Eppure una sola è la vera e la santa religione sopra la terra, fondata ed instituita dallo stesso Cristo Signore, e che madre feconda e nutrice di tutte le virtù, o fugatrice de' vizi, e liberatrice degli animi, e indicatrice della vera felicità, si appella Cattolica Apostolica Romana. Che cosa poi si debba pensare di coloro, che vivono fuori di quest'arca di salute, già altra volta lo dichiarammo nella nostra Allocuzione concistoriale del giorno 9 dicembre dell'anno mille ottocento cinquanta quattro, e qui confermiamo la stessa dottrina. Ora a coloro che pel bene della religione c' invitano a porger la destra all'odierna civiltà, do mandiamo se i fatti sian tali che il Vicario di Cristo in terra, medesimo divinamente costituito per difendere la purità della sua dottrina, e per pascerne gli agnelli e le pecorelle e confermarvele, possa essere indotto da essi a consociarsi, senza gravissima offesa della sua coscienza e sommo scandalo di tutti, alla odierna civiltà, per opera della quale avvengono tanti mali, non mai abbastanza deplorabili, si promulgano tante pravissime opinioni, errori e principii, che sono totalmente avversi alla religione cattolica ed alla sua dottrina. E fra questi fatti nessuno ignora come del tutto vengan distrutti anche gli stessi solenni concordati lcggittimamente stipulati fra la Sede Apostolica e Principi Reali, siccome di fresco è avvenuto in Napoli. Della qual cosa in questo amplissimo consesso vostro, o Venerabili Fratelli, amarissimamente ci lamentiamo, e con tutta la forza dell'animo contro di essa reclamiamo in quella stessa guisa nella qualo altre volte contro simili attentati e violazioni abbiamo protestato.

Questa moderna civiltà poi, mentre favorisce ogni culto acattolico, e non proibisce agl'infedeli stessi di esercitare i pubblici officj, ed apre ai loro figli le scuole cattoliche, sfoga la sua rabbia contro le famiglie religiose, contro gl'Istituti fondati per regolare le scuole cattoliche, contro moltissimi uomini di chiesa di qualunque grado, ed anche insigniti della più alta dignità, de' quali non

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A tal civiltà dunque potrebbe mai il Romano Pontefice stendere amica la destra e stringere francamente con essa amistà e concordia? Si rendano i debiti nomi alle cose, e questa Santa Sede si troverà sempre coerente a sè stessa. Giacché essa è stata sempre la protettrice e nutrice della vera civiltà, ed i monumenti della storia eloquentissimamente attestano e provano che in tutti i tempi dalla stessa Santa Sede è stata portata la vera e giusta umanità do' costumi, la disciplina e la sapienza in tutte le regioni della terra le più remote e barbare. Ma quando sotto nome di civiltà si vuole intendere sistema appositamente architettato per debilitare, e forse anche distruggere la Chiesa di Cristo, certamente mai né questa Santa Sede, né il Romano pontefice potranno esser d'accordo con siffatta civiltà. Imperocchè, come sapientissimamente esclama l'Apostolo: cosa ci può essere di comune fra la giustizia e l'iniquità, o quale associazione della luce colle tenebre? E quale patto tra Cristo e Belial?

Con che sincerità dunque i pertubatori e i patroni della sedizione alzan la voce ad esagerare gli sforzi da loro inutilmente fatti per accompagnarsi col Romano Pontefice? Imperocché questi, che trae tutta la sua forza dai principii della giustizia eterna, come potrebbe mai abbandonarli dimodochè venga indebolita la

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Ma che ne avvenne? La sfrenata licenza si fece forte della nostra innocua larghezza, e le soglie dell'aula in cui si erano congregati i pubblici Ministri e i Deputati, furon tinte di sangue, e l'empia mano si rivolse sacrilegamente contro colui che avea concesso il beneficio. Che se in questi ultimi tempi ci furon dati con sigli intorno all'amministrazione civile, voi sapete, o Venerabili Fratelli, che da noi furono ammessi, eccetto però e rigettato quello che non riguardava l'amministrazione civile, ma tendeva a far sì che noi consentissimo alla parte già compiuta della nostra spogliazione. Ma è inutile che noi parliamo dell'aver bene accolti i consigli, né delle nostre sincere promesse di eseguirli, giacché quelli che regolavano le usurpazioni protestavano ad alta voce di non voler già delle riforme, ma una assoluta ribellione, ed una totale separazione leggittimo principe.

E gli stessi autori ed antesignani del gravissimo delitto eran quelli che empivano ogni cosa dei loro clamori, non già il popolo, talchè giustamente di loro si può dire quello che il venerabil Beda diceva dei Farisei e degli Scribi, nemici di Cristo: Queste calunnie spargevano non già alcuni della turba, ma i Farisei e gli scribi come attestano gli Evangelisti.

Ma l'oppugnazione che si fa al Pontificato Romano non tende solamente a far privare questa Santa Sede e il Romano Pontefice

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della sua legittima sovranità civile, ma tende ancora ad infiacchire, e se mai potesse, a togliere affatto la virtù salutare della religione cattolica: e perciò attacca l'opera di Dio stesso Frutto della redenzione, e quella santissima fede, ch'è quella preziosissima eredità a noi derivata da quell'ineffabile sacrifizio che sul Golgota si consumò.

E che così vadano le cose più che abbastanza lo dimostrano e i fatti già rammentati, e quelli che tutti i giorni veggiamo avvenire. Infatti quante Diocesi vi sono in Italia vedovate, per gl'impedimenti opposti ai loro Vescovi, applaudendo i fautori della moderna civiltà, i quali lasciano tanti popoli cristiani senza pastori, e s'impossessano dei loro beni, per convertirli anche in pravi usi! Quanti Vescovi vanno erranti nell'esilio! Quanti apostati (e lo diciamo con incredibil dolore dell'animo nostro) i quali parlando a nome non di Dio ma di Satana, e fidenti nell'impunità a loro concessa fatal sistema di governo, ed esagitano le coscienze, e spingono i deboli a prevaricare, e i già miseramente caduti confermano in ogni maniera di turpissime dottrine, e si sforzano di lacerare la veste di Cristo, non avendo alcun timore di proporre e di persuadere l'istituzione di Chiese, come essi dicono, Nazionali, ed altre empietà di tal fatta! E dopo aver così fatto insulto alla religione, la quale per ipocrisia invitano ad unirsi colla odierna civiltà, non si vergognano di stimolar Noi con pari ipocrisia a riconciliarci coll'Italia.

Quindi, mentre, spogliati di quasi tutto il nostro principato civile, sopportiamo i gravissimi pesi di Pontefice e di Principe, colle pie elargizioni dei figli della Chiesa Cattolica ogni dì con sommo amore a noi mandate, mentre senza alcuna ragione siam fatti segno d'invidia e di odio per opera di quelli stessi che ci domandano questa conciliazione, vorrebbero ancora che dichiarassimo apertamente di ceder in libera proprietà agli usurpatori le Provincie usurpate de' nostri pontificii domimi. Colla quale ardita e fino ad ora inaudita domanda pretenderebbero che da questa Sede Apostolica, che sempre fu e sarà il propugnacolo della verità e della giustizia, fosse sancito che una cosa ingiustamente e violentemente rapita si possa tranquillamente ed onestamente possedere

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Ora chiunque o ingannato da errore o preso da timore voglia dar consigli consentanei agl'ingiusti voti de' perturbatori della civil società, è mestieri che, specialmente in questi tempi, assolutamente sia persuaso che coloro non saranno mai contenti se non vedranno tolto di mezzo ogni principio di autorità, ogni freno di religione ed ogni regola di diritto e di giustizia. E già cotali sovvertitori, a danno della civil società, e colla voce e cogli scritti hanno ottenuto di pervertire le menti umane, debilitare il sentimento morale, e togliere l'orrore dell'ingiustizia; e tentano ogni cosa per persuadere a tutti che il diritto invocato dalle genti oneste non è altro che una ingiusta volontà, da doversi affatto prezzare. Ahimè, or sì che veramente crollò e si conquassò la terra, e più non si regge sui suoi cardini, e si è conquassato l'orba e si è indebolita l'altezza del popolo della terra. E la terra è stata infettata dai suoi abitatori, perch'essi han trasgredito l leggi, han mutato il dritto, han dissipato il patto sempiterno.

Però in tanta oscurità di tenebre nella quale, per suoi imprescrutabili giudizii, Iddio permette che s'immergano le genti, Noi riponiamo tutta la nostra speranza e confidenza nello stesso clementissimo Padre delle misericordie, e Dio d'ogni con colazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione. Imperocchè egli è quello che in voi o venerabili fratelli ingerisce ed ogni giorno più ingerirà lo spirito di concordia e d'umanità fra voi, affinché strettissimamente e concordissimamente con noi congiunti siate preparati a subire insieme con noi

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quella stessi sorte che dall'arcano consiglio della sua provvidenza divina i

Egli è che sopra le cattoliche genti diffonde lo spirito di preghiera, ed agli acattolici ispira il senso dell'equità, per portar retto giudizio degli odierni avvenimenti. E questo sì meraviglioso consenso nella preghiera, il quale si vede per tutto l'orbe cattolico e queste tante unanimi significazioni di amore a Noi fatte, e in tanti e sì vari modi espresse (il che non così facilmente si può trovare nelle passate età) manifestissimamente addimostrano come per gli uomini rettamente animati sia assoluto bisogno di tendere a questa Cattedra del Beatissimo Principe degli Apostoli luce dell'orbe della terra, la quale maestra di verità e annunzi a tr ice di salute, sempre insegnò e fino alla consumazione de' secoli non cesserà mai d'insegnare le immutabili leggi dell'eterna giustizia.

Tanto poi è lungi che i popoli dell'Italia si siano astenuti da queste luculentissime testimonianze di amore e di osservanza verso questa Sede Apostolica, che anzi molte centinaia di migliaia d'Italiani sonosi a Noi diretti con loro lettere non già per chiedere quella riconciliazione acclamata dai maliziosi, ma per condolersi sommamente con Noi delle nostre molestie, delle pene, e degli affanni, e per confermarci in ogni modo il loro affetto verso di Noi, e per detestare con tutto l'animo il nefando e sacrilego spogliamelo del principato civile Nostro e della stessa Sede.

Stando adunque così le cose, prima di por fino al nostro parlare, dichiariamo chiaramente ed apertamente innanzi a Dio e agli uomini, non esservi affatto causa veruna perché ci dobbiamo riconciliare con alcuno.

Siccome però, benché immeritevoli, facciamo qui in terra le veci di Colui che pregò pe' trasgressori e domandò per loro

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E pertanto se veniamo richiesti di cose ingiuste, noi non le possiamo fare: se poi ci si domanda perdono, noi come or ora abbiam dichiarato l'accordiamo spontaneamente e di buon grado. Ma affinché questa parola di perdono sia da noi pronunziata in modo che intieramente conviensi alla santità della dignità nostra pontificia, noi ci inginocchiamo davanti a Dio e abbracciando il trionfal vessillo di nostra redenzione, umilissimamente supplichiamo Cristo Gesù perché ci riempia della sua stessa carità onde noi perdoniamo nello stesso modo in cui egli perdonò ai suoi nemici prima di render il suo santissimo spirito nelle mani dell'eterno suo Padre.

E a lui istantissimamente domandiamo che siccome dopo il perdono da lui concesso, fra le dense tenebre delle quali tutta la terra fu ricoperta, illuminò le menti de' suoi nemici, i quali pentiti dell'orrendo misfatto ritornavano battendosi il petto, così in sì densa nebbia dell'età nostra, voglia dagli inesauribili tesori della sua infinita misericordia sparger i doni della sua grazia ce leste e trionfatrice pe' quali tutti quelli che vanno errando ritornino all'unico suo ovile. Quali però che sian per essere gli investigabili consigli della sua divina provvidenza,

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noi a nome della

Imperocché in mezzo a tanta trepidazione dell'Europa e di tutto l'orbe della terra, e di coloro ch'han l'arduo ufficio di regolare le sorti de' popoli, Iddio è quell'uno che possa combattere con noi: Giudica noi, o Dio, e scevra la causa nostra di mezzo alla gente non santa: danne, o signore, la face a' nostri giorni, perché non vi è altri che pugni per noi, se non tu Dio Nostro.

Terminata quest'Allocuzione, la S. S. passò a deplorare il tutto della Chiesa del Messico, dalla qual regione, per opera della rivoluzione, sono stati espulsi i vescovi, i religiosi e le monache, monsignor Delegato Apostolico è stato costretto a partirne, le chiese sono state spogliate, e la Metropolitana che possedeva ingenti ricchezze in ornamenti e in altri oggetti preziosi, venne saccheggiata.

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IV.

Nel parlamento inglese il ministro di S. M. britannica si era mostrato apertamente favorevole alla causa d'Italia, come pare ad una gran maggioranza la camera dei Comuni. Il che risulta dai dibattimenti, di cui ci reputiamo a dovere di render conto. Nella seduta del 1. Marzo Hennessy chiamò l'attenzione della camera sugli affari d'Italia, e sulla politica di Lord John Russel. Dopo alcune interpellazioni nella seduta del 2, e 4 Marzo, la discussione fu aggiornata all'8 dello stesso mese. Ed eccone il riassunto.

Sig. Edwin Iames il quale dice che sarebbe stato assai meglio che il sig. Hennessv, che ha suscitato quistione cosi importante avesse proposta una mozione ben definita, onde la discussione potesse avere risultato certo. Imperocché, egli dice, l'Italia ha rivolto lo sguardo verso di noi e molto teme e spera dalle nostre deliberazioni. Egli si farà senz'altro ad esaminare le accuse mosse contro il re di Sardegna e contro la politica italiana del governo della regina.

Il signor James tesse la storia dei rivolgimenti italiani 1848, e venuto alla spedizione di Garibaldi, alludendo all'aggiunto di pirata appostogli sig. Hennessy, dice:

Garibaldi pirata? l'uomo che non ha mai rivolto alcuna cosa all'uso suo, proprio pirata!

Egli che ha avuto in mano i tesori di Napoli e n'è partito togliendo da' suoi amici a prestito qualche scudo!

Quall'era la sorte del popolo di Napoli prima che fosse affrancato da Garibaldi?

Il sistema della delazione era talmente propagato che niuno poteva accostarsi ad senza temere che fosse una spia.

Tutta l'opera del governo ora rivolta a soffocare l'intelletto dell'uomo, a tenere nell'ignoranza il popolo onde poterlo meglio tiranneggiare.

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Il sig. James toglie poi a difendere la politica italiana di Russel, e confuta l'asserzione Hennessy, che il ministro degli esteri impedisse il re di Napoli porsi a capo del suo esercito.

Poi rettifica gli errori in cui era caduto lo stesso signor Hennessy sulle elezioni e votazioni in Italia, mostrando che il censo per essere elettore è più basso in Italia, che in Inghilterra. Venendo a parlare del potere temporale del papa, dice che esso è già condannato a perire.

La politica di Russell è stata chiara, precisa, giusta ed illuminata (

applausi). Assai s'era fatto in Italia per fondare la libertà costituzionale, e il conte Cavour (il più grand'uomo di Stato in Europa) è ora riuscito a vincere l'opposizione dei repubblicani e degli anarchici.

Tutta la politica di Russell è stata di tener lontano dall'Italia le armi dell'Austria e della Francia, sapendo che se esse vi fossero entrate, l'Italia era perduta.

Il governo senza imporre una sola tassa di più alla nazione, ha aiutato gran popolo a riconquistare la sua libertà.

Questo popolo sarà la migliore salvaguardia della pace europea, e sarà sempre legato all'Inghilterra da nodi d'interessi e di gratitudine.

(applausi)

Sir Roberto Peel si duole degli oltraggi lanciati da sir Giorgio Bowver contro il dicastero degli affari esteri e dice che, secondo il suo parere, l'integrità di quell'ufficio è sicura nelle mani del presente ministro.

Esamina la condotta tenuta da lord John Russell negli affari italiani in relazione coll'alleanza francese; e mostra come la politica inglese sia stata quella del nonintervento non senza manifestare simpatia cordiale verso l'Italia.

Quanto a Vittorio Emanuele, lasciando da banda la cessione della Savoja, egli ne approva la politica e si rallegra vedendolo custode delle libertà italiane. Mi rimangono tuttavia gravi difficoltà a vincere; esse non sono certo né a Gaeta, né a Messina, né a Napoli, né a Venezia: sono a Roma.

Il sig. Gladstone, Canc. dello Scacc. L'egregio oratore, che ha teste parlato, ha dato con sentimento e forza virile giusto ed eloquente giudizio sulla condotta del re di Sardegna.

Ha an

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Francesco II era salito al trono sotto congiunture assai favorevoli.

Egli avrebbe potuto cominciare a governare dando qualche riforma e senza mostrare di cedere alle sollecitazioni d'alcuna potenza.

Se avesse operato con poco di moderazione, se avesse mostrato di volere addolcire i mali di milioni di suoi soggetti, siederebbe in quest'ora sul suo trono, e l'unità d'Italia sarebbe tuttavia sogno e visione.

Ma il suo regno, comechè breve, è stato fecondo di terribili rivelazioni.

L'oratore cita l'opuscolo pubblicato a Parigi, col titolo

«La tortura in Sicilia»

e soggiunge che le orrende narrazioni contenute in questo scritto non furono mai contradette.

Ricorda le tante esecuzioni capitali fatte ingiustamente nel ducato di Modena; l'Inghilterra, segue a dire, ha fatto assai per l'Italia, la Francia si è acquistata, collo spargere il suo sangue, diritto di gratitudine incancellabile; ma nessuno ha fatto quanto l'Austria per unificare l'Italia. É la politica seguita dall'Austria in ogni parte d'Italia che ha reso questa nazione lo elio ora essa è (udite, udite).

Per molti e molti anni, egli conchiude, noi abbiamo veduto l'Italia divisa e percossa dalle baionette austriache. Tutto questo è cambiato.

Il rinnovamento d'Italia, il suo ritorno alla vita nazionale sarà, com'io giudico, di tanto vantaggio all'Europa quanto a se stessa, ed aggiungerà alla pace e alla prosperità del mondo una nuova e più salda guarentigia (vivi applausi).

Il sig. Maguire combatte le asserzioni del signor Layard rispetto alla condizione degli Stati pontificii, dicendo che alcune parti di essi sono tanto avanzate quanto alcun'altra contrada del mondo.

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Il sig. Layard ha chiamato i dintorni di Roma deserto mentre che la campagna romana è fecondissima come terra a pastura; né è dessa in peggiore condizione che ne' tempi andati.

Il governo pontificio non è rimasto indietro nel costruire le vie ferrate, porre i fili elettrici e dare ricompense ed altri stimoli all'industria; la marina mercantile era in aumento, le finanze pontificie prospere ogni volta che la tranquillità prevaleva; le tasse moderate e i laici impiegati in ogni parte dell'amministrazione.

Non è vero che il potere temporale è presso al suo termine. La Provvidenza veglia sopra di esso, perché sa che è necessario al potere spirituale.

La politica di Lord John Russell è atto continuo d'intervento, perché egli fa quanto è in suo potere per danneggiare il papa, il quale a ragione attribuisce gran parte delle sue sventure alle macchinazioni del governo inglese.

Il signor Arturo Russell osserva che il risultato del dibattimento mostra quello che è già ben conosciuto, che la politica straniera del governo è la manifestazione dell'opinione e del sentimento di tutta la nazione inglese.

Il sig. Roebuck dice che i più di coloro che avevano trattata questa quistione erano caduti in errore. che conveniva sapere era, non il passato, ma ciò che il governo intendesse di fare per ricomporre l'Italia. Ma egli vede ad occidente d'Italia una gran potenza, la Francia; a levante altra grande potenza, l'Austria; e più a levante ancora una terza grande potenza, la Russia. Quali sono dunque le speranze per rendere l'Italia unita?

Ci vien detto che la Francia ha fatto assai per l'Italia; sia, ma non ha dessa fatto ancor molto per se stessa? Non tiene essa 40,000 uomini a Roma?

Non dovrebbevi dunque essere qualche potenza che controbilanciasse le forze della Francia?

Egli non desidera veder l'Italia vassalla della Francia, ma il pericolo v'è; come conviene scongiurarlo? L'unica parte d'Italia tenuta dalla Germania, è la Venezia e il quadrilatero. Grande è il pericolo nell'adoperarsi a respingere l'Austria dalla Venezia.


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Lord John Russell. Il sig. Hennessy, sir G. Bowver ed altri oratori hanno posto la quistione sopra termini poco giusti.

Essi han voluto provare che il governo del Re di Napoli e quello del Papa erano migliori che quello del Re di Sardegna;

e ne han dedotto che il ministero inglese ha male operato nel volere sostenere quest'ultimo a danno de' primi.

A questa asserzione io potrei rispondere col supporre che gl'Italiani hanno fatto atto jngiusto nel preferire il re di Sardegna. Tutto ciò io potrei supporre ed ammettere; ma a che pro? Toccherebbe ciò forse alla politica del governo della Regina? (udite udite) Se il popolo di Napoli e il popolo degli Stati romani desideravano - e con ardore lo desideravano essi - d'essere liberati dai loro governi, erano nel loro diritto d'operare così, e noi non avremmo potuto disapprovarli.

Dunque la quistione non è se il governo sardo sia preferibile agli altri, ma piuttosto se essendo gli altri governi invisi ai loro soggetti; noi, popolo inglese avremmo dovuto dire ad essi: voi dovete rimanere nelle mani in cui siete caduti. Ma io veggo con grande diletto questo nuovo Parlamento italiano e confido che gli onorevoli membri che lo compongono daranno mano col loro Re a rassodare le istituzioni liberali della loro patria. (Applausi)

Quanto all'Austria io concordo coll'onorevole deputato di Sheffield (Roebuck) che la conservazione della potenza dell'Austria è di grande momento per l'equilibrio europeo. Ma perciò che riguarda la Venezia, l'Austria avendo adottato una costituzione, dipenderà da coloro che saranno eletti a decidere la futura politica. Ed io credo che si vedrà allora essere tanto difficile mantenere le affezioni del popolo italiano e che le guarnigioni costano tanto, che non vi e il tornaconto per l'Austria nel ritener la Venezia; e si dovrà lasciare che i Veneti sieno governati secondo i loro desiderii. Questo, com'io credo, sarà il risultato delle istituzioni libere dell'Austria, lo non stimerò mai che questo paese debba far la guerra per mantenere l'Austria nella Venezia.

Nell'amministrare gli affari esterni il mio restante scopo è

stato di seguire una politica nazionale e confido d'avere avuto l'approvazione del paese (

applausi),

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e continuerò su questa via ad onore ed utile della nazione e della Camera. (applausi).

Il governo spagnuolo era ben lungi dal favorire la causa dell'indipendenza italiana: di che s'indignava la parte avanzata e liberale della nazione. Il deputato progressista Sagasta indirizzava al ministero della regina Isabella II delle interpellanze intorno gli affari d'Italia, nella seduta della camera dei deputati del 10 Marzo 1861; di cui ecco il tenore.

Sig. Sagasta dice che la Spagna, paese costituzionale, deve intendere a stabilire le istituzioni liberali e costituzionali in quei paesi che non ne sono dotati; che non deve perdere mai di vista la sua unione col Portogallo; che deve esercitare in America un'influenza benefica estendendovi e conservandovi relazioni di amicizia, che deve in fine aver sempre l'occhio su Gibilterra, il cui possesso sarebbe una grande conquista per la Spagna.

Il governo spagnuolo ha seguito in Italia una politica diametralmente opposta a quella che avrebbe dovuto seguire. Il governo dell'Unione liberale favorì la causa della tirannia e della violenza.

Quali sono i motivi principali di questa politica antinazionale? Uno sta in questo, che i principi spodestati in Italia sono gli illustri parenti della regina di Spagna. In secondo luogo, Isabella di Borbone e i suoi discendenti hanno, secondo si pretende, dritti eventuali alla corona di Napoli. Ma ragionamenti siffatti sono troppo futili ed illusorii.

L'Italia caccia oggidì i Borboni come già la Spagna cacciò i Borboni della famiglia di Carlo V, ed entrambi i paesi non difendono altra idea da quella della sovranità nazionale. Il governo spagnuolo, difendendo i diritti dei Borboni alla corona di Napoli, ha scalzato la base della monarchia d'Isabella II.

Se v'ha dunque pericolo per la dinastia, la colpa è da attribuire al governo dell'Unione liberale.

Come mai la regina Isabella II e la sua famiglia potrebbero aver diritti eventuali alla corona di Napoli dov'è in vigore la legge salica?! diritti, se pur n'esiste alcuno, sono quelli della famiglia di Carlo V.

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Quando uno dei discendenti della famiglia rinunzia a' suoi diritti, il governo di S. M protesta in nome di questi principii e mostrasi men generoso di colui che non ha speranza di regnare che in virtù di somiglianti diritti. La rinunzia di Don Juan è officiosa soltanto essendoche il re di Piemonte non ne ha bisogno alcuno per cingere la corona che la volontà del popolo poso sul suo capo; ed è ridicola la protesta del governo che si oppone alla volontà nazionale. In tal caso, che cosa è il governo di una regina che regna in virtù di questo principio, di questo solo principio?

O' Donnell, presidente del Consiglio de' ministri, chiede che questo parole vengano consegnate per iscritto.

I signori Egana, Hazana, il visconte de Espasantes, Luarci, il conte della Canada o molti altri instano perché quelle parole siano revocate.

Sagasta, volgendosi al presidente della Camera signor Martinez della Rosa, chiede di non essere interrotto.

Il presidente. All'ordine!

O' Donnell, presidente del Consiglio dei ministri. Insto chiedendo che le parole, contro le quali protesto, siano consegnate per iscritto.

Il presidente fa leggere gli articoli del regolamento della Camera. Dopo la lettura il presidente dice:

Gli articoli stati letti or ora portano che so un deputato proferisce espressioni offensive per la Camera o pel Senato o pel trono, tali espressioni debbono essere rettificato.

Volgendosi poscia al sig. Sagasta, voi avete pronunziato, dice, parole giudicate offensive pel principio della legittimità della nostra regina, la quale non è solo regina nostra per volontà della nazione ma eziandio per tradizione ed eredità. Tutto ciò che possa dirsi qui per menomare la legittimità dell'augusto trono, non può passare senza rettificazione. La legittimità della regina Isabella II è basata non sopra la sovranità nazionale, ma eziandio sui diritti incontestabili di una monarchia così antica com'è la monarchia spagnuola, legittima, santificata inoltre dalla vittoria sui campi di battaglia. Epperciò non soffrirò mai che si dica qui che Isabella Il è regina di Spagna solo per la volontà nazionale.

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Il sig. Sagasta vuol continuare il suo discorso. Ma il presidente lo avverte che egli deve prima di ogni altra cosa spiegare o ritirare le sue parole.

Se ho creduto di dover interrompermi un momento, ripiglia il sig. Sagasta, la ragione sta unicamente nel rispetto ch'io porto al presidente. Ma ciò che fa oggi la maggioranza è contrario e al regolamento e alla dignità della Camera.

Il presidente. Non ciò che fa la maggioranza, ma il vostro linguaggio, o signore, è contrario alla dignità della Camera.

Sagasta. Ciò che ho detto, trovasi, se non erro, consegnato nella costituzione. Ad ogni modo io non ho nullamente preteso di dire che non rispettassi il diritto ereditario. Ma a mio avviso è giusta la mia dottrina puramente costituzionale, il diritto ereditario non servirebbe a nulla senza la conferma della volontà nazionale. Questo ho voluto dire e tal penso.

O' Donnell, presidente del Consiglio dei ministri, insta perché il signor Sagasta ritiri parole che gli paiono rivoluzionarie e ledono ad un tempo il diritto della regina e la legittimità del Con gresso.

Sagasta. Ma io dichiaro di non aver mai revocato in dubbio la legittimità della regina Isabella II. Senza negare il dritto ereditario, la sovranità nazionale non è forse proclamata fonte di ogni diritto e nelle costituzioni del 1837 e 1835 e nello nostre dottrine, nelle dottrine progressiste cui professò già una volta il presidente stesso del Consiglio dei ministri e accetterebbero i moderati e lo stesso presidente della nostra Camera? Ciò premesso il diritto ereditario è insufficiente e la sovranità nazionale indispensabile.

Presidente. Invito l'oratore a ritirare le sue parole. Altrimenti deciderà la Camera.

Non avendo il sig. Sagasta voluto condiscendere a tal desiderio, si dà lettura della proposta seguente:

»Chiediamo alla Camera, dichiari che ha sentito con dispiacere e riprova altamente le parole del sig. Sagasta che riguardano i diritti incontestabili della regina al trono.»

Altri deputati fanno una controproposta, dopo di che si impegna una viva discussione,

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ma finalmente coll'assenso del presidente del Consiglio e dei segretarii delle due proposte, le dette proposte vengono ritirate. É chiusa la tornata.

Nella tornata del 7 della Camera dei deputati, Il sig. Clarendon Collantet, ministro degli affari esteri rispondendo al discorso pronunciato il giorno innanzi dal signor Sagasta, comincia esponendo gli avvenimenti d'Italia nel 1859 la guerra coll'Austria e la serie delle vittorie che riuscirono alla pace di Villafranca. perché si combatté allora? Per la libertà e l'indipendenza dell'Italia.

Il governo avvisa che l'Italia avrebbe potuto ottenere la libertà sotto lo scettro de' suoi antichi sovrani, e l'indipendenza mediante la Confederazione che si pensò a Villafranca di fondare.

Venne quindi in campo l'unità ed il potere temporale del Papa.

L'idea dell'unità dell'Italia non venne mai in pensiero al governo spagnuolo, e lo stesso lord John Russel aveva disegnato di far dell'Italia due monarchie, ma non una sola.

La Spagna, continua il ministro, non poteva abbandonare l'illustre e virtuosa duchessa di Parma e l'orfano che la Provvidenza le aveva affidato, e ancor meno poteva astenersi dal difendere la giustizia e il diritto

I trattati internazionali regolano le relazioni tra i popoli, ed è principio di diritto universale che non si può modificarli senza il concorso di tutti i segnatari.

Altrimenti l'equilibrio europeo andrebbe rotto e le nazioni sarebbero alla mercé della forza brutale. In questo il ministro non credette che il suffragio universale fosse applicabile alla politica esterna.

Il ministro prende quindi a difendere il potere temporale del Papa. Narra come i pontefici abbiano contribuito alla propagazione dell'istruzione e della religione cattolica; enumerate quindi le varie soluzioni proposte dal sig. Sagasta, le oppugna dichiarandole contrarie alla religione, alla tranquillità e alla prosperità dell'Europa.

Conchiude dicendo che senza cessare di sostenere ciò che il governo giudicasse conforme alla giustizia,

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continuerà ad osservare nelle faccende d'Italia la stessa neutralità che ha tenuto sinora. Il governo in questa questione, come in tutto ciò che concerne il potere spirituale e temporale del Papa, ha fatto e continuerà a fare quanto gli consentono di fare e la condizione speciale della nazione spagnuola, e il principio di neutralità che si e proposto di seguire. Si è detto che il governo della regina pensasse a soccorrere al Papa.

Ma il governo non ebbe siffatto pensiero. Esso conosce le conseguenze cui possono trarsi dietro somiglianti imprese, eseguite a tanta distanza, e ha letto nelle pagine della storia le calamità e sventure che altre spedizioni in Italia trassero sulla Spagna. Il governo spagnuolo non ha pensato mai di mandare al Santo Padre soccorso alcuno né di uomini ne di denaro. Dichiara terminando che il sig. Sagasta e i di lui amici desiderano che la società cattolica sparisca e la Chiesa prenda nuova forma, il governo della regina non consentirà mai nelle loro opinioni.

Dopo alcune parole del sig. Sagasta, la continuazione della discussione è dal presidente, marchese della Vega de Armijo, rimandata alla dimane.

V.

Parlando l'ultima volta delle provincie napolitano, abbiamo notato il disaccordo che regnava fra i membri della loro amministrazione. Liborio Romano, ministro dell'interno, aveva rassegnate le sue funzioni nelle mani del principe di Carignano, e il suo esempio era stato seguito da tutti i membri del Consiglio di loco tenenza.

La situazione era tanto più difficile, in quanto che la reazione borbonica organizzava su diversi punti del territorio napoletano, una guerra di partigiani, olla quale si mescolavano di già numeroso frotte di briganti, che a quell'epoca infestavano il paese.

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Un'altra complicazione pareva prodursi ancora sotto la forma delle pretensioni del principe Luciano Murat, che noi vedremo ben tosto dichiararsi apertamente per mezzo della stampa.

Era dunque urgente, che il nuovo governo italiano attendesse ai mezzi di far fronte all'esigenza di siffatta situazione. Il Consiglio dei ministri si radunò il 19 Marzo, e fu deciso che darebbe la dimissione in corpo, onde ne venisse creato uno di nuovo. Ciò fu annunziato al Parlamento italiano nella seduta del 20 Marzo dal Sig. Di Cavour, capo del gabinetto. Noi riportiamo il testo del suo discorso.

C. Cavour (

Vivi segni di attenzione)

Quando l'on. dep. Massari chiedeva alla Camera facoltà di rivolgere al ministero una interpellanza sulle condizioni delle provincie napoletane, il ministero si faceva sollecito di aderire a siffatta istanza, giacché importava al governo che lo gravi quistioni che la condizione di quelle provincie può sollevare, venissero discusse in cospetto di quest'assemblea. Un incidente di cui si ebbe conoscenza, credo, il giorno dopo od il posdomani dell'annunziata interpellanza (accenno alla rinunzia di un componente del consiglio della luogotenenza di Napoli) indusse il mio collega il ministro per l'interno a pregare l'on. interpellante e la Camera a voler differire l'annunziata interpellanza, e la Camera e l'interpellante annuirono a quest'istanza.

Altri eventi si compivano dopo quello accennato.

L'intero Consiglio di luogotenenza di Napoli rassegnò le sue dimissioni al principe luogotenente.

Questo fatto, preso a maturo esame e dal principe luogotenente a Napoli, e dal ministero, portò nell'animo del principe e del ministero la convinzione esser giunto il tempo di operare alcune modificazioni nella costituzione dei consigli di luogotenenza nell'Italia meridionale, modificazioni intese a togliere a quei consigli ogni carattere politico, a mettere in relazione diretta i membri dei consigli, o, per dir meglio, le persone incaricato della direzione degli affari a Napoli e Palermo, coi capi dei dicasteri a cui spetta di diriggere i vari servizi pubblici dello Stato: modificazioni però da operarsi

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in modo da non portare verun incaglio al disimpegno degli affari locali, e per forma che sia resa più efficace l'azione delle persone a cui l'amministrazione verrà affidata; intese poi specialmente a far sì che lo responsabilità dell'amministrazione di quelle parti del regno possa essere assunta realmente, e non solo di nome, dai consiglieri della Corona. Insomma queste modificazioni avrebbero per iscopo d'ottenere che non vi sia più nello stato che un solo governo.

Il ministero aveva in animo di proporre alla Corona di operare questa modificazione da molto tempo. Credeva che epoca opportuna per farla fosse la riunione del Parlamento, riunione che doveva seguire il principio di una nuova èra; tuttavolta, siccome lo stato di guerra non era ancor cessato nell'Italia meridionale; siccome Gaeta cadeva alla vigilia della riunione della Camera, e Messina resisteva tuttora, il ministero credette più prudente consiglio di differire questa riforma.

Ma lo stato di guerra potendo oramai dirsi cessato, è tempo o signori, che le coso tornino nello stato normale, ed io credo che sia per riuscirne grande vantaggio specialmente alle provincie meridionali; giacché nelle condizioni attuali il governo di quello provincie, misto di uomini politici e di uomini non politici, non ri unisce le condizioni necessarie (non rispetto agli uomini, che io altamente onoro e sui quali non voglio far ricadere nessuna maniera di censura) ma non riunisce le condizioni per poter funzionare regolarmente.

In un paese libero, o signori, non si può governare senza l'aiuto ed il concorso del Parlamento, ed io credo che non vi possono essere uomini abbastanza capaci, abbastanza autorevoli per poter reggere a lungo al governo di uno Stato libero a fronte di una stampa pienamente libera, a fronte di un popolo che può manifestare in tutti i modi le sue opinioni, so questo governo non ha accanto a se un Parlamento.

Quindi non essendovi che un parlamento, non vi deve essere che un governo. Ma, o signori, ve lo ripeto, questa modificazione deve essere fatta in modo che gli affari locali, che gli interessi materiali non abbiano, non solo a soffrire, ma abbiano, a ricavarne notevole beneficio.

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Noi, o signori, abbiamo calcolata tutta la gravità di questa modificazione; noi abbiamo pensato che dal giorno in cui l'azione politica si concentrava intera nel governo sedente nella capi tale, dal giorno in cui solo un'azione amministrativa delegata si esercitava nella metropoli del mezzogiorno d'Italia, una modificazione dovesse pur farsi nella composizione del ministero.

Dovendo questa modificazione segnare un'era novella, segnare l'era della costituzione del primo ministero del regno d'Italia, era cosa non solo opportuna, ma altamente conveniente che in questo ministero tutti i grandi interessi italiani fossero rappresentati.

Con questa convenzione il ministro ha creduto suo dovere di rassegnare nelle mani del Re le sue dimissioni (sensazione), onde la Corona fosse libera, nella costituzione di questo primo ministero italiano, di circondarlo di tutti i lumi, ch'essa può trovare fra gli uomini più cospicui che l'Italia possiede. Quindi debbo annunziare alla Camere (profondo silenzio), che fino da ieri sera il ministero avendo rassegnate le dimissioni non può considerarsi se non come reggente i portafogli per il disimpegno degli affari correnti.

Io debbo però aggiungere [udite! Udite!) che questa deliberazione presa all'unanimità, non fu promossa, né motivata in modo diretto od indiretto da alcun dissenso fra i membri del gabinetto o sopra le questioni dell'interno e dell'esterno, o sulla modificazione da introdursi nel sistema di governo delle provincie meridionali. Il ministero è unanime anche su questa quistione: ma esso ritiene, che non appartiene al gabinetto, come è composto, lo scioglierla in modo definitivo.

Ciò essendo, parmi soverchio l'osservare all'onorevole interpellante, che non sarebbe possibile l'accettare una discussione sulle condizioni attuali del regno di Napoli. Noi non siamo in questo punto né ministri, né deputati; abbiamo opinioni molto recise, ma non sappiamo se avremo a sostenerle in una qualità o nell'altra; epperciò il nostro dovere e di tacere, affinché ciascuno di noi abbia una posizione netta e decisa.

lo quindi osservo all'onorevole Massari, che ove desideri

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schiarimenti, spiegazioni, nozioni sui fatti accaduti, i miei colleghi ciascuno pel dipartimeuto al quale presiede, si faranno grata premura di somministrarglieli nel limite dei dati che hanno raccolti ma se si trattasse di sollevare una questione, il ministero dovrebbe far appello alla cortesia ed al retto senso dell'interpellante e della Camera onde vogliano differire la parte critica dell'interpellanza a tempo più opportuno, al momento in cui su questi banchi sederanno ministri definitivi e saranno al loro posto coloro che non respingono la responsabilità degli atti che sono trascorsi durante il loro ministero, ma che non sono ora, ripeto, in condizione di poterli difendere con quella larghezza che una così grande discussione richiede ed in chi interpella ed in chi risponde.

Io quindi mi rimetto alla saviezza dell'onorevole interpellante.

In seguito di questa dichiarazione del ministro al Parlamento italiano, il re Vittorio Emanuele s'occupò col sig. di Cavour per la ricomposizione del gabinetto.

Torrearsa e Poerio furono tra i primi chiamati Re. Essenzialmente si volevano avere ministri napoletani e siciliani, e però si ebbe desiderio di intendere il consiglio di due uomini che erano tra i più rispettati ed autorevoli delle provincie meridionali.

Ma Poerio dichiarò non poter entrare nel gabinetto, giacchè dissenziente, in quanto agli ordini interni, sul progetto delle regioni, non avrebbe avuta piena libertà di combattere le idee che egli non reputava le migliori, e non poteva armonizzare con il pensiero, che fu norma agli studii del ministro dell'interno.

Il Torrearsa, uomo di alto ed onorato intelletto, non accettava per ragione contraria. Per lui l'ordinamento regionale è essenzialmente concatenato alla civiltà, alla libertà, all'avvenire dell'Italia: egli avrebbe voluto entrare in ministero il quale avesse in proposito opinioni più spiccate e più risoluto, e però fosse disposto a far della proposta di ordinamento amministrativo una questione ministeriale.

Il Ministero, diceva egli. è tenuto affermar risolutamente il

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Quindi fu domandato il Niutta, di cui vi dissi ieri, al quale si offerse il portafoglio di grazia e giustizia.

Il Niutta non accettava di entrare nel consiglio dei ministri, se il portafoglio di grazia e giustizia non rimanesse al Cassinis. Sia detto qui a schiarimento, il Niutta non ha la parola facile, ed ò nella quasi impossibilità di sostenere una lunga pubblica discussione. Invece del Torrearsa fu chiamato il Natoli, uomo rispettato e intelligente, deputato di Messina, o però meno determinato forse in questo agli ordinamenti amministrativi del regno.

Finalmente il 22 Marzo il ministero era definitivamente composto di

Cavour, agli affari esteri, e marina, Presidente.

Fanti, della guerra,

Minghetti, all'interno.

Cassinis, grazia e giustizia.

Natoli, agricoltura e commercio.

Niutta, ministro senza portafoglio.

Bastoggi, finanze.

Peruzzi. lavori pubblici.

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VI.

Costituito il nuovo ministero, nulla più s'opponeva a ciò che il capo del gabinetto rispose alle interpellanze che gli erano state indirizzate, intorno all'Italia meridionale. Esse dunque Furono fissato al 25 Marzo.

Appena s'aprì la seduta di questo giorno, che le tribune furono ingombrate di gente. Tutti i deputati erano al posto loro, e si notava in tutti i volti una viva aspettazione.

Il deputato Audinot prese la parola, e parlò nella maniera seguente:

Prima di volgere la mia parola al sig. Presidente del Consiglio, domando licenza alla Camera di esporre alcune idee che chiariranno il concetto delle mie interpellanze.

Noi abbiamo tutti rimarcato nel discorso della Corona una notevole lacuna, cioè che l'Italia e quasi tutta unita. Diffatti cerchiamo invano i rappresentanti di Venezia e di Roma, città italiane che devono appartenere all'Italia. Venezia e Roma accolgono due questioni europee, l'una delle quali può essere sciolta o dalla pubblica opinione o dalla forza delle armi, l'altra in forza della pubblica opinione, la quale rendendosi ogni giorno più favorevole all'Italia e contraria all'Austria, forse costringerà quest'ultima a levare il ginocchio dalla misera Venezia, e persuaderà sempre più la Germania che rientrando essa nei suoi naturali confini, troverà l'amicizia della nazione nostra.

E virtù per noi il sapere attendere, finché giunga l'ora di osare a tempo, perché la questione di Venezia può fra le altre essere risolta colla fusione di quella provincia nel grembo italiano.

Pensiamo a rendere pingue il tesoro, a crescere le forze di terra e di mare. Il pericolo, l'opportunità d'una guerra,

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Sebbene vegga sul banco dei ministri uomo a cui la provvidenza non presentò mai invano le opportunità, dobbiamo però fidare anche di noi stessi, onde non avere giorno forse bisogno dell'aiuto di uno che, sebbene nostro alleato, potrebbe farsi arbitro delle sorti italiane (Rumori).

La quistione di Roma non può risolversi che mediante la forza morale. Diffatti il potere temporale rappresenta l'interesse morale del cattolicismo.

Dobbiamo convenire che non è necessaria una lunga orazione per provare che il dominio temporale è morto assolutamente e non può reggersi che mediante il puntello della forza. Lo prova agli italiani l'esperienza del mezzo secolo 1815 in poi; lo prova alla diplomazia la inutilità degli sforzi da essa fatti per riformare il governo pontificio; all'Europa ed al mondo intero lo provano i documenti diplomatici pubblicati.

Il poter temporale non è compatibile colla libertà di coscienza, colla libertà della stampa, dell'insegnamento, coll'eguaglianza civile di tutti innanzi alla legge, colle riforme economiche in ordine ai beni posseduti dallo mani morte, colle leggi sull'educazione e così via, perché il dominio temporale volendosi unito allo spirituale, deve accettare quei dommi di fede che ad esso vengono imposti; per di più il dominio temporale è in opposizione costante al suffragio universale, base del nostro diritto.

Queste cose ignorano quelli oratori di altr'Alpe, che con suprema ignoranza sentenziano sulle cose nostre, dimenticando che per otto secoli la chiesa esisté senza nulla possedere, e che ai giorni nostri il Papa a Gaeta faceva atti del suo dominio spirituale egualmente legittimi.

É necessario dicesi che gli Italiani si sobbarchino a sostenere il dominio temporale del Santo Padre.

Non conosco nessuna legge umana o divina che stabilisca che popolo abbia ad essere proprietà mancipia di una casta, destituito d'ogni libertà.

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Ormai all'eterno non possumus, i popoli italiani devono rispondere, in nome del diritto comune ed in nome delle nazionalità. E ringraziamo Dio che dopo la pace di Villafranca, gli errori dei nostri avversari abbiano suscitato la corrente del l'unità, che rompendo tutte le querele municipali impedì la confederazione.

Ormai i plebisciti e la volontà nazionale hanno sciolta la quistione. Vogliamo l'Italia una ed indipendente. I Italia ormai ha bisogno di Roma, Roma dell'Italia. Roma ha bisogno che l'Italia, 'coll'aiuto del suo potente alleato, la tolga allo stato d'irritazione, d'altronde indispensabile mentre la vita nazionale entra colà per ogni parte. L'Italia ha bisogno di Roma, perché Roma è la naturale sua capitale, per togliere centro di reazione, perché allora sarebbero tolte le gare municipali di ogni città, perché in questo estremo lembo d'Italia non si può eternamente governare la nazione.

Tutte le città d'Italia e questa nobile Torino che con sublime più che patriottico entusiasmo festeggiò il suo esautora mento (bene) cederanno la capitale soltanto all'antica regina del mondo! (Bene)

uomo di stato ci dice «che Roma capitale d'Italia è concetto rettorico-classico «ma è concetto rettorico-classico che sia nel cuore di tutti gli Italiani.

Ci si dice che Roma resterà municipio e vivrà di vita italiana propria. Figurarsi che il popolo di Roma circondato da una vita vigorosa nazionale possa stare staccato, senza agitazione, senz'anarchia, mi pare impossibile!! La corte pontificia cercherà colle mille braccia stringere le libertà di quelli abitanti, donde le agitazioni, l'anarchia.

Se l'illustre scrittore lo chiamò codesto concetto rettorico classico, io direi invece che il concetto di lui è concetto romantico-fantastico.

L'esempio miserando del 49 accampato dall'insigne scrittore non si ripeterà mai più perché gli errori non si ripetono.

Rimontando alla storia, mi sia permesso di raccontare eziandio le virtù di quell'anno.

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Io vidi in Roma fascio di uomini non tutti appartenenti alla demagogia, i quali senza programma comune, uniti da una carità di patria infinita, combattevano l'Austria eterna nostra nemica da una parte, e dall'altra fraterno duello con Francia repubblicana, e gittaronsi nella voragine di Cursio per protestare contro l'eterno straniero, protesta che se non fosse stata fatta, noi forse non sederemo su questi scanni (Bene). Il 49 tracciò nella storia errori e forse colpe gravissime, ma eziandio segnò due generosi fatti, la difesa immortale di Venezia, la resistenza immacolata di Roma. (Bene)

E assurdo che l'Italia rinascente possa combattere L' Austria da una parte e dall'altra la Francia: è impolitico, perché se l'alleanza francese è utile all'Italia, è utile la nostra anche alla Francia, e questa alleanza sarà guarentigia di civiltà e di sicurezza all'Europa.

Partendo il Papa da Roma, avremo una soluzione ma non una soluzione vera.

Quando mi figuro l'Italia unita e forte, veggio una nazione di 25 milioni e mi dico: «questa è una grande potenza: quando vi veggo il supremo Gerarca della Chiesa privo di qualunque braccio secolare, regolare coscienze coi principii eterni cristiani, parrai che l'Italia sia la prima nazione del mondo. Io non dirò come si possa giungere a ciò, ma dirò che questa sembrami la soluzione la più utile alla nazione ed al cattolicismo, i cui interessi furono oscurati dalla insaziabile sete del potere mondano.

Ora mi volgo al signor presidente del Consiglio:

Sono corse voci di trattative incoate colla Corte di Roma. Domando quali sieno codeste trattative e se effettivamente abbiano avuto luogo.

La Francia e l'Inghilterra hanno proclamata la massima del non intervento. Questo principio non lo veggo applicato né a Roma né al patrimonio di S. Pietro. Anche su questo chieggo una spiegazione.

Domando quali sono i suoi principii direttivi intorno alla soluzione del gran problema del potere spirituale e temporale del papa.

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E domando ai miei colleghi: Non credete voi che sia giunto il tempo di affermare innanzi al mondo, che l'Italia vuol Roma e che Italia è pronta di assicurare il libero esercizio al potere spirituale e concorrere allo splendore del culto cattolico?

In questi ultimi tempi abbiamo parlato di conciliazione, di concordia. Ma vogliamo davvero in modo duraturo questa concordia? Ebbene non cerchiamola in frasi sentimentali, in istrette di mano, ma negli atti grandi di una politica generosa, la quale sa quanto debba all'Europa, ma sa affermar altresì il proprio diritto; la quale vuole attuare al più presto il proprio programma e non cedere innanzi ad alcuna transazione che non voglia l'unità e l'indipendenza della nazione, programma che non sarà compiuto sinché il Re generoso non dimostri sulla tomba del martire Re lo adempimento della promessa di vendicarlo, e non si cinga sul Campidoglio della italica corona. (Applausi)

Cavour (presidente del Consiglio). Signori deputati, l'onorevole deputato Audinot con parole gravi ed eloquenti, anziché rivolgere al ministero interpellanze su fatti speciali, vi fece una magnifica esposizione della quistione di Roma. E ben egli fece.

L'attuale discussione non doveva essere ristretta ad uno scambio di poche spiegazioni. Prima di accingermi a rispondere non solo alle interpellanze specifiche, ma a complesso di opinioni che egli ha esposto con tanta efficacia, mi sia lecito toccare l'attuale quistione, e la più importante che sia stata mai sottoposta a libero popolo, quistione la cui influenza deve farsi sentire da 200 milioni di cattolici sparsi su tutto il globo, e la cui soluzione deve esercitare immensa influenza sul mondo morale e religioso.

Quando la quistione era lontana e doveva differirsi ad epoca indeterminata, sarebbe stato prudente consiglio, per ministro degli affari esteri, mantenere una prudente riserva. Ma ora che venne discussa in tutti i primi Parlamenti del mondo, la riserva non sarebbe opportuna, ma bensì pusillanime e vile. Vi prego però, o signori, di voler tener conto delle difficoltà che mi circondano.

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L'on. Audinot disse francamente: «Roma deve essere la capitale d'Italia.» Ed a ragione. Se si potesse concepire l'Italia costituita in unità, in modo stabile senza Roma capitale, dichiaro schiettamente che sarebbe difficile lo scioglimento della quistione italiana. Senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire. (Bene)

Questa verità, essendo sentita da tutti gli Italiani e proclamata fuori d'Italia da tutti quelli che parlano delle cose nostre con cognizione e spregiudicatamente, non ammette dimostrazione.

L'Italia ha molto da fare per iscioglicre tutti i problemi, per abbattere tutti gli ostacoli che si frappongono alla sua unificazione. perché questa opera possa compiersi non occorrono cagioni di dissidii: sinché la quistione della capitale non sarà definita vi saranno sempre dissidii e dissensi.

Concepisco che la discussione sia per ora permessa, se questa meglio che quella città debba essere la capitale, perché ancora l'Italia non possiede Roma. Proclamando Roma capitale d'Italia possiamo togliere ogni quistione. Sono dolente che uomini d'ingegno, come lo scrittore a cui alludeva l'on. interpellante, pongano in campo questa quistione con argomenti che vorrò chiamar futili.

La quistione della capitale si scioglie non con ragioni di topografia, od altra, ina per ragioni morali e per sentimento de' popoli. In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali e morali che devono determinare gli Italiani a farla la capitale propria.

Tutta la storia di Roma è la storia di una città, le cui viste si estendono al di là del suo territorio, e la accenna come destinata ad essere la capitale d'grande Stato. (Benissimo)

Convinto di questa verità mi credo in obbligo di proclamarla nel modo il più preciso innanzi alla nazione; e di fare appello al patriottismo di tutti, perché cessi ogni discussione in proposito, onde l'Europa possa dire che la necessità di Roma per capitale è proclamata da tutta la nazione. (Benissimo)

E per me grand'onore aver da dichiarare alla mia città nativa che deve perdere la sede del suo governo.

Diffatti l indole poco artistica vi si oppone. Rina


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Ma i miei concittadini sono rassegnati, ed io come deputato di Torino altamente proclamo che Torino è pronta a far questo grande sacrificio per l'interesse d'Italia. (Applausi)

Lo affermo una seconda volta. Roma, Roma soltanto deve essere la capitale d'Italia. (Bene)

Qui incominciano le difficoltà per dare una risposta all'onorevole preopinante. -

Noi dobbiamo andar a Roma col consenso della Francia;

dobbiamo andar a Roma senza che ciò possa essere interpretato dalla gran massa dei cattolici come atto ostile alla chiesa, senza che il papato debba cessare, senza che lo stato estenda il suo dominio sullo spirituale, attributo esclusivo della chiesa.

Sarebbe follia pensare di andar a Roma malgrado opposizione della Francia.

Quando, per eventi che credo impossibili, la Francia si trovasse in circostanze da opporsi al nostro ingresso a Roma, ciò non dovrebbe recare danno alla nostra concordia pel raggiungimento della nostra unità.

Abbiamo contratto, o signori, gran debito colla Francia. Mi ricordo d'aver udito applaudire detto famoso di insigne uomo di Stato austriaco, che fra breve l'Austria avrebbe fatto stupire il mondo della sua ingratitudine. Ed io posso attestare che l'Austria mantenne la sua parola nel congresso di Parigi; non vi fu alcuno che più di lei, che non aveva avuta parte alla guerra, cercasse a rendere gravose le condizioni della pace.

Ma, o signori, la violazione d'grande principio morale non può farsi impunemente. E fu appunto per ciò che noi abbia mo trovato più facile il modo di rannodare le nostre relazioni colla Russia, relazioni momentaneamente interrotte ma che non vorran rimaner tali, essendocene garanti le umane e liberali tendenze di sovrano illuminato. Quando noi abbiamo invocato l'aiuto francese e l'Imperatore acconsentì scendere in Italia alla testa del suo esercito, egli non ci fece intesi quali impegni lo legassero alla corte di Roma. Noi non lo abbiamo allora richiesto. Non possiamo ora protestare contro di essi. Ma allora, si dirà, la soluzione è impossibile? Se noi giungiamo a far sì che la riunio

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e meglio alla gran massa di persone di buona fede, che la riunione di Roma può avvenire senza che la chiesa cossi di essere indipendente, il problema sarà facilmente sciolto.

Molte persone di buona fede credono che quando Roma fosse unita all'Italia ed il Re sedesse sul Quirinale, la posizione del pontefice avrebbe a perdere la sua libertà e la sua indipendenza, e vorrebbe ridotto alla carica di

grande elemosiniere del Re italiano.

Se realmente la caduta del poter temporale dovesse trar seco questa conseguenza, non esiterei a dire, che la riunione di Roma sarebbe fatale non solo al cattolicismo, ma all'Italia stessa, perché sarebbe dannoso vedere nello mani di solo il potere civile ed il potere religioso. (Rene) Tolga Iddio che tal male si compia nella nostra Italia!

Io credo dover esaminare la sollevata questione degli effetti che Roma unita all'Italia produrrebbe sul potere temporale. La prima è di vedere se veramente adesso il poter temporale assicuri al pontefice una reale indipendenza. Se ciò fosse, come lo fu nei secoli scorsi, esiterei molto a pronunciarmi in proposito. Ma può alcuno di buona fede ritener che il poter temporale conferisca alla sua indipendenza? No certo. Nei secoli scorsi quando il diritto pubblico riconosceva solo il diritto divino, ed i varii governi d'Europa rispettavano tal principio, intendo come il possesso di alcune Provincie fosse una garanzia d'indipendenza; egli è per questo che io non l'esito a riconoscere sino al 1789. Ma ora che quasi tutti i governi civili riposano sul consenso o tacito od esplicito delle popolazioni; e lo vediamo in Francia, in Inghilterra, in Prussia e l'Austria stessa vi si accosta e la Russia non lo respinge più come lo respingeva l'imperatore Nicolò che aveva quasi inalzato il diritto divino a dogma religioso, parmi che ciò non possa asserirsi.

Pochi mesi dopo la restaurazione del 14 vediamo illustre guerriero proclamare il principio della incompatibilità del dominio temporale colla civiltà, ad illustre italiano che voleva conciliarlo, e la cui morte fu una delle sciagure più deplorabili. Alludo a Pellegrino Rossi.

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Nel 20 e 21 le Romagne manifestarono i loro sentimenti particolari. D' allora vi fu antagonismo tra il temporale e lo spirituale più o meno aperto. Dopo il 30, quell'antagonismo scoppiò maggiormente e le popolazioni affermarono il loro volere di sottrarsi al dominio clericale. Da tempo l'intervento straniero divenne una necessità; e se cessò momentaneamente, le truppe tedesche stavano però sulla linea del Po, pronte a gettarsi su quei paesi.

Tale antagonismo dopo il 1848 si fece irresistibile. L'intervento divenne fatto. Gli eventi del 59 non modificarono questi sentimenti. Le Romagne godono ora di tutte le libertà accordato dallo Statuto; e la stampa vi è libera, libere le associazioni, le quali non vennero violentate, per quanto io sappia, né governo, né dai partiti.

E prova ne sia, che in Bologna si è istituito giornale più clericale ancora della nostra

Armonia, a quanto mi pare, perché lo leggo di rado.

(Risa)

Se vi è una specie di malcontento, lo vi è per questo o ministro, forse per l'intiero gabinetto, ma mai perché si voglia fare panegirico del dominio passato.

L'Umbria, appena fatta libera, fu abbandonata alla sua guardia nazionale, ai generosi volontari, momentaneamente da essa somministrati. Eppure, quantunque vi fossero elementi di reazione, i cui eccitamenti venivano dalla vicina Roma, nullameno godette della pace la più invidiabile, ed anzi ritengo, che se i Francesi avessero abbandonato la riva sinistra del Tevere, avrebbero gli abitanti dell'Umbria, senza l'intervento del governo, offerta la mano ai loro fratelli onde unirli alla patria comune, ad onta dei neofiti cattolici travestiti da zuavi. (Risa)

Si accennano da taluni i disordini dell'Ascolano. Io non esito a dichiarare, che non ritengo né il Pontefice, né i suoi ministri responsabili di questi fatti; ma ciò prova invece come il dominio clericale induca il brigantaggio, quando avvengono gravi sconvolgimenti politici.

(Benissimo)

Se questo antagonismo esiste, qual rimedio i fautori del temporale possono apportarvi?

Io so che certuni non rifuggono dire che

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il dominio

Ma, dicono alcuni, come mai le riforme non possono produrre gli stessi effetti apportati dalla libertà nelle Romagne nelle Marche e nell'Umbria? Costoro invero chiedono al Pontefice ciò che non può dare, perché in lui si confondono due Dature diverse, quella di capo della Chiesa e di sovrano temporale. Ora, quando gli domandate di introdurre nella società civile quelle riforme richieste dalle libertà, ma che si trovano in opposizione forse ai precetti della religione, egli nol può assolutamente.

Il pontefice difatti può accettar il matrimonio civile, ma non può dargli l'autorità della sua sanzione, non può proclamarlo come legge del suo stato.

Quindi, lungi fare al Pontefice rimprovero di essersi rifiutato a riforme, questa sua fermezza e per me, come vero cattolico, titolo di benemerenza (applausi).

Nel congresso di Parigi, alcuni ragguardevoli personaggi erano bene disposti per l'Italia ed insistevano presso di me, onde presentassi alla Santa Sede il progetto di alcune riforme. Ricusai di farlo, appunto per gli argomenti, che ho detti più sopra e d'accordo col mio collega ministro Minghetti (del quale tesse elogio), dissi che bisogna rendere indipendenti le provincie ad essa sottoposte.

Tutti gli sforzi tendenti a produrre riforme verranno a rompersi contro il governo stesso. Quando anche si volesse destinare gli uomini i più liberali, le cose tornerebbero come prima finché sieno compenetrati i due poteri.

L'Europa da 20 anni si strugge per trovare una riforma nello Stato ottomano. Molti ministri di quell'impero sarebbero dispostissimi, eppure le riforme anche colà sono impossibili; perché? perché, anche colà, il dominio temporale è unito allo spirituale.

(Bene)

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Ciò dimostrato, parmi che il timore dei cattolici debba cessare. Se il potere temporale non è una garanzia allo spirituale sembrami che possano tranquillarsi.

Ma il papa sarà in quella vece più indipendente quando avrà separato il dominio temporale dallo spirituale? (Breve interruzione).

Noi riteniamo che l'indipendenza della chiesa può separarsi mercé la proclamazione del principio di libertà, applicato leaU mente ai rapporti della società civile colla religiosa.

È evidente, che ove questa separazione sia operata in modo chiaro e preciso, l'indipendenza del papato sarà terreno più solido. Non solo la sua indipendenza sarà più assicurata, ma la sua autorità più efficace, perché cesseranno tutti quei concordati stipulati, e tutte quelle armi di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori, riesciranno inutili.

Credo che ogni sincero cattolico, ogni zelante sacerdote vorrà preferire questa libertà religiosa alla sfera dei poteri civili. Se fosse altrimenti, è d'uopo dire che vogliono promuovere i loro temporanei interessi. Ma come, mi dirà taluno, volete assicurare questa libertà? Io penso che si possa assicurarla in modo efficacissimo, e credo che la chiesa troverà garanzie potenti nelle condizioni del popolo Italiano, il quale aspira a conservare tra noi il capo della società cattolica. Ma non è questa la sola garanzia. La vi è maggiore nell'indolo del popolo italiano, che è eminentemente cattolica e non volle mai distruggere la chiesa, bensì riformare il potere temporale. Questa fu l'idea degli eminenti pensatori. Così Arnaldo da Brescia, Dante, Sarpi, Giannone.

Ed io mi lusingo che quando le condizioni nostre saranno prese ad esame, i fautori della chiesa saranno costretti a riconoscere codesto vero, perché l'indipendenza del capo della chiesa sarà meglio assicurata dall'amore di 25 milioni d'abitanti, che non circondata da pochi mercenari o da altri soldati che, quantunque generosi, son pur sempre stranieri.

Mi si dirà: ma ogni vostro tentativo di transazione venne respinto! Io spero che la Camera non vorrà che entri in minuti su questo proposito, solo dirò che sinora nessuna trattativa

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venne

La storia ci offre molti esempi di pontefici che dopo aver scagliati anatemi su sovrani temporali, strinsero con loro alleanza. Tal fu Clemente VII che consacrò Carlo quinto in S. Petronio di Bologna, dopo che gli era stato nemico.

E perché non si può sperare altrettanto di Pio IX per rendere l'Italia alla libertà ed alla chiesa?

So ciò non avvenisse, noi perciò non cesseremmo di proclamare altamente i principii da me esposti e non cesseremmo dire che l'Italia giunta a Roma, distrutto il temporale, proclamerà la separazione di questo dallo spirituale e rispetterà l'autorità del capo supremo della chiesa (Bene).

Quando sarà chiaro al mondo che gl'Italiani non sono ostili al cattolicismo, ma vogliono abbattere ostacolo allo stesso, verranno assolti o faranno cadere su chi di ragione la responsabilità di una lotta che il pontefice volesse impegnare colla monarchia. (Benissimo)

Io ho fiducia che quando la consacrazione di questi principii sarà fatta, ci sarà dato di compiere due atti importanti; cioè di avere riconosciuta una nazione, e di avere riconciliato il papato colla monarchia, lo spirito di religione coi gran principii di libertà. E spero che questo ci verrà dato di compiere alla generazione nostra. (Applausi]

Margliani parla contro il dominio temporale.

Cavour (presidente del consiglio), L'Altro ieri mi venne fatta interpellanza sulla occupazione di Pontecorvo. Ora sono in grado di rispondere con termini più esaurienti di quello che non feci il giorno stesso. Pontecorvo non solo non fu occupata dalle truppe francesi, ma non vi fu neppure la benché menoma minaccia di occupazione.

La Seduta è levata olle ore 5 1/2.

Domani, tornata al tocco per la prosecuzione delle interpellanze sugli affari di Roma.

Pepoli. Ben disse il presidente del Consiglio, quando dichiarò la quistione romana una delle più grandi questioni che sieno state agitate.

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Gli acerbi dibattimenti che sorsero nei diversi parlamenti europei mostrano tal vero.

Noi dobbiamo spogliarla d'ogni falso orpello e discuterla calmi e moderati.

Mi sento però in debito di protestare contro le accuse e le calunnie di cui fu fatto segno il movimento italiano e specialmente contro coloro che dichiarano il suffragio universale nelle Romagne essere avvenuto sotto la minaccia e la forza.

La provincia di Viterbo invece, o signori, della quale ebbi l'onore di presentarvi una petizione, dimostrò il contrario.

Eppure si osò parlare di congiure, intrighi ed oro piemontesi. Si; il Re ha congiurato coll'Italia a Goito, Palestro, S. Martino arrischiando vita e corona, tenendo alta la bandiera nazionale.

Qual meraviglia che l'Italia sia divenuta di Casa Savoia, se Casa Savoia fu dell'Italia nei giorni della sventura? (Applausi)

In nessun luogo veggo unità di nazioni fondate per magnanimità e generosità di principi, come l'unità nostra.

Ci si parla di trattati. Abbattendo il dominio temporale credo si voglia piuttosto sciogliere contratto fra f autorità civile e religiosa. augusto principe parlò di città Leonina, di lista civile. Io accetterei tal soluzione purché non ledesse i principii di libertà ed uguaglianza: consiste nel rendere al Pontefice l'autorità morale.

Non vi può essere libertà vera, se lo stato non si divide dalla Chiesa. Chiunque confonde il regno della coscienza con quello della forza, falsifica il concetto dello Stato ed il concetto della religione.

Infranto il potere temporale, la religione salirà a quei tempi in cui i Leoni ed i Gregorii combatterono per la libertà dei popoli, in cui il Papa con gesto, una parola, fermò Attila alle porte di Roma.

I pontefici non pronunziarono allora mai il famoso non possumus; solo lo pronunciano adesso, che stanno per perdere le loro ricchezze ammassate a scapito dei popoli.

Napoleone III compirà la più grande impresa dei secoli moderni: vincerà una battaglia più grande

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di Magenta e Solferino, perché colla distruzione del potere temporale inizierà la libertà della Chiesa.

Si vuol far credere che la rivoluziono italiana sia mossa desiderio d'una riforma religiosa. Combattendo il dominio temporale gl'italiani vogliono fondere la nazione per mettere l'Italia sul Campidoglio, non per rovesciare il potere spirituale del Papa. Gli Italiani non si lasciarono e non si lascieranno sedurre da società bibliche, da mene di protestanti.

Indarno la diplomazia vorrà dare alla quistione italiana altra soluzione di quella che desiderano tutti gli Italiani; la sola vera soluzione è questa.

Ieri la Camera aspettava sig. presidente del Consiglio rivelazioni di fatti; si ebbero invece rivelazioni di principii; le quali mostreranno a 200 milioni di cattolici da qual parte stia la moderazione e la verità; esse ci schiuderanno le porte di Roma.

Per vincere la pubblica opinione, io vorrei che i rappresentanti della nazione si associassero a questi principii.

Il principe Napoleone al Senato francese disse; Bramerei che Parlamento italiano sorgesse una voce che dicesse: «fidarci», santo Padre, fiducia nella libertà; l'Italia libera assicurerà la vostra indipendenza. (applausi)

Torelli. Ho domandato la parola, non per aggiungere altre prove a quelle che vennero esposte, ma per esternare mio pensiero. La splendida e succosa orazione del presidente del Consiglio ha rafforzata maggiormente la fede italiana.

Credo che adoperando il principio della prudenza e della moderazione le speranze d'Italia saranno realizzate.

(L'oratore emise una voce così cupa che abbiamo potuto raccogliere ben poche frasi. Ci parve però che siasi fatto difensore dell'opuscolo:

Questioni urgenti di Massimo d'Azeglio, che fu ieri attaccato presidente del Consiglio e deputato Audinot.)

Le parole del presidente del Consiglio son diventate programma serio. Se la stella d'Italia non si offusca, si vada pure a Roma. Queste nobili contrade, che tennero alto il vessillo della rigenerazione italiana, compieranno questo nobile sacrificio!

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Faccio voti che il conte di Cavour sia indovino come per lo passato e fo plausi al suo programma.

Boncompagni. Gli interessi della civiltà richieggono che cessi il dominio temporale dei pontefici.

Tutti coloro che amano la pace della cristianità e che desiderano gl'interessi della chiesa, devono essere convinti di questa necessità.

Inutili sono le riforme per quanto sieno grandi qualora non muti il governo. 0 le riforme sono sincere e ne segue l'esautoramento dei principi contrarii alla libertà, o non lo sono e devono cessare i governi stessi che le emanarono.

Tutte le parti d'Italia dalle Alpi all'estrema Sicilia hanno diritto di costituirsi a nazione. Noi abbiamo l'obbligo di affermare questo diritto all'Europa; l'obbligo incombe al ministero, incombe al Parlamento.

Però non dobbiamo farci illusione di tutte le difficoltà che esistono per andare a Roma; e quand'anche con ci fosse alcun pericolo, non potremmo però far mostra d'ingratitudine verso i generosi nostri alleati, che hanno combattuto al canto nostro.

Del resto noi dobbiamo armare, armare e poi sempre armare, come se non si facesse assegnamento sulla influenza dell'opinione pubblica europea.

(Prova successivamente che l'unità d'Italia non è incompatibile colla indipendenza della chiesa, chiamando l'opinione contraria assai strana, quella opinione che ci figura come tanti Erostrati).

La quistione è difficilissima, ma le difficoltà stanno più dalla parte degli uomini che dalla natura stessa delle cose. Se il Pontefice dicesse: «Io voglio rendere all'Italia la sua libertà, alla chiesa la sua indipendenza,» qual grido di gioia si eleverebbe da tutto il mondo cattolico, quale omaggio verrebbe fatto al cattolicismo!

Propone il seguente ordine del giorno:

«La Camera, udite le dichiarazioni del ministero, confidando che assicurata l'indipendenza, la dignità e il decoro del Pontefice a e la piena libertà della chiesa, abbia luogo di concerto

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colla

Pres. Vennero presentati altri due ordini del giorno, uno del deputato Greco, l'altro del deputato Ricciardi, dei quali do lettura.

«La Camera, persuasa profondamente al pari d'Italia tutta, la sede del Parlamento e del governo italiano dover esser in Roma, afferma innanzi al mondo questo solenne diritto, questo desiderio concorde della nazione, e passa all'ordine del giorno.»

Ricciardi

Ricciardi. Domanda la parola.

«La camera, udite le spiegazioni date presidente del Consiglio, e riconoscendo ed all'uopo guarentendo la potestà spirituale del Pontefice, proclama Roma capitale del regno d'Italia una e indivisibile, ed invita il Ministero ad invocare in nome della nazione da S. M. l'imperatore Napoleone III lo sgombero delle truppe francesi dalla provincia romana, in conformità del principio di nonintervento da esso sapientemente adottato, «e passa all'ordine del giorno. «

Greo.

Pres. Vi sono altri due oratori che debbono parlare nello stesso senso dei precedenti. Se la Camera crede, darci la parola a quelli che parlerebbero in senso contrario.

Ferrari. Senza essere assolutamente contrario ai voti espressi da questa assemblea, voglio invocare la vostra attenzione su una serie di considerazioni.

Che si vada a Roma tutti lo desiderano, e se dovessi parlare di me innanzi a voi, dovrei dichiarare che io sono soldato, il più antico soldato di questa immensa guerra civile che l'Europa fa

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Io sono però po' divergente, ma sono divergenze da amico. Io vorrei che il signor presidente del Consiglio non andasse a Roma ora sola prima di quella stabilita destino (ilarità), ma d'altronde vorrei che non ritardasse.

impazienza; fremito generalo corre dalle Alpi allo Stretto.

Si (ratta d'argomento solenne, della repubblica cattolica, della più vasta delle associazioni che siensi stabilite sulla terra. Io vorrei che si indagasse con quale disegno il governo vuol giungere a Roma.

Lo stato a cui apparteniamo cominciava questa iniziativa, e specialmente al congresso di Parigi (cosi disse il signor presidente del Consiglio quando trattossi di dare il nome al nuovo regno d'Italia). Il piano fu adunque di formare fascio di tutte lo Provincie d'Italia sino a che si giungesso a Roma. Questo piano fu cominciato colle annessioni. Tale disegno è il concetto del governo.

La magia del successo dove? Io ho sempre reso omaggio ai capi che reggevano il Piemonte; ma vi era qualche cosa di più potente, di più vasto, di più predisposto. Questi fatti stavano tutti nella rivoluzione del 30. Voi avete assistito l'inaugurazione della statua di Manin. Voi conoscete la vita di Manin, fu grande per avere risorto Venezia nella più antica forma repubblicana. Quindi vi rinunziò perché lo abbandonavano gli alleati; poi volse cupo il guardo di Foscolo su questo Piemonte, disse, sia l'Italia, se no, no. Ma Manin non era il primo, vi fu altra voce forse più magica nel 1830 la quale disse lo stesso, aggiungendovi lo stesso: se no, no.

E perché mai il nome di Giuseppe Mazzini, pronunciato in tutte le assemblee d'Europa non lo si dovrà pronunciare in assemblea italiana (Ohi ohi)

Cavour (ministro). Dica pure.

Ferrari. Io non amo i cospiratori, neppure quando essi cospirano anche allorché sono sul banco della presidenza

(risa pro

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Voi vedeste dall'alto al basso: il moto si estese da Torino alla Lombardia, quindi alla Toscana alle Romagne. l'era da pensare al popolo, a nuovo leggi e nessuno vi pensava, neppure i più ardenti; invece a che cosa pensavano? Alle annessioni; non volevano saper d'altro.

E quale fu la parte sostenuta governo in questo modo? Il governo ad ogni critica che gli si moveva, rispondeva: andremo a Modena; se vi erano dei disordini, rispondeva andremo a Parma (risa). Ma non pensava a riforme. Le popolazioni erano malcontente, dissimulavano e pensavano alle annessioni.

Ora l'ultimo gioco è questo: si vuol andare a Roma. Ma con quali idee ci andate? Dichiaro che se giungiamo a Roma colle ideo del governo formiamo uno Stato provvisorio. Sarà una città di più aggiunta, ma avremo il disordine.

Se si giunge a Roma sappiamo quanta risponsabilità deve pesare sul governo. Invece che esservi armata, ve ne sono due; (io non voglio accusare nessuno per questo), ma pure vi sono e non fu possibile compenetrare l'una noll" altra. Col tempo, cogli anni, con altre idee forse sparirà l'antinomia che sussiste, ma infine le due armate sono in uno stato d'ebollizione, perché questo moto che partito dall'alto e passato da orecchio in orecchio e propagatosi su tutte le città, è diverso dall'altro, partito basso all'alto ed egualmente propagatosi.

Nel mezzodì vi sono difficoltà gravi. Io non appunto le intenzioni delle persone; dirò di più che nel corso attualo delle cose chi può affermare che la forza stessa dello statuto, non venga affievolita e fors'anco tolta? Come si fa a trasportare le questioni di tutte le parti d'Italia in quest'assemblea e trattarle e discuterle? L'anno scorso abbiamo discusso duo giorni per l'abolizione dell'università di Cagliari.

Si tratta di volgersi all'imperatore dei Francesi. Ma io non vedo nella tribuna diplomatica l'ambasciatore francese, le relazioni saranno sospese misteriosamente per essere forse più strette.

(Ilarità). Insomma non bisogna fidarsi della diplomazia.

Abbiamo perduto Mentone, Roccabruna. Cose insignificanti ma quello che mi dispiace si è che il principio stabilito è questo.

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Se l'Imperatore dei Francesi riconosce lo stato attuale d'Italia come soggetta a Vittorio Emanuele II, potrebbe darsi che prendesse per sé o Roma o Venezia; se non lo riconosce, ed allora Don capisco la cessione di Mentono e Roccabruna.

Non voglio né accelerare, né ritardare questa spedizione: bo voluto soltanto mettere sotto gli occhi della camera la responsabilità del governo che non vuol far riforme o vuol compiere l'ultimo giuoco andando a Roma.

Venendo a parlare del discorso del signor presidente del consiglio, dichiaro che io non intesi alcuna rivelazione di lui.

Le condizioni sotto le quali il governo vuol andare a Roma possono ridursi specialmente a quattro:

1. A condizione di considerar Roma capitale dell'Italia;

2. A condiziono di giungere a Roma d'accordo colla Francia, che non vuole;

3. Di marciare d'accordo coi 200 milioni di cattolici, la massima parte dei quali non lo vuole.

4. A condizione del più profondo e più limitato rispetto verso il principio ed il dogma della chiesa cattolica, apostolica, romana. (Breve interruzione).

Consideriamo Roma come la capitalo d'Italia. Si dice generalmente che sia essa la prima necessità, il centro, la sedo, l'occhio.

Posso assicurare che tutti vogliono Roma per capitale, io non conosco nessuna soluzione, e quello scritto a cui si alluso (da me poi non letto) rientra nel pensiero stesso del signor conte di Cavour.

Tutti vogliono Roma, i federalisti, i pontefici, gli imperatori d'Austria, di Spagna, perché Roma è la capitale d'Italia, perché là avviene ed avvenne la incoronazione. Tutti s'inchinano umilmente e diciamolo anche ipocritamente (risa prolungate) verso Roma. 30

Il Petrarca ossequioso a Carlo IV di Germania, scrisse una lettera se convenga di unire Roma all'Italia. In quel tempo era Roma derelitta, il Pontefice in Avignone, il cattolicismo pesava su di essa, eppure il Petrarca voleva Roma unita all'Italia.

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Ebbene, il signor presidente del consiglio continua nel sistema del Petrarca. (Risa prolungatissime, il conti di Cavour ride sgangheratamente).

Io sono federalista, ma pure desidero Roma: io sono federale ma anco il governo, il gabinetto attuale mi è simpaticissimo, come lo è a tutti i federalisti. Didatti come è composto il gabinetto? Diede l'altr'ieri la sua dimissione, ed ora nuovamente formato, ci presenta la vera idea della federazione. Manca però la sola Lombardia. Dunque vedete che nessun federale sarà nemico al governo, per principio di federazione.

Si vuole andare a Roma d'accordo colla Francia. Lo sappiamo: era inutile il richiamarci che siamo sotto il giogo della Francia. É necessario, lo conosco, ma non e' era bisogno di proclamarlo. La Francia che sostenne sempre il partito guelfo, ci consiglia ora eziandio di conservar Roma al pontefice.

Si vuol andar a Roma d'accordo coi 200 milioni di cattolici. Sussiste forse una minaccia nelle Spagne e nel Portogallo, convengo: ma queste potenze da due secoli non s'ingeriscono nelle cose nostre. Per cui questi cattolici si riducono a quelli dell'Austria, inquantochè gli altri sparsi su tutta la faccia del globo, non sanno neppure dove sia collocata Roma.

Mi ripugna entrare nella discussione del potere temporale e spirituale dei pontefici. Si parla d'incompatibilità tra l'uno e l'altro: ma andarono d'accordo per 15 secoli, o signori. D' altronde si tratta della soppressione del governo pontificio. Non conviene adunque riguardare il governo pontificio nelle semplici condizioni del momento.

Pio IX, od il suo successore, potrà cedere a Napoleone III, come Clemente VII a Carlo V, ma è un argomento questo che torna in favore del dominio temporale, perché da Clemente VII in poi ha pur sempre vissuto. Nel seno della chiesa si possono svolgere ancora immense rivoluzioni.

Gli iniziatori del moto attualo, i Rosmini ed i Gioberti si fermarono innanzi a Roma come i re longobardi convertiti; in Roma troviamo il frutto proibito, vi troviamo la scomunica, (Rumori)

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La sede di Roma è pestifera per i re d'Italia. Napoleone morì in esilio; molti altri morirono sotto i colpi della scomunica. Non vogliate credere che questo non possa avvenire all'attualo dinastia. [Rum.)

Ritengo che si possa giungere a Roma, ma perché vi siamo sospinti da un ordine di idee diverse da quelle svolte in questo Parlamento; da un ordine di ideo venuteci dalla Francia, che nelle sue idee è stabile più dell'Austria, dell'Inghilterra stessa. Fu questo il torrente che creò Voltaire, Rousseau, la rivoluzione dell'89, o rovesciò corone e teste. Benché questi principii vogliano la soppressione del dominio temporale, il governo gli adotta per interessi del momento. Noi non vogliamo i consigli della Francia, ma dobbiamo però ricordarci che una nazione deve da tè trarre la propria indipendenza; dalle nazioni finitimo non deve prendere che le idee le quali non hanno patria. (Rene)

La plebe di Francia alla repubblica di febbrajo disse: Ti accordo tre mesi di miseria per far questo.» L'Italia accorda di più al governo; ma allora non si resti così.

Bertolami (rispondendo a Ferrari) dice che il principio monarchico è talmente compenetrato col principio popolare, che non si può immaginare Vittorio Emanuele a Roma senza che il popolo gli cinga la fronte della corona italiana. Del resto con un discorso sufficientemente lungo dimostra la necessità di separare il dominio temporale dallo spirituale, portando l'autorità di Dante Alighieri.

Il suo discorso venne applaudito.

Gallenga dichiara che la questione dal campo politico passo nel campo accademico, e ne chiede la chiusura.

Ricciardi vorrebbe dire due parole per sostenere l'ordine dal giorno, quindi si oppone alla chiusura.

D'Ondes Reggio domanda che il seguito della interpellanza si faccia domani, perché il deputato Ferrari disse cose che veramente meritano seria attenzione, quantunque in ogni punto non convengano alle sue opinioni.

Gallenga insiste per la chiusura.

Alfieri dice che quantunque venga chiusa la discussione generale, resta però aperta sugli ordini del giorno presentati.

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Cavour: Vorrei pregare la Camera che prima di decidere. sulla chiusura, si permettesse al ministero di dichiararsi quale dei tre ordini del giorno possa accettare.

Quanto poi alla chiusura, stimerei che non la fosse opportuna. Invece crederei farmi interprete della Camera nel desiderare che la quistione fuggisse dal campo accademico per attenersi al campo strettamente politico, inquantochè il Parlamento non è un'accademia. (Ilarità) Bramerei che la questione venga franca mente discussa, perché tutta l'Europa volge a noi lo sguardo.

Gallenga ritira la sua proposta per la chiusura. Pres. Ha la parola il dep. Petruccelli sul merito dell'interpellanza

Petruccelli della Gattina La politica del nostro governo gravita verso la Francia.

Domando al signor presidente del Consiglio, continua, che voglia rispondere alle due interpellanze che gli fece il dep. Audinot, cioè a qual punto sieno le trattative del nostro governo; e sino a quando devono in Roma restare i francesi. Ma lo pregherei a non rispondere con un bel discorso oratorio, come fece ieri, senza minimamente occuparsi delle domande ad esso molte.

Regnoli osserva di non aver inteso affermare nettamente e chiaramente il diritto dei romani di essere considerati come sudditi italiani. Che se il governo non trova modo di far cessare l'occupazione francese corre grave pericolo la stessa religione cattolica.

La seduta è levata alle ore 6.

Domani vi sarà tornata al tocco, posto all'ordine del giorno il seguito della interpellanza Audinot sugli affari di Roma.

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Seduta delli 17 marzo

Il Sig. Presidente Rattazzi dice: vennero rimessi altri due ordini del giorno uno del deputato Petruccelli e l'altro del deputato Levi.

«La Camera incitando il ministero a procurare che cessi l'occupazione straniera in Roma ed a presentare quelle leggi che verranno a costituire la salda e libera base dello Stato ed emanciparlo da ogni altra autorità, passa all'ordine del giorno.»

LEVI

«Il Parlamento italiano attesta innanzi all'Europa civile che il possesso di Roma, come capitale d'Italia, è una necessità e d'ordine e di salute pubblica. E questo Parlamento commettendo all'onorevole presidente del consiglio di esprimere all'imperatore Napoleone ed al gabinetto inglese il voto che «si lasci all'Italia risolvere direttamente con la corte pontificia, la discordia nazionale, passa all'ordine del giorno.»

PETRUCCELLI.

Chiave. Al punto a cui è giunta la discussione, credo dover considerare l'ordine del giorno proposto dall'onorevole Boncompagni nella seduta d'ieri.

E opinione generale che Roma sia capitale d'Italia; che il Pontefice sia separato dal dominio spirituale: che si vada a Roma col consenso della Francia.

Io volentieri mi vi associo. Diceva l'onorevole Ferrari essere illusoria la soddisfazione che noi vogliamo dare a 200 milioni di cattolici. Il sentimento religioso in Italia altamente reclama che il Pontefice come capo della chiesa non sia allontanato da Roma.

Colla condotta aio tenne il clero in Piemonte sembrerebbe incompatibile la continuazione delle pratiche religiose: eppure vi è fenomeno che ti spiega appunto con entimento cattolico che signoreggia questo popolazioni.

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La nostra popolazione ha imprecato su quei sacerdoti che si curvarono all'orecchio dei moribondi per far sì che si ritraggano da ciò che fecero in pro della patria. Non si può porro in obblio la dolorosa agonia di Santorre di Santarosa. Eppure la popolazione è eminentemente cattolica.

Il Pontefice, capo spirituale della chiesa, se viene allontanato da Roma, sarà sempre esule di ritorno più o meno lontano.

Quando il Pontefice fosse ridotto a capo spirituale della chiesa e si allontanasse da Roma e gli Stati cattolici si coalizzassero per favorire il suo ritorno, potremmo noi protestare contro questi interventi?

Ecco adunque la necessità a che il governo faccia in modo che non avvenga codesto allontanamento.

Io quindi sono pago dello parole dell'onorevole presidente del consiglio, per quanto riflette l'indipendenza del Santo Padre.

Però l'onorevole presidente del consiglio e prima di lui il deputato Audinot, hanno asserito essere d'uopo che Roma sia resa all'Italia. Dunque dev'essere sin d'ora dichiarata capitale d'Italia. Nato e vissuto in Piemonte, ho compreso tutta la condotta di questa provincia in ordine al movimento italiano. Si svesta essa d'ogni municipalismo e l'unica che avesse il braccio libero, comprese che doveva scoperchiare il sepolcro ove stava la sua gran madre. Aveva il vecchio Piemonte appreso suo Pietro Micca a dar fuoco alla mina anche a costo di rimanerne vittima. (Applausi).

Si tratta del suo esautoramento, eppure vedrete i suoi abitanti tranquilli, pacati e quando anche provassero sentimento di mestizia non lo dimostrerebbero, perché sanno che così esige il benessere della patria. (Bene) Sorga pure una burrasca in questa Camera, quando voi ne uscite, vi rasserenerete l'animo, vedendo i placidi volti di questa popolazione.

Ogni idea di municipalismo è adunque tolta vecchio Piemonte.

Ma pure domanderei all'onorevole presidente del consiglio


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Sul Mincio e sul Po gli armamenti di guerra sono formidabili. Il trasporto della sede di governo da centro all'altro porterebbe sempre dissesto. Ora non so se si voglia dire, che non ostante le minaccio sul Mincio o sul Po, possa essere la sede del governo trasportata a Roma.

Lo stato attuale delle cose ha diritto a dar molta fiducia ai nostri fratelli della Venezia, i quali gemono sotto il giogo dell'Austria con coraggio con quella costanza che tutti sanno; essi in questo stato attuale trovano conforto. Ma vorreste mutare questo stato attuale, togliere loro questa fiducia, questo coraggio di cui hanno tanto bisogno? Ma non dobbiamo noi temere prostramento momentaneo, improntitudine?

L'opinione universale ci spinge a Roma il più presto possibile. L'opinione universale, sovrana del mondo, può qualche volta sbagliare. E così l'intendeva egregio uomo di ftato, a cui il deputato Torelli fece elogio al quale mi unisco.

(Tesse nuove lodi al sig. Massimo d'Azeglio).

Non so se l'opinione universale l'anno scorso ci escludesse da Nizza, tuttavia non tolse che il fatto non sia avvenuto. Se taluno la considera po' da vicino, vedrà che l'opinione universale proclama Roma capitale, ma non dice che vi si vada subito.

La capitale di uno Stato qualsiasi deve essere alla testa di una nazione. Sgraziatamente la vita politica e civile di Roma attuale non la designano tale. Non confondiamo la grandezza di Roma colla grandezza di una capitale. E Roma centro di grandezza mondiale, del cattolicismo, del mondo artistico. Ma questa grandezza non ha nulla a che fare colla politica: prova ne sia la politica che esiste oggi a Roma. Dunque l'opinione pubblica vi dice: aspettiamo.

Le glorie degli avi sono belle e sacre, ma credo sia venuto il tempo di dire al popolo italiano, che le glorie degli avi bisogna guardarle come mezzo d'incoraggiamento. Il popolo italiano si è compiaciuto po' troppo delle memorie degli avi. E così non fosse stato, perché l'Italia si sarebbe fatta prima.

Or il popolo italiano si è svegliato; si è svegliata la popolazione romana. La maestà dei luoghi, la grandezza

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dei monumenti influisce a far grandi le capitali. É certo che parlamento italiano a Roma avrebbe per riverbero questa maestà, questa grandezza. Ma non sono i luoghi, o signori, che fanno grandi gli uomini e le cose, bensì gli uomini e le cose fan grandi i luoghi. Ne volete esempio? Guardate all'isola di Caprera. Inosservata passava innanzi agli occhi del navigante. Ora che valente capitano di una valorosa gioventù vi depose la sua spada, il navigante riverente si leva il berretto e tutti gli occhi sono rivolti a quello scoglio. (Applausi)

Prima di trasportare la sede del governo bisogna provvedere ai nostri fratelli della Venezia, di codesta nobile parto d'Italia tuttora avvinta da catene. L'opinione generalo sa che l'Italia nel Campidoglio non può glorificarsi sinché duri così grave tutto in famiglia.

Se la Camera mi desse torto per questi timori, non mi resta che pregare il cielo perché gli eventi possano darmi torto. (Applausi.)

Cavour (ministro. Credo opportuno di rispondere con solo discorso a tutte le interpellanze. Se vi sono quindi alcuni altri oratori che vogliano proporre altre interpellanze io prego la Camera a voler progredire nelle discussioni, perché già io non ho premura, e desiderio di rispondere per quanto potrò in modo esauriente.

Boggio. ( Segni d'impazienza). Noi vogliamo che il poter temporale cessi e che Boma sia prontamente restituita agli Italiani. Siamo unanimi di questo volere, quantunque vi sia una qualche divergenza.

E più assicurata la liberazione della Venezia andando prontamente a Roma: perché Venezia sarà nostra, quando potremo prendercela, quando l'Italia sarà costituita se avrà Boma per capitale. [Bene) Ecco quindi che io credo che andando a Roma contribuiremo più facilmente a liberare Venezia.

(Del resto risponde con lungo discorso alle argomenta

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D'Ondes Reggio. Non posso accomodarmi alla opinione che tale discussione sembrasse piuttosto politica che accademica. Il subietto è sommamente filosofico, morale e tale che mai parlamento d'Europa lo ebbe ad agitare, come ben disse il signor presidente del Consiglio.

È certamente concetto elevato l'onorare la potestà del pontificato, perché è la stessa potestà della religione. La religione cristiana ed il pontificato sono immedesimati.

(Parecchi segni d'impazienza e disattenzione accompagnano il discorso dell'oratore; il presidente mette mano al campanello).

Riconosco che la potestà del pontificato è immensa, perpetua, e che durerà quanto il cielo e la terra.

Io intendo che si vada a Roma, ma quando si potrà andare tra le braccia del sommo pontefice.

Ricciardi promette di esser breve inquantochè tutto ciò eh' esso aveva intenzione di dire, venne esposto suo onorevole collega Petruccelli.

L'opinione pubblica eserciterà una pressione immensa sull'animo dell'Imperatore Napoleone per far che ritiri le sue truppe da Roma.

Ma la sola forza morale non basta: ci vogliono armi o cannoni ed io perdonerò al ministero tutte le sua peccata (risa prolungate) qualora voglia dare alla nazione armi e cannoni. (Legge il suo ordine del giorno, e continua:)

Protesto contro gli altri che vennero proposti, perché in essi si parla di una petizione a Napoleone IlI. L'Italia, o signori, non ha bisogno di rivolgersi a nessuno con petizioni, per affermare proprio diritto.

Parla il dep. Leopardi del quale non abbiamo potuto intendere una sola parola.

L'ab. Maresca comincia collo scagliarti contro l'episcopato francese.

Vorrei richiamare, egli dice, l'episcopato francese sulle condizioni della chiesa cattolica sotto i governi cessati. l'era allora libertà ed indipendenza?

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Nella organizzazione del nuovo regno italico la chiesa troverà la sua vera indipendenza.

Ma in che modo andremo a Roma? Alcuni hanno compreso il concetto del signor Ferrari in senso, altri in altro. Ma il concetto è profondo, però l'onorevole mio amico Bertolami disse: Si dee andare a Roma colla fede di Dante Alighieri, colla fede del prete Gioberti.

Bisogna andare a Roma, senza condizionare questa nostra andata ad alcuna professione di fede.

Non è necessario che i Francesi partano da Roma: non sarebbe piuttosto opportuno che i nostri soldati andassero direttamente colà ed abbracciassero i loro compagni d'armi? (ilarità prolungata) É certo che i Francesi li vedrebbero ben volontieri. (Risa) Non hanno combattuto con noi in Crimea ed in Italia? (Risa) É evidente che ci direbbero: Ci siete voi, è inutile che ci stiamo ancora noi. (Risa)

Macchi. Mi pare che bisogna giungere ad uno scioglimento delle discussioni. E per far ciò si deve eccitare il governo ad intromettersi perché i Francesi si allontanino da Roma.

Mi permetterei di proporre il seguente ordine del giorno, che farebbe seguito a quella petizione di cui la Camera è di già informata:

«La Camera aderendo ai principii proclamati presidente del Consiglio, raccomanda la petizione, affinché assecondando i voti di tante migliaia di cittadini, procuri che questo voto abbia la sua più sollecita attuazione.»

Turati domanda la parola per proporre ordine del giorno.

Legge quindi discorso, inteso a dimostrare la necessità della cessazione del dominio temporale.

Il presidente lo richiama due volte ad attenersi strettamente a quello che è necessario per lo svolgimento del suo ordine del giorno. L'oratore dice che appunto quello che espone è inteso a tale scopo.

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Cavour (presidente del Consiglio). Non mi asterrò manifestarmi in nome del Re in ordine agli ordini del giorno presentati alla Camera. Però devo prima rispondere, se non a tutti, almeno alla massima parte di quelli che mi rivolsero la parola. Tuttavia trovo di escludere dalle mie risposte l'onorevole deputato Ferrari, perché trasportata avendo la sua discussione in campo teorico, non lo potrei seguire per difetto di cognizioni bastevoli. L'onorevole deputato Ferrari però soggiunse che non amava i cospiratori, neppure quelli che cospirano sul banco della presidenza.

Ringrazio l'onorevole Ferrari di avermi annoverato tra i cospiratori. Si, o signori; per 12 anni fui cospiratore; ho cospirato per il bene della mia patria; ho cospirato in modo singolare, proclamando all'Europa qual era lo scopo della mia cospirazione; cospirai per avere dei compagni ed ebbi quasi tutto il Parlamento subalpino ed in oggi io cospiro con 26 milioni d'Italiani. (Benissimo)

L'onorevole Ferrari spiegò la politica delle annessioni, e le disse fatte per ripiego politico.

Esso disse che andammo a Parma perché alcune leggi del ministero precedente non erano piaciute in Lombardia; esso disse che andammo a Modena perché forse si era malcontenti di 33 per cento di cui si è tanto parlato, e forse dirà che se andremo a Roma lo faremo per schivare la grave e spinosa questione dello regioni.

L'argomento è più specioso che solido. Sarebbe come se si volesse rimproverare le mosse ardite di soldato che insegue il nemico, dicendogli: Ma voi non potete aver cura della retta amministrazione, della polizia delle armi, e dei guasti nella tenuta: ma io sono persuaso che quando questo soldato avesse ottenuto splendidi risultati di guerra i suoi concittadini gli perdonerebbero se ritornando in campo di battaglia, non si trovasse in perfetto stato in cui si trovava nel campo della manovra.

Ora prendo commiato da lui, per rivolgermi ad altri, e per venire agli esami degli ordini del giorno.

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Fra questi l'ultimo, proposto dall'onorevole Macchi, parmi che impicciolisca la questiono volendo prendere argomento da una petizione.

Macchi domanda la parola.

Cavour, Io non mi opporrei ad una proposta che la petizione cioè venga rimandata al ministero: Spero che l'on. Macchi accetterà la mia proposizione.

Macchi. Si accetto.

Cavour. Tutti gli ordini del giorno vogliono che si acclami Roma capitale d'Italia, che si solleciti il governo onde questo volo venga soddisfatto.

M nessuno di essi riassume in modo preciso le idee esposte dall'interpellante ed accolto ministero francamente, all'infuori di quello dell'onorevole Boncompagni.

L'ordine del giorno Boncompagni è una risposta all'interpellanza Audinot. Il deputato Audinot chiedeva i principii del governo rispetto alla questione romana. A questo io risposi precisamente come l'ordine del giorno Boncompagni.

Dissi che Roma doveva essere capitale d'Italia e proclamata immediatamente. L'onorevole Chiaves trovò la dichiarazione inopportuna e troppo esplicita, e credette necessario interpellarmi sul modo che avrei eseguito questo progetto.

Egli disse che ragioni di prudenza avrebbero dovuto consigliare a promuovere l'annessione di Roma all'Italia, non per farla capitale immediatamente, ma per amore di giustizia.

Se noi non potessimo valerci di questo argomento, che senza che Roma sia unita all'Italia non può l'Italia avere assetto definitivo, non si otterrebbe il consenso del mondo cattolico.

Supponete che la sede del cattolicismo fosse in una città collocata ai confini della penisola senza una grande memoria storica, come Aquileia se fosse risorta. Credete che vi sarebbe facile ottenere il consenso dello potenze cattoliche alla soppressione del dominio temporale in quell'estremo lembo d'Italia? No, o signori. Si trarrebbero in campo parecchie ragioni per negarcelo; ci si direbbe che l'interesse italiano non deve prevalere sull'inte

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Roma, come tale, è una condizione del buon esito dello pratiche che il governo deve fare per giungere allo scioglimento della questione romana.

Dice l'onorevole Chiaves che sarebbe pericoloso di trasportar immediatamente la capitale a Roma. Dovrei supporre che egli volesse intendere questo differimento sino alla educazione del popolo romano.

Io certamente non intendo vincolare il ministero al modo ed al tempo, non intendo che la Camera, acclamando Roma capitalo d'Italia, si vincoli all'obbligo di andar subito a sedere in non so qual Palazzo di Roma (Risa J.

Ciò dovrà esser oggetto di voto del Parlamento. Non è facoltà del potere esecutivo. Allora il deputato Chiaves potrà addurre i suoi argomenti e suggerire e proporre quei temperamenti che crederà più necessarii.

La questione della capitale essendo sollevata mi trovo in obbligo di aggiungere solo argomento, argomento ad absurdum come lo dicono i matematici. Per dimostrare le conseguenze funeste differire il trasferimento della capitale io suppongo Roma unita all'Italia. Non posso a meno di prevedere che in allora quando la questione fosse tenuta in sospeso, l'Italia tutta sarebbe in uno stato d'agitazione e di lotta. E se in questo stato accadesse che all'occasione della riunione del Parlamento i 200 deputati dell'Italia meridionale si trovassero uniti nell'antica metropoli del mondo, invece che dirigersi a Torino, non potrebbe supporsi che una forza irresistibile impedisca loro ad allontanarsi di là e di continuare il cammino?

Senza rendere malagevole l'ultima fase del risorgimento italiano, senza pericolo pol governo io spero che l'onorevole Chiaves si convincerà che quanto più presto si potrà farlo, sarà sempre meglio. Sin qui l'ordine del giorno Buoncompagni mi pare preferibile; ma ora cominciano le difficoltà.

Io dissi qual era il sistema del governo per sciogliere la

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Per lo stato attuale delle coso come si trattano gli affari oggidì, i dispacci ufficiali spargono poca luce o nessuna, hanno perduto molto del loro valore, consistono nel riassumere dei fatti più o meno compiuti (risa). Una volta quando dovevano comunicarsi dopo la morte di chi li scriveva, venivano pubblicati con tutti quei mezzi dei quali l'arsenale della diplomazia può disporre. I dispacci pubblici al giorno d'oggi, sono né più né meno, quello che viene scritto nei giornali (risa).

Ma se il ministero non vi ha propalato lo stato delle negoziazioni, vi disse però la condotta che vuole tenere.

(Ripete in breve gli argomenti da esso addotti nel suo discorso dell'altro ieri).

Mi pare che quando diremo al Santo Padre; suvvia, rinunciato al dominio temporale e noi vi daremo tutta quella libertà, che vi assicureranno il pieno dominio dell'autorità spirituale, tutto quello che non vi dettero sinora le potenze cattoliche, che per voi manifestavano il profondo rispetto, ve lo daremo noi, perché noi vogliamo: libera chiesa in libero stato. Vi si propongono riforme che voi non potete fare; alle proposte opponete una resistenza e fate bene; voi non potete imporre celibato coattivo ad soldato di 26 anni nella pienezza di sua gioventù; non potete sanzionare la libertà religiosa, la libertà dell'insegnamento.

A me pare essere impossibile che queste proposte fatte lealmente, non vengano accolte. Che queste nostre proposte non siano sincere, non può essere posto in dubbio. Sin dall'anno 50 io recisamente proclamai questi principii, quando si trattava d'incamerare i beni del clero e fare clero salariato, ed io mi vi opposi.

Noi vogliamo la libertà economica amministrativa, tutte Ir

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Spero che queste mio dichiarazioni avranno soddisfatto l'onorevole deputato Boggio, egli che fu autore del libro: Della Chiesa, e dello Stato.

Queste idee non tarderanno ad essere accolte, ora che anche per l'intelletto si adoprerà la locomotiva intellettuale, ed allora non ci sarà difficile accordarci colla Francia.

Comunque sia, o signori, è chiaro che a raggiungere questo scopo è necessario che il governo sia rivestito di tutta la forza possibile, e mi permetterà di fare appello a tutti gli autori degli ordini del giorno, perché si vogliano unire a quello dell'onorevole Boncompagni. Se, come credo, gli altri ordini del giorno non si discostano nei punti principali, votate l'ordine che vi fu sottoposto; e con ciò ci sarà dato di conseguire in avvenire non tanto lontano la riconciliazione del Papa e dell'impero e lo spirito di libertà col sentimento religioso. (Applausi prolungati)

Macchi Prendendo atto che il ministero accetta la petizione, ritiro il mio ordine del giorno (Bene)

Ricciardi. Domando lettura dell'ordine del giorno Boncompagni.

Presidente lo legge:

«La Camera, udite le dichiarazioni del ministero, confidando che, assicurata l'indipendenza, la dignità e il decoro del Pontefice, e la piena libertà della Chiesa abbia luogo di concerto colla Francia l'applicazione del principio del nonintervento, o che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, i sia resa all'Italia, passa all'ordine del giorno.»

Leggo anche aggiunta che il deputato Regnoli vorrebbe fare al suo ordine del giorno: che Boma sia resa all'Italia, che l'acclama sua capitale.

Cavour. Per carità, onorevole deputato Regnoli, non fate questioni di parole in argomento così importante.

Ricciardi ritira il suo. Tutti gli altri ne seguono l'esempio.

Mellana dice essere impolitico contemplare nell'ordine del giorno la sola Francia, invece che tutte le altre potenze.

Le parole del conte di Cavour non possono esser tali da convincere il mondo cattolico.

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É una cosa irrisoria agli uomini che fremono e che piangono, il dire che si andrà a Roma quando sarà convertita la curia romana ed i 200 milioni di cattolici. (Rumori prolungati)

Audinot Noi domandiamo all'orbe cattolico che ci si aprano le porte della nostra gran Roma e l'Italia anche una volta avrà acquistato il primato morale del mondo.

Ferrari. Il signor ministro Minghetti ha proposto una legge per organizzare il regno; adesso il sig. ministro degli affari esteri ci domanda una proclamazione territoriale. E un ordine del giorno, è vero; ma quando noi saremo per organizzare il regno... (Lunghi rumori, scampanellate)

Del resto ha voluto proporre questi schiarimenti

Rinuncio alle spiegazioni che voleva dare al signor Bertolami e rettifico una parola detta dal sig. presidente del Consiglio. Dice egli che io lo ho rimproverato di aver cospirato. Non ho mai rimproverato alcuno, dacché sono al mondo, di aver cospira!o contro il papa, l'Imperatore o così via.

Cavour (ministro) Io non amo, ha detto. Così sta stampato.

Ferrari. Del resto non faccio rimprovero al sig. conte di Cavour ed a Giuseppe Mazzini di avere cospirato (Rita prolungate) Dopo che saranno discusse le cose di Napoli, o forse cose maggiori, mi permetterà il signor conte di Cavour di dirgli allora, che esso ha giudicato molto superficialmente le mie espressioni.

Il presidente legge nuovamente l'ordino del giorno Boncompagni, che posto ai voti viene ammesso ad una quasi unanimità.

La seduta è levata alle ore 5 1/2 pom.

Abbiamo creduto di dovere riprodurre per intiero questi dibattimenti, in cui s'agitava la questiono più difficile e più interessante, che l'Italia avrà da risolvere per arrivare alla costituzione della sua unità: né sarebbe stato possibile di recarne la vera fisionomia con un semplice estratto.

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CAPO VII.

SOMMARlO

I. IL GOVERNO FRANCESE INVITA IL GABINETTO DI TOSINO A SOSPENDERE LA SOLUZIONE DELLA QUESTIONE ROMANA RISPOSTA DEL SIGNOR DI CAVOUR

ATTITUDINE MINACCIOSA DELL'AUSTRIA IN FACCIA ALL'ITALIA - PROTESTE DEI DUCHI DI TOSCANA, E DI MODENA, E DELLA DUCHESSA DI PARMA - NOTA DEL CONTE DI BECHBERG LETTERA DEL PRINCIPE L. MURAT, DISAPPROVATA DALL'IMPERATORE NAPOLEONE III - PROVVEDIMENTI MILITARI PRESI DAL GOVERNO ITALIANO PER L'ATTITUDINE MINACCIOSA DELL'AUSTRIA: - III. GARIBALDI LASCIA CAPRERA, E GIUNGE A TORINO NEL MOMENTO CHE SI DISCUTEVA NEL PARLAMENTO LA SITUAZIONE DELLE PROVINCIE MERIDIONALI DIVERSI ORDINI DEL GIORNO PROPOSTI IN QUESTA DISCUSSIONE III. GARIBALDI SI PRESENTA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI E VI PRESTA GIURAMENTO SUA LETTERA AL PRESIDENTE DI QUESTA ASSEMBLEA DECRETO DEL GOVERNO ITALIANO SUI VOLONTARI DELL'ARMATA MERIDIONALE PROPOSIZIONE DI GARIBALDI PER L'ARMAMENTO GENERALE DELLA NAZIONE DIFFICOLTÀ ECONOMICHE ESTRATTO DEL PREVENTIVO - NOTA DELLE SPESE DI GUERRA DAL 1859 AL 1861 - DISCUSSIONE PARLAMENTARE DELLA PROPOSTA DI GARIBALDI DIBATTIMENTI CLAMOROSI - LETTERA DEL GENERAL CIALDINI RISPOSTE DI GARIBALDI E DEL GENERAL SIRTORI A QUESTA LETTERA RIVOLTA DI UNA PORZIONE DEI VOLONTARI IN GUARNIGIONE A MONDOVÌ GARIBALDI FA DOMANDARE UN ABBOCCAMENTO AL SIG. DI CAVOUR - RICONCILIAZIONE DI GARIBALDI CON CAVOUR E IL GENERAL CIALDINI - IV. QUESTIONE ROMANA PORTATA INNANZI AL SENATO ITALIANO - INTERPELLANZE DEL SENATORE VACCA

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- RISPOSTA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO - ORDINE DEL GIORNO DEL SANATORE MATTEUCCI - IL MINISTRO DELL'INTERNO MINGHETTI PROPONE AL SENATO L'ISTITUZIONE D'UNA NUOVA FESTA NAZIONALE - V. DOPO I DIBATTIMENTI DELLA QUISTIONE ROMANA, IL GOVERNO PONTIFICIO PROTESTA CONTRO IL TITOLO DI RE D'ITALIA CONFERITO A VITTORIO EMANUELE DAI RAPPRESENTANTI DELLA NAZIONE ~ NOTA DEL CARDINALI ANTONELLI - I DEPUTATI DELLE PROVINCIE MERIDIONALI SI RIUNISCONO PER INVITARE IL GOVERNO ITALIANO A PROTESTARE CONTRO LA CORTE ROMANA - IL PARTITO LIBERALE S'AGITA A ROMA IL PARTITO BORBONICO UNITO A QUELLO DEI LEGGITIMISTI VI STABILISCE DUE COMITATI - IL CONTE DI LIMMBNGE, ZUAVO DEL PAPA, E' ASSASSINATO SULLA PIAZZA DI COLONNA TRAIANA.

VII.

Appena la discussione sulla quistione romana era terminata nel parlamento italiano, che il governo francese in faccia all'opposizione manifestatasi nel senato e nel corpo legislativo relativamente alla sua politica su questa medesima questione, indirizzò delle osservazioni al gabinetto di Torino per fargli comprendere che una soluzione immediata avrebbe per sua natura complicato gli avvenimenti, e che d'altronde esso l'esortava a porla per ora da parte. Il conte di Cavour rispose tosto, che riconoscendo tuttavia l'importanza delle manifestazioni avute nelle camere francesi, egli non poteva cessar di temere in Roma qualche movimento popolare, che il corpo d'occupazione si troverebbe forse nella necessità di comprimere versando sangue italiano; che da altra parte egli stimava conveniente all'interesse e all'onor della Francia, che l'imperatore ritirasse immediatamente da Roma le sue truppe.

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Appena giunse a Parigi cotale comunicazione, si riunì il consiglio dei ministri e, dopo lungo dibattere, si deliberò di aderire a coteste dimande, impartendo immediatamente al tempo stesso gli ordini necessari al ministro della guerra perché effettuasse lo sgombro,

In questo mentre soppraggiunse un nuovo fatto che fece mutare consiglio.

L'imperatore Napoleone ricevette una lettura autografa di Francesco Giuseppe, nella quale, protestando contro la condotta del gabinetto, di Torino in Italia, contro gli armamenti che il medesimo va facendo, contro infine l'andamento delle cose della Penisola, dichiarava che l'Austria non poteva più oltre tollerarlo, e che: ove facesse mestieri, punto non esiterebbe ad affrontare i pericoli di una guerra per mettervi riparo.

A fronte di siffatte dichiarazioni il governo francese non solo credette cosa prudente ed opportuna sospendere il richiamo del presidio di Roma, ma pensò eziandio a mandarvi un rinforzo. Taluni asserivano che si davano disposizioni per mandare a Roma il generale Trochu con una nuova divisione, richiamando al tempo stesso il generale Govon.

Il nuovo atteggiamento dell'Austria e le sue istanze presso il governo francese vengono riconosciute e confermate dal seguente brano di corrispondenza parigina pubblicata da un giornale di Torino.

«L'Austria si dà gran moto ed il principe di Metternich ha dei frequenti colloqui con Napoleone III. Il gabinetto di Vienna vorrebbe impedire con tutti i mezzi che il Papa fosse affidato alla custodia degli Italiani. Se noi siamo bene informati l'Austria sarebbe venuta al punto di temere che, quando si vedesse perduta ogni speranza nel sostegno della Francia, anche la corte di Roma finisse a mostrare qualche tendenza ai sentimenti italiani. L'Austria, che spera nell'avvenire, sarebbe disposta ad una invasione armata nelle Romagne per impedire che Roma venga occupata dalle armate italiane,»

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Anche una corrispondenza di Parigi all'Italie accennava questi fatti.

Viene in appoggio dei particolari, che abbiamo testé riportati la coincidenza a quest'epoca della nota del conte di Rechberg in data del 27 Aprile, con le proteste dei principi decaduti, alleati dell'Austria, contro la proclamazione del regno d'Italia. La Gazzetta d'Augusta riportò in data del 26 e 30 Marzo le lettere seguenti dell'arciduca Francesco di Lorena d'Este, del duca di Toscana, o quella di Parma. Eccone il testo:

«Il Re di Sardegna, essendosi fatto dare il titolo di Re d'Italia da un'assemblea composta in gran parte di sudditi ribelli ai loro legittimi sovrani, ha messo il suggello alla lunga serie di atti di usurpazione, contro i quali protestammo già in data 14 maggio e 22 giugno 1859, non che in data 22 marzo 1860.

«Questo nuovo oltraggio, fatto alle sovranità legittime in Italia. e per conseguenza anche alla nostra, ci impone il dovere di nuovamente ed altamente protestare per la conservazione di diritti che nessun atto estraneo al voler nostro potrebbe mai pregiudicare od indebolire.

L'Europa vorrà rammentarsi che quegli, il quale conculca sì indegnamente ed opprime lo Stato, che ereditammo dai nostri maggiori, è lo stesso sovrano, che mantenuto sul suo vacillante trono dal generoso vincitore di Novara, raddoppiò d" allora in poi le mene rivoluzionarie, non solo contro di esso ma ben anche contro tutti gli altri governi d'Italia, con cui simulava d'altronde le più amichevoli relazioni.

«Incapace dapprima d'intraprendere conquiste, non fu che coll'aiuto d'un'armata straniera, da esso attirata in Italia, ed a cui devesi interamente il successo, ch'egli poté impadronirsi dei paesi ai quali agognava da tanto tempo. Eravi fra questi il nostro Stato, che perduta la propria autonomia, divenne d'allora in poi una provincia semplicemente contribuente agli oneri sempre crescenti di imposte e debito pubblico; e non conobbe oltre a ciò i dominatori attuali, che per le vessazioni, le perquisizioni domiciliari, gli arresti arbitrarii, i sequestri dei beni e le raddoppiate coscrizioni militari.

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«E se tuttociò non bastasse ancora a qualificare il governo, che si è imposto al nostro Stato, rammenteremo che esso è medesimo, che, in mezzo alla riprovazione generale degli uomini onesti, procedendo di sorpresa nella invasione delle Marche e dell'Umbria, sopraffece i pochi ma prodi soldati accorsi dai diversi paesi cattolici in aiuto del Sommo Pontefice; è quello stesso governo, che, dando mano ad una banda di facinorosi di ogni nazione, che stava già per soccombere, irruppe slealmente nello stato del nobile e valoroso re delle Due Sicilie.

» I feroci proclami, le crudeltà inaudite, commesse in regno, contro quanti, per sentimenti di fedeltà al loro legittimo sovrano rifiutarono di sottomettersi all'usurpatore, sono fatti di incontestabile notorietà.

» A tante nequizie non va disgiunto il più perfido sistema, tendente ad abbattere la religione ed a corrompere la pubblica morale: sistema, sotto il quale, non meno che gli altri popoli di Italia, gemono i nostri sudditi, che si distinsero sempre nella grande loro maggioranza, per ossequio alla fede cattolica, e per attaccamento al loro legittimo sovrano.

«Profondamente dolenti di tale stato di cose, sentiamo l'obbligo in noi di alzare di bel nuovo, anche in nome di questa stessa maggioranza, la nostra voce contro il recente atto del Re Vittorio Emanuele, commesso in opposizione diretta a tutti i principi i di onestà ed a tutti i trattati internazionali comprensivamente a quello di Zurigo; e facciamo nuovo appello alle potenze amiche, le quali, vogliamo essere certi, finiranno col vendicare tante ingiustizie.

«Conscii finalmente della validità dei nostri diritti sullo Stato

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Vienna, 30 marzo 1861.

FRANCESCO m. p.

«Dresda 26 marzo.

«Da due anni il Piemonte ha proseguito in Italia la sua opera sovversiva, non dando addietro in faccia a cosa alcuna e servendosi a vicenda dell'intrigo e della forza.

«Calpestando i più sacri diritti, dimenticando il rispetto dovuto alla maestà del Pontefice, mettendo in pericolo gli augusti interessi del cattolicismo, disprezzando i legami di parentela; ricompensando il tradimento, portando la guerra negli Stati vicini senza averla dichiarata, e senza aspettare che spirassero le fissate dilazioni pel corso delle trattative diplomatiche, rendendosi complice di una aggressione privata disapprovata prima della esecuzione, ma glorificata tostochè vi era da trarre profitto del suo risultato, il Piemonte ha espulsi i principi legittimi, ed attenta all'integrità dei loro dominii...

«La proclamazione del regno d'Italia sanziona per ogni Stato della penisola la distruzione dell'autonomia individuale, indispensabile al benessere reale ed alla tranquillità dell'Italia.

«Fondata sulle antiche abitudini, sulla profonda differenza dei caratteri, sulla diversità degl'interessi locali, e finalmente sulle belle ed antiche tradizioni che fanno la gloria dell'Italia, questa

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«La proclamazione del regno d'Italia rovescia tutta la politica organizzazione della penisola, essa viola i diritti delle dinastie legittime, distrugge nello stesso tempo i trattati fondamentali, ai quali hanno preso parte tutte le potenze d'Europa; finalmente è una flagrante contraddizione dei trattati di Villafranca, i quali confermati trattato di Zurigo col concorso del Re di Sardegna, dovevano formar la base del nuovo diritto pubblico italiano.

Nell'interesse dei diritti imprescrittibili della nostra dinastia, nell'interesse della nostra prediletta Toscana e dell'Italia intiera, e riferendoci alle anteriori proteste del nostro amato padre e nostre, ci crediamo oggi in dovere di protestare e protestiamo nel modo più solenne contro questo nuovo atto del governo del re Vittorio Emanuele.

Noi abbiamo ferma fiducia che le potenze europee, molte delle quali hanno dato a più riprese pubbliche prove di disapprovazione al governo piemontese, non riconosceranno titolo che è l'espressione dell'ordine di cose illegittimo che prevale in questo momento in Italia.

Firmato FERDINANDO

Noi Luigia Maria di Borbone reggente degli Stati di Parma per il duca Roberto I.

Colle nostre dichiarazioni datate da San Gallo il 20 giugno 1859 e da Zurigo il 28 marzo 1860 abbiamo protestato contro l'usurpazione degli Stati del nostro amatissimo figlio il duca Roberto I, usurpazione commessa governo di S. M. il re di Sardegna e che si voleva far credere provocata libero voto delle popolazioni. Cotesta usurpazione essendosi estesa a quasi tutta la penisola, il Ro di Sardegna ha assunto il titolo di re d'Italia.

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Contro quest'ultimo atto che conferma tutte le usurpazioni compiute, nel breve spazio di due anni, a detrimento dei sovrani legittimi d'Italia, e che ha nuovamente leso tutti i diritti sovrani di nostro figlio principe italiano, noi abbiamo il dovere di protestare, siccome protestiamo solennemente, facendo così nuovo appello ai sentimenti di giustizia delle potenze amiche le quali certamente non possono vedere con occhio indifferente gli oltraggi ripetuti alla fede dei trattati.

Del castello di Wartegg, in Svizzera questo di 10 aprile 1861.

Firmata LUIGIA.

Diamo frattanto la nota del conte di Rechberg

I giornali hanno riprodotto, in questi ultimi tempi, dispaccio diretto conte Cavour al march. D' Azeglio, in data del 16 marzo 1861.

Quantunque la pubblicazione di cui si tratta non abbia avoto sino al presente, se non m' inganno, alcun carattere ufficiale, essa ha nondimeno attirata la nostra attenzione, e ci sarebbe difficile di lasciar passare interamente sotto silenzio tutte le asserzioni contenute in questo documento,

Io non mi occuperò di discutere qui lo apprezzazioni del conte Cavour sulla situazione attuale dei paesi sottomessi oggidì al dominio piemontese. Il carattere e gli effetti di questo dominio, le manifestazioni e gli avvenimenti d'ogni sorta che precedettero o tennero dietro alle annessioni, sono fatti ch'entrano nel dominio della storia. Spetta alla medesima di giudicare il lor valore e noi non vogliamo usurpare questi diritti. Ci basterà pel momento di notare come i disordini e le sanguinose repressioni di cui l'Italia meridionale è ciascun giorno il teatro, formino rilevante contrasto coi brillanti colori del quadro tracciato conte Cavour.

Ma ciò che importa di rilevar qui, sono passi del dispaccio


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Quanto agli altri rimproveri diretti all'amministrazione austriaca in Venezia, io non posso che riferirmi a' miei dispacci anteriori su questo proposito. Essi hanno già messo da lungo tempo a disposizione di V. E. materiali sufficienti perché voi possiate, sig. Conte, rettificare le impressioni erronee che furono sparse nel pubblico, e riversare su chi di diritto lu risponsabilità d'uno stato di cose che pone ostacolo all'attuazione completa delle generose intenzioni dell'imperatore, nostro augusto signore.

Noi ci dispenseremo dunque dall'enumerare una volta di più tutte le difficoltà che ci sono suscitate di fuori, tutte le mene provocatrici dei comitati che si organizzano e che funzionano sotto gli occhi del governo piemontese; in una parola tutti i maneggi colpevoli che si adoperano per paralizzare e per rendere impossibile ogni azione conciliante, per eccitare e per mantenere il fermento nelle popolazioni, rappresentandole in seguito come gementi sotto giogo intollerabile. Se i sudditi italiani dell'Imperatore non profittano interamente dei beneficj accordati alle altre parti dell'Impero, bisogna attribuir ciò agli effetti di tali istigazioni perpetue venute di fuori.

Noi siamo sorpresi, del resto, che il conte di Cavour continui ad affettare tanta considerazione per sedicenti vittime del reggime militare, mentre il governo piemontese non indietreggia dinanzi ad alcuno dei rigori di questo regime che i suoi agenti applicano così rigorosamente nell'Italia meridionale. Il rimbombo delle fucilate negli Abruzzi avrebbe potuto, ci pare, coprire a

desso a Torino i gridi di dolore di cui facevasi, non ha guari, tanto chiasso.

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Ma l'ultima lagnanza che il conto di Cavour eleva contro di noi è quella che mi pare fra tutte la più strana. Se, per far uso delle espressioni stesse del conte di Cavour, la posizione che il trattato di Zurigo aveva stabilita tra il governo dell'Imperatore e quello del re Vittorio Emanuele si trova ora sensibilmente modificata, se questa posizione è anormale, difficile e pericolosa, di chi è la colpa?

Se il re Vittorio Emanuele sottoscrisse i preliminari di Villafranca, e se, prima che questi avessero avuto il tempo di essere convertiti in un trattato di pace definitivo, gli atti del Pie monte erano in formale contraddizione colle stipolazioni che si era impegnato a rispettare; se finalmente, in seguito di questi stessi atti, più di un articolo dal trattato di Zurigo, accettato dal Piemonte, rimase quale lettera morta, su chi deve ricadere la risponsabilità dalle conseguenze?

Se è un torto agli occhi di Cavour di avere per sè dei diritti riconosciuti, dei diritti incontestabili, se è un torto d'avere costantemente fatto prova di moderazione e d'un amore sincero per la pace limitandosi ad opporre riserve e proteste alle più flagranti violazioni del diritto, allora dobbiamo riconoscere di avere effettivamente dei torti dei quali non sapremmo scolparci.

Sarebbe qui troppo lungo esaminare a parte a parte tutti gli atti del Piemonte ed opporre i suoi torti a quelli che c'imputi. Mi contenterò dunque di aggiungere che possiamo appellarcene senza timore al giudizio d'ogni spirito imparziale e chiedere altamente, se sono atti dell'Austria quelli che dopo la pace di Zurigo hanno insanguinato l'Italia e minacciato permanentemente la tranquillità dell'Europa.

Tali sono, signor conte, i riflessi, che ho creduto doverli comunicare. l'invito a volerne far uso presso lord J. Russell, quando avrete occasione d'intertenervi con essolui sugli affari d'Italia.

Gradite ecc.

Conte DI RECHEBERG.

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A quest'epoca stessa, il principe Luciano Murai scriveva la lettera seguente, che noi pubblichiamo come documento storico, ed è estratto dal constituzionel.

Castello di Butenval, 27 marzo 1864.

Caro Duca,

Incerto è più che mai lo stato delle coso nostre, né potrebbe prolungarsi. Le passioni contrarie, onde l'Italia è combattuta, stanno per irrompere; e mi si annunzia che verso me rivolgonsi le speranze e i voti del Regno delle Due Sicilie. Giova adunque che a voi e a tutti coloro che in me confidano sia manifesto l'animo mio.

Dichiarai più volte, e segnatamente in sul primo compiersi delle annessioni, che non sarei mai d'ostacolo alla unità italiana; e tenni la promessa. Ma questa unità può diversamente intendersi ed effettuarsi; v'è l'unità federale idonea al moto storico e all'indole d'Italia; v'è l'unità accentrata, surta dal moto e dalla utopia delle crescenti cospirazioni. I modi dirò anzi le arti, che si adoperarono per effettuare quest'ultima, mi furono indizio, fino dall'anno scorso, dello svanir probabile della mal tentata impresa.

Era più facile ordinare associazioni politiche, perché secondassero i moti apparecchiati, era più facile vincere due o tre battaglie, ordire sottili accorgimenti, adescare l'inopia o le facili coscienze, volgere contro governi meritamente esosi, l'odio universale, che decapitare il Regno delle Due Sicilie, far Napoli città di provincia, invadere Roma, senza curarsi delle ragioni di Stato e delle forze morali che difendono il papato, e armare un milione di militi per battere l'Austria, per tenere in rispetto la Francia custode di Roma, e con la Francia le monarchie d'Europa minacciate dovunque da ribellioni.

Non sappiamo se l intimo concetto del Piemonte mirasse dapprima a far di tutta Italia un solo regno, senza tener conto di tante difficoltà.

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Degl'intendimenti del Piemonte spesso insospettirono i più celebrati promotori della unificazione, ma il dì che egli piantò il suo vessillo nel corpo d'Italia si trovò sul pendio delle più arrischiate imprese; ed oggi lo incalza alle spalle l'improvvido fanatismo pronto a dargli l'estremo impulso.

Quel cieco fanatismo grida oggi agli uomini che governano l'Italia: «innanzi! entriamo in Roma; poi ci ritroveremo contro l'Austria, e se meglio v'aggrada, prima s'assalga l'Austria, e quindi si pensi a Roma., Così parla un fanatismo inteso a sommovere tutti i popoli per averli complici ed alleati.

Cederà il Piemonte a questo fatale impulso? S'ei cede, se l'opera della unificazione lo spinge in nuovo conflitto con l'Austria, si raccenderà la guerra civile nel Regno delle Due Sicilie. Il Piemonte avrà l'esercito austriaco a fronte e l'autonomia napoletana a tergo. Minacciata sarà in pari tempo l'indipendenza nazionale dalle armi austriache e la libertà dai furori della parte Borbonica; - libertà, indipendenza potrebbero soccombere 0 ricadere sotto l'alta giurisdizione delle grandi potenze.

Comprendo che al cospetto di tali possibili calamità risplenda, secondo mi scrivete, come raggio di speranza, la rimembranza del padre mio. Finché durerà la terra vostra vivrà caro e venerato il nome di Gioacchino Napoleone. Ed io, figlio suo, mi terrei onorato dai pericoli e dalle fatiche onde grave sarebbe l'uffizio di succedergli, per voto del popolo, in sì malagevoli congiunture.

Tanto ufficio assumerei per iniziare un'epoca d'operosa elaborazione politica e civile sì necessaria all'Italia, e per gittar i fondamenti d'un edifizio che non vacillasse come l'edifizio delle annessioni perché retto a puntelli. Non mette radici in pochi mesi la grandezza degli Stati: la mirabile potenza dello impero francese è frutto maturato da molti secoli d'opera sociale.

Siccome non volli fare inciampo alla unificazione italiana, così non consentirei che altri facesse inciampo ai disegni del nostro regno vincolandoci ad imprese seducenti, ma rovinose. Custodirei, come tesoro, la vostra indipendenza,

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e con un Parlamento dividerei la parte più preziosa del regio uffizio, quella cioè di promuovere l'attività sociale, i commerci, i grandi lavori, le arti, le scienze, ogni elemento d'educazione e di progresso nazionale.

La norma fondamentale del mio procedere sarebbe tutta contraria a quella degli uomini che agitano l'Italia. Costoro sovrapposero al popolo italiano confraternite di congiurati i cui moti si connettono agli sforzi di tutte le rivoluzioni europee. Noi vorremmo invece che sparisse questa artificiale aristocrazia di cospiratori che a suo beneplacito di tutto dispone; aspireremmo alla amicizia, non già di quei cosmopolitici agitatori che vagheggiano la ricostitiuzione territoriale di Europa, ma sì all'amicizia di ogni governo d'indole conservatrice e progressiva.

Coi popoli d'Italia non vorremmo solamente l'amicizia, ma la fratellanza ordinata in forma di federazione, che sola può operare la nostra politica trasformazione. Vorremmo essere in Italia pegno, in Europa elemento di quella conciliazione universale che invocano popoli e governi pensosi degl'immensi pericoli di procelloso avvenire.

Aggradite, caro Duca, l'espressione della particolare mia stima.

LUCIANO MURAT

Dobbiamo aggiungere che il governo francese fa assai mal contento di questa manifestazione delle pretese del principe Murat siccome troviamo nella Gazzetta di Torino la seguente lettera che sarebbe stata scritta dall'Imperatore Napoleone III al principe Luciano Murat:

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Mio cugino,

«Col pubblicare nei giornali una lettera la quale è offesa alla memoria di vostro padre ed alla politica del mio governo voi avete posto in obblìo quanto dovete a me, e come parente, e come sovrano, e quanto dovete a voi medesimo come senatore, come francese.

«Io ho deciso, dopo aver udito il mio consiglio di famiglia, che voi abbiate a fare all'estero viaggio, di cui fisso provvisoriamente la durata a sei mesi.

«Tale essendo lo scopo della presente, io prego Dio, mio Cugino, che vi tenga in sua salvaguardia.

«NAPOLEONE.

Tutti questi richiami alle simpatie dei vecchi partiti, queste proteste dei principi decaduti avevano luogo in quella che da sua parte l'Austria sembrava apparecchiarsi a grandi avvenimenti militari. Truppe austriache avevano varcato il Po a Borgoforte, ed una considerabile concentrazione di forze si operava sul Mincio, e Mantova era il principale di questa concentrazione. La città, i forti, i villaggi del circondario riboccavano di soldati, il cui numero ammontava, giusta le relazioni, a 40000 uomini.

In questo pericolo d'aggressione il governo italiano decise di stabilire campo fra Ravenna, Bologna, e Ferrara, e di aumentare le guarnigioni di Parma e di Piacenza.

altro gran corpo trincerato doveva parimenti esser formato di là Mincio - la cittadella di Brescia fortificata - io Gne il corpo d'armata del generale Lamarmora essere portato a 60,000 uomini.

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II.

Udendo le notizie di queste manifestazioni ostili dell'Austria Garibaldi non poteva certamente rimanersi inoperoso nel suo ritiro. Gli amici l'avean finalmente deciso ad accettare una candidatura al parlamento italiano, ed egli aveva lasciato Caprera il 10 Aprile, ed era giunto a Torino l'11 verso mezzodì. Alcuni de' suoi ufficiali l'accompagnavano, e andò ad allogio nell'appartamento del deputato Missori, strada de Pescatori. attruppamento di cittadini si formò sotto le sue finestre per fargli una dimostrazione di simpatia. Il general Sirtori dopo le prime acclamazioni ringraziò la folla a nome di Garibaldi, e pregò si ritirassero atteso che il generale era indisposto, o occupato d'altra parte a conferire d'affari importanti con i suoi officiali superiori. A poco a poco la folla si disperse. Garibaldi invero pativa in momento di attacco di reumatismo ad una gamba, e di una contusione fattasi al braccio per una caduta il giorno avanti. Il giorno stesso chegli entrava a Torino, il deputato Mussolino faceva lettura in parlamento d'progetto di legge, in cui egli proponeva di conferire al generale il titolo di primo cittadino d'Italia, e di accordargli a nome della nazione una pensione annuale di 150000 lire. Il parlamento era allora occupato per le interpellanze dirette al ministero intorno alla situazione delle provincie meridionali. La questione dei volontari di Garibaldi dovea ben presto venir fuori e dare occasione ad una gran tempesta, siccome vedremo.

Noi non entreremo nei particolari di questa lunga questione, nella quale si manifestarono dei rancori, ed animosità personali, ma ne faremo sunto, ed ecco primamente i diversi ordini del giorno che furono proposti alla camera:

De Blasiis propone prima di tutto la chiusura della discussione, quindi il seguente ordine del giorno:

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«La Camera confida che il ministero riordinerà l'amministrazione delle provincie meridionali in modo che possa regolarne T ordinamento ed esserne effettivamente responsabile, ed invitandolo a faro che l'autorità delle leggi e del governo in quelle provincie sia raffermato, la sicurezza pubblica guarentita, ed aumentato il benessere delle popolazioni col promuoverne i pubblici lavori, passa all'ordine del giorno.

Pres. Do lettura di altri tre ordini del giorno.

«La Camera confidando che il governo del Re prenderà i provvedimenti più atti ad accelerare l'unificazione amministratila delle provincie napolitane e siciliane e ad assicurare efficacemente la pubblica sicurezza e la piena osservazione della legge, passa all'ordine del giorno.»

Fabrizi

Carlo Alfieri

Michele

Bertolami

Camillo Corraceiolo

Tommasi

Oldofredi

Massari

Boncompagni

Raeli

Paternostro

Baldacchini.

«La camera, vista la condiziono delle provincie meridionali dell'Italia, invita il governo ad usare ogni legale provvedimento che possa dar termine al disordine ed allo scontento, attuando una politica, la quale, mentre tende all'unificazione della patria, eviti ogni mezzo che abbia sembianza di coazione, reintegri la giustizia e soddisfi pienamente i legittimi voti delle popolazioni.«

NICELLI.

- 489 -

«La Camera persuasa che i ministri del Re vorranno senza indugio far opera di riordinare il governo delle Due Sicilie, ponendo ogni cura perché non sia lasciato ai poteri locali di Napoli e di Palermo se non sola quella parte della pubblica amministrazione che si riferisce all'ordinario andamento degli affari, ovvero abbisogni di provvedimenti d'urgenza quasi istantanea, passa all'ordine del giorno.,.

LEOPARDI.

» La Camera, desiderando di vedere al più presto compiuto l'ordinamento delle provincie meridionali, nomina una

commissione scelta nel suo seno onde studiare la condizione di «quelle terre, e proporre provvedimento.»

FERRARI

La Camera, soddisfatta delle spiegazioni date ministero nelle interpellanze mosse sovra le condizioni dell'ex-reame di Napoli e della Sicilia, ed insistendo sopra la pronta applicazione «delle misure governo promesse, passa all'ordine del giorno.

PANTALEONI

SACCHI

MARLIANI

PEPOLI

BORGATTI.

«La Camera, invitando il ministero a presentare al Parlamento, per essere discusse ed approvate, secondo le forme

costituzionali, tutte le leggi organiche, e non di stretta urgenza pubblicate in Sicilia dalla Luogotenenza, e tutti gli ulteriori mutamenti organici che potrebbero riguardarla, passa all'ordine del giorno.

AMARI

- 490 -

«La Camera prende atto delle dichiarazioni del ministero intese a stabilire che col riordinamento dell'amministrazione nelle provincie meridionali ei proponga di diventare veramente risponsabile;

ed invitandolo a presentare al Parlamento tutti gli atti legislativi promulgati in quelle provincie dai governi dittatoriali e dallo luogotenenze,

perché possano essere esaminati, passa all'ordine del giorno.

CASTELLANO

Questi ordini del giorno furono discussi durante lo spazio di tre sedute, alla quarta il deputato Torrearsa ne propose un altro concepito in questi termini:

«La camera persuasa delle spiegazioni del ministero, e contando sulla esatta osservanza delle leggi nelle provincie napolitane, e siciliane, passa all'ordine del giorno.

Finalmente alla seduta del 6 Aprile il deputato Mamiani prese la parola por respingere la proposizione di Torrearsa, e propose una nuova soluzione della questione in questi termini:

Ventisette deputati, tra' quali io stesso presentammo il seguente ordine del giorno, in modificazione a quello di Torrearsa del quale dò lettura alla Camera;

«La Camera, ritenute le spiegazioni date dal ministero, contando sulla esatta osservanza delle leggi, confidando che Mio piglierà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa delle provincie napolitano e siciliane, ed insistendo sulla pronta ed efficace pubblicazione delle misure dal governo promesse circa la sicurezza pubblica ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno. «

- 491 -

Quindi volge le idee in detto ordine esposte.

Minghetti. Quando ieri mi sono dichiarato per l'ordine del giorno del march. Torrearsa, non ho potuto a meno di non accettarne anche qualche altro. Ed ora dichiaro di accettare le modificazioni proposte dall'on. Mamiani, intendendo l'aggiunta: unificazione amministrativa, subordinatamente al progetto che ho presentato per l'organizzazione amministrativa dello Stato.

Torrearsa. Io accetto intero il programma del ministero, del Parlamento. A che dire che il mio ordine del giorno è incompleto? Ogni rimedio è una modificazione di forma. Che cosa si dice al ministero? Tutelate la pubblica sicurezza: ma questo è il mio concetto ed il ministero deve tutelarla.

Pres. leggo l'ordine del giorno Mamiani.

Mellana. Dichiaro di votare l'ordine del giorno di Torre Arsa (ilarità) colle modificazioni proposte dall'on. Mamiani.

Massari dichiara di votare per l'ordine del giorno Mamiani.

Lo si mette questo ai voti in due volto, una sino al punto in cui si ripetono le espressioni dell'ordine del marchese Torrearsa e l'altra sino alla fine. Viene approvato a grande maggioranza.







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