Eleaml


RAFFAELE COTUGNO
Tra Reazioni e Rivoluzioni
Contributo alla storia dei Borboni di Napoli dal 1849 al 1860
M. & R. FRATTAROLO EDITORI
LUCERA
INDICE (2)
Tra Reazioni e Rivoluzioni di Raffaele Cotugno (1)
Tra Reazioni e Rivoluzioni di Raffaele Cotugno (2)
Scarica il testo in formato ODT o PDF

118

Come fu soppressa l'indipendenza della Magistratura
Organizzazione delle Corti Speciali

Una delle cure più gravi ed assidue del Governo fu quella di piegare ai suoi voleri la magistratura, mercé il cui favore la stessa legge doveva diventare un istrumento docile ed ubbidiente per distruggere quella pace, quella libertà e quella sicurezza personale a protegger le quali essa è chiamata.

Il timorato Longobardi, col pretesto di purgarla dagli elementi sovversivi che si erano insinuati nelle passate perturbazioni e che non meritavano la confidenza del Governo, istituiva nell'ottobre 1849 severe indagini intorno alla condotta morale e politica di tutti i magistrati del regno. Molti furono i colpiti che il mal talento del ministro, sorretto dal parere della polizia e dall'approvazione del Re, sagrificò alla cieca vendetta di parte ed al calcolo delle più vili utilità. Eppure Ferdinando II in un suo proclama dell'otto novembre 1830 aveva scritto queste memorabili parole:

«Non potendovi essere nel mondo alcuna ben ordinata società, senza una retta ed imparziale amministrazione della giustizia, cosi sarà questa lo scopo al quale rivolgeremo le nostre più attente sollecitudini.

119

Noi vogliamo che i nostri Tribunali siano. tanti santuari i quali non devono essere mai profanati dagl'intrighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono eguali, e procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia».

Quante volte queste parole furono ripetute da quei magistrati che le dovevano, poi, vilmente tradire; da quel Re, che fini per far libito licito in sua legge!

I Protocolli della Grazia e Giustizia fanno di ciò amplissima fede.

Fra le prime vittime ricordiamo i Consiglieri Innocenzo De Cesare e Liberantonio Sannia, colpevoli di avere in un giudizio contro l'Indipendente sostenuto, non certo per ispirito di parte, che la legge sulla stampa, emanata senza il concorso delle due Camere, fosse incostituzionale. Giambattista Albarella, del pari, fu rimosso dall'ufficio, benché poverissimo, perché, esercitando la funzione di Pubblico Ministero, si stimò in dovere di procedere giudiziariamente contro un ufficiale che, senza processo, aveva fatto fucilare due calabresi. Il giudice De Clemente fu mandato a casa perché, fungendo da istruttore nel processo per la uccisione del deputato Costabile Carducci, ebbe l'ardimento di cercare la verità e di sollevare il velo che nascondeva la macchinazione dell'assassinio.Rosario Giura, per avere opposto delle osservazioni ad un rescritto del re, il quale ordinava, contro legge, che un accusato fosse dispensato dal costituirsi in carcere, fu punito e costretto a dimettersi. Giuseppe Aurelio Lauria, figlio del celebre avvocato, il giudice Capo mazza, figlio di Emilio, di spartana virtù e fermezza, il giudice Francesco Santacroce, perché sospettati di professare idee liberali, Antonio Maria Lanzilli, Procuratore Generale, per la sua imparzialità, soggiacquero alla stessa sorte. Giuseppe Oliva di Mancluria, presidente della G. C. C.

120

di Principato Citeriore veniva collocato in aspettativa perché le sue parole, a dire del maresciallo Palma, governatore di quella regione, e la sua patria dicevano abbastanza. Il che dimostra come la mentalità dei borbonici e dello stesso re fosse giunta per fino a designare delle zone, delle città i cui abitanti, per il solo fatto di esservi nati, acquistavano titolo e qualità di sovversivi.

Per gli stessi motivi di attendibilità politica venivano rimossi dall'Ufficio il Procuratore Generale Scura, il Procuratore del Re Alianelli, il Presidente Fiore, il Giudice della Corte Criminale di Avellino, Saliceti, questi anche in odio ai suoi vincoli di sangue con Aurelio e Giambattista Pica, perché padre di Giuseppe. Giovanni Rossi per essersi opposto alla prepotenza del Duca di Bovino, che reclamava severe condanne contro 1400 cittadini che avevano osato invadere le terre del potente feudatario, legato in affinità col principe di Satriano, generai Filangieri, venne, senz'altro, espulso. Il Giudice Rocco fu destituito perché, nella esplosione di giubilo per le ottenute franchigie, aveva scritto versi di questa fatta:Sorgi disse il Vicario del cieloSorgi Italia dal lungo dolore,Ma ritorna del Santo VangeloCo' tuo figli le leggi a seguir Maledetto chi brama la vitaSotto il peso di un giogo nefandoDifendiamo la patria col brandoE per essa giuriamo morir. Ma le più atroci vendette furono consumate sui collegi giudiziari di Napoli. Dodici componenti della Corte Criminale furono ad un tratto eliminati perché, a giudizio del Governo, non erano quali esso li desiderava, preparati a tutto, pronti ad ogni comando. Gli espulsi furono; il PresidenteColosimo, 121

il vice Presidente Neri, il Giura, dianzi cennato, il Procuratore Generale De Roratiis, Gregorio Morelli, Chiga, Iandolo, Ciarelli, Quarto, Matteo, de Andrea e Conzo.E perché la Corte Suprema modificasse la sua giurisprudenza, che aveva proclamato nel giro di un anno in dieci suoi arresti la incostituzionalità delle Corti speciali, furono ritirati dall'Ufficio i Consiglieri Vignali, Ferrigni, Abatemarco e Coco, antichi magistrati, esempio di dottrina, d'integrità e di civile temperanza.Non sempre le proposte del Longobardi venivano dal Re integralmente accolte. D. Raffaele Mercurio, liberale del 20, nel 48 riprendeva la pubblicazione del giornale l'Eco del Popolo, sostenendovi idee sovversive. Egli veniva di ciò accusato, nonché di aver fatto affiggere il 21 aprile 48 in Chieti un manifesto sedizioso.

In difformità del ministro che proponeva la messa del Mercurio in attesa di destino il Re lo mandava a riposo. Merita di essere ricordato il caso occorso a D. Cesare Crispo. Tipo audace di profittatore, improvvisatosi ardente patriota e liberale, da impiegato subalterno nell'ufficio di Polizia dell'Intendente di Catanzaro, era riuscito a farsi nominare Giudice criminale. A dimostrare il suo entusiasmo pel nuovo regime e mosso dalla sua mala abitudine di fornicar con le Muse, mandava per le stampe un'ode ai Siciliani, in cui s'inneggiava alla libertà con versi di questa fatta:Quattro lustri o poco meno I dinasti ella gridavaLa tirannide soffriva; I dinasti a terra a terraQuattro lustri nel suo seno Ed intanto proclamavaSeppe l'odio soffocar. L'assoluta libertà.Ma le pene onde languiva Essa ai troni intima guerraAl suo sire or fa scontar. Essa il mondo cangerà. 122

Mutati i tempi, il Crispo scrisse un'altra ode pel felice ritorno del re col Pontefice da Gaeta (Nap. Stab. Tip. Nobile 1848). Andava innanzi una prefazione, in cui, con parole ampollose, è significato lo sdegno ed il disgusto del poeta per quegl'insensati. che avevano scatenato il disordine e l'anarchia e tutta la riconoscenza per il Re che seppe col suo alto senno far rivivere l'impero delle leggi, solo sostrato di ogni civil comunanza. E tali concettuzzi torna a ripetere in versi, come questi:Intera or si respiraNel tuo bel regno imperturbata paceE in te ciascuno ammiraIl genio tutelar, l'angiol veraceChe tutto al bene intentoUn'idra orrenda «Ercol novello hai spento». Sire gioisci e il fruttoGodi tranquillo della tua grand'opraTutto era orrore, e tuttoLe umane sorti rivolgea sossopra:Or tutto volge al beneE si rompon per te ceppi e catene. Portata la questione ad esame, il re, giustamente irritato lo metteva in attesa di destino «perché l'ufficio del Giudice richiedeva fermezza di carattere e coscienza sotto tutti i rapporti incontaminata». A sua discolpa il Crispo inventò una storiella che non fece che peggiorare la sua condizione. Egli disse che aveva sempre lodato il re, ma che, noto per qualche merito letterario nel tempo dei passati disordini, troppo da lui biasimati, fu costretto da una potente persona a scrivere un'ode sulle diverse Costituzioni politiche. A ciò addivenne suo malgrado, dopo aver lottato fra il sentimento di devozione al re ed il timore di perdere la vita, ove si fosse negato, ovvero di veder distrutta la sua famiglia.

123

Quei sentimenti non aveva più confermato ciò che lo aveva esposto ad odi e persecuzioni. L'ode al re, poi, la scrisse, agitato dal rimorso. Questo poetastro, che i suoi versi raccolse in un volume, ormai coverto da nero oblio, avrebbe meritato la sorte di Marsia. La sua miseria fa vergogna e disdegno! Le proposte talvolta partivano direttamente dal re il quale era solito, abbassandosi al livello d'un qualsiasi poliziotto, dar corso ad ogni denunzia e comunque pervenutagli. Per cui l'anonimo, fulminato dalle leggi e dalla coscienza morale di tutti i tempi, diventò Tarma più terribile imbrandita contro l'innocenza, la base di molti iniqui processi. Cosi D. Domenico Pistilli, giudice di Manduria, era messo in ritiro perché, come annotava Longobardi, «in una carta passatami per ordine di S. M. si dice che egli è l'intimo ed il protettore di tutti i capi settari ed il persecutore dei realisti; che sparlò contro il governo quando fu sciolta la Camera dei deputati, che mette a parte i faziosi degli uffici riservati che gli pervengono; che mercé i di lui favorevoli informi i demagoghi vengono prescelti alle cariche municipali».

In fondo non si tratta, salvo numerate eccezioni, di eroi, ma di gente colpita per aver creduto alla stabilità del nuovo regime costituzionale ed inneggiato al re che aveva ripetute volte affermato di essersi posto di sua libera volontà per le vie nuove.

In queste esplosioni d'allegrezza e d'entusiasmo, che nei primi giorni assunsero forme inverosimili e paradossali non venne mai meno quel sentimento di cortigianeria e d'ossequio verso le superiori autorità, sentimento che aveva formato il fulcro di tutta la vita burocratica del regno, dove da tempo si ricevevano e trasmettevano, non già ordini e pareri, ma oracoli venerati in nome del Re Dio Guardi. Se, per fermo, la libertà ebbe i suoi cantori, di più esaltati e numerosi n'ebbe Ferdinando a cui nessuna lode fu risparmiata.

124

Nel suo viaggio in Calabria, fra le tante epigrafi, una se ne ammirava a Catanzaro, che tutte le altre vinceva in esaltare le virtù dell'invitto, clemente beneficentissimo Principe. Essa diceva:Sei grande sei pio, sei padre, sei re,La fama, la gloria, non muore per te. I cortigiani di tutti i tempi si rassomigliano!

Col ritorno dell'assolutismo nulla si poté sottrarre all'azione del Governo diretta a cancellare fino il ricordo della breve vita costituzionale. E mentre se ne abolivano i simulacri e le insegne, coloro che più se n'erano mostrati entusiasti e che avevano perciò meritato di essere iscritti nei libri della polizia, vere tavole di proscrizione, con la qualifica infamante di effervescenti, o venivano dichiarati attendibili e sottoposti a vigilanza, o espulsi dal regno, o gittati nelle carceri, come fu dei reduci dalla difesa di Venezia, o, se funzionari, messi a riposo o destituiti. Questi criteri coi quali la reazione annunzio la sua presa di possesso dello Stato e che applicò rapidamente contro tutti gl'impiegati non esclusi i professori dell'università di Napoli, di cui ben quattordici furono in una sol volta licenziati, nei confronti della Magistratura miravano, come dianzi si è detto, a farla pronta ed ubbidiente ad ogni più scellerato comando. Contro le inique decisioni i colpiti avevano solamente la via aperta del ricorso al re, dal quale, non di rado, ottenevano, a prezzo di tutte le viltà, la modifica o la revoca del provvedimento.

Così il De Horatis che aveva al suo attivo là requisitoria pronunziata nel processo pei fatti del 15 maggio, a purgarsi dell'accusa d'aver favorito col, suo voto un giornale liberale, ed a dimostrare la sua devozione al trono, richiamava tutto il suo passato di persecutore dei demagoghi, non solo, ma ricordava i molti giornali che, dopo la riforma della legge sulla stampa del Marzo 1849 aveva sottoposto ai rigori della giustizia.

125

E, tra i tanti, i procedimenti da lui promossi contro lo «Charivari des Deux Siciles», il Mondo Vecchio ed il Mondo Nuovo, il Telegrafo, la Libertà, l'Unità, che restarono sospesi, e soggetti ad istruzione; contro l'Indipendente che cambiò sette volte il titolo; contro il Lampo, la Giovane Italia, la Costituzione e la Libertà Italiana che fu soppressa. Un vero macello! E fu perdonato.

Seminata cosi la corruzione ed il terrore, dal tragico sfondo di tutte le brutture e di tutte le falsità, tra birri e testimoni di Stato, si adersero le anime tremebonde e servili di Domenicantonio Navarra e Niccolo Morelli, la tragicomica figura del Procuratore Generale Filippo Angelillo, sicari e carnefici in toga, resi ancora più spietati dal loro attaccamento all'assolutismo che credevano consolidare con le inique sentenze, le figure bieche dei giudici, loro complici che, scampati alla strage, coscienza, onore, tutto avevano immolato al brutto mostro della male intesa necessità politica e del personale tornaconto.

Del Navarra scrisse Giuseppe Massari narrandone la vita e le immarcescibili gesta. Di lui diremo anche noi quel tanto che basti ad illustrare questo tipo obbliquo di profittatore, dei tanti che nelle ore oscure dei cittadini sommovimenti si vedono balzare a galla dai bassi fondi, farsi avanti ed imporsi. Tutte le rivoluzioni hanno avuto ed avranno il loro Navarra.

«Egli, scrive il Nazionale, si ricordò che il processo del 15 maggio, dimenticato da un anno e mezzo, poteva assai più comodamente convertirsi in unica voragine, nella quale potessero farsi cadere tutti quei deputati che perder si volessero, perché quasi tutti avevano in quel giorno fatale seduto nella riunione preparatoria di Monte Oliveto, e sciolta allora la Camera, la nazione li aveva ancora nuovamente rieletti. E Navarra si costituì istruttorie di questo processo, che era già compilato, ma che egli

126

pretese rifar da capo, estendendone le file per tutta la superficie del regno contro tutti gl'individui, i cui nomi si davano segnati in occulte tremende liste di proscrizione. Egli involge nella sua istruzione i de putati, li fa trovare sulle barricate, crea fatti che in un anno e mezzo né pur erano mai stati da alcuno ventilati; e tutto ciò con l'opera d'alcune spie mercenarie della polizia, pagate ed istrutte per mentire».

Di questa prostituzione della giustizia al potere politico mi è dato fornire, estratta dall'Archivio di Napoli, una prova decisiva.

Prima di iniziarsi il dibattimento per la causa degli avvenimenti del 15 maggio 1848, il Navarrà scriveva al famigerato Peccbeneda, sua guida e signore, queste tre lettere:

I - «Presidente Navarra; Gennaro Lastaria; Angelo Canofari; Raffaele Giambarba; Pasquali le Amato; Pietro Ciceri; Michele Vitale; Domenico Juliani; Salvatore Mandarini.«Nella causa di recente giudicata vi sarebbe stata parità, cioè assoluzione in quanto alle quistioni di fatto se per l'incidente della indisposizione del giudice Amato non fosse subentrato Morelli. Nella causa del 15 maggio vi sarebbe luogo anche a parità, come osservasi nel notamento tra i primi otto giudici che entrano di diritto nella votazione, qualora non si provvedesse al rimpiazzo almeno di due fra i segnati».

A pie di questa lettera si legge:

«Conferenza del 15 settembre 1851 in Portici.«Letta e restituita facendone oggetto di breve discussione con altri ministri presenti».

II. - «La causa del 15 maggio per avere felice risultato ha bisogno di Giudici forti, non timidi, non deferenti; la causa avrà buon esito se non


vai su


127

s'intralcia con l'ammissione delle posizioni a difesa, impertinenti e dilatorie, le quali, se non si ammettono con prudenza e condotta, oltreché sarà rovesciata, sarà portata all'eternità. Gli avvocati ed i patrocinatori, che non hanno prestato giuramento, secondo l'ultima formula, non dovrebbero esercitare la professione, perché questi non lasceranno di pennellare e di arringare secondo il loro giuramento costituzionale. Essendosi interdetto lo accesso al Ministro del proprio carico ed anche evitato di scrivergli direttamente, se non se per organo del Pubblico Ministero, considerato qual Giudice del Circondario, non c'è altro mezzo di tutto far conoscere alla Maestà del Re, che Dio guardi, dovendosi, però, indicare il mezzo per farle pervenire le suppliche».

III. - «Nella discussione dell'accusa della causa dei criminosi avvenimenti del 15 maggio 1848 furono dalla maggioranza di tre giudici posti fuori e accusa il fu deputato Giovanni Avossa, Andrea Zir ed altri i quali avevano preso parte attiva in quegli avvenimenti e questi furono i Giudici Lastaria, Giambarba ed Amato.«In sostegno dell'accusa furono il Consigliere Presidente Navarra ed il Giudice Canofari. Gli e stessi cinque Giudici debbono decidere sull'ammissione o sul rigetto delle posizioni a discolpa se pertinenti od impertinenti. Questa decisione forma il perno della causa e la base dei fatti in pubblica discussione in ammettere o rigettare ciò che sia stravagante e non convenevole alla dignità sovrana. Gli accusati nei loro costituti, e nelle loro memorie già addussero dei fatti da non abbracciarsi; non furono accolti per allora. Si riservarono presentarli nel termine a difesa, e li riprodurranno senza dubbio. Se si ammettono, oltre dello scandolo, la decisione che ne verrà, potrà essere il risultato di questa ammissione. Per essenziale dovere si fa tutto conoscere».

128

Da queste lettere, che noi pubblichiamo per la prima volta, balza il disegno prestabilito del Governo, di giungere, con qualunque mezzo, alla condanna ed all'annientamento di coloro che, a suo tutt'altro che spassionato avviso, risultavano convinti di aver capeggiato nelle passate rivolture il movimento liberale, o di volere tuttavia il rispetto dei diritti quesiti, la garentia e la stabilità delle legali franchigie. D'altronde una mentalità infantile, barbarica informò sempre la condotta e l'opera del Borbone, il cui semplicismo lo aveva fatto persuaso che per abbattere un'idea bisognava sopprimere chi quella idea professasse. Nel che convennero sempre gli adoratori della violenza, senza accorgersi che il pensiero è indistruttibile e ch'esso soltanto prepara e feconda le rivoluzioni.

In queste lettere, inoltre, è trattato con cinismo ributtante, il programma, che poi fu scrupolosamente eseguito, di quella immane beffa che avrebbe dovuto essere il pubblico dibattimento, tra le cui maglie i dritti della giustizia, non solo, ma quelli dell'umanità furono annientati.

Il Navarrà, istrumento docile e vile, emulo degno di Vanni, Speciale e Guidobaldi; che invocava l'esecuzione di tutte le condanne capitali, allo scopo di «purgare per due generazioni il paese dalla semente rivoluzionaria»; che non rifuggiva dalla denunzia contro i suoi colleghi, esponendoli, cosi, alle ire ed alle vendette del Governo, stette pallido e tremante in cospetto del famigerato Peccheneda che, deità potente e temuta, ne guidò dall'ombra il consiglio e la mano. Ciò oltre che dai documenti innanzi citati, è provato dalla lettera seguente, con la quale Navarra il 15 Gennaio 1852 inviava al Peccheneda il voluminoso riassunto della causa per gli avvenimenti del 15 maggio da lui scritto con

129

cosi raffinata malizia da non far trapelare il suo ri: posto pensiero e letto alla Corte, all'inizio del pubblico dibattimento. Eccola:Veneratissimo mio signor Commendatore, In esecuzione di quanto le promisi, le acchiudo il mio rapporto fatto nella causa dei criminosi avvenimenti del 15 maggio 1848 ef spero, che incontrasse il suo compatimento, non essendomi stato altro a cuore, che l'esposizione dei veri fatti sorgenti dal processo (!) e l'alta divozione al Re. (N. S. D. C.) (1)

Né basta! Essendosi egli ammalato «di febbre gastrica biliosa, di cancrena secca al dito mignolo e di mancanza di circolazione nelle arterie tibiale e poplitea della gamba sinistra» e temendo, per quel che se ne diceva, di essere sostituito nella Presidenza da altro magistrato, il 14 marzo 1852 si rivolgeva al Peccheneda perché intervenisse in suo favore.

«Tutto ciò, egli scriveva, ho stimato passarlo a sua conoscenza, perché è il mio Mecenate, e conosco quanto mi ha confidato sul mio conto e dalla sua bontà ed amicizia, m'attendo solo ogni bene, pregandola farne parola a S. M. che è giusto e sa ricompensare (è il solito ritornello!) chi merita, onde non fosse sorpreso chi forse ama la mia umiliazione». Nei Navarra il procacciantismo e la servilità erano tradizionali. (2) Questi soggiacque al male

(1)

Fasc. 1138, Vol. II par. 2.

(2)

Un Domenicandrea Navarro, magistrato anche lui, dal letto di morte, dopo di essersi munito di tutti i Sacramenti e prima di dare l'anima al Signore, ricordando al Re e dal Peccheneda il suo fedele servire, li supplicava a voler proteggere il figlio, Giuseppe, ed il nipote, Saverio, nato da una figlia del Presidente Navarra.

130

che lo minacciava e per la sua immensa devozione all'Augusto Sovrano e Signore si ebbe funerali solenni (1). La Polizia ne dava notizia al Peccheneda con questo rapporto del 21 aprile 1852.

«Fu grandiosa la pompa funebre dei Consigliere Navarra. Vi concorsero in toga i Magistrati di «tutti i Collegi della Capitale, una immensa sequela di avvocati e dipendenti dell'ordine giudiziario vestiti a bruno ed un nobile accompagnamento dell'Arciconfraternita dei Pellegrini.

«Prima di muovere il funebre corteo fu recitato un breve discorso dal Giudice D. Nicola Morelli, che, con eloquenza non comune, lodò le virtù dell'estinto ed in ispecie la di lui fede al trono, risplendenti in maggior guisa per la malvagia conversione dei tempi. Il cadavere fu trasportato nella Chiesa dei Pellegrini sempre accompagnato e seguito dal medesimo corteo».

Il Re cui fu data notizia dell'avvenimento in Caserta faceva annotare in margine al rapporto: Inteso con soddisfazione, e nominava il figlio del leale servitore Ricevitore negli Abruzzi.

Gli succedette il Giudice Niccolo Morelli, degno emulo del Navarra, che lo aveva già additato alla considerazione del Governo nella prima delle tre lettere innanzi cennate.

In un foglio dal titolo: N. 1 Saggio degli uomini illustri, si dava di lui questo profilo abbastanza lusinghiero:

«Nel 1828, come spia d'Intoni, fu nominato giudice del Circondario di Aquila, allora misero tanto che per partire tolse ad imprestito ducati centottanta che non ha mai restituito.

(1)

Min. di Poi. Inc. 1138, Vol. 2. par. 3. anno 1848 a 1852 (fase. 119).

131

Nel 1830 spia per gli affari di falerno. Per segnalati servizi fu promosso a Giudice del Tribunale civile di Potenza, ove meritò maggiormente la benevolenza di Del Carretto; nel 1831 fu incaricato della istruzione di diversi processi del Distretto di Monteleone; indi divenuto troppo caro al detto ministro fu traslocato nel distretto di Piedimonte d'Alife, e poi a Foggia. Nel 1835 fu promosso Giudice della gran Corte Criminale di Chieti. In seguito fu nominato regio Procuratore presso il Tribunale Civile di Catanzaro, dove da spia di Del Carretto, esercitò bene la sua professione. Nella fine del 1838 fu traslocato nel Tribunale Civile di Avellino, e, dopo di aver disimpegnato altri servizi per otto mesi, fu promosso a Procuratore Generale presso la Gran Corte Criminale di Girgenti. Scacciato da quella residenza, perché conosciuto spia di Del Carretto e per molti intrighi, mercé i favori di Del Carretto e Code, fu traslocato nel 1845 presso la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro. Ai suoi servizi si deve la morte dei fratelli Bandiera. Le diverse cariche e servizi prestati lo han messo già nella circostanza di fare grandiosi acquisti fermando la fortuna».

Il Morelli si difese con una scrittura (I calunniatori smascherati) in cui le sue preclari qualità di giudice e di letterato venivano con documenti avvalorate; ma l'iniqua sentenza pronunziata nella causa del 15 maggio mostrò come il suo biografo non si fosse opposto al vero, nonostante, a placare i rimorsi della sua coscienza, scrivesse i famosi versi coi quali invitava il Re a perdonare, a mostrarsi.

Il Monarca maggior dei tempi nostri! Terzo tra cotanto senno, l'Angelillo gareggiò con i suoi eccelsi Colleghi in ferocia e viltà,

132

nulla operando che il Peccheneda noti avesse prima conosciuto o consigliato. Difensore in regime costituzionale dei reazionarii, li aveva protetti aiutandoli a sottrarsi al rigore della giustizia punitrice. Ciò, dopo la vittoria dei realisti, gli era valso di titolo per maggiori più rapidi ascensi. Il rifiuto di parecchi magistrati, tra i quali il Falcone, il Janigro ed il Colosimo, dopo che fu proclamato lo stato d'assedio in Napoli, a farla da inquisitori sugli avvenimenti del 15 maggio, lo rese arbitro dell'onore e della vita dei cittadini, beni supremi per i quali mostrò di non avere alcun rispetto. Retore tronfio e contorto il suo atto d'accusa nel processo per gli Avvenimenti del 15 maggio fu prima dei costituti degl'imputati pubblicato sul Tempo, organo della reazione imperante, e poscia raccolto in opuscolo e distribuito agl'Intendenti per preoccupare, prima della discussione della causa, la pubblica opinione e disporla contro gli accusati. Giuseppe Ricciardi in una lettera, tuttavia inedita, indirizzata il 26 agosto 1851 da Tours alla sorella, scriveva:

«Ho letto in un giornale di Torino alquanti brani dell'atto di accusa. Menzogne sopra menzogne; ti bastino queste due. IL venerando Cagnazzi, nonagenario, è rappresentato come principal promotore della fatale sommossa dei 15 maggio; e il Massari, ch'era in Milano in tal giorno, è annoverato fra i Deputati presenti in Napoli. Io non conosco se non pochissimi fra i 46 imputati, contro i quali il signor Angelillo ha la bontà d'invocare la pena di Morte. Ma certo potrei giurare essere eglino affatto innocenti, massime poi Barbarisi, Scialoia, Leopardi, Spaventa ed Avossa. Leopardi, come sai bene, era assente da Napoli; cioè Ministro di Re Ferdinando presso Re Carlo Alberto.

Son curiosissimo ora di vedere la parte che l'egregio Angelillo mi fa recitare nel tristissimo dramma».

133

Non dovette penar molto per sapere che la parte assegnatagli gli doveva fruttare, in contumacia, la pena di morte col terzo grado di pubblico esempio, cioè, piedi nudi, cartellone in petto, velo nero e laccio sulle forche, E con lui si dannavano allo stesso supplizio Zuppetta, Lacecilia, Saliceti, Mazziotti, Massari, Tupputi, Lanza, Ruggiero ed altri valorosi ed intemerati patrioti. Presiedeva la Corte il Cav. Columbo.

L'odio e la passione traspirano da tutte le parole dell'indegno magistrato che, se si profonde in isperticati elogi ed in manifestazioni di vilissimo ossequio al beneficente clementissimo Sovrano che «nel cammin di quattro lustri l'avito Suo Trono aveva di tutte le Regali virtù ingemmato» si scaglia, cieco di mal repressa rabbia, contro l'opera detta subdola demagogia, autrice della infame cospirazione, contro la infernale, fraudolenta, concitatrice stampa; contro gli accusati che gratifica di tutto il suo disprezzo qualificandoli destri operatori di macchinazioni, ingordi di sedizioni.All'Angelillo rispondeva dal fondo dei carcere, Luigi Settembrini con un opuscolo di 35 pagine intitolato: Difesa di Luigi Settembrini, scritta per gli uomini di buon senso, dedicata alla G. C. Criminale di Napoli. In esso si dimostrava come il delitto per cui si voleva mandare alla forca l'autore, era un mero trovato della polizia; e che tutto il processo compilato a carico dei 42 imputati politici non aveva altro fondamento che i sogni e le millanterie dei due illusi denunzianti (Giordano e Sessa) postillati, ricamati e incorniciati dalla polizia. Ma la miseria del su lodato Procuratore Generale apparve in tutta la sua volgarità quando Giuseppe Massari con la verbosa infiorettata requisitoria e con la sentenza di sottoposizione ad accusa resa dalla Gran Corte criminale, pubblicò, preceduta da una sua mirabile introduzione, i Costituti di Pietro Leopardi, Antonio Scialoia, Giuseppe Pica, Silvio Spaventa,

134

Lorenzo Iacovelli e Saverio Barbarisi. (Il Governo di Napoli e gli accusati nel capo per gli avvenimenti politici del 15 maggio 1848. Torino De Lorenzo).Un altro colpo decisivo fu del pari inferto al mal connesso edificio dell'accusa. Pasquale Stanislao Mancini, che nel 15 maggio aveva dettato in Monteoliveto, sotto il divampare della guerra civile, la fiera protesta dei 64 Deputati contro la violenza borbonica, ciò che l'aveva costretto a fuggire e ripararsi a Torino, sorretto dal parere di quarantuno magistrati e pubblicisti subalpini, tra i più noti e valorosi, dimostrava nel suo Voto per la verità: che i Deputati dovevano essere giudicati a norma dell'articolo 48 dello Statuto costituzionale Napoletano, dalla Camera dei Pari, costituita in Alta Corte di Giustizia; che il Ministro Scialoia non poteva essere posto in istato di accusa che dalla Camera e giudicato dall'Alta Corte; che le Corti speciali le quali giudicavano senza appello, da Tribunali mietitori, dovevano ritenersi abolite dallo Statuto, mentre l'azione penale doveva dichiararsi estinta per amnistia; che l'istruttoria era inficiata di nullità per molteplici ed insanabili violazioni di legge. {Atti e documenti del processo di Maestà per gli avvenimenti del 15 Maggio 1848 in Napoli con una consultazione di magistrati e pubblicisti italiani sopra le questioni legali e costituzionali della causa. Torino 1851 F. de Lorenzo).L'autorità dei nomi e la dignità e la bontà dell'opera portarono un grande contributo a quel processo di chiarificazione che ormai, fra tante menzogne, si andava affermando.

Ma tutto ciò non valse a distogliere la Corte da quel programma di iniquità, che, secondo le idee esposte già nelle precitate lettere del Navarra, doveva portare automaticamente alla soppressione di ogni prova a difesa «contro le artificiose esagerazioni, le false assertive e le avventate e denigranti insinuazioni che formavano il testo dell'accusa,

135

In una lettera del 14 maggio 1850, dalla Vicaria, Carlo Poerio scriveva, fra l'altro, a Paolo Emilio Imbriani: «Non ti parlo del mio affare ed, a dir vero, poco potrei dirtene, poiché poco ne so. In tutta questa faccenda regna un mistero che ricorda il Fehra G. Richete ed il Consiglio dei Dieci. I nostri discarichi si esaminano a porte chiuse. Il Procuratore Generale irrevocabilmente dichiara tutte le nostre posizioni non pertinenti; senza motivazione alcuna. Quindi tre Giudici sopra cinque, costantemente rigettano le posizioni, adottando le considerazioni del P. M. In questo modo si sono discussi fin'ora 40 discarichi. Restiamo. solo Nisco ed io. Nisco sarà spacciato domani: io il 15 maggio anniversario di un giorno troppo funesto. Aggiungi che questa mane, avendo Pironti rimesso una sua memoria manoscritta in sostegno delle eccezioni, il Giudice Birelli, antico domestico di piazza, ha detto, in presenza dell'avvocato, che questo era inutile, poiché egli non leggeva scritti di rei di Stato».

Con quale animo e con quale fiducia gl'imputati si preparassero al giudizio è detto in quest'altra lettera scritta dal Poerio nell'istesso giorno al Generale Maggiore Raffaele Poerio a Torino: «Pare, egli scriveva, che la pubblica discussione della nostra causa avrà principio fra pochi giorni, e che ogni difesa sarà strozzata... Né le codarde persecuzioni né la bestiale ferocia che anela il mio sangue vale a scrollare le mie vecchie convinzioni. Io sono immutabile nella mia temperanza, poiché i forti convincimenti sono calmi e mansueti. Ma nella mfa temperanza sfido le ire della fortuna e la malvagia rabbia degli uomini con costanza invincibile». Eroi di tal fatta erano ben degni d'iniziare la gloriosa epopea del nostro patrio risorgimento.

Il Governo, dopo aver provveduto con giudici simiglianti alla composizione della Corte speciale, si tenne con essa in continuo contatto a mezzo di de'

13

voti e sperimentati funzionari di Polizia i quali di ciascuna udienza redigevano accurati rapporti che Longobardi sottoponeva al re per gli opportuni provvedimenti. Sono quei rapporti una ricca miniera di dati e di fatti più che mai utili a lumeggiare l'ambiente in cui, sotto la violenza delle più irrefrenabili passioni, si veniva svolgendo l'implacabile duello che, in certi momenti, assunse le proporzioni e l'aspetto di quelle tragedie della storia che, confondendo tutti i calcoli della umana prudenza, nel loro improvviso accentuarsi, annunziano prossime e fatali le benefiche risoluzioni. Dello zelo con cui i funzionari di Polizia adempirono al delicato ufficio, n'è prova un rapporto del Commissario delegato Raffaele Orsini del 9 ottobre 1852 a Peccheneda in cui è scritto:

«Non posso restarmi di far conoscere a V. S. che durante la pubblica discussione della causa politica del 15 maggio 1848 gl'Ispettori Sig. Iannuzzi e de Cristofaro destinati ad assistervi, con tutta accortezza alacrità e zelo hanno adempito a tal disimpegno sino alla emanata decisione. Aggiungo per Iannuzzi, che giornalmente con la massima energia è. stato intento a riunire tutte le particolarità del giudizio per i diversi rapporti indiritti alla E. V. per l'oggetto, da questa Delegazione. Siffatto straordinario servizio è durato per lo spazio di circa 10 mesi e per lunghe ore del giorno, sicché i suddetti hanno di molto travagliato. Si addita perché fossero considerati». (1)

Il sistema era sempre lo stesso! Ricompense, gratificazioni, favori. Denaro cavato con tutte le arti. Ma denaro. Idealità e, su tutto, sentimento e coscienza del proprio dovere, nulla!

(1) Fascio 118 Inc. 1138 Vol. 2. p. 8.

137

I processi della Setta l'Unità d'Italia
e degli avvenimenti del 15 maggio 48

I due processi si iniziarono (quello della Setta dell'Unità d'Italia il 1. Giugno 1850 e l'altro del 15 Maggio, il 9 dicembre 1851) con due episodi d'una indicibile tristezza: la morte di Leipnecher, nel primo, quella di Luca di Samuele Cagnazzi, nel secondo (1). Se d'altre prove vi fosse stato bisogno per corroborare l'accusa scagliata da Gladstone contro l'inumanità ed il servilismo di alcuni medici, questi due episodi l'avrebbero fornita intera e decisiva. Il Leipnecher, tradotto all'udienza infermo, dichiarava ch'egli, per la febbre, non era in condizioni di tener dietro al dibattimento. Il Presidente deliberava che i cavalieri Vulpes e Manfré visitassero l'infermo e riferissero sulle di lui condizioni di salute. Al che Filippo Agresti, in tono sarcastico, osservava: «che si sarebbe potuto spedire un apposito vapore per trasportare al letto dell'ammalato tutta la facoltà medica di Montpellier». Altri accusati. facevano notare che Leipnecker era vittima dell'angustia dei carcere di Castel Capuano e che, se non si fosse provveduto, il tifo li avrebbe tutti uccisi. Al che Luigi Settembrini, volgendosi al Dono

(1)

Ministero Interno Alla Polizia Fascio 101.

138

ed a voce alta esclamava: che egli nel caso del Leipnecker, si sarebbe presentato in udienza perché al capestro, era preferibile qualunque altra specie di morte. Le commissioni dei medici si seguivano al letto dello infermo frequenti e numerose. La Corte cercava affannosamente il suo uomo che ne avesse interpetrato il pensiero riposto e la volontà. Ed ecco farsi avanti il chirurgo delle prigioni Serapione Sacchi il quale non si peritava di scrivere al Navarra (ahi! supremo insulto e vergogna) che aveva ragione a ritenere che il Leipnecker si procurasse la febbre con mezzi artificiali, irritativi, mentre con i purganti giornalieri si debilitava in guisa da dare apparenza di verità alle sue manovre. «Bisognava ottenere che l'infermo si determinasse a desistere dal giocar la parte che si era assunta». Al che sarebbe giovato la minaccia di tradurlo, dopo due o tre giorni dall'ultimo purgante, in qualunque stato si trovasse, alla pubblica discussione. Ciò che sarebbe stato senza pericolo purché non si fosse dato credito agli atti di simulazione ai quali il detenuto avrebbe potuto far ricorso. Il Dottor De Angelis esprimeva un uguale parere. Riferita la cosa al ministro Longobardi, questi eccitava Navarra a scovrire se la malattia del Leipnecker fosse simulata. Era come gittar esca sul fuoco. Richiamato il Sacchi, questi confermava il suo parere, che il delirio, cioè, dal quale il Leipnecher sembrava affetto, era simulato ed aggiungeva (cretina e malvagia insinuazione!) che le risposte adatte, ch'egli dava circa lo stato di sua salute ed i sintomi ch'egli avvertiva, gli erano stati senza alcun dubbio suggeriti da persone esperte con il fine evidente di protrarre all'infinito la decisione della causa. Una commissione di undici medici, di cui faceva parte il Sacchi, avendo riscontrato che il Leipnecher era sfebbrato, ma con leggiera irritazione nervosa couchiudevano che egli poteva assistere alla discussione purché fosse portato in una portantina e tenuto ben cautelato nella Gran Corte Criminale. 139

E così fu fatto. L'apparizione di quella pallida forma che s'inabissava nell'ombra mise il brivido e lo spavento ne' cuori più scettici e duri. Il 18 giugno l'infelice è ripreso con maggior violenza dal terribile male. I medici accorsi all'invito del Navarra dichiaravano che la malattia continuava e che non potevano dire quando e' si sarebbe guarito, essendovi pericolo di più gravi complicazioni.

Apertasi la discussione sull'incidente il P. M. conchiudeva si dovesse proseguir oltre nella causa. L'Avvocato Castriota ne domandava il rinvio. Vi aderiva il Marini Serra con ricca messe di dottrina e di giurisprudenza nostrana ed estera, sostenendo, nell'interesse di tutti gli accusati, la tesi: che l'azione criminosa essendo unica non poteva frazionarsi, scindersi in parti. La Corte ordinava proseguirsi oltre nel dibattimento e rinviava a giorno da destinarsi Tesarne dei testimoni a difesa del Leipnecher. Il 22 veniva annunziato che il Leipnecher, alle ore otto di quel giorno, era morto. Pironti, levatosi in piedi, con voce solenne e scandendo le parole esclamava:

«Della morte di Leipnecher farà giustizia Iddio vendicatore degli oppressi».

Il gesto e le commosse parole assunsero, nel religioso silenzio di tutti i presenti, il significato d'un rito e d'un vaticinio!

Cosi si spegneva uno degli uomini più coraggiosi e benemeriti della rivoluzione! Combattente nel 31 per i principi di libertà in Savoia, indi in Francia, nel Belgio, dove tentò fondare una repubblica, fu l'eroe della insurrezione del Cilento, che, affermatasi vittoriosa, più d'ogni altra causa, valse a determinare il re a concedere la Costituzione. Fatto segno ad accuse di emoli, si ebbe la non mercata solidarietà di tutti i più chiari patrioti, di Francesco Antonio Mazziotta, il quale, in una riservatissima del 5 maggio 48, al Governo, dopo aver messo in chiara luce le gesta gloriose del Generale che cosi conchiudeva:


vai su


140

«In Laurito lo sopraggiungeva la notizia del Decreto del 29 gennaio, foriero della Costituzione sovranamente largita, e sostava. Quindi il distretto ritornava nell'ordine, fatto il novello regime, il Leipnecher rientrava in Napoli più povero che ne era partito, ma ricco d'onore». (1) La povertà, premio alle durate fatiche, ecco il blasone degli uomini del mezzogiorno che ci dettero una patria!

Non dissimile la sorte s la fine dell'Arcidiacono Cavaliere Luca di Samuelo Cagnazzi. Decrepito, contava 84 anni, essendo nato in Altamura il 28 ottobre 1764, colpito da paralisi nell'Aprile 1848, mentre era a capo della Commissione di Pubblica Istruzione, sofferente di mal di petto, per cui spesso si vedeva in pericolo di vita, povero, perché privato della pensione dovutagli per avere insegnato, per 36 anni, Economia Politica nella Università di Napoli, veniva accusato non solo di aver presieduto là preliminare riunione dei deputati nella casa Municipale di Monteoliveto, ma di essersi opposto all'accettazione della sapientissima formola concordata tra Dupont, Cacace, Abatemarco ed il Re e di avere, (incredibile a dirsi!), in unione di altri congiurati, imbrandendo le armi e gridando al tradimento, imposto alle masse si fortificasse la città con barricate e si corresse alle armi.

Dopo ripetute suppliche e commoventi appelli alla clemenza sovrana, otteneva, alla. fine, di tornare da Livorno, dove s'era rifugiato, per sottrarsi ai pericoli che gli sovrastavano ed al minacciato arresto, a condizione si costituisse prigioniero, sotto la vigilanza della Polizia, nella sua casa a vico Pirozzi a Capodimonte. Imbarcatosi sul Capri, dopo ch'ebbe

(1) Ministero di polizia, incartamento 249 Vol. 6. anno 1848 (fascio 8).

139

purgato la contumacia nel lazzaretto di Posillipo, il 29 Novembre 1849 si restituì in patria. Ogni sua domanda per essere sollevato, data la sua povertà ed i molti debiti contratti, dal peso di tale odioso provvedimento, era stata respinta. I poliziotti se ne vendicavano accusandolo di tenersi a contatto con liberali di primo rango ciò che giustificava la necessità della loro permanenza e vigilanza.

Iniziatosi il giudizio, fu menato a dibattimento in condizioni di salute quanto mai deplorevoli. Colto da deliquio i sanitari dichiararono che egli poteva assistere sino alla fine dell'udienza. Ma il 13 dicembre, al riprendersi della discussione, l'ispettore Raffaele Farina inviava al Presidente della Corte questo rapporto:

«Signore, per ordine superiore in questa mattina mi sono recato in casa dell'Arcidiacono Cagnazzi onde in portantina e con i debiti riguardi l'avessi condotto alla presenza della Gran Corte per assistere alla discussione incominciata a suo carico. L'ho rinvenuto a letto infermo e talmente abbattuto in forza, che ho creduto pericoloso condurlo al Tribunale. La famiglia mi ha asserito che, avendolo visto in quello stato, l'aveva fatto confessare da un monaco della Sanità. Non ho s tralasciato d'approfondire quest'ultima circostanza dalle persone del vicinato e dalla forza pubblica destinata alla custodia del medesimo e concordemente mi hanno assicurato, che momenti prima se n'era andato il Padre Daniele della Sanità, dopo di aver ricevuto la confessione del Cagnazzi».

Il Presidente, more solito, reclutò tutta la facoltà medica (De Casati s, Manfrè, Zingarelli, Vulpes e Giordani) perché riferissero sulle condizioni di salute del Cagnazzi. Né basta, che trovandosi impedito il Manfrè, fu sostituito dal medico D. Francesco Anile, ed, a guidare l'illustre comitiva, fu prescelto il Consigliere Morelli.

142

La perizia decise che il Cagnazzi «ben poteva da casa sua essere tradotto alla pubblica discussione con le debite cautele ed i riguardi dovuti al suo stato». Cosi si andò innanzi per un pezzo, (1) finché non fu comunicato alla Corte dal Prefetto di Polizia l'ufficio che in data 27 settembre 1852 il Commissario del Quartiere Stella, Giacinto Capasso, gli aveva inviato e ch'è del tenore seguente:

«Mi affretto rassegnarle, che il noto Arcidiacono D. Luca di Samuele Cagnazzi, soggetto non solo a vigilanza, per reità politiche, ma anche detenuto in propria casa, a di cui custodia erasi addetta una guardia di Polizia di questo Quartiere (giusta l'autorevole suo foglio del 1. Dicembre 1849 pel 1. Rip. n. 22952) nella decorsa notte è passato a miglior vita».

Uomo veramente di Plutarco, aveva visto le orde del cardinal Ruffo entrare in Altamura e punirla sanguinosamente per l'eroica resistenza; dotto cultore delle discipline scientifiche e letterarie, sacerdote di costumi impeccabili ed ispirato ad alti sensi di cristiana fratellanza; stimato autore di dotti volumi, di cui si legge un numeroso elenco, mentre la vasta trama ordita da vilissimi sgherri ai suoi danni si andava svolgendo, a consolare il suo dolore si faceva a tradurre il Quadro della vita umana del filosofo Tebano, Cebete, e lo arricchiva di alcuni suoi commenti, notevoli per sana dottrina e cristiane riflessioni dai titolo: Meditazioni del Solitario dei Pirozzi. In esse egli stabiliva questi principi: Dio è sapientissimo; la potenza e sapienza infinita di Dio si manifesta dalla riproduzione degli esseri organici. Il mondo in tutte le sue parti è ordinato.

(1) Min. di Pol. Inc. 1138 Vol. 2. P. 3. Anno 1848 a 1862.

143

Il miracolo ha il suo grande valore tanto nei riguardi del mondo fisico che per lo stabilimento della Religione. Il volume fu umiliato al Re, forse nella speranza di richiamarlo ad una visione più cristiana dei doveri che incumbono a ciascuno, qual che si fosse la sua condizione sociale ed il posto, nell'esercizio della vita. Ma Ferdinando non aveva tempo per simili inezie e dalla morte di Cagnazzi si senti come sollevato da un incubo pauroso. Quella veneranda canizie esposta alla violenza di giudici e di poliziotti, alta e serena nel suo sacrificio, che si illuminava dello strazio fatto ali' innocenza, del contrasto tra la rassegnazione del martire e la crudeltà del tiranno, era per il Re, che non aveva saputo perdonare, amara rampogna e solenne condanna.

A protestare contro l'opera malefica e servile dei medici si levò il Nisco il quale, nella udienza del 23 luglio 1850, facendo eco alle parole del Carafa d'Andria che si lamentava dell'angustia del carcere in cui rimanevano stivati ed esposti a pericoli per la salute, nonché del costante rifiuto dei sanitari del carcere a visitare gl'infermi (1) soggiungeva: che egli era sofferente ed in condizioni tali da non potere assistere al dibattimento, né valeva a smentirlo il rapporto redatto dai medici in cui si diceva che egli stesse perfettamente bene e nello stato di poter uscire perché erano gli stessi che avevano fatto comparire innanzi alla Corte il Leipnecker moribondo. Ogni comento guasterebbe!

Ai resistenti veniva adoprata la forza. Avendo il medico delle prigioni, Alteo, sentenziato contro verità, che il Dono, affetto da vomito incoercibile e da febbre, non fosse ammalato, si fece ricorso dal delegato delle prigioni Casigli a' mezzi coattivi per trascinarlo alla pubblica discussione.

Ma non si venne a capo di nulla, dappoiché il Dono,

(1) Min. di fol. Inc. 1580, Vol. 6, p. 1. fase. 1 anno 1850,

144

fatto segno a cosi iniqua violenza, fu colto da convulsioni e non potè recarsi in Corte che quattr'ore dopo. Col Dono veniva trasportato in portantina il De Giovanni. Il Procurator Generale lo faceva sollevare da due facchini e distendere sulle sedie dove cadeva in isvenimento. Questi spettacoli quotidiani in cui ogni sentimento d'umanità veniva calpestato, questi dolenti, tragici cortei di moribondi tratti al cospetto di giudici senza pietà, concitavano gli animi contro il Governo e gli rendevano inimica inconciliabile la pubblica opinione del mondo civile. A trarsi dalle panie la mente fervida del Presidente Navarra proponeva al Re di modificare con la sua sovrana autorità la legge e disporre che, in caso di malattia degli accusati, la discussione proseguisse in confronto dei soli difensori, ove non istimasse miglior consiglio, sostituire la Corte con una Commissione, come era avvenuto in Austria ed in Germania, la quale, in pochi giorni, a porte chiuse, avrebbe giudicato tutte le cause di Maestà (1). Del resto, come bene osservava P. S. Leopardi, le Corti Speciali avevano trovato modo di primeggiare in guisa che ai sicari in toga molti fra gli accusati avrebbero preferito i giudici militari. Il cattivo consigliere, però, non fu dal re malvagio ascoltato!

Abbiamo avuto spesso occasione di notare quanto fosse attiva ed, in certi momenti, febbrile l'opera di difesa che il Governo, avvalendosi della stampa amica e di compiacenti scrittori, opponeva agli attacchi della parte liberale e dei nemici dell'assolutismo. Con non minore energia si diportò durante la discussione dei processi politici in cui tutta la perfìdia e rinfame macchinazione che li aveva voluti e preparati venne alla luce. Ed il sistema era il solito: di affastellar notizie false e smentite, a base

(1) Min. di Pol. Inc. 1580. Vol. 6. p. 1. Fasc. 1. Anno 1850.

145

di voci e di prove incontrollabili, per generare confusione ed impedire che la verità fosse conosciuta. In grazia e virtù di questo metodo si giunse a far pubblicare, sotto il consueto velo dell'anonimo, interviste e confidenze che gli accusati non avevano mai fatto e che, se vere, li avrebbero posti in istridente contrasto con le denunzie da essi ripetutamente in pubblico, e privato, a voce e per iscritto confermate. Antica astuzia di guerra dei partiti reazionari fondata sulla difficoltà di potere offrire una pronta e decisiva smentita alle calunnie abilmente lanciate nelle correnti della pubblica opinione. Calunniate, calunniate, qualche cosa resterà sempre. Cosi si faceva dire a Giovanni Briol che egli ed i suoi compagni di sventura non avevano motivo a lamentarsi del trattamento a cui erano sottoposti nelle carceri, mentre Leopardi e Scialoia, anch'essi detenuti per i fatti del 15 Maggio, a giudizio dell'anonimo corrispondente dell'Univers, davano l'impressione che, se erano stati colpevoli n'erano ormai pentitissimi. Le menzogne si seguivano incalzandosi. Nelle prigioni, contrariamente alle accuse spesse volte ripetute anche in pubblico dibattimento, vi era luce a dovizia e non già buio pesto. A conferma si diceva che gli accusati annotavano di proprio pugno il processo e preparavano, scrivendole, le posizioni a difesa. In quanto ai parenti, nonché impediti, erano ammessi ogni giorno a visitare i loro congiunti. Spesso incontrava di vedere Scialoia, nell'istessa camera in cui era tenuto prigione, circondato dalla sua giovane moglie e dai leggiadri suoi figliuoli. Un vero idillio! In quanto alla eccessiva durata dei processi, le esigenze degli accusati e la condiscendenza della Corte n'erano stati la causa principale. «II solo torto del Governo, scriveva l'Osservatore Romano, è stato d'aver in questa circostanza un rispetto esagerato per la legalità, e si può rimproverare alla magistratura napoletana di146 essersi attaccata d'un modo troppo servile alla lettera della legge». E facciamo grazia del resto!

* * * *

Gli accusati stettero contro i loro carnefici con un contegno eroico, a cui, come in un dramma di Shakespeare, facevano un cupo contrasto le facezie di D. Michele Viscusi. Settembrini, Nisco e Poerio, raccolti e solenni nei loro abiti neri, a definire l'indole e la natura del loro reato, eccepivano, in limine litis, che presso le altre nazioni i prevenuti politici non sedevano sulla scranna dei rei «ma in sedia distinta con le spalle rivolte al pubblico». Per le stesse ragioni Andrea Curzio protestava perché trovavasi in Castel Capuano in compagnia di malfattori detenuti di reati comuni. Rispondeva Navarra che: Ai rei della loro fatta la legge non accordava favori. E' noto come alcuni tra gli accusati, togliendo motivo dalla rinunzia del Navarra a presiedere il dibattimento nella causa degli Unitari per essere stato fatto segno, come risultava dal processo, a minacce di morte da parte della Setta, avessero contro di lui ed a mezzo degli avvocati Tofano e de Filpo, presentata domanda di ricusa. Questa domanda, nonostante fosse stata rigettata, con la condanna dei ricorrenti e degli avvocati a 100 ducati di multa (1), essi riproposero in dibattimento perché chiaro apparisse quanto fosse brutale e spaventevole la massima potersi un incolpato giudicare dalla stessa parte lesa. Silvio Spaventa irritato pel sistematico rigetto della prova offerta dai giudicabili a loro discolpa (le trenta posizioni date da Poerio furono ridotte ad una sola mentre a Settembrini furono negati tutti i testimoni a difesa), vedendosi respinta la domanda di surroga d'un suo testimone, esclamava:

(1)

Incart. 49 68 dal fase. 15 a 44.

147«che la Corte non si occupava se non del solo carico». Dovendosi procedere a perizia su d'uno scritto a lui attribuito, ne domandava visione per gli opportuni rilievi ed affermava che un tale diritto gli veniva da un precedente pronunziato della stessa Corte. Si dava lettura della invocata decisione e non risultando in essa menzionata una tale circostanza, lo Spaventa, al richiamo del Presidente, rispondeva: «che il verbale era stato modificato e che si riservava impugnarlo di falso». A queste parole il Pubblico Ministero chiedeva che l'accusato fosse espulso dalla pubblica udienza. «Eliminarlo, riprendeva lo Spaventa, nell'atto che si doveva procedere alla perizia, significava volerlo condannare ad ogni costo». Questa volta la logica ebbe ragione della perfida ostilità del Navarra che si limitò ad ammonire severamente il tenace ribelle a cui non sembrava giusto che «gli s'infligesse la pena dell'ultimo supplizio per aver sostenuto con contegno le franchigie e l'indipendenza d'Italia dallo straniero». Ben altro provvedimento si meritò l'Arciprete Miele che, vestito degli abiti sacerdotali, era sempre in armi a difendersi dalle false accuse di compri testimoni. Egli, contro il parere del Presidente, con voce alta ed arrogante, sostenne che si dovesse dar lettura dei suoi certificati di buona condotta perché, dopo sedici mesi di penoso arresto, parte nei criminali di S. Francesco e parte nelle grotte del Castello, il pubblico fosse informato della di lui moralità. Il Presidente lo rimbeccava dicendogli che bisognava avesse dato certezza della di lui vita nel 1848 e 49. Al che il Miele, incalzando nell'arroganza, replicava: che il presidente era prevenuto contro di lui. Immediatamente la Corte ordinava la espulsione del Miele dalla pubblica udienza. Mentre si leggeva la sentenza il Miele interrompeva continuamente. Invitato a tacere, egli elevava domanda di ricusa del Presidente e chiedeva un avvocato d'ufficio per sostenerla.

148

A seguito di che veniva ricondotto a viva forza a S. Francesco. (1)

Gl'Ispettori Pacifico, Iannuzzi e Cornerei, incaricati di riferire sull'andamento dei processo degli Unitavi, avevano nei loro rapporti parole di sdegno contro Nisco il quale a loro dire, si difendeva con impeto e passione, resistendo ai severi richiami del Presidente, facendo sfoggio d'ineducatezza di prevenzione e di malvagità. Nell'udienza, poi, del 24 luglio, il Nisco protestava perché «mentre agli accusati si proibiva di notare qualunque cosa, poi vedevasi dalia tribuna che gli impiegati di polizia facevano da stenografi ed indicava l'Ispettore Illuminato Cornerei, come colui che stenografava la pubblica discussione». L'infame gioco per cui la magistratura, nonostante la sua dedizione al Peccheneda ed al Longobardi, espressa nelle forme più rivoltanti della soggezione e della viltà, veniva posta sotto il controllo palese della Polizia, era cosi coraggiosamente denunziato. In un'altra udienza, a nuovi arbitri del Presidente, il Nisco esclamava: «essere ormai manifesto che essi dovevano, ad ogni patto, essere schiacciati dal potere». E rifiutandosi il Navarrà di far trascrivere a verbale alcune circostanze emerse dal pubblico dibattimento, gli accusati si levarono in piedi e dichiararono «di andarsene e di rinunziare ad ogni inutile difesa». Il Pironti, ch'era stato magistrato valoroso e di vita irreprensibile, nell'udire a ripetere dall'Angelillo che i prigionieri non avessero patito la fame: «Non posso tacere, esclamava, né tacerò; e se al danno si vuole aggiungere la vergogna, io la rimando a chi spetta. (2) Egli con superba eloquenza si faceva

(1)

Ministero di Polizia Inc. 1580 Vol. 6. parte I. Fascicolo 1. anno 1850(fascio 133).

(2)

Min. di Col. Inc. 1580 - Vol. 8. Parte I. Fascicolo 1. anno 1850 (fascio 133).

149

a denunziare come la polizia affidasse ai suoi agenti segreti salariati la lista degl'innocenti che voleva perdere. A queste parole un fremito di indignazione corse per l'aula. Il presidente, dopo vani sforzi di ricondurre la calma, levò l'udienza ed agli agenti, che avevano impugnato le armi, ordinò lo sgombro della sala. Tutti ammirarono la rara imperturbabilità del Pironti! Questi nel riprendere la parola senza scomporsi proseguiva oltre denunziando coraggiosamente l'illegalità e l'arbitrio del Governo, le * indebite ingerenze e le sopraffazioni della polizia che si era spinta ad atti inauditi di violenza e di corruzione, contro di cui protestava con tutte le sue forze. «Io stesso, egli esclamava, fui sottoposto a queste cruciali prove, chiuso in orrida segreta, giacente sul nudo suolo, tra il fetore d'ogni specie d'insetti. Per oltraggio mi venne rasa barba e capelli; fui privo per un mese e dodici giorni di qualunque vista d'uomo; mi venne interdetto di scrivere alla mia lontana famiglia; infine dovetti soffrire un lungo ed insidioso esame del Comandante del Forte, che, con lusinghe e minacce, pretendeva rivelazioni con promesse di perdono». Il Presidente, sull'invito del Procuratore Generale, perché fosse ripresa la baldanza del giudicabile, richiamava il Pironti con salda energia.Avendo l'avvocato Castriota fatto delle osservazioni sul modo di raccogliersi la dichiarazione del teste Becchino, il presidente gli ingiungeva di tacere. Mentre l'insigne avvocato accennava a rispondere, si levava Settembrini il quale dichiarava non volere più oltre legittimare con la sua presenza una cosi evidente offesa alle leggi umane e divine per cui reclamava insistentemente di essere ricondotto in carcere. Alle minacce del Presidente egli cosi proseguiva: «ieri io volevo reclamare per un errore del verbale, e voi biecamente, me lo impediste. Quest'oggi volete manomettere la discussione e la libertà di difesa per tutti, E poco fa permettevate ad un

150

ribaldo denunziante e calunniatore d'insultare la legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, con espressioni di disprezzo. Non mi forzate, ricordatevi che vi ho ricusato, signor Presidente, e che potrei ricusare tutta la Corte». Il Presidente minacciava di punirlo di tanta tracotanza nel tempio augusto della giustizia. «Lo volete? ripigliava Settembrini, ebbene, ricuso tutta la Corte perché voi la intimidite, e domando un avvocato officioso che sostenga •la mia ricusa, giacché non voglio comprometterò alcuno, non voglio espormi al rimorso di far perdere la libertà ad un amico». Tutti gli accusati si levarono in piedi assentendo alle di lui parole, mentre la commozione si faceva generale. Il Presidente, nonostante le preghiere della difesa, per ogni buon fine, dettava al Cancelliere la narrazione dell'incidente incolpando Settembrini di essersi levato con arroganza e di aver ricusato tracotantemente tutta la Corte. Nicola Muro, intervenendo nel dibattito, esclamava che egli sentiva di trovarsi in mezzo a cannibali. (1) II Presidente alla giusta definizione non mosse capo né piegò sua costa.

Carlo Poerio, fra tutti, con serena calma demoliva a colpi di domande e con la forza degli argomenti il processo e ne denunziava la frode e l'infamia. Nonostante i rabbuffi ed i contorcimenti del Navarra egli ripeteva con evidente intenzione, che il Procuratore Generale non avrebbe formulato il suo atto di accusa se avesse considerato «che lo statuto era stato spontaneamente giurato dal Re e che la nazione aveva creduto alla sincerità di quel giuramento prestato al cospetto di Dio». Il richiamo alla costituzione ed al giuramento mettevano, ad ogni tratto, direttamente in causa il Re che appariva il vero accusato. Né basta! Il Poerio, in sostegno di

(1) Min. di Col. Inc. 1580 - Vol. 6. pag. l. *tac. 1, anno 1850 - (fascio 133).

151

quello che aveva detto il Pironti, protestava di nullità l'istruttoria, adducendo, fra l'altro, che gli accusati erano rimasti per parecchi giorni in completo arbitrio della polizia, la quale si era spinta fino a mettere fuori delle carceri alcuni detenuti per ottenere, mediante seduzioni e minacce, una dichiarazione conforme ai suoi desideri.Né l'atteggiamento dei nostri eroi mutò quando incominciò a designarsi sempre più certa la loro condanna. Dopo che l'Angelillo con tono oratorio e con un lusso smodato di gesti e di colpi di mano sul tavolo ebbe finito di leggere la sua tronfia requisitoria, Iacovelli, «ironico e caustico» commentava, che egli non era sgomento della requisitoria che aveva chiesto il capo di nove tra i giudicabili e cinquecento e dieci anni di ferri». (1) Richiamato dal Presidente a stare alla causa, rispondeva: «che riconfermava la sua professione di fede e che Bozzelli, autore dei mali del paese, si godeva pacificamente tremila ducati l'anno». Ma, a che proseguire nelle citazioni? Tutti si mostrarono consapevoli della parte loro assegnata dal destino. Le blandizie, le minacce, le sopraffazioni, riuscirono, è vero, a fiaccare nelle carceri, durante i mesi della interminabile istruttoria, la resistenza dei più deboli tra gli accusati, ma essi si rialzarono in cospetto dei loro aguzzini ed il racconta dèi patiti tormenti suoné condanna irrevocabile per tutti coloro che quelle nequizie avevano comandato. Quando Ferdinando Carafa, ritrattando le accuse che l'inquisitore, profittando del di lui particolare stato di animo, gli aveva fatto sottoscrivere, vinto dalla commozione, domandava scusa e perdono in presenza dei giudici e del pubblico ai compagni del fallo commesso, molti cigli furono visti inumidirsi. E fu degno riepilogo di tanto eroismo l'invettiva di Luigi Settembrini

(1)

Inc. 1138. Vol. 2. p. 6.

152

che ai giudici faziosi ricordava «che al disopra della loro decisione stava quella di tutta Europa che li osservava, stava la sentenza di Dio, dal quale tutti gli uomini e tutti i giudici della terra sono giudicati».

* * * *

Non meno epica fu la lotta che gli accusati sostennero con i compri, falsi testimoni di Stato, vero rifiuto dell'umano consorzio, ceppala di bricconi, come Nisco definiva in pubblico dibattimento Longobardi, Ardizzoni, Andreossi, Ubaldini e simile lordura. Turpitudine più rivoltante non si era mai, nonché vista, immaginata. Figurarsi! Gente reclutata tra la feccia della delinquenza, pronta a giurare e spergiurare, a darsi al primo offerente, che si proclamava sostegno e difesa del trono, del re che essi aiutavano a liberarsi dai suoi nemici. E dire che questa era, nel più dei casi, la morale corrente nel regno!

Fulcro dell'accusa nel processo degli unitaria dopo il vano tentativo di perdere Poerio con una lettera del Marchese Dragonetti, riconosciuta falsa, in cui si parlava di Mazzini, di Garibaldi, di Palmerston, di cospirazioni, di società segrete, di soccorsi promessi dall'Inghilterra per la rivoluzione, fu Jervolino. (1) Egli, attraverso una fitta rete di menzogne mal congegnate, accusò Poerio di essere stato alla testa della setta l'Unità d'Italia che aveva per iscopo di uccidere il Re e la famiglia reale tutta quanta e proclamare la repubblica a Napoli. Venuto in udienza, ebbe a subire il fuoco incrociato degli accusati, ai quali si era nel periodo istruttorio negato ostinatamente il confronto con il loro accusatore, e dei difensori che lo tennero inchiodato

(1) Min. di Poi. Inc. 1580. Vol. 6 P. 1 fase. 1. Anno 1850. Fascio 133.


vai su


153

alla sua vergogna per oltre cinque ore. Il meschino cercò, facendo ricorso alla sua improntitudine, di tener testa alla grandine spessa delle domande. Ma Poerio e Settembrini, nonostante la Corte lo sorreggesse di tutta la sua complicità, lo attanagliarono costringendolo a battere in ritirata con le stimmate del falso testimonio sulla fronte. Né basta; che essi domandarono ripetutamente di provare che Iervolino fosse un agente provocatore, uno stipendiato della polizia a dodici ducati al mese, (1) E qui rifulse l'ingegno diabolico del Navarra! La Corte, memore, forse, che i testimoni dati già dagli accusati su questa posizione erano stati tolti dalla circolazione e menati in carcere, ammise Settembrini a provare con documenti le sue affermazioni. Più beffardi e crudeli di cosi non si poteva essere! Chi per fermo avrebbe dischiuso a Luigi Settembrini gli archivi della polizia per cavarne la prova della turpitudine di Jervolino? Il tempo ci ha consentito di mettere le mani in quelle carte, non più vigilate dal segreto, dalle quali, tardi j?er la causa, ma non cosi per la storia, l'accusa contro il calunniatore viene convalidata. Il galantuomo, difatti, risulta ricevesse, per i suoi turpi servigi (2) dal ministro Longobardi, un assegno di ducati 9 mensili. A 29 dicembre 1852, su rapporto del giudice Maddaloni, con risoluzione sovrana presa a Caserta in seduta di conferenza, la pensione gli era stata elevata a ducati 12. Ma, a giudicare di questo perdutissimo uomo, giova qui trascrivere una delle tante sue suppliche al Re, come quella che meglio di qualunque altro documento vale a qualificarlo:

(1)

Min. di Poi. Inc. 1580. Vol. 6. parte 1. Fascicolo 1. Anno 1860. Fascio 133.

(2)

Ministero Interno. Alta Polizia 140. Inc. 102^3304.

154Signore, «Luigi Iervolino di anni 40, prostrato al pie del € Beai Trono umilmente l'espone qualmente egli per fedele attaccamento alla Maestà Vostra si è adoperato col massimo impegno e con somma com«promissione e rischio della propria vita alla depressione della demagogia nelle passate emergenze prestando valevolissimi servizi presso la polizia i cui risultamenti hanno prodotto che i demagoghi scoverti per opera del supplicante si trovano oggidì espiando la meritata pena. Tali rilevanti servizi egli li ha resi per attaccamento alla real corona, e per la Sacra Santa Religione Cattolica, di cui Vostra Maestà è il sovrano Imperante difensore, e quindi era suo dovere tanto eseguire. La clemenza con cui vostra Maestà accoglie le suppliche dei suoi sudditi fedeli lo fanno e ardito ad implorare dal pietoso cuore di V. M. la grazia di concedergli una piazza di tenente doganale invece del mensile di ducati quindici che attualmente riceve dal ministro di polizia. Tale piazza la M. S. accorda a quei sudditi benemeriti per dare ad essi un pane in sostegno delle proprie famiglie. Grazia che spero tenere come da Dio non tralasciando egli giammai d'implorare quotidianamente dal sommo Dator di ogni bene le«celestiali benedizioni su la M. V. e la real famiglia. E l'avrà come Dio! (1).»

E con Iervolino tutti, nobili e plebei, quanti, in una parola avevano titoli alla riconoscenza del Re, ricorrevano a lui per aiuto. In atti vi ha una supplica in data 2 dicembre 1849 con la quale Giuseppe Vittozzi, (il famoso Monsù Arena che, in compagnia

(1) Min. Poi. Inc. 7311. Anno 1850. M. Inc. 1198. Vol, 3 bis. Anno 1849 a 1853.

155

di un Manetta, d'uno Schiavone e d'un Turiello, capitanò, protetto dal Merenda e dallo Schenardi, i lazzaroni bianchi), essendosi ridotto ai verde, domanda un impiego. Peccheneda nel trasmettere la supplica si esprime con queste significantissime e per sé abbastanza eloquenti parole: «la speciale devozione che il Vittozzi ha dimostrata a V. M. non può rievocarsi in dubbio: ma io ho ammirato in lui la docilità con la quale si è costantemente prestato alle mie disposizioni, semprechè si è trattato di servire V. M. anche in qualche circostanza critica della capitale, già felicemente trascorsa».

A margine si legge:

«Conferenza degli 8 dicembre 1849 in Napoli. - S. M. si è degnata accordargli un posto che meglio potesse convenire al richiedente nelle dipendenze del Ministero delle finanze e col soldo di 20 a 30 ducati al mese».

Tra le benemerenze del Vittozzi al certo fu ricordato l'impeto selvaggio col quale si era scagliato contro Faucitano e Vellucci, sputandoli, percuotendoli e strappando loro i peli della barba, in quello che venivano trascinati, a ludibrio, per le vie di Napoli, in carcere.

Quante complicità e come vergognose! La condotta di un He in continuo commercio con spie ed agenti segreti, esponente massimo di un sistema di violenza e di corruttela di cui è difficile ricordare l'uguale; incapace di nobili e magnanime risoluzioni, di liberarsi dalla tradizione in cui riponeva ogni salute ed era la sua morte; sempre pronto a dar credito alla denunzia ed alla calunnia, carceri e persecuzioni ai nemici, favori e premi ai fedeli, sino al delitto, non poteva, al certo, contribuire alla felicità e grandezza del regno, alla stabilità della dinastia. Rotta al primo urto la catena delle complicità, l'edifizio che la tirannide e la ipocrisia

156

avevano custodito e sorretto andò come per incanto in rovina, e dalle macerie di quel piccolo mondo, già moralmente disfatto, non emerse veruna di quelle gigantesche figure che nell'ora delle sublimi catastrofi riassumono e suggellano col sacrifìcio eroico tutta la poesia della causa per cui talvolta i vinti apparvero vincitori. Checché dicano alcuni cronisti che usurpano il nome di storici, la verità è questa. Neppure l'ultimo dei Borboni rifugiatosi, dopo la sconfitta, in Roma a battere moneta e suscitar briganti, seppe cadere in piedi, da Re.

La parte di Iervolino fu rappresentata, nel processo del 15 maggio, da Nicola Barone. La sua denunzia era stata dal Generale Turchiarulo inviata al Re che l'aveva rimessa al suo braccio esecutivo, a Peccheneda e questi al suo succubo, Navarra. Al suo apparire in dibattimento, Braico si leva in piedi e rivolto al presidente «questi, esclama, è uno di quella banda organizzata di furfanti e di barattieri che han ridotto a sistema la denunzia nel nostro infelice paese». Barbarisi gli lancia in viso l'insulto di spia. L'investito, a sua volta, gli da del vile mentitore. Pica chiede l'inserzione a verbale di queste parole. La Corte rigetta la domanda. Insorgono Barbarisi, Spaventa, Avitabile, mentre Barone li apostrofa chiamandoli birbanti. La Corte ordina la loro immediata espulsione dall'udienza. Pica protesta vanamente contro il tentativo di volerli di offesi tramutare in offensori. La figura di D. Nicola Barone era cosi infame che fin la polizia era stata costretta a richiamare l'attenzione del ministro dell'interno su questo perdutissimo uomo che una ad altri dieci o dodici testimoni della sua risma, diventati i veri protagonisti del giudizio, turpi per le loro improntitudini, s'erano costituiti in una vera e propria associazione a delinquere consumando ricatti col minacciare nuove accuse contro innocenti e con l'aggravare quelle già rese o col ritrattarle.

157

La stampa estera s'era impossessata del triste episodio, ciò che aveva scombussolato i zelanti tutori dell'ordine. Ma come»ripararvi? Un giudice imprudente, avendo osato rinchiuderne alcuni in prigione, dovette immediatamente rimetterli in libertà per non suscitare pericolose dispute intorno al processo ch'era guardato con attenzione ed interesse anche dallo straniero. E le cose continuarono a precipitare per la loro china!

Non meno violenti furono gli accusati contro Luciano Carpentieri che accolsero al grido di infame scellerato. E ben se lo meritava, dapoichè il suo colonnello attestava che il 14 e 15 maggio Luciano Carpentieri, nonché in giro per Napoli a vedere le mille falsità che aveva con sicura fronte snocciolato in istruttoria, era stato sotto le armi e aveva ricevuto doppia paga. All'immondo Ferdinando Schenardi al quale non difettava ingegno pronto a tutte le scelleraggini, Vairo lanciava l'insulto di falsario assassino. Ma ohimè! per quanta minuziosa cura si fosse impiegata dall'istruttore l'edificio mostrava le sue crepe e denunziava l'inettitudine degli artefici e la fretta con la quale lo si era costruito.

Il testimone di Stato Domenico Ferrara, dopo aver prestato il giuramento esclamava: sono tutte infami menzogne di Nicola Barone, mentre Emilio Caccavallo dichiarava che egli si era fatto testimone di Stato per gli eccitamenti dello stesso Barone.

I giudici che, consapevoli di tanta infamia, emisero le loro feroci sentenze di condanna ben furono definiti carnefici in toga. In essi ogni sentimento di giustizia e di umanità erasi spento.

* * * *

Con gli accusati gareggiarono in dignità e valore gli avvocati. Essi stettero nella pugna ineguale con animo deciso a non lasciarsi intimidire, a compiere severamente tutto il loro dovere «propugnando quella

158

libertà di difesa che non poté essere superata in Inghilterra, che forse non fu neanche nella patria di Berrier e di Giulio Favre». Lo Schenardi che non sapeva rinunziare a farla da critico, in uno dei suoi rapporti, scriveva: «Moderato e commovente è stato il linguaggio dei difensori, e impetuoso talora quello degli accusati». Mai la toga rifulse di più vividi spendori. Nomi eccelsi di fama imperitura, che avevano in altre cause politiche dato prova di coraggio e di sapere, noi ricordiamo, di quella Sacra Coorte, Federico Castriota, Amilcare Lauria, Giuseppe Marini-Serra, Eugenio Raffaele, Luigi Ciancio, Leopoldo Tarantini, Francesco Bax ed Enrico Cenni. La loro mercé Napoli si rialzò innanzi al mondo civile e scrisse un'altra pagina nella storia delle sue glorie e del suo eroismo. Nessuno dei molteplici aspetti dei due processi, che furono il vero sustrato delle mutate sorti d'Italia, restò inesplorato. Tra le quistioni più dibattute vi furono quelle dell'amnistia, della incostituzionalità della Corte penale, della sua incompetenza a giudicare di ministri e deputati, della incompatibilità del Navarra. In punto di fatto, furono disaminate le prove e smascherati i testimoni di Stato con tant'arte da suscitare fin nell'animo dei poliziotti il timore che i giudici si fossero fatti convincere da quelle dimostrazioni d'innocenza. «Nell'udirsi, scriveva uno dei tanti Commissari, le arringhe dei difensori e di alcuni dei giudicabili, i quali tutti hanno sciorinato i ripieghi ed i sofismi degli scettici e pirronisti, erasi tentato quasi a ritenere che mancasse l'impulsione del sentimento e della coscienza in una parte dei magistrati preposti al santuario delle leggi come vindici di esse».

Ma spigoliamo dai rapporti dei Commissari di udienza. Del Castriota si dice che fece mostra di un grave ragionare nel sostenere col dritto antico e moderno che non vi era setta; che Leopardi e Spaventa non erano incriminabili per avere preso parte

159

con i più noti pubblicisti d'Italia al congresso della società nazionale, tenutosi pubblicamente a Torino, con l'obbligo di sottoporre le decisioni ai parlamenti ed ai prìncipi italiani. Il fatto, inoltre, non poteva essere perseguito come delitto nel Regno non essendo ritenuto nello straniero: dove era avvenuto. Dimostrò da ultimo che Iervolino era un falso testimone, una spia stipendiata. Il Bax difese Pironti con grande studio, diligenza ed accorgimento tessendone la vita, dimostrando come nel 7 settembre 1848 lo si trovasse a Santa Maria e confutando le dichiarazioni di Faucitano. Il Tarantini sostenne con sommo vigore le ragioni del suo cliente Catalano e come Tatto inconsulto del Faucitano rappresentasse «una perturbazione di una solenne cerimonia ecclesiastica e pubblica e non già un attentato diretto al fine di cambiare la forma del Governo». Il Lauria mise ogni studio nel far risaltare la discordanza tra Margherita e Iervolino e parlando di alcune carte di cui era vietata la detenzione, rinvenute presso il Badila esclamava: «che il pensiero non era soggetto a censura e che il progresso seguiva per comando di Dio ed era insito nell'uomo». E pronunziando queste parole con trasporto, fu ammonito severamente dal Presidente, perché, a dire di questo sapientone, progresso era quello non contradetto dalle leggi. Il cieco potere dei revisori di Stato ed il folle divieto della detenzione in casa propria di Libri proibiti, punita da uno a dieci anni di carcere, da un decreto del 1825, auspice Canosa, e rimesso in onore, veniva confermato, nonostante lo Statuto avesse dichiarato libera la stampa, soppressa la censura, e pronunziata l'abrogazione di tutti i decreti anteriori che fossero contrari alla costituzione.

All'animo del Lauria, però, dovettero suonar ben dolci le parole di Settembrini che, avuto per ultimo la parola, rivolgendosi ai figli, li esortava a serbare sempre cara e grata memoria del suo difensore. 160

Il Marini-Serra con la sua consueta fiorita e maschia eloquenza, trattò del valore della confessione nei rapporti dei correi e, disaminando il valore della denunzia del Carafa, (opera iniqua del Peccheneda che, nonostante si dicesse minacciato nella vita dalla Setta, erasi dato prima dell'intervento del Navarra, ad istruire il processo) e le ragioni che l'avevano determinata, nel descrivere lo stato d'animo del suo cliente lo fece con tanta maestria da suscitare un moderato applauso da parte del pubblico. Il Raffaele incorreva nella censura del presidente per avere affermato che a fondamento del progresso stessero la dignità e l'umanità. Nessuno degli avvocati fu al disotto del compito di cui non potrebbe immaginarsi il più grave. I Commissari, nel riferire le loro impressioni, graduavano, a seconda dei loro gusti e dei loro personali atteggiamenti, la lode ed il biasimo. Cosi, parlando del Buffon, difensore di Crispino, l'ameno poliziotto scrive che quegli, invece della causa, ragionò di storia e di mitologia. Quanti Buffon girano ancora per le aule dei Tribunali I Riprese in ultimo la parola l'incomparabile Marini-Serra e discusse dell'attentato, della Setta e della cospirazione con la sua feconda e dotta eloquenza, trovando modo cosi di difendere tutti gli accusati, specialmente il Poerio, che lodò per le sue qualità morali, in tutto degne del padre suo. Dalle tribune e dalla sala gremita di pubblico scoppiava un applauso. Un'altra clamorosa manifestazione di consenso viene così riferita dal Commissario Iannuzzi: «Alla fine della difesa di Pica, la sala, per la bocca d'inorgogliti settari, applaude con evviva alle conclusioni». Erano queste manifestazioni un segno tangibile della pietà e dell'interesse che la causa suscitava, tanto più significativo in quanto ciò non era senza pericolo in un'ora in cui, e la polizia trovavasi nella sala di udienza anche per questo, fin i sospiri venivano annotati.

161

* * * *

Gl'Ispettori, nei loro rapporti, davano notizia anche delle persone che frequentavano la Corte. Ne trascriviamo qualche brano. - Scarsa è stata la folla dei curiosi, né si è veduto fra essi, chi avesse fatto sorgere idea di attendibilità, ammenoché, un tale Ulloa, già impiegato della regia strada di ferro, e poi reduce dalla Lombardia, ed il fratello del Settembrini - La folla degl'intervenuti sul principio si é marcata sensibile; ma poi di mano in mano è scemata. Sì è marcato sulla prima tribuna il causidico Camillo Curati, testé sortito dalle prigioni dove trovavasi detenuto per la nota causa dei Gesuiti. Si è marcato ancora nella sala Giovanni Contillo, il quale (la storia si ripete!) nella rivoluzione del 1848 corse bizzarre serie di metamorfosi e da ufficiale della disciolta Guardia Nazionale e segretario del Maggiore Avitabile si vede occupar posti in magistratura, ed al presente trovasi sottoposto a vigilanza. - E' stato marcabile l'affollamento degli uditori. Nella sala il solito Ulloa; il prete D. Ferdinando Rossi, uno dei testimoni chiamati in sostegno della ripulsa di Poerio, quel Rossi che è stato non guari (ammirate novità di sistemi per sopprimere e terrorizzare i testimoni a difesa!) imprigionato per causa politica ed al presente sottoposto a vigilanza -. I verbali registrano la pietosa continua assistenza dei parenti degli accusati. Né basta che ugualmente assidui, per incarico dei loro Governi, ciò che dava al processo impronta e carattere europeo, erano i componenti le varie legazioni estere, primi, fra tutti, gl'inglesi. Il ministro Temple non solo non abbandonò mai il suo posto di vigile controllo, ma spesso intervenne e s'impose arrogandosi, financo, poteri che egli non aveva né gli potevano essere riconosciuti. Il giorno in cui dalla Corte si discusse se, per la infermità dei detenuti Carafa e Nisco, si dovesse rinviare la discussione della causa, il Temple chiese di entrare

162

nella Camera di Consiglio e vi fu ammesso. «Egli domandò il perché non si proseguiva la pubblica discussione, e glie ne fu manifestato il motivo». (1)

Questi frequenti non desiderati interventi davano sui nervi alla Polizia la quale non trascurava di manifestare in alto loco tutto il suo malumore e la sua meraviglia.

Vi è, in proposito, un rapporto del 12 novembre 1650 (2) dal quale la figura del Temple e la di lui nobile condotta viene posta in luce ed additata alla nostra riconoscenza.

«In esecuzione dei nostri ordini ho liquidato che il Ministro Terapie, sabato mattina 9 corrente, si recò nella Gran Corte Criminale per assistere, giusta il solito, al prosieguo della discussione della«causa dei quarantuno; e comecché la seduta non«era aperta, si fece annunziare al Presidente Navarrà. Questi lo introdusse nella Camera di Consiglio, e lo piazzò fra lui e il Giudice Lastaria e quindi, seguitò a trattare una causa principiata di delitti comuni. Essendosi poscia risoluto che il proseguimento della causa politica non poteva aver luogo il Ministro si ritirò.

«Colgo l'occasione per sommetterle, che il cennato Ministroassiste periodicamente la discussione della Gran Causa. Ne' primi giorni se ne stava nella tribuna dei diplomatici. Dopo domandò di essere piazzato più vicino perché diceva di non sentir bene la discussione, e il Presidente ebbe la bontà di situarlo nella Rota, accosto al Procuratore Generale, in modo che sembra non solo far«parte dei Magistrati, ma di dover influire potente mente sulla sorte dei rei.

« Spesso il Ministro si fa accompagnare da un suo

Min. di Poi. Inc. 1580. Vol. 6. p. 1. fase. 3. Anno 1850. Min. Int. Alta Poi. fasc. 101.

163

segretario, a nome Fagen, amico intimo di Poerio. «II pubblico vede molto male queste cose, perché mentre ha l'aria di tenere in suggezione i magistrati, da a vedere una spiegata protezione agli imputati, locché viene confermato dagli ossequi che i delinquenti fanno al Ministro allorché giunge e dal modo amichevole ed affettato come questo vi corrisponde. Dippiù si avverte che una corrispondenza verbale passa fra il Poerio e il Fagen.

* * * *

Il 31 gennaio 1851 alle ore 3 e 74 pomeridiane aveva termine la causa degli Unitari e la Gran Corte si ritirava in Camera di Consiglio per deliberare. Una folla eccitata di più centinaia di persone, al dire della polizia, si accalcava di fuori in attesa della sentenza. Otto mesi di dibattimento, la dignità e fierezza degli accusati, l'eloquenza magnifica, travolgente dei loro difensori, la comprovata falsità di birri e testimoni, la violenza dei giudici in opprimere la verità ed impedire con ogni mezzo ch'essa venisse a galla, erano tutti argomenti e motivi di discussioni e tali da tener gli animi in sospeso e commiste col timor le speranze. Lo Senenardi, l'abbietta figura di poliziotto, di spia e testimone di Stato, a calmare le preoccupazioni dei suoi degni padroni, insinuava in un suo rapporto che gli accusati, che si erano fino a quel punto mostrati indifferenti e baldanzosi, dopo la evidenza delle loro colpe, volgevano intorno gli occhi smarriti quasi presaghi della loro sorte. Che egli mentisse alla verità ne dava una prova trionfale Luigi Settembrini il quale, in quel terribile istante, trovava l'eroico coraggio di scrivere quella memorabile lettera alla sua Gigia in cui traspariva la serena tranquillità e la sublime rassegnazione d'un martire. Ma la diabolica fantasia dello Schenardi non si limitava a cosi poco. Gli accusati erano, a suo dire, dal pubblico contemplati e discussi. 1

E di che maniera! «Quegli additato immorale dacché nacque, questi malvagio dacché agl'impieghi civili provenne. L'inverecondia degli uni, l'insolenza degli altri un accento non toglievan della più comune commiserazione». Il triste furfante, però, nei diversi verbali spasso si contraddiceva. «Il pensiero che occupa l'intera popolazione, egli scriveva, è la decisione della causa degli Unitari, e si attende con ansia il contegno che serberà il governo in questa circostanza, perché da tutti si ritiene che tal contegno sarà il termometro futuro della politica di questo regno». Il sentimento vero del paese, però, si era manifestato sin dal 23 agosto 1850 in cui Navarra, mentre verso le quattordici, dopo aver esaurito l'esame dei testimoni, si ritirava in carrozza col giudice Vitale, giunto all'angolo del Vico Panettieri fu da uno sconosciuto aggredito a colpi di mazza e ferito alla rotola del ginocchio sinistro. Mai bastonate furono meglio date e ricevute! La polizia fedele esecutrice, e, quindi, interpetre delle macchinazioni del Governo, si mostrava concorde nel volere perduti i supposti capi «i quali tentarono il giorno 16 far succedere una carneficina che avrebbe gittato migliaia di cittadini nel lutto e nella disperazione». Né basta, che questi sentimenti venivano attribuiti al popolo perché l'animo del re si disponesse, più che noi fosse, contro quei provvedimenti di clemenza che venivano a cosi alte voci reclamati.

La Corte, dopo aver vegliato tutta la notte, il giorno successivo, all'una meno un quarto, usciva dalla Camera di Consiglio, e, presente il Pubblico Ministero, ordinava si desse lettura della sentenza con la quale Salvatore Faucitano, Filippo Agresti e Luigi Settembrini venivano condannati alla pena di morte, Nisco a trenta, Poerio e Pironti a ventiquattro anni di ferri ciascuno. Altri a pene minori ed altri erano assolti. La condanna riempi di gioia i Commissari dappoiché «nel pubblico era corsa una

165

sfida tacita, per dir cosi, di dubbiezza infra le diverse opinioni se vi fosse stata oppur no condanna positiva e capitale». E si temeva dei magistrati (vedi atroce calunnia!) che, per salvare i più compromessi, si sarebbero forse appigliati ad una votazione di tre sopra cinque, dando così adito al ricorso per annullamento nonostante il rito speciale. Ma l'illuminato consesso non aveva esitato un solo istante ed aveva colpito giusto e forte, sfatando le critiche di quei perversi che le richieste del Pubblico Ministero avevano già qualificato per esagerate e maligne. L'altezza morale e l'eroico coraggio dei condannati, la loro fede nella santità della causa per cui pativano tormenti e morte, non si smentì per un solo istante. Più incalzava il pericolo e più apparivano giganti. Diamo la parola al Commissario P. Casigli.

«Dopo circa mezz'ora il Cancelliere recossi pria nelle prigioni di Castelcapuano per dare legale e scienza della decisione agl'imputati e, direttosi ai tre già condannati all'estremo supplizio, ebbe in risposta dal Settembrini, che affettava pacatezza e tranquillità di spirito, le seguenti parole: Ringraziate la Corte e subito si svesti degli abiti suoi per vestire quelli del governo, soliti ad usarsi in simili emergenze. Agresti, alla frase del Settembrini mostrando anch'egli molta ironia, rispose: ed anche per parte mia. Non cosi avvenne per Faucitano, il quale, a sentire pronunziare la sua condanna di morte, fu preso da profondo dolore, pianse assai e disse parole di amorevolezza e di affetto per i figli suoi. Fu data in seguito lettura della decisione medesima agli altri condannati, e coloro pei quali vi fu minorazione di pena da quella richiesta dal Pubblico Ministero l'accettarono con tranquillità, non fu poi di gradimento agli altri i quali o ebbero aumentata la pena,

166

o nulla discesero da quella domandata dal prelodato Pubblico Ministero. «Si portò in seguito il Cancelliere nelle prigioni di S. Francesco, e, letta la condanna agl'imputati colà sistenti, ebbe a sentire dal sacerdote Barrilla: Dite a quei birri die mi hanno commessa un'ingiustizia. E ripreso in ciò dall'Ispettore, disse a costui: Ringraziate da parte mia il Barone ed il Cancelliere Starace. E poiché in quelle prigioni trovavasi il Barone Poerio e D. Vincenzo Dono, ambedue condannati ai ferri vi disposi che immantinenti fossero stati tramutati nel carcere di Casfelcapuano; ma il Poerio dispiaciuto della condanna riportata e delle disposizioni da me date, disse: Perché sono stato Ministro mi trattano a questo modo, ma dite a chi vi comanda che verrà il tempo.«Non debbo poi tacerle che il Procuratore Generale recossi subito dal Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia e, ritornato dopo circa un'ora, spedi un suo ufficio al Procuratore Generale di terra di Lavoro, perché avesse fatto accompagnare in Napoli il maestro di giustizia ed il suo aiutante. Nel giorno di ieri partirono eziandio per la volta di Caserta gli avvocati D. Giuseppe Marini-Serra, D. Giuseppe Schiani e D. Amilcare Lauria, una col fratello di Settembrini a nome D. Nicola.

«Debbo in ultimo manifestarle che i tre condannati alla pena capitale trovansi già ferrati nell'ex cappella».

Dopo l'iniqua sentenza, severa lezione per la demagogia, al dire dei reazionari, l'opinione pubblica si manifestò nella sua grande maggioranza per un atto di Clemenza Sovrana. E' ragionevole, inoltre, ritenere che l'Inghilterra e la Francia avessero agito per impedire qualunque esecuzione capitale, ricevendone degli affidamenti.

1

Luigi Settembrini ha narrato nelle sue Ricordanze la storia degli avvenimenti che precedettero la concessione della grazia ai condannati a morte. Egli scrive fra l'altro: «Il 21 Gennaio, cioè dieci giorni innanzi la decisione, il Re con un suo rescritto aveva disposto, che essendovi condanne di morte, se ne eseguisse la metà; se fossimo stati sei condannati a morte quanti ne aveva richiesti il Procuratore Generale, dovevano morir tre, se quattro, due, se due, uno: e specialmente i capi; e non v'era speranza di grazia: non luogo a pietà ed a preghiere di chi avesse voluto pregare. Fatta la decisione, e condannati a morte noi tre il Procuratore Generale presentò alla Corte il real rescritto. La Corte consultò un'ora e non trovava la metà dei tre. Io che ero il secondo condannato avrei dovuto essere diviso per metà, come il fanciullo di Salomone. Finalmente la Corte osservando che Agresti ed io avevamo avuti cinque voti di morte, tra otto, e Faucitano sei, decise che pel solo Faucitano si eseguisse la condanna. Questo espediente spiacque al ministro di grazia e giustizia, spiacque al Governo che voleva i capi nostri. Il Procuratore Generale ebbe rimproveri perché dopo la decisione presentò il rescritto alla Corte: se l'avesse fatto prima, la Corte avrebbe appaiato il numero dei condannati a morte, e certamente io ora non vivrei, né ora scriverei. Fu bontà fu sciocchezza dei procuratore Generale non so. Iddio si serve spesso degli sciocchi e dei buoni. Il Procuratore Generale, combattuto, confuso, incerto non sa che fare, infine segue ciò che la Corte aveva stabilito, viene a noi e ci fa togliere i ferri. Salvati per errore noi, che eravamo più odiati, fu fatta grazia a Salvatore per stizza». Questo racconto va rettificato.

Riportiamo dal Protocollo della Grazia e Giustizia;


vai su


168

«Rapporto del 2 ottobre 1850 Unico.«Ho avuto l'onore, dice Longobardi, di rassegnare € alla M. V. (D. G.) un rapporto del vostro Procuratore Generale presso la Gran Corte criminale e di Napoli del di 22 novembre ultimo, col quale, indicando di essere presso al suo termine la pubblica discussione della nota causa della setta Unità Italiana chiedeva istruzioni per regolarsi«nel caso che la pena capitale fosse pronunziata e sul conto di più di tre imputati. E la M. V. si è benignata di comandare: 1. che nel caso di condanna a morte contro più di due accusati, nei termini dell'atto di accusa, la decisione di morte e sarà eseguita soltanto contro di due, i più colpevoli, cosi qualificati dalla stessa Gran Corte, salvo sempre il disposto della legge 30 settembre 1839. E si sospenderà l'esecuzione per gli altri; facendone rapporto a questo Real Ministero. 2. Se la decisione dichiarerà essere uno solo degli accusati colpevole come Capo e Direttore, l'esecuzione di morte avrà luogo contro lo stesso. 3.

«Nel caso di condanna a morte contro più di due accusati senza la qualità di capo e direttore, la decisione di morte sarà eseguita contro due solamente, che la G. C. medesima qualificherà i più colpevoli; e per gli altri l'esecuzione rimarrà sospesa, riferendosi l'occorrente a questo Real Ministero. Tali ordini della M. V. sono stati già comunicati ai detti e Procuratori Generali della V. M. presso l'enunciata Gran Corte per la esecuzione».

Le cose, adunque, narrate da Settembrini a proposito del Reale rescritto col quale si davano le norme in caso di condanna capitale, differiscono alquanto dalla realtà. E' inoltre provato dai documenti come non già per errore e per dispetto ma per volontà del Re, sollecitato da parenti, avvocati ed amici dei tre condannati a morte, si fosse dato luogo alla grazia. Di ciò fanno fede due lettere

169

dì Giuseppe Settembrini fatte pervenire a Luigi, suo fratello, per mezzo del custode Maggiore di Castelcapuano e sequestrate nel carcere il 1. febbraio 1851.

La prima è del tenore seguente:

CARA MARIA,Il Re ha ricevuto la supplica stasera, quantunque avesse ordinato di non ricevere né avvocati, né le famiglie. Si spera da tutte le persone che sono intorno. Io domani presto saprò l'esito e D. Peppino crede utile di restare io che passo per suo giovine. Fa sapere tutto a Raffaele ed Agresti a Faucitano e stiano di buon animo se è possibile anche al caro Luigi mio. Perdona il resto.... E' momento supremo questo. Ti abbraccio coi fratelli; bada ai figli.Il tuo PeppinoSabato sera alle otto pomeridiane.Regalate la persona di D. Amilcare che reca la presente di notte.La seconda è del giorno susseguente e suona cosi:

CARA MARIA,Il Re disse ieri sera all'ora tarda a persona: vedremo che si può fare. La stessa persona rivedrà il Re prima delle undici e mi dirà che altro saprà dal suo labbro. Tutti coloro che avvicinano il Re tengono certo la grazia. Io penso allo stato del caro Luigi mio e agli apparati che gli stanno innanzi, e vorrei abbreviargli i tormenti anche di un minuto. Fa sapere queste cose a Raffaele subito subito e se non c'è Giovanni mio fratello manda il servo che fu una volta in casa di lui.Casa 2 febbraio alle ore 9.Aff.mo tuo PeppinoManda l'annessa a Maria Serra per Giovanni o il servo accompagnato da Errico.Il tre febbraio il Re, contro il parere di quanti reclamavano un esempio che assicurasse la tranquillità avvenire e la pace del paese, fece grazia ad Agresti e Settembrini,

170

tra i più invisi alla camarilla, sia perché settari per indole avevano sempre cospirato e la loro reità dal processo erasi posta a chiaro giorni) e sia per il piglio d'insulto e di disprezzo dai medesimi serbato contro la Gran Corte durante il dibattimento. La notizia propagatasi verso le 10 a. mer. fu accolta con un respiro di sollievo dalla parte sana che si die a commentarla per le vie e pei ritrovi con parole di compiacimento e di ammirazione pel Re, che si era fatto guidare dal cuore più che dall'interesse politico. Non cosi dai condannati. Facciamo parlare la spia reale notissima Ferdinando Schenardi che di quei giorni fu presente in tutti i luoghi.Napoli, 3 febbraio 1851 «Signore, le rassegno che la impressione provata stamane dai due condannati Luigi Settembrini e Filippo Agresti, per la sospensione a di loro conto della decisione di morte, sembra che non fosse stata da loro per nulla sentita, mentre si son dessi addimostrati quasi insensibili ed indifferenti, allorché alla mia ed alla presenza del regio procuratore si sono svestiti e sferrati. Anzi il Settembrini, nell'uscire dall'extra cappella, ha manifestato che egli era preparato con rassegnazione a qualunque sventura e che solo dispiacevagli di lasciare colà il suo compagno, il Faucitano».

La grazia concessa ad Agresti e Settembrini rendeva sempre più pietosa la condizione di Faucitano. (1) La moglie, alla notizia che il marito era stato posto in cappella, erasi precipitata coi figli nella Chiesa di Sant'Anna a Capuana e tutti aveva commosso con le sue lagrime e le sue preghiere.

(1) Ministero di Polizia. Incartamento 1580. Vol. 6, parte 1. fascicolo 5. anno 1851 (fascio 134).

171

Di li era corsa a Caserta per implorare la desiderata grazia e la sera del tre con l'animo in preda alla più viva commozione erasi ridotta in casa, nel Borgo Sant'Antonio Abate. Intanto, nella notte, i padri della Congregazione dei Bianchi conducevano nella Cappella il condannato il quale si mostrata contrito. Rifiutava qualsiasi cibo e di altro non si mostrava desideroso che d'acqua. Alla fine quando ogni speranza sembrava perduta anche per Faucitano giungeva il perdono. La grazia era cosi concepita: «S. M. il Re fa grazia al condannato a morte Salvatore Faucitano, commutando la pena di morte in quella dell'ergastolo». Immantinenti fu abbattuto il palco di morte che già erasi innalzato al Largo Cavalcatolo e furono avvertite le truppe e la Congregazione di Santa Maria Verticoeli a non più muoversi.

A circa le due dopo mezzanotte, poi, il Procurator Generale del Re presso la Corte si recava in Castelcapuano per comunicare la notizia all'infelice che la tragica attesa aveva quasi disfatto! Il Commissario Delegato alle Prigioni narra cosi lo avvenimento:

«Il Procuratore Generale si è quindi recato in mia compagnia nella extra cappella ove trova vasi il condannato, e disponendolo con ogni riservatezza all'annunzio della grazia, gli ha fatto ripetere più volte la frase di «Viva al Re». Egli, il Faucitano con animo veramente commosso l'ha più volte ripetuto e dopo di essere stato sferrato si è buttato ai piedi dello stesso Procuratore Generale chiedendogli la grazia di baciare da sua parte la mano all'Augusto e sempre clemente sovrano, aggiungendo ch'egli fino all'ultimo istante di sua vita non avrebbe disperato della grazia del Re di cui ne conosceva purtroppo il cuore e l'inesauribile clemenza. L'atto è stato, oltre ogni credere, commovente.

172

Si è di poi vestito degli abiti suoi e ricondotto, in unione di Agresti e Settembrini, che, al vederlo lo hanno abbracciato e stretto al cuore. A costoro eziandio il sig. P. G. ha dato l'annunzio della grazia sovrana, ed essi hanno risposto che ringraziavano la clemenza sovrana e ringraziavano pure essi stessi che si credevano innocenti».

Di questi fatti vi è memoria nel Protocollo della Grazia e Giustizia che è pregio dell'opera riferire a suggello delle cose fin qui ragionate.

«Risoluzione presa da Sua Maestà nel di tre febbraio del 1851 in Caserta. - Unico. «Nel mettere sottocchio di V. M., la decisione resa dalla G. C. Speciale di Napoli contro gli accusati di Maestà, la Maestà Vostra osservò di essere stati dannati all'ultimo supplizio i nominati Luigi Settembrini, Filippo Agresti e Salvatore Faucitano. E Vostra Maestà nella sua naturale clemenza, nel Consiglio ordinario di Stato di ieri in Caserta, mi dichiarò fare grazia della vita ai due condannati, Agresti e Settembrini commutando la pena di morte in quella dell'ergastolo, e mi ordinò sottomettere il corrispondente decreto alla sua sacra firma. Restava poi Salvatore Faucitano, anche dannato a morire e per costui si era già innalzato il palco di morte su cui espiar doveva i suoi gran falli e soddisfare così la Giustizia, ma la clemenza della M. V. che ormai non riconosce limiti volle anche pel Faucitano dispensare al rigore della legge e verso le undici pomeridiane di ieri ebbe la degnazione farmi pervenire i suoi sovrani voleri per mezzo di un ufficio del Barone Corsi, segretario particolare della M. V. con che sono stato assicurato che la M. V., ha fatto pure grazia al Faucitano, commutando la pena di morte anche in quella dell'ergastolo.

173

Nel corso della notte medesima ho dato esecuzione ai comandamenti della M. V. Or non rimane che la bontà di V. M., confermando gli ordini datimi fuori Protocollo, segnare il decreto di grazia che ho il dovere di presentarle. Il Ministro segretario di stato di Grazia e Giustizia - R. Longobardi.».

Mi piace aggiungere che nel gennaio 1852 il Re ordinava che nei misfatti di Maestà, commessi in tutto il corso del 1848, ove la condanna di morte fosse anche contro di un solo, dovesse essere sospesa.

La grazia concessa a Faucitano, che la Cotte aveva per quell'innocuo sparo di un po' di polvere dal quale n'era rimasto egli solo danneggiato, ritenuto esecutore degli ordini della setta che aveva voluto cosi impedire che il Papa desse al popolo la sua benedizione, fu appresa favorevolmente da chi mal tollerava che i mandanti fossero puniti con pena minore del mandatario. Ma addirittura entusiasta ne fu la plebe di Vicaria e Mercato che non badando a pericoli aveva tentato durante la notte impedire la erezione del palco che si andava costruendo sotto la protezione della polizia a porta Capuana nel luogo detto Cravaccaturo. I giornali del tempo narrano episodi commoventi di quel popolo generoso che, nella sua maggioranza, s'era messo dalla parte dei liberali. Basti per tutti sapere come essendosi diffusa la notizia che l'esecuzione fosse avvenuta nell'interno delle carceri, esso si levò a tumulto e si quetò solo quando una commissione di sua scelta constatò che la notizia non era vera. Saputosi della grazia furono celebrate messe di ringraziamento, urlati a gran voce ed in coro più che cantati Te Deum, ed organizzate dimostrazioni le quali, tra grida di giubilo, dopo aver girato per i diversi quartieri, si fermarono, acclamando, sotto la casa di Faucitano la cui moglie dovette, ella pure, pazza di gioia, affacciarsi più volte al balcone e ringraziare.

174Il Giornale officiale del Regno delle Due Sicilie, dopo riassunto i fatti che avevano dato luogo al processo ed alla condanna degli accusati convinti per prove e documenti inoppugnabili di far parte della Setta l'Unità d'Italia, dopo gli elogi più sperticati ai giudici della Gran Corte speciale la cui carriera non vantava altri titoli che la scienza, la probità e l'onore, cosi proseguiva:

«Eran ben 42 i giudicabili accusati della discorsa criminosa associazione di pratiche cospiratrici e di folli tentativi a danno dell'ordine pubblico, e oltre di molti altri contro i quali le indagini giudiziali non erano ancora compiute. Due di essi, cioè, Antonio Leipnecher e Salvatore Brancaccio, infermatisi nel corso della pubblica discussione pagavano il mortai tributo... Salvatore Faucitano, Filippo Agresti e Luigi Settembrini venivano condannati all'ultimo supplizio... Ma che? La clemenza del Re (D. G.) brillò di luce inusitata, e volle spontanea interporsi tra la vindice spada della giustizia, ed il delitto dei colpevoli, che coi criminosi tentativi se l'avevano richiamata sul capo. Inatteso apparve loro come un angelo di Dio quando meno se l'aspettavano, e lor concedè la vita, ma una vita in carcere perpetuo, perché non fossero più fatali alla insidia sociale, stanca ormai delle passate agitazioni».

Via, come esempio di prosa aulica, non c'è male!

Il Commissario Del Vecchio, nell'inviare le sue Osservazioni relative allo Spirito Pubblico, al Direttore Generale della Polizia, cosi riferiva:

«L'articolo del giornale in riguardo alla setta e degli Unitari giudicati, ha prodotto una lodevole impressione si per la verità delle idee nobilmente e esposte, che per l'acconcia inserzione nel giornale uffiziale.

175

Si è notato il compiacimento nel pubblico già presente più mesi alla causa, una pari soddisfazione per la imparzialità della giustizia penale; ed un'osanna alla mente ed al cuore del Re N. S. come un opportuno seguito all'editto recente di grazia».

Il famigerato Commissario Pietro Paolo Campobasso, a sua volta, manifestava con queste parole le sue impressioni su gli umori dei partiti in lotta:

«Non saprei bene esprimere poi le impressioni, le glosse che dal partito liberale e socialista, come vuol dirsi (ahi! nuovo e peregrino significato che le parole acquistavano nel dizionario borbonico) esternavansi nella congiuntura attribuendosi, fra l'altro, a debolezza e timore del Real Governo la sospensione per la esecuzione di Agresti e Settembrini. A questa sbardellata diceria si univa la mordacità dei sedicenti realisti, i quali, nella giornata di ieri, non fecero altro che gridare contro il Governo poiché in costoro il preteso attaccamento al Sovrano è un pretesto a compiere le male arti, cui sono adusati per privato interesse»E questa è verità sempre palpitante!

I processi dai quali la rivoluzione doveva uscire calunniata e distrutta e con essa quanti vi avevano direttamente od indirettamente partecipato si risolvevano, sotto la pressione della coscienza morale del paese, in una delle forze che più valsero a scavare un abisso incolmabile tra il popolo e la dinastia. Ancora una volta fu manifesto: nulla esservi di più efficace a concitare gli animi e muoverli all'offesa dell'ingiustizia della giustizia e come la violazione dei principi morali, informatori della vita civile delle genti, fu sempre scontata a caro prezzo da coloro che credettero poterli impunemente calpestare. Io penso che casa Borbone, più che dallo

176

spergiuro di tre Re, fu perduta dalle forche dell'89, dalle fucilazioni di Murat e dei Bandiera, dai processi del 48, veri assassinamenti che nulla valse a far dimenticare. Quei morti nell'ora delle grandi soluzioni, ombre implacate, si levarono terribili dalle forche e dai patiboli e furono vendicati.

Il sei febbraio 1851 il Real piroscafo da guerra il Nettuno sbarcava all'ergastolo di S. Stefano, vasto anfiteatro dipinto di giallo, a tre piani sorretti da archi e con trentatrè celle per ciascun piano, Filippo Agresti, Luigi Settembrini, Salvatore Faucitano, il Sacerdote Felice Bardila ed Emilio Mazza. Al bagno di Nisida: Francesco Catalano, Lorenzo Vellucci, Michele Pironti, Carlo Poerio, Gaetano Romeo, Cesare Braico, Francesco Nardi, Francesco Cocozza, Giuseppe Caprio, Vincenzo Dono, Salvatore Colombo, Achille Vallo, Gaetano Arrichiello, Luciano Margherita, Francesco Cavaliere, Giovanni De Simone e Francesco Antonetti.

Ben presto essi furono raggiunti dai condannati pei fatti del 15 maggio ai quali il Re aveva fatto grazia commutando la pena di morte in ergastolo e, per lo Scialoia, la reclusione in esilio perpetuo dal Regno. Il decreto è datato da Tiriolo dove S. M., continuando nel suo viaggio per le Calabrie, da Colaci per Soveria era giunto con le LL. AA. RR. tra grandi acclamazioni.

Il Morelli, annunziando la grazia ai sette condannati a morte (Dardano, Girolamo e Luigi Palumbo, Luigi ed Emanuele Leanza, Spaventa e Barbarisi) si espresse con le ormai note infelici parole: «S. M. vi toglie tutto tranne la vita». Ma a Barbarisi gli tolse anche la vita, che, disfatto dai patimenti, il 2 dicembre 1852 cessava di vivere. «Ieri, scriveva il Prefetto al Direttore della Polizia Generale, ebbero luogo le esequie del noto Barbarisi. Il funebre convoglio, dal carcere di S. Francesco alla congrega di S. Domenico Soriano, passò quasi inosservato a

177

causa della pioggia e niun inconveniente ebbe luogo». L'avvocato Barbarisi chiudeva cosi il corso della sua vita mortale! Ma, quale nobile e magnanima vita! Dal 1806 al 7 luglio 1821 aveva fatto parte della magistratura, e nelle memorabili vicende del 20, giudice a Lecce, erasi mostrato zelantissimo della Costituzione data e giurata. Scoppiata la reazione e rimesso in onore, con l'aiuto delle baionette austriache, l'assolutismo, il Barbarisi fu esonerato dall'ufficio e mandato a casa. Nel 48 egli fu tra i più animosi nel volere e sostenere le istituzioni liberali e prese vivissima parte alla dimostrazione del 27 gennaio in cui Ferdinando II promise quella Costituzione che dette due giorni dopo. Il 10 febbraio in un bollettino di nomine, traslochi e licenziamenti di magistrati il Barbarisi veniva nominato Giudice Criminale a Trani. Fermo sempre nel suo programma politico di conservatore progressista, il giorno appresso rinunziò alla carica, protestando contro l'esecrato ministero che, cosi operando, all'infuori del Parlamento, mostrava che nulla fosse mutato del passato e che la nazione fosse caduta nelle stesse mani che l'avevano calpestata, rovi nata, maltrattata. Gli Italiani, egli soggiungeva, sapranno difendere la loro libertà e la loro indipendenzaChe non ti è poter che basti,Popoli a soggiogar concordi invittiDi ardir di ferro e di ragioni armati. Proclamata la costituzione, Napoli fu agitata da quotidiani tumulti tra realisti e liberali. Ad infrenare i disordini il Barbarisi offri l'opera sua e dei suoi amici al Ministro dell'Interno, al Direttore ed al Prefetto di Polizia fino a che la calma non fosse restituita. Venne nominato Commissario di Polizia. Egli accettava l'incarico per poco tempo e senza emolumento ed in una lettera al Re dichiarava come

178

vi fosse una mano occulta che tenesse agitati i cittadini per mezzo di agenti secreti immorali nemici di Dio che bisognava a qualunque costo colpire. E con spartana franchezza soggiungeva:

«Prudenza è prevenire gli avvenimenti, e chi non si mette nel caso di regolare la rivoluzione, sarà dalla rivoluzione trascinato o il voglia, o non lo voglia».

Scoppiati i moti del 15 maggio, il 22 giugno susseguente il Barbarisi, che nel frattempo era stato eletto deputato, rivolse una vibrante protesta agli elettori di Capitanata e Bari.

«Siamo, egli scriveva, all'arbitrio della truppa e del popolaccio, senza sicurezza per le persone e per le cose». Indi si scagliava contro lo stato d'assedio sofferto dal 16 maggio al 14 giugno, lo scioglimento della Camera che non si era ancora legalmente costituita, quello della Guardia nazionale e le norme per la sua riorganizzazione tendenti ad escludere dalle sue fila avvocati, notai, architetti, letterati, in una parola, tutto il ceto istruito. Fatti e decreti anticostituzionali, egli esclamava, sono nulli e non possono produrre effetti legali. E conchiudeva con queste memorabili parole che dagli studiosi degli avvenimenti del 15 maggio meritano di essere considerate:

«Dichiaro false calunniose tutte le dicerie fatte spargere sul mio conto da coloro che volevano l'anarchia, ed il disordine e che io ho stimato sempre come stimo i vili prezzolati dalla pulizia straniera, e dal partito che mal soffre la libertà e la indipendenza Italiana. Io sono qual sempre fui colla divisa, Iddio e Patria, e nella patria ci riguardo rutile necessario regime costituzionale, ma a larghe basi. Mai ho professato principi repubblicani. Li ho creduti sempre i mezzi austriaci e. dei retrogradi a mettere disordini e anarchia.Feci di tutto nel giorno 15 maggio onde le barricate si levassero perché ne vedeva la mano che le voleva onde impedire l'apertura delle Camere. 179E ne ho pianto e ne piango le fatali conseguenze per non essersi inteso la mia premura. Feci per pochi giorni un viaggio in Puglia a conoscere lo spirito pubblico, e per rimediare ai disordini se mai lo spirito repubblicano, il comunismo avessero fatto i progressi di cui già tanto si parlava. Consigliai a fare delle petizioni al Re perché il paese si fosse messo a livello degli altri paesi italiani. E per questo viaggio pure me ne hanno fatto carico.Non sono fuggito da Napoli perché mi sono creduto e mi credo ancora deputato, e i deputati sono inviolabili.

E male glie ne incolse. Menato in carcere egli die prova di coraggio invitto e di eroismo. Al dibattimento stette imperterrito sotto i colpi dei suoi feroci aguzzini in veste di magistrati. «Il suo Costituto, dice il noto Farnerari, è il testamento d'un grand'animo, che affida alla posterità il giudizio della sua vita». La condanna di morte non turbò la serenità sua, la serenità del martire consapevole che dal suo sangue germinerà la vittoria.

Di fronte a così sfolgoranti esempi di energia morale e di sublime sacrifìcio per la patria i cianciatori di una nostra inferiorità non si sa a base di quali deficienze anatomiche e psichiche potrebbero battere in ritirata e con essi tutti quegli storici che non vogliono riconoscere come a creare prima, ed a sorreggere, poi, l'edificio dell'Unità d'Italia, il Mezzogiorno non sia rimasto indietro a nessuna delle regioni sorelle.

Con l'entrata dei condannati nei luoghi di pena, s'iniziava il secondo capitolo di questo dramma gigantesco. Dai bagni e dagli ergastoli una schiera di eroi, doveva col suo martirio imporsi all'ammirazione del mondo civile e piegarlo alla nostra santa causa. Prima dell'Unità politica, la mercé del loro esempio,

180

fu fatta l'unità spirituale del paese di cui nulla vi ha di più efficace a rendere sicura la vittoria e saldo e temuto l'acquisto.

Questi martiri napoletani, vissuti tra due secoli l'un contro l'altro armati; pieno l'animo degl'ideali di patria e di libertà; credenti in un Dio artefice degli umani destini; con le mani ed il cuore mondi d'ogni bruttura; sordi alle lusinghe, incrollabili nei loro principi e nella loro fede, impavidi sotto la violenza de' tormenti, in cospetto della morte, sono un simbolo radioso di come si debba amare e servire la patria. E se il Mezzogiorno è ancora cosi diverso dal resto d'Italia e sente i doveri della vita come adempimento d'una superiore legge morale, lo deve in gran parte alla schiera innumere dei suoi martiri e pensatori che così ne plasmarono l'anima generosa e forte e ne temprarono la vita in una ininterrotta serie di sacrifizi e d'olocausti che culminarono nella rinunzia spontanea all'indipendenza del reame perché dalle abbattute frontiere sorgesse alla fine l'Italia aspettata.


vai su


181

Prigioni e prigionieri borbonici

I bagni, dopo quello che ne scrissero il Palermo, il Castroni ediano, il Nisco, lo Spaventa ed il Settembrini, non hanno bisogno di ulteriori descrizioni. Luoghi d'inferno, governati da ribaldi e feroci aguzzini, infetti di tutte le più ripugnanti turpitudini, popolati di spie, di camorristi, dei rifiuti della più incorregibile delinquenza, raccolsero nei loro cupi recessi, incatenati e vilipesi, quanti, colpevoli d'avere amata la patria e le libere istituzioni, la brutale sentenza di giudici, proni al re e vaghi di tirannide, aveva condannato a perire di dolore e di stenti (1). Diciassette se ne contavano al di qua del Faro distinti in bagni di terra e bagni di mare. Questi si addimandavano anche di gastigo ed all'infuori di quello di Brindisi gli altri erano posti sulle isole di Nisida, Procida, Ischia e S. Stefano.

(1)

Nell'opuscolo: Il Governo di Napoli E i Condannati Politici Cenni storici di L. M. Londra Marzo 1853, mi è avvenuto di leggere, come alla Pasqualina Proto, la cui mercé Gladstone era penetrato nelle carceri, non furono risparmiate violenze e persecuzioni. «Nel doversi catturare in Napoli, ivi si legge, la giovine Pasqualina Proto, la polizia irruppe furiosa in casa di lei, e della sorella, la quale, gravida, com'era, fu rinchiusa nelle segrete di Santa Maria Agnone»

182

Il bagno eccezionale di Montefusco, ricco di caverne, di sotterranei, di segrete, ben potea dirsi tomba di viventi. Un canto popolare aveva questo ritornello:Chi trase a Montefusco e poi se n'escePo' dì che in terra nata vota nasce. Prima che Lord Gladstone avesse fatto rabbrividire con le sue Lettere quanti vi aveva uomini onesti nel mondo, nel Parlamento napoletano si era levata la voce del paese contro il Ministro Cariati che, di fronte allo spettacolo di sofferenze e d'angoscie indicibili; di carceri rappresentanti l'estremo del sudiciume e dell'orrore, ricolme d'imputati per sospetto d'opinioni politiche; di gran numero di famiglie vedovate dei loro più cari, cacciate nei dolori dell'immeritato esilio, non inculcava al re la gloria e la gioia del perdono. Dopo erasi fatto un grande silenzio, ed il Borbone ne aveva approfittato per accrescere gl'istrumenti di tortura ai danni di quegl'infelici che il clementissimo re, come lo qualificavano i compri panegiristi, aveva sempre e deliberatamente esclusi dai ripetuti atti di sovrana indulgenza. La campagna sostenuta con tanto fervore da Palmerston aveva di molto peggiorato le cose e si era, pur troppo, avverato quello che Lord Aberdeen aveva temuto, un rincrudimento maggiore, cioè, delle misure restrittive e di rigore ai danni dei condannati. Gli atti della Polizia sono riboccanti di verbali d'ispezione infarciti di denunzie, di suggerimenti, di proposte perché ai detenuti politici fosse applicato, senza attenuazione di sorta, il regolamento carcerario in vigore per i delinquenti comuni. Mariano Durazzo, a 9 febbraio 1851 (1), riferiva che gli ergastolani del forte di Nisida erano ferrati senza

(1)

Min. di Poi. Incart. 1580. Vol. 6, part. I fase. 6, anno 1851 (fascio 134).

183

ribattitura; che usavano sbriglie per attutire l'asprezza dell'anello, stretto al collo del piede; che indossavano casacche, cappotti e paletots di loro proprietà; che si servivano di materassi propri e di specchi; che avevano un contegno altezzoso, un'aria insultante ed un viso sardonico. Nelle carceri di S. Francesco, nella parte dove si recavano a passeggiare i detenuti a pagamento, eransi scoverti disegnati due alberi di libertà, con scrittovi a fianco questi versi:Sotto di questo alberotutti giurati abbiamoCostantissimi siamoAlla nostra libertà. Due ispezioni confermavano in parte le denunzie, cioè: che i condannati erano ammessi a provvedersi di cibi particolari nella bettola del Regno ed a conversare con i parenti e gli amici nella cosi detta scrivania del Comandante. Non cosi per il resto. Gl'infelici vestivano abiti di color rubio, distintivo dei galeotti, erano ferrati a due, con catene a sedici maglie di modello e collocati tra la ciurma nei dormitori comuni (1). Altre ispezioni venivano eseguite per istabilire quanto ci fosse di vero nelle voci di possibile fuga dei detenuti dall'isola avvalorate dall'apparizione di tanto in tanto di legni da nolo e di persone sospette verso la marina di Coroglio. Le preoccupazioni si erano fatte più gravi dopo l'arrivo nelle acque di Nisida di una lancia della fregata a vapore Vauban con due stranieri ed un uffiziale francese i quali, dopo vane insistenze, per visitare il Bagné, si erano accontentati di un giro attorno all'isola in compagnia del Comandante

(1) Min. di Poi. Incart. 1580. Vol. 6, parte I, fase. 6, anno 1851 (fascio. 134).

184

e della guardia, Francesco Argese, di cui non vi avea soggetto più triste, specie in organizzar tranelli per proprio vantaggio.

I rapporti furono sottoposti al re, che allora villeggiava a Caserta, e fu, dopo una lunga discussione, adottata la Risoluzione Sovrana «doversi decidere prendendosi un accordo col Ministro dei lavori pubblici».

Frattanto fu notificato al Comandante del Bagno D. Camillo Campajolà di uniformarsi ai regolamenti e d'intensificare la vigilanza sotto la sua personale responsabilità. I provvedimenti, però, non si fecero lungamente aspettare. Nella notte dal 22 al 23 febbraio 1851, il battello a vapore di real bandiera, il Nettuno, accostava a Nisida ed imbarcava per Ischia i detenuti Carlo Poerio, Michele Pironti, Cesare Braico, medico, Vincenzo Dono, farmacista, Gaetano Errichiello, fabbricante di stoffe, e Nicola Nisco.

Nel 25 successivo marzo, poi, giungevano nel Bagno di Pescara, dove furono immediatamente rin chiusi e ferrati: Lorenzo Vellucci, commesso dei Dàzi indiretti, Gaetano Romeo, tipografo, Achille Vallo, impiegato, Francesco Cocozza, proprietario, Giuseppe Caprio, falegname, Francesco Cavaliere, Salvatore Colombo, medico, e Giovanni De Simone, proprietario. Restarono a Nisida Luciano Margherita, architetto, il sacerdote D. Felice Badila, trasferito da S. Stefano, Francesco Nardi, sacerdote, e Francesco Catalano, proprietario. Il Borbone respirava.

* * *

Il castello d'Ischia si levava gigante su di una roccia tagliata quasi a picco ed era custodito da 104 veterani dei quali solo settanta atti al servizio militare. Il Bagno stava nel mezzo e si componeva di tre cameroni, che ricevevano aria da tre aperture munite di cancelli.

185

In alto vi aveva una camera di ascolto dalla quale la sentinella invigilava. Intorno girava il vaglio, circondato d'altissime mura, dove nelle ore del giorno s'intrattenevano i servi di pena.

I condannati ai ferri per cause politiche erano tutti riuniti nella parte interna del camerone dimezzo, ch'era il più angusto. Li assistevano nei loro ordinari bisogni quattro condannati per delitti comuni, altri dieci servi di pena occupavano l'altra porzione del camerone divisi dai primi da un cancello di legno. L'Ospedale era nella parte superiore del forte.

Il comando del Bagno era affidato a D. Ignazio del Giudice, dell'età di anni sessanta, offeso d'un occhio, di salute cagionevole, graduato secondo Tenente di Marina, con l'assegno mensile di ventisei ducati, carico di numerosa famiglia e circondato da sfavorevole opinione, avendo prestato servizio in diversi luoghi di pena ed, in fine, dopo alcuni mesi di sospensione, in Pescara, donde era stato trasferito ad Ischia. IL Del Giudice era in fama di funzionario corruttibile. Un suo cognato, di lui più tristo, fungeva da segretario. Né miglior credito e fiducia riscuotevano il Comite, pagato a dodici, i due aguzzini a dieci, i due sotto aguzzini ad otto, ed i cinque marinai custodi a sette ducati al mese. Il Duca Tomacelli annotava: V'è molto a temere di loro. La piazza era comandata dal Tenente Colonnello D. Carlo Begos, svizzero, carico d'anni e di acciacchi che lo tenevano il più del tempo confinato in letto. Ne riassumeva i poteri la moglie, Maria Bruno, la quale, dedita al vino, era spesso ubbriaca. Ella aveva ogni cosa posto all'incanto. Non è quindi a meravigliare se con i detenuti politici piovvero gl'Ispettori.

Il sotto Intendente di Pozzuoli riferiva che Poerio, appena giunto ad Ischia, aveva protestato, anche a nome dei suoi compagni, per il trasferimento

186

da Nisida e per il trattamento eccezionale usato ai loro danni.

Gli si era risposto: che ciò era avvenuto d'ordine superiore. Anche qui il contegno dei condannati per la Setta l'Unità d'Italia era soggetto di particolare attenzione.

Nulla irritava di più il governo della loro indomabile fierezza. «II contegno dei condannati politici, scriveva il Tomacelli, sia nel Vaglio, ove loro permettesi di stare tutto il di, sia nel camerone, è non solo uomini di indifferenti, ma quasi contenti. Gli altri condannati usano con essi riguardi, anzi rispetto oltre il credere». In un altro rapporto aggiungeva: «II condannato Poerio ed i suoi compagni abitualmente s'intrattengono fra di loro e con gli altri condannati dalla G. C. di Terra di Lavoro anche per reità politiche, ed i primi si baciano mattina e sera col motto: addio fratello; nella loro corrispondenza epistolare essi scrivono con orgoglio e spesso ripetono: Iddio conosce la nostra innocenza (1). In una perquisizione, si rinvennero oltre ad un centinaio d'armi; uno Statuto della Massoneria riformata e molte carte sovversive tra le quali questo sonetto:

Al Tiranno PartenopeoInfra gli orrori d'una notte oscuraEmpio tiranno spirerai trafitto.A gran cifre di sangue il tuo delittoScrisse e vendetta domandò natura. Dalle rovine della Reggia impuraNel buio inferno tu farai tragitto:L'antico sdegno del romano invittoNe' suoi nepoti eternamente dura. (1) Min. di Poi. in. 1580. Vol. 6. Parte I taso. 7. anno 1 (inc. 134).

187Nelle commosse fantasie si stampaL'opra di Bruto e l'ira di quel forteI nostri petti orribilmente avvampa.Dei tuoi misfatti sconterai la penaTiberio, e liete di più bella sorteAndran Trinacria e l'immortal Sirena, (1)

In un'altra scorribanda poliziesca venivano sequestrati i seguenti libri: ad Andrea di Domenico, 1 Promessi Sposi; a Carlo Poerio, il volume 8. ° della Storia Naturale di Buffon; a Nicola Nisco il volume 3. ° di Tacito, le opere di Vico, Plutarco e Dante; a Pironti, Tasso, Dante ed Ariosto; a Cesare Braico il volume 3. ° del Cosmo; a Gaetauo Errichi elio, la Grammatica Francese.I rapporti dei funzionari venivano sottoposti al giudizio del re che sul registro d'udienza annotava: Inteso si continui nella vigilanza. Il Direttore ne parli al Generale Palumbo per vedere cosa si deve fare. E le proposte si risentivano tutte della paura di vedersi da un momento all'altro sfuggire la preda per uno dei tanti complotti che le autorità sospettavano si organizzassero per liberare i detenuti. Innalzarsi le mura; fornire di contro cancelli i cancelli dei cameroni; assicurare con cancelli di ferro saldissimo l'ospedale del Bagno; raddoppiarsi il numero dei veterani abili per un servizio di vigilanza più oculato, ecco quello che sarebbe stato urgente praticarsi. E poi, sostituire il Del Giudice con un comandante energico; ammonire il Begos a non avere più misericordia per nessuno; mandar via dall'isola i reduci da Venezia, ivi relegati, perché capaci di favorire qualunque progetto di evasione. Il Begos fu chiamato nella capitale e di ritorno convocò nella Segreteria i detenuti e raccontò come egli

(1)

Fascio 4395 vol. 7. Carte 2 1853. Bagno di Procida,

188

fosse stato dal Ministero aspramente redarguito per i favori loro concessi. Ma, non disse di esserne pentito, di voler mutar sistema. Tutt'altro! Spie ed autorità, invero, continuavano a riferire che Poerio aveva corrispondenza clandestina col di fuori; che usufruiva di grandi agevolazioni, primissima quella di starsene nell'ospedale mentre godeva perfettissima salute.

Che simili favori venivano largiti a Pironti, Nisco e Sticco dal Comandante strettosi sempre più in rapporti non disinteressati d'amicizia con i condannati, coi quali s'intratteneva nelle ore pomeridiane, lasciando loro la più ampia libertà non esclusa quella di vestire con abiti propri. Il Nisco, poi, si era spinto fino a convitare a pranzo la moglie, due figlio, suo fratello Giuseppe e sua sorella Raffaella, rimanendo per tutto il giorno sferrato. In verità, ad Ischia, cosi come nelle altre carceri del regno, tutto era posto all'incanto. Custodi e dirigenti erano birbe matricolate, canaglie senza scrupoli e senza paura. Il re ed i ministri che sei sapevano, con volgare improntitudine, gli effetti della più sfrenata corruttela elevavano a dimostrazione della umanità con la quale, a loro dire, erano trattati i prigionieri. Sulla copertina d'un fascicolo della Polizia, del luglio 1851 (1), in cui sono raccolti alcuni di questi rapporti si legge: «L'insieme di questa corrispondenza mostra che i condannati, di cui l'intervento straniero, cogli altri compagni di pena, lungi dall'essere vessati e tormentati, ricevono tuttodì blandizie e buoni trattamenti».

Contro un cosi spudorato mendacio protestavano i quarantacinque sacerdoti, rinchiusi nel Bagno di Nisida, con una petizione in cui, fra l'altro, si leggeva: «Si porge ai sacerdoti una misera sussistenza, colla quale nei tristi recinti si deggiono comprare

(1) Incart. 1518. Vol. 6. Parte I, fase. 10.

189

il vitto dalla bilancia quae rationem non habet. Si possono perciò cibare appena di rustico pane. Vessati sono dai vili e sozzi aguzzini, che poi iniziati si appellano e tale abominevole mestiere esercitano. Questi con un linguaggio alle loro immonde labbra sol decente atterriscono il Sacerdozio, che invano reclamerebbe, poiché ragione non ci è; giustizia non si trova, sed sempiternum horror inhabitat. Alla misantropica discrezione di tali manigoldi, che dell'umanità appena hanno la sembianza abbandona la dignità sacerdotale. Qualunque giusto reclamo si nomina delitto capace a punirsi con illegale morte ordita da chi concerner dovrebbe la giustizia. Ogni angaria perciò si tollera e si tace e colla muta favella del cuore ciascuno dice: «Inimici nostri sunt iudices».

La petizione veniva data alle stampe e largamente diffusa.

Non se ne impensieriva il governo che, da giornali compiacenti faceva pubblicare il racconto di visite ed ispezioni che per poco, quei tenebrosi antri di perdizione e di morte, non tramutavano in desiderabili luoghi di conforto e di ameno riposo. L'impegno maggiore era posto neir avere dalla propria qualche autorevole forestiero, di preferenza inglese. E se ne videro che valicarono mari e monti, e sotto il pretesto d'illuminare la pubblica opinione, si tramutarono in favoreggiatori della più esosa tirannide. Ad uno di questi galantuomini, piovuto il 22 Marzo 1850 in Santa Maria Apparente, il Poerio, che vi si trovava ristretto con Cesare Braico, Michele Persico ed il livornese Giovanni Cerino, denunziò tutta l'infamia dei processi contro di lui avviati e la certezza di dover essere sagrifìcato ai suoi nemici per paura dei giudici di essere destituiti. L'essere stato egli sottratto, come ministro ai suoi giudici naturali, e l'aver fatto la Polizia imprigionare il suo avvocato difensore, Tofano, erano indizi sicuri di quanto affermava. E fu profeta!

190

Nel resto che i detenuti fossero già avvertiti dell'inganno e che con quelle visite si tendeva sorprendere l'altrui buona fede, si ricava dal breve rapporto del Commissario di Polizia, Raffaele Orsini, del 20 Novembre 1851, diretto al Ministro dell'Interno e cosi concepito: «Mi affretto a rassegnarle per sua superiore intelligenza, che i detenuti politici hanno esternato che la visita alle prigioni fatta ieri da personaggi esteri era stata appositamente autorizzata per contrapposto a quello detto da Palmerston» (1). E quale credito potevano meritare le favole di fronte alla terribile eloquenza dei fatti? Il Begos veniva allontanato e sostituito dal Colonnello D. Ferdinando Bartolucci, anima di sbirro che richiamò in vigore i regolamenti penali del Bagno, e li applicò senza misericordia. Da San Francesco alla vicaria a S. Maria Apparente a Nisida ad Ischia era stato come un ruinare di male in peggio. Dove si sarebbero arrestate le persecuzioni? Il dubbio fu di breve durata. Nell'8 Agosto 1852 la nave da guerra Rondine raccolse dai Bagni d'Ischia, di Procida e di Nisida cinquanta detenuti politici (tra i quali Carlo Poerio, Michele Pironti, Nicola Schiavoni, Carissimo, Nicola Nisco, Cesare Braico, Vincenzo Dono, Luigi Sticco e Sigismondo Castromediano) e li trasportò a Napoli. Di qui incatenati e stretti con funi furono a gruppi sospinti in carrozze chiuse rigorosamente sorvegliate da gendarmi ed internati a Montefusco.

* * *

L'orribile carcere, che Ferdinando II, aveva su proposta del Consiglio Provinciale di Principato Ulteriore ed in omaggio ai sentimenti di umanità, fatto abolire, spalancava ancora una volta i suoi cupi recessi nei quali, soffocatrice d'ogni protesta, vittoriosa d'ogni resistenza si librava la morte.

(1) Min. di Poi. Ino. 2554. Anno 1851.

191

Tra le novità che più impressionarono i detenuti va ricordata quella per cui i colloqui coi parenti dovevano avvenire attraverso un doppio cancello ed alla presenza d'un marinaio, d'un gendarme e d'un sotto ufficiale della guarnigione. Il Castromediano ha narrato la storia delle pene e del lungo martirio a cui egli, con i suoi compagni di sventura, andò incontro in quel carcere pauroso. Ad avvalorare quel racconto mi piace qui riportare alcuni brani di lettere scritte dal Poerio in quel torno di tempo alla zia. In esse, la descrizione delle atroci sofferenze è vinta dall'altezza morale, dalla composta dignità, dalla calma socratica dei condannati che ormai sentivano nella loro coscienza tutta la forza suggestionatrice dell'esempio e la grandezza e nobiltà della missione ch'essi erano chiamati a compiere per la causa della patria rigenerazione. Il Poerio dunque scriveva:Montefusco 14 settembre 1852«.... Sono ormai venti mesi che io espio una condanna immeritata; non ho voluto vedere alcuno della mia famiglia, e vivo tranquillo e rassegnato. E' mia decisa volontà di non uscire da questo sistema, e certo voi non vorrete contrariarmi. Se dovete parlarmi d'affari potete farlo, come per lo passato, liberamente per la posta. Io non ho nulla di cui debba nascondermi, ed i fatti che mi riguardano non temono l'aperto sole».Montefusco 26 febbraio 1853«.... Col mio incomodo dell'asma m'era impossibile di tirare innanzi più a lungo nel bagno e qui sottoposto, 'dove rischiavo di rimanere asfissiato dal puzzo di carbone, e di rimanere agghiacciato facendo aprire le finestre.

«Il signor Dottore dello stabilimento, avendo riconosciuto l'assoluta necessità d'un temporaneo cambiamento d'aria,

192

volle che io andassi all'Ospedale, ed io mi sono rassegnato ad onta di dover restare al puntale, e gli altri molti inconvenienti di questo locale».Montefusco 29 Novembre 1853«.... Forse questo rinnovamento del mio antico male sarà stato effetto del freddo insolito straordinario di ieri e di questa notte. Ma appunto mentre la stagione in tal modo s'inasprisce, sopraggiunge un'altra novità, che si traduce nella impossibilità assoluta di difendersi dai rigori del freddo. Voi sapete da che sono in queste durissime pene ho richiesto da voi soli dodici ducati al mese pel mio sostentamento. Questa modesta somma è appena sufficiente per tirare innanzi la vita in un luogo dove tutto è caro, e carissimo poi in quest'anno di pessima e scarsa raccolta.

«Ma pure non ho voluto mai eccedere, si perché so contentarmi del puro necessario, e maggiormente per rispettare la dura posizione dei molti che non si trovano in felici condizioni. Intanto ieri, questo Signor Comandante del Bagno ci ha significato che d'ora innanzi ci passerà soltanto trenta carlini al mese sulle somme che c'inviano le nostre famiglie... Egli è rimasto fermo nella sua determinazione, sicché il nostro avvenire è spaventevole. Come volete che si viva in questo luogo con un carlino al giorno? Basta appena per accendere il fuoco necessario a garantirsi dai freddo glaciale che ci assidera le membra. La mia posizione poi è più tremenda poiché sono infermo ed ho bisogno di molti aiuti. Debbo inoltre pagare continuamente medicine, soddisfare a chi mi cucina, riconoscere chi m'assiste la notte quando sono preso dal vomito che minaccia soffocarmi. Dunque il ridurmi ad un carlino al giorno è lo stesso che condannarmi a perire.

193

Se questa faccenda non si accomoda mi vedo nella dura necessità di mangiarmi il pane della galera e nutrirmi delle fave del Fisco, il che nella presente mia condizione di salute equivale ad una condanna a morte».Montefuseo 5 Dicembre 1853«.... Pironti ch'è percosso da paralisi, oltre la polvere di James che fa venire da Napoli spende pei soli bagni venti carlini la settimana per acqua e carbone. Come dunque potremo tirare innanzi questa misera vita quando ci si tolgono i mezzi per sostenerla?

* * * *

Ai mali fisici si aggiungevano in gran numero i morali.

I condannati per reati comuni, allo scopo di ottenere grazie e favori, ne inventavano d'ogni specie e colore contro i politici. Cosi Vincenzo Sigismondo, Pasquale Altomare, Luigi Poli e Zaccaria Gallo, ad istigazione di tal Costantino Panunzio (1), avevano denunziato Nisco, Dono, Poerio e Pironti, specialmente, di parlar male del governo; di mantenere relazioni col di fuori mercé alcuni custodi e gendarmi dei quali, per quattro, si facevano i nomi; di ricevere notizie politiche da D. Cecilia Dono. che a sua volta le attingeva da D. Mari uccia Carascosa figliuola del Ministro; di essersi dato da Dono, Nisco, Pica, Braico e Tuzzi incarico al Duca di Caballino di uccidere il Comandante.

Altre denunzie inventava tal Francesco Cocozza, sorretto da comparì degni in tutto di lui, in cui si

(1) Min. di Poi. Inc. 3034. Vol. 30. Anno 1854.

194

parlava di sette, di congiure, di casse di fucili nascoste nella campagna di Sala (1).

Per tali miserabili calunnie, avvalorate da certo Filippo Mazzara (2), piombava in Montefusco l'Intendente della Provincia di Avellino Commendator Mirabelli Centurione il quale in compagnia del Generale Flogy, si dava ad imbastire un tenebroso processo. Non per questo gl'incolpati si disanimavano. Nelle lettere di Vincenzo Dono e di Nicola Nisco si parla con giocondità e disprezzo di questo impasto di fandonie quanto più strane ed orrende tanto più incredibili (3). L'istruttoria, difatti, naufragò miseramente. Ma, ciò non valse a sottrarre quei disgraziati a nuovi tormenti. Fu disposto per ordine del re (4), che i parenti dovessero, nelle visite ai detenuti, parlare attraverso due cancellate, in presenza d'un individuo del personale di marina, d'un gendarme reale, e d'un sotto ufficiale, ai quali incumbeva l'obbligo, non solo di tutto ascoltare, ma d'impedire che si consegnassero lettere od oggetti non autorizzati (5). Ed ecco riapparire lo spettro delle temute evasioni. I sessantadue detenuti politici col loro contegno querulo, mordace verso le autorità, non rassegnato alla pena (6) ne autorizzavano il sospetto. Il rimedio fu presto trovato. E fu il solito. Trenta, tra i detenuti più importanti, nelle prime ore del 28 maggio 1855,

(1)

Min. Poi. Inc. 3034. Vol. 50 Fase. 445.

(2)

Min. di Poi. Gen. Inc. 70. Vol. 13, par. 1. a. 1854.

(3)

Min. di Poi. Gen. Inc. 30 34 Vol. 50, par. 3. a. 1855.

(4)

Min. di Poi. Gen. Inc. 70. Vol. 13. par. 2. a. 1854. In questo memorandum si ricordava al Direttore generale della Polizia come il re gli avesse detto di badar bene a Monteleone, ch'era più pericoloso di Catanzaro. Il re, sempre lai e dappertutto!

(5)

Min. di Poi. Inc. 70. Vol. 1. a. 1854.

(6)

V. il documento: Ministero di Polizia Generale Inc. 70, Vol. 38, a. 1854, dal titolo: Notamento dei condannati politici detenuti nel bagno di Montefusco colla definizione


vai su


195

come narra il Mazziotti (1), furono, more solito, trasferiti a Montesarchio.

L'Intendente Mirabelli si affrettava a manifestare al Capitano Comandante la Gendarmeria Reale in Avellino tutta la sua soddisfazione pel modo solerte e diligente usato in tale rincontro. E soggiungeva: «Il Bagno di Montesarchio è un bagno di eccezione in tutta la estensione del termine, tanto per i condannati importanti che vi si racchiudono, quanto per la posizione della località! Che oltre di trovarsi in mezzo ad abitanti che nella funesta epoca del 1848 si segnalarono per le utopie dei tempi, è lo stabilimento del Bagno in vicinanza immediata di Benevento. Ciò premesso, molte cure, molte cautele bisogna che la Polizia si dia, onde eliminare i tranelli, le intelligenze ed i maneggi che li potrebbero introdurre prima nei paesi vicini, poi in Montesarchio, ed indi nel Bagno o viceversa. Ecco la necessità di traslocare tutte le brigate esistenti in detti Capoluoghi di Circondario, o tutto al più i Capi Brigata, che per acquistate aderenze, non vi stanno bene dopo l'arrivo di tali detenuti; ed è perciò che la prego di far eseguire subito tale cambiamento nei detti circondari, prendendo i nuovi Capi Brigata insinuazioni dal Funzionario di Polizia destinato a quel Bagno, col quale possono fare il bene del servizio che si proclama, consistente, fra l'altro, a scrutare perennemente l'attitudine degli attendibili nei paesi appartenenti ai Circondari nominati; quella degli individui che affluiscono negl'importanti mercati della rispettiva condotta, fatta dagli agenti del Governo destinati alla sorveglianza degli stessi. In esso si dice di Braico che infinge rassegnazione; di Poerio ch'è di moderata ed accorta condotta; ed altrettanto di Sigi smondo Castromediano. (1) Matteo Mazziotti. «La reazione borbonica» Milano, Albrighi Segati, 1915.

196

di detti paesi, segnatamente in quello che si celebra in Montesarchio; osservare e sorprendere in qualche sospetto o circostanza i corrieri, le corrispondenze e le relazioni con Benevento, nonché tra paese e paese. Infine mettere in opera tutto quanto si vuole onde i condannati politici non deludano la vigilanza e la custodia e dalla nostra parte si corrispondesse alla fiducia che il Governo in noi ripone». La ricchezza meticolosa delle istruzioni era forse legittimata dai complotti e dalle sottoscrizioni che si andavano organizzando in Inghilterra, con la cooperazione di Antonio Panizzi ed Agostino Bertani (1), per liberare i prigionieri, il Settembrini, specialmente, detenuto a Ventotene. Con gli avvertimenti ai funzionari venne anche la rimozione del Comandante del Bagno D. Giuseppe Barraco ritenuto «soggetto dedito al vino, di pochissima cultura e di non regolari sentimenti» (2). Al 48 stando egli al comando del Bagno del Lanifìcio ai Granili era stato imputato di connivenza con i condannati che avevano sventolato ai fedeli in pellegrinaggio per Montevergine un fazzoletto tricolore. Il Barraco fu sostituito dal Borridon, d'infausta memoria, e questi dal Catrini che, al dire del Castromediano, tu il migliore. In confronto di Montefusco il Bagno di Montesarchio presentava dei vantaggi. Ma, era come il girone della stessa bolgia. Carlo Poerio nel maggio 1857, scriveva di là alla zia Antonia, in questi termini:

«.... Insomma questa è e rimane galera eccezionale con un regolamento occulto ed elastico secondo le circostanze con l'assoluta segregazione dal mondo e con tutte le sue conseguenze; con l'interdizione di scrivere, eccetto in due giorni la settimana alle sole famiglie,

(1)

V. «Agostino Bertoni e i suoi tempi». Per Jessie White Mario. Vol. 1. pag. 212. L. Settembrini.(2)

Min. di Poi. Gen. Inc. 70, Vol. 38; par. II, a. 1855.

197

sotto l'occhio vigile delle Autorità; con la catena perpetua ed il puntale, le traverse e peggio in prospettiva. Insomma nulla è mutato; solo adesso si è profferita la parola Umanità, suono che non aveva mai echeggiato sotto queste volte. Eccovi il risultato di questa mistificazione».

Il duca di Castromediano queste cose confermava in una lettera al Vice Capo di Gabinetto G. Finchia (1) nella quale, fra l'altro, si legge:

«Dio ha voluto visitarmi togliendo a sé un mio caro fratello Ascanio che io amavo moltissimo per le sue eccellenti e virtuose qualità, ed anche perché contemporaneamente mi mandò tal malattia da farmi toccare le soglie del sepolcro; ciò avvenendo nei primi giorni del mese scorso (Giugno 1855) quando con altri 29 compagni venimmo ad aprire questo nuovo bagno di Montesarchio, ove ora sono in compagnia di stanza, d'affitto e di economia col barone D. Carlo Poerio, il Signor Nisco ed il figlio dei Cavaliere Palermo, perché q(ui é stata destinata una camera per quattro a cinque individui soltanto. In tutto oltre trenta non vi è altri sofferenti con noi. Il locale é umido in generale, ma migliore dell'altro di Montefusco. Le restrizioni eccezionali le stesse e forse di più».

Da ciò argomenti chi il voglia della verità delle affermazioni di Tommaso Cava (2) il quale pretende che a Poerio ed ai detenuti di Montesarchio non solo non fu mai negato alcun conforto o desiderio ma la pena fu fatta patire con dolcezza e commiserazione.

* * * *

L'eco delle atroci sofferenze alle quali i patrioti erano sottoposti s'era ormai ripercossa per tutto il mondo civile.

(1) Mio. di Poi. Gen. Ido. 70 Vol. 37; par. II. a 1865.

(2) Difesa Nazionale Napoletana, Napoli, 1863, pag. XVII,

198

Ma, per quanto fosse l'orrore suscitato negli animi ben nati al racconto di simili turpitudini, la condizione dei prigionieri sarebbe rimasta immutata se Francia ed Inghilterra non fossero intervenute col peso della loro autorità a dirimere l'incresciosa controversia.

Nel congresso di Parigi, adunatosi nella sala degli ambasciatori delle Tuilleries nel 25 febbraio 1856 per regolare la questione d'Oriente, il Conte Walewski, primo plenipotenziario della Francia, la cui politica si era orientata più favorevolmente verso l'Italia, espresse l'opinione che sarebbe stato utile per la pace Europea regolare alcune altre questioni che, lasciate insolute, avrebbero potuto essere causa di nuovi perturbamenti sociali. Dopo aver parlato della Grecia e degli Stati Pontificii, soggiunse che gli sembrava opportuno si dovesse insistere presso i governi della penisola italiana, perché con un atto di clemenza richiamassero a sé gli spiriti traviati e non pervertiti.

Il Conte Clarendon, primo plenipotenziario della Gran Brettagna, aderendo alla proposta Walewski, le dava questa precisa motivazione:

«Noi non vogliamo che la pace sia turbata; e non vi ha pace senza giustizia... Noi dobbiamo inoltre chiedergli un'amnistia per le persone che furono condannate, e che sono in carcere senza giudizio per delitti politici». Egli, scriveva Cavour a Rattazzi, qualificò il re di Napoli come avrebbe fatto Massari. I plenipotenziari dell'Austria, Conte Buoi, Barone Hubner e Barone Monteuffel, opposero, fra l'altro, essere il loro mandato relativo unicamente agli affari d'Oriente, e che in ordine ai passi da fare presso il governo di Napoli, potevano essere causa di gravi inconvenienti e suscitare nei paese uno spirito di opposizione e moti rivoluzionari.

Il Conte di Cavour, dopo aver chiesto che l'opinione manifestata da alcune potenze sull'occupazione degli Stati Romani fosse inserta a Protocollo, e dopo

199

aver protestato contro l'occupazione indefinita d'una gran parte dell'Italia per parte delle truppe Austriache, così con chi use:

«A proposito della questione di Napoli, divido pienamente le opinioni, espresse dal Conte Walewski e dal Conte Clarendon, ed avviso che importa al più alto grado di suggerire temperamenti che, calmando le passioni, renderebbero meno difficile il procedere regolare delle cose negli altri Stati della Penisola». Il Congresso a maggioranza accolse la proposta Walewski Claredon.

Sir William Temple, Ministro d'Inghilterra presso il Re di Napoli, il 19 Maggio 1856 comunicò al Ministro Carafa una nota del suo governo, cortese nella forma, ma risoluta e franca nella sostanza. Con essa si consigliava il governo delie Due Sicilie ad inaugurare un nuovo sistema di politica interna ed a proclamare un'amnistia generale per avvicinare al trono quanti ne erano stati allontanati da sospetti e da persecuzioni. Si faceva, inoltre, caloroso invito a che la giustizia fosse rettamente amministrata e la libertà individuale garentita. Il Carafa riservandosi di sottoporre al re la risoluzione dell'incidente, faceva osservare che S. M. non poteva, senza venir meno alla sua dignità, ammettere l'intervento straniero nel governo del suo Regno, ma che egli avrebbe ascoltato sempre e con piacere i consigli delle potenze amiche. La tesi sostenuta dal Carafa era quella dei Buoi e si appoggiava agli atti dei precedenti Congressi, che avevano negato il diritto d'intervenire negli affari d'un paese indipendente salvo (come osservò la stessa Inghilterra in risposta alla Nota inviata dal Congresso di Novara agli ambasciatori residenti a Madrid) che l'intervento non fosse dettato dalla necessità di difendere «sa securitè et ses intérets essentiels, menacés d'une manière sérieuse et immediate». Il Congresso di Parigi, però, aveva riconosciuto e stabilito che l'intervento negli affari d'Italia era dettato dalla necessità di eliminare

200

le cause d'una nuova guerra, dopo che la pace era stata cosi felicemente ristabilita. L'Inghilterra lasciò cadere la tesi di diritto ed invitò il suo Ministro a dichiarare al Governo Napoletano che se si fossero opposti ostacoli alla volontà delle Potenze, ne sarebbero sorte complicazioni troppo serie: «L'Angleterre, la France, prenant cette affaire à cœur, ne permettraient pas qu'on cherchât à les amuser par des langueurs». Il Carafa, da buon diplomatico, cercava di guadagnar tempo, adducendo, specialmente, la difficoltà di prendere ordini dal re che ora si diceva a Gaeta, dove non si occupava di affari; ora dedicato alle pratiche religiose; ora di malumore; ora a caccia, e cosi via. In sostanza il re con questi temporeggiamenti sperava che le Potenze sarebbero ritornate sulle loro decisioni, tanto lo cruciava il pensiero che si volessero imporre dei limiti arbitrari all'esercizio della sua sovranità. Finalmente al 31 giugno fu spedita la desiderata risposta. In essa si rinnovavano le proteste contro l'intervento e contro il diritto che l'Inghilterra si arrogava, non solo d'immischiarsi nell'amministrazione del Regno, ma ancora e più, di censurare gli atti e i metodi della giustizia, ciò che contraddiceva allo scopo di volere impedire le rivoluzioni. «L'Inghilterra con la sua opera manteneva turbati gli spiriti e si faceva protettrice dei più pericolosi agitatori. Il re, anche per le circostanze in cui a causa di nuovi torbidi si trovava l'Italia, non poteva, per il bene dei suoi Stati e per la sua dignità perdonare».

La cosa, quindi, doveva essere differita a tempo più opportuno. Battuto su questa pregiudiziale, per il contegno della Francia e dell'Inghilterra, poco amichevole, il Carafa si dette con sottile accorgimento ad impugnare la verità delle accuse. Il trattamento che si usava ai prigionieri, egli ribatteva, era dei più umani e le condizioni di loro salute, perfette. A conferma si trascrivevano in apposito memorandum due lettere di Carlo Poerio nelle quali l'illustre

201

prigioniero dava, forse per calmare le ansie della zia Antonia, buone notizie di sé. La verità, però era tutt'altra; quale noi l'abbiamo innanzi rilevata e quale veniva descritta dagli amici dei detenuti in un memorandum che William Terapie inviava al Conte Clarendon. «II Barone Poerio, vi si leggeva, ha sofferto in questi ultimi anni d'una oftalmia prolungata, che l'ha minacciato di cecità. Egli ha avuto del pari frequenti attacchi di reumatismi ed una tosse ostinata e snervante; attualmente egli è gravemente ammalato di spinite, che fa temere un processo di consunzione. La debolezza del corpo gli rende sempre più insopportabile l'uso delle catene. Schiavoni ha, per l'umidità della prigione, perduto un occhio, ed è in pericolo di perdere anche l'altro. Sticco non può reggere gli alimenti per atrofìa degli organi digestivi; egli quindi rigetta tutto quello che mangia. Vincenzo Dono è da cinque mesi in infermeria con atroci dolori reumatici. Nicola Nisco, giovane pieno di vita, scrittore distinto, è tormentato da una tosse violenta e da incessanti dolori di stomaco. Molto si teme per la vita di Giuseppe Pica, avvocato di vero merito, affetto da una grave malattia di fegato. Alfonso Zendi di 34 anni, di famiglia nobile Aquilana, è sul punto di morire d'etisia. Presso del suo letto giace per terra il giudice Pironti, come un cadavere incatenato. Colpito da un attacco di paralisi, ha perduto l'uso di tutte le membra». In un dispaccio del 27 ottobre 1856 Mr. Petre scriveva al Conte Clarendon: «Sono dolente in questo dispaccio parlare ancora una volta di Poerio. Da molto tempo egli soffre d'un tumore alla spina dorsale a causa della prigionia prolungata e del nutrimento malsano, aggravato dallo strofinio della sua catena. E' stato recentemente operato. Ma le catene non gli sono state mai tolte».

Il re di Napoli, però, che faceva domare le rivolte delle carceri con le bombe, non si volle allontanare dal suo punto di vista,

202

Egli aveva perdonato alla folla anonima, ai gregari, ma aveva giurato l'esterminio dei capi.

Di fronte ad un cosi ostinato rifiuto Francia ed Inghilterra nel 15 novembre 1856, troncarono le loro relazioni diplomatiche. I due Ministri, Petre, che sostituiva provvisoriamente Temple, e Brenier partirono il 28 di quel mese per Roma. Allora fu vista riaccendersi la solita polemica tra i sostenitori e gli avversari di Re Ferdinando, sulla stampa e nelle assemblee legislative, specialmente di Francia e d'Inghilterra. Ai vecchi ed abusati temi, del divieto d'intervenire negli affari d'uno stato indipendente, delle oblique mire dell'Inghilterra sul Regno di Napoli, così poco conosciuto nella sua civiltà e così calunniato, un altro se ne aggiungeva desunto dall'ingiusto procedere del Congresso di Parigi che chiamato a trattare la pace, si era permesso, fuori d'ogni sua competenza, come disse Gladstone discutendo il Blue Book, censurare, giudicare e condannare il Re, senz'averlo ascoltato. Anche, questa volta il piccolo re avrebbe tenuto testa alla grande Inghilterra!

Il Borbone i vantaggi che la posizione geografica del regno specialmente gli assicurava nel giuoco delle grandi potenze era solito gabellare come effetto del suo fine accorgimento e le sue resistenze verbali, il suo metodo di trascinare in lungo la soluzione dei conflitti ai quali spesso, per cagione della sua mala politica, andava incontro, come atto di coraggiosa tutela della indipendenza del reame contro ogni tentativo d'ingerenza straniera. Ma, pur troppo, in ogni dichiarazione di guerra era sottintesa una pronta, anticipata resa a discrezione, salvo che la lega del Nord non fosse intervenuta in tempo a salvarlo. Ormai la sorte dei prigionieri era decisa. Si trattava, al più, di escogitare un qualche espediente, ed aspettare una favorevole occasione perché le apparenze (supremo rifugio della debolezza e dell'orgoglio) fossero salve.

203

Contro il governo pesava l'accusa d'aver fatto, da giudici comandati, condannare degl'innocenti e ciò senza garenzia di prove e di giudizio.

Ed allora si pensò offrire la grazia ai detenuti purché avessero riconosciuto la loro colpa e" se ne fossero mostrati pentiti. La fortezza incominciava a cedere! Ma ohimè! ben pochi, stretti da dura necessità, abboccarono all'amo. I più, quelli specialmente che la Polizia qualificava importanti, respinsero l'offerta ed il dono.

Non per questo il governo si ritrasse dall'impresa, che anzi escogitò un progetto secondo il quale, a coloro che ne avessero fatto domanda era concessa la suprema gioia della deportazione nell'Argentina in qualità di coloni. L'Accordo con la Repubblica Sud Americana era stato stretto tra Carafa e Buschental nel 13 gennaio 1857. In esso ai cittadini condannati e detenuti per causa politica che avessero voluto emigrare si concedevano dieci arpenti (10 moggia circa dell'antica misura napoletana) di terreno per uno; anticipi per costruire baracche; somministrazioni di sementi, di quadrupedi, d'istrumenti di lavoro. Un più generoso trattamento veniva fatto al medico, al parroco, al chirurgo, all'assistente ed al farmacista. Tra i patti più notevoli vi era il seguente: «I coloni che fuggissero dalla Colonia per rimpatriare saranno assoggettati alle pene alle quali erano stati condannati e che sono state commutate in emigrazione». Il governo sguinzagliò per i Bagni i suoi più fidi seguaci per ottenere adesioni all'infame progetto. Di tanto in tanto sorgevano difficoltà circa i limiti della concessione sovrana. I soldati iscritti nelle Compagnie di punizione potevano usufruire del beneficio? E lo potevano quei sacerdoti, compresi nella classe dei relegati politici, che, dichiarati irreducibili dovevano rimanere per omnia soecula soeculorum 204

in carcere (1)? Tre giorni spendeva inutilmente il Colonnello di Marina Vincenzo Salazar a magnificare Tatto di clemenza Sovrana ed a convincere i detenuti di rendersi sudditi della Confederazione Argentina (2). Il lavoro di persuasione fu ripreso con impiego di maggiori mezzi e più solidi argomenti ma con scarsissimo frutto. Sedici condannati, appena, tra i meno autorevoli, sottoscrissero la domanda a cui toglieva ogni valore la specificazione delle cause che l'avevano determinata.

Per Montesarchio, dove si annidava lo stato maggiore dell'avanguardia rivoluzionaria, fu messo in iscena un più vasto intrigo. Alludo alla visita in quel carcere dei Signori Turner e Cuppy, che ri ferita dagli storici sulla traccia del Castromediano, a noi è dato qui poter documentare per la bocca del Consigliere d'Intendenza G. Zigarelli che ne stese il seguente rapporto della cui importanza lascio giudicare il lettore (3).Montesarchio 10 maggio 1856«Signor intendente - Mi affretto a rassegnarle «che verso le ore 10 a. m. si sono presentati in questo Bagno i signori Carlo Turner e Giuseppe Cuppy i quali mi hanno consegnato un ordine del Signor Direttore della Polizia Generale contenente di permettere l'ingresso in detto Bagno ai porgitori dello stesso e di accompagnarli unitamente alle altre autorità locali, come tanto ho praticato. I suddetti si son portati a visitare i camerini ove dimorano i condannati Poerio, Nisco, Palermo e Castromediano, sicché nell'aversi dapprima scambiati i saluti hanno attaccato discorso con Poerio,

(1)

Min. di Poi. Inc. 13 Vol. 3. Anno 1857.

(2)

Min. di Poi. Inc. 13 Vol. 4. Anno 1857. Fase. 658.

(3)

Min. di Poi. Inc. 3034 Vol. 101 anno 1857. Igp. delcir. di Montesarchio N. 990.

205

< domandandogli se si trovano bene nella stanza in«cui dimorano, sembrando loro non essere affatto male. Il Poerio gli ha risposto che nel passare da Montefusco in questo luogo hanno molto migliorato, massimamente da un mese in qua che hanno avuto un tanto bene di avere nuove Autorità le quali sono molto umane. I Bretoni hanno ripreso«che le loro sofferenze possono alleviarsi mercé domande di perdono al Re (D. G.). Il Poerio ha risposto: che il nome della di lui famiglia noti fu mai macchiato, come vuoisi, dalla di lui condanna,

stando esso giudicato da persone prevenute che«giornalmente si portavano a prendere il motto d'ordine; quindi non ha di che rimproverare la di lui coscienza, soffrendo con rassegnazione, fin che Iddio vuole, che ingiustamente gli si addebiti per reato, mentre lui non occupò un posto nella società che per solo fine di sostenere i diritti del paese non mai cessando la sua cieca divozione nel Sovrano. A questo i gentiluomini gli hanno esortato di sperare nella Clemenza del Re che è inclinato di molto pel loro meglio; al che il Poerio ha ripreso, che il Governo avrebbe potuto tutto accomodare con un'amnistia o perdono, ma che da esso si sperasse una supplica di perdono per dichiararsi colpevole, non sarà affatto per la ragione che l'onore, cui fa veste alla famiglia Poerio, non gli permette di tanto praticare. Di poi il Nisco ha preso la parola facendo noto che lui umiliò supplica al Sovrano mercé i preghi della di lui moglie e figli, che finalmente fece questo sacrificio di manifestarsi reo per la di lui famiglia. Si aspettava la grazia con molta certezza, atteso che un personaggio (che non ha nominato) ce l'aveva suggerito, giusta per un avvicinamento di pace pel bene del paese. Non per altro ha taciuto Tatto di generosità fattogli da S. M. (che«D. G.) in quanto alla permissione d'abbracciare i di lui figli.

206

Ha in ultimo esternato una dispiàcenza e per il divieto dei libri che non gli possono pervenire parte in idioma italiano, che in lingua straniera. Dopo di che il Sig. Turner vi ha segnato nel di lui taccuino il nome di Nisco, e nel contempo gli ha consegnato un biglietto di visita da me destramente osservato. In seguito di altre poche parole di cortesia hanno preso congedo dai suddetti, portandosi al camerino contiguo dove si trovano i condannati Mollica e Barino i quali sie sono doluti delle loro sofferenze passate, in guisa che i suddetti personaggi gli hanno domandato voler loro sapere l'attuale lor posizione e non la passata che, a loro credere, non mica gli seme brava cattiva. Il Mollica gli ha soggiunto che veramente è dispiacevole il patire da nove anni in€ amaro carcere dopo di che gli si fa proposta per una deportazione nella Confederazione Argentina. Ma i visitatori gli hanno fatto capire che quei luoghi sono meno infelici, commessi suppongono. Indi dopo poche parole di conforto si sono portati nella stanza ove trovasi Pica, Braico, e Schiavone, delle quali il primo ha preso la parola, dopo aver riverito ai gentiluomini, facendo loro conoscere che lui trovasi nella galera pel solo fine di essere stato dal popolo proposto come membro del Parlamento, e che ingiustamente soffre questo castigo, tacendo l'ingiustizia fattagli da molti Magistrati, che parte di loro si trovano a dar conto al Creatore della loro coscienza e dell'ingiustizie commesse. E che veramente è dispiacevole di vedere che si propone per andare ad arare la terra Argentina a parecchi dei di lui compagni. Inoltre ha soggiunto che ad onta della inibizione dei libri pur tutta via lui serba qualche poco di memoria, non idiotandosi come vuoisi dal governo e che infine si spinse a supplicare pel perdono a S. M. pel solo oggetto di felicitare il di lui cadente genitore e la famiglia tutta, ma non mai per dichiararsi colpevole.


vai su


207

«Dopo di ciò ha ripreso il condannato Schiavone dicendo che lui ha sofferto oltre ogni credere, testimonianza del vero che egli ha fatto osservare i di lui occhi, dei quali uno totalmente perduto e l'altro vicino a perdere, e che tutto ciò è derivato per non farlo evacuare nell'ospedale di Piedigrotta onde curarsi. Accomiatati i Bretoni dai detti ultimi condannati sono passati nella stanza dove resta Lopresti, Errichielio ed altri. Al che il Lopresti, dopo riverenza, ha preso la parola, facendo conoscere le di lui sofferenze. Il rimanente dei condannati si sono tutti doluti per la restrizione del luogo e per la proposta emigrazione dopo otto anni di sofferenze. Al che i signori gli hanno confortati per quanto più hanno potuto dicendogli che avessero confidato nella Clemenza del Re (D. G.), ma che non si fossero lusingati, poiché la loro venuta non era che per curiosare il locale e per osservare come vengono in questo sito governati che non lo hanno trovato come i giornali esteri lo dipingevano, cioè di essere une luogo di molta oppressione all'umanità». Ciò finito si sono portati nell'ospedale in dove il Pironti ha parlato per tutti i di lui compagni, lagnandosi dello stato in cui trovasi e della offerta emigrazione, mentre lui non fu che condannato ingiustamente e che il Sovrano (D. G.) non lo ha destituito dalla di lui carica di Magistrato, ma bensì ritirato, dolendosi molto che al Governo non si fa noto che egli soffre da quattro anni di paralisi, mentre lui non cessa nella benignità di cuore per l'Augusto Sovrano».

Di questi maneggi si discorre in una lettera del Poerio alla zia, dove, fra l'altro, si legge «... Ho trovato Pironti profondamente rattristato per la proposta, fattagli, di emigrare nella Confederazione Argentina in America e, nella qualità di colono, di rimanerci tutta la vita, sotto pena di tornare in galera ad ogni trasgressione.

308

Veramente a prescindere da tante altre considerazioni, è per lo meno inesplicabile come si proponga ad un paralitico, confinato in fondo al suo giaciglio da quattro anni, di andare a lavorare terreni per tutta la vita a cinquemila miglia di distanza, incominciando a costruirsi con le proprie mani una capanna. Egli ha ricusato come hanno fatto altri diciasette compagni, due soli hanno accettato. Agli altri sette, tra quali non siamo né Dono, né Castromediano, né Nisco, né Mollica, né io, non è stata fatta alcuna proposta. Gli altri due non richiesti sono Pica e Braico».

Questa diabolica escogitazione dell'ingegno torbido dei consiglieri di re Ferdinando trovò nel famoso Jules Gondon (1) il suo strenuo difensore. Decisamente alle cause più disperate non mancarono mai compri avvocati. «C'est encore à leur profit, c'est enfin de leur rendre la seule liberté qu'on puisse leur donner», scriveva il Gondon, «que le Roi obéysant à ses sentiments, a conclu avec la République Argentine un traité qui permettra d'opérer leur transportation. Le traité est un chef d'œuvre de prévoyance et il restera comme éloquent témoignage de la clémence et de la générosité du Roi Ferdinand».

A mostrare quale fosse lo stato degli animi dei Napolitani in merito a queste dispute giova ricordare come il 4 marzo 1857 fu per le vie di Napoli affisso il seguente Decreto, riconosciuto falso ed ira mediatamente sequestrato (2).

«Ferdinando II Per la grazia di Dio Re del Regno delle Due Sicilie Di Gerusalemme ecc. Duca di Parma, Piacenza, Castro ecc. ecc.

«Gran Principe Ereditario di Toscana ecc. ecc. e Essendosi la Provvidenza benignata di accrescere

(1)

L'Etat et la Question Napolitaine, Paria 1857.

(2)

Min. della Poi. Gen. Inc. 42. Vol. 76. Anno 1857.

209

di novella prole la Nostra Real Famiglia, ed annuendo ai consigli amichevoli dei Governi di Francia e d'Inghilterra, e volendo come per lo passato secondare i moti del nostro cuore paterno, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. Accordiamo piena Amnistia per tutti i detenuti politici giudicati e giudicabili.

«Art. 2. Richiamiamo in vigore la Costituzione del 10 Febbraio 1848 da noi sinceramente giurata sul Vangelo.

«Art. 3. Il nostro diletto Figliuolo il Principe Ereditario, è nominato Vicario Generale del Regno.

«Art. 4. Saranno immediatamente convocate le «Camere chiuse. Il Ministro segretario di Stato Presidente del Consiglio dei Ministri è incaricato della esecuzione del presente Decreto. Caserta 28 febbraio 1857. Firmato Ferdinando. Il Ministro Segretario di Stato Pres. del Consiglio dei Ministri firmato Ferdinando Troia».

Le cose si protrassero ancora per un bel pezzo tra proteste, accuse e difese, fino a che a Ferdinando non si porse il destro di capitolare onorevolmente. Il 27 Dicembre 1858, in occasione delle prossime nozze del principe ereditario di Napoli Francesco di Borbone Duca di Calabria con la principessa Maria Sofia Amelia Wittelsbach, Duchessa di Baviera, egli emanò un Atto Sovrano di perdono mercé cui vennero, fra gli altri, graziati ventisei condannati all'ergastolo e sessantacinque alle galere per i fatti del 48 e 49. Il Giudice Regio, però, nel partecipare il Decreto agl'interessati, fece loro ostensiva una Ministeriale del Direttore di Giustizia, nella quale vi era una limitazione nella grazia, stantechè era statuito che coloro ai quali era stata commutata la pena dovevano essere trasportati a Cadice e di Il in quella parte dell'America, dove a ciascuno fosse piaciuto meglio stabilirsi.

210

I realisti lodarono il provvedimento governativo che contemperava il sentimento della pietà con quello della sicurezza dello stato mandando ben lungi degli esseri pericolosi, istromenti notissimi di cimi turbolenza.Le proteste furono vane. Al sacerdote Leonardo Varcapia (1) di Castrovillari, che, dalle carceri della Concordia invocava di essere trasferito in Roma, fu risposto: o disporsi a partire in esilio negli Stati Uniti od a rimaner eternamente in prigione. Né miglior sorte ebbe la sua domanda di perdono umiliata ai piedi del clementissimo Sovrano con questo sonetto:Sire, non fui mai reo, fui sempre fidoAi sacri cenni dei tuo labbro al tronoE se un malvagio mi ti pinse infidoSi avrà da me, ma non da Dio perdono. Or che di mille voci in un sol gridoTi chieggon grazia; in mezzo a queste io sonoChe a te ricorro, e che nel cor confidoDi avermi pur la libertade in dono. Stendi la mano a chi t'adora e langueFra duri ceppi, fra gli strazi e il piantoE un giorno ti saerò perfino il sangue.Deh! mi perdona, se pur reo mi credi, Pei figli eletti che ti stanno accanto.Del tuo splendido Tron ben degni eredi. Il Borbone non si smentiva mai! Né d'indurlo a più miti consigli potevano aspirare proprio i poeti!Una eccezione fu fatta per Nicola Nisco il quale con suppliche reiterate (2) ottenne di trasferirsi con la famiglia in Germania.

(1)

Min. di Pol. Gen. Inc. Vol. 7 a. 1859.

(2)

Inc. 2550 Vol. I. a. 1859.

211

I nostri gloriosi martiri, liberi dalle catene furono, alla fine, avviati per il loro destino. «Usciti di carcere, raccontava Cesare Braico a Lady Russel, noi traversammo quattro villaggi per arrivare al posto: nessuno ci guardò, non una parola cortese, non una lagrima in alcun occhio, non una benedizione per noi. I Napoletani, più che avviliti erano imbrutiti». E le apparenze potevano dar ragione del severo giudizio. Ma la polizia (1) si affrettò a riferire che i liberali concordemente deploravano che alla commutazione deiresilio imposta ai loro correligionari si fosse aggiunta la condizione rigorosa di dover essere deportati nella lontana America. Il che, come testimonianza dello spirito pubblico, è da ritenersi di non iscarso valore.

La sera del 15 Gennaio 1959 lo Stromboli, al comando del Capitano Cafiero e del Colonnello Brocchetti si mosse per raccogliere dai diversi Bagni i graziati. Le mie ricerche mi hanno procurato la sco verta di alcune lettere nelle quali sono espressi i sentimenti che all'atto delle partenza e durante il viaggio per Cadice tumultuavano nell'animo di quei generosi ai quali la libertà era triste annunzio di futuro danno.

Sono parole di gioia e di dolore, di rimpianto e di fede; sono la prova documentale d'una generazione di giganti che stette all'inferno delle pene ingiuste e dei tormenti con lo sdegno di Capaneo e con la sapienza di Socrate (2). E' noto, poi, come i deportati,

(1)

Min. di Poi. Gen. Inc. 2550 Vol. 23, par. 2, fas. 2.

(2)

Giuseppe Tripepi scriveva al figlio, Francesco Donato, a Reggio:Da bordo lo Stromboli 16 del 59Ciccillo figlio mio benedettoL'Inesorabile destino ha voluto che io partissi senza poter vedere i miei più cari di famiglia. Io lo seguo imperturbabile ove mi voglia condurre. Ti raccomando di uniformarti alla volontà di Dio; 212

pur essendo riusciti il 20 febbraio 1859, mentre navigavano per l'Oceano, a convincere, anche con l'intervento di Raffaele Settembrini, l'americano Samuel Prendix, comandante del legno David Stenrart, su cui erano imbarcati, a ricondurli in Europa, sotto minaccia di tradurlo innanzi ai. Tribunali di New Jork, per l'illegale costrizione della loro libertà, furono sbarcati a Queenstown in Irlanda. Recatisi, poscia, in Londra, furono ricevuti con onori trionfali ed accolti, come scriveva Silvio Spaventa al padre, «con straordinaria cortesia dalla più alta aristocrazia di quel paese, e dagli uomini suoi più illustri dai Palmerston, i Russel, li Argyle e Gladstone, i Napier ecc.».di voler bene a Marianna tua moglie. E colei che ti fece da madre. Il cielo sia a voi tutti propizio. Io credevo che coi compagni saremmo condotti a Napoli come ci si faceva intendere; ma all'improvviso ci han fatto imbarcare sul vapore Lo Stromboli. La nostra destinazione, per ora, è Codice. Da quel luogo scriverò a tutti i parenti. Pregate Iddio perché illumini la mente del sovrano e ci faccia ritornare in Patria.Tuo Nicola Cristino alla sua affettuosa madre Carmela in Manduria:Dalla rada di Procida 16 del 59queste poche parole te le scrivo da sopra il legno dove siamo imbarcati. Da Nisida siamo arrivati sotto il bagno di Procida, e staremo qui infine che non saranno imbarcati gli, altri compagni.Ho trovato sul vapore Poerio, Dono, Cesare e Castromediano: noi ci amiamo tutti quanti. Statti di buonissimo animo; per noi è stata una gran fortuna essere usciti vivi.Le prime lettere te le scriverò da Codice.Bacio le mani a te ed a papa, abbraccio Vespasiano, Raffaele e Marianna. 213

Una sottoscrizione fu subito aperta in loro favore da un comitato dei primi Lordi e negozianti che fruttò, in un tratto, 10000 sterline. Il Borbone lavorava a discreditare i portabandiera della rivoluzione accumulando contro di loro

Giuseppe Gramazio Pace alla signora Maria Gramazio Pace Castrovillari per Firmo:A bordo dello Stromboli 16 del 59 alle ore 5 di notteMariuccia mia,sto benissimo, e per tua tranquillità ti scrivo questi pochi righi. Il vapore cammina a lutto fuoco e mi porta assai bene. Ti scrissi con altre mie il mio desiderio e la tua virtù non mancherà soddisfarlo degnamente. Contentati del pensiero di sentirmi libero e di raggiungermi presto. Non puoi credere quanto sei amata e stimata. T'amo e t'amerò sempre e la mia gratitudine per la tua fedeltà ti tenga tranquilla che permarranno nel mio cuoreTuo sposo Ce ne sono di Luigi Praino al fratello Francesco in Cassano Calabro; di Vincenzo a Girolamo Cuzzoorea; di Ferdinando al fratello Filippo Bianchini in Catanzaro; di Domenico Antoglietta alla madre Emmanuela in Leoce; di Carlo Pavone a sua sorella Concetta con queste indicazioni: Napoli Salerno Rignano per Torohiara; del sacerdote Baldassarri a sua madre Maria in Polignano. Giovanni Magnoni in una lettera, a suo fratello Salvatore, scrive fra l'altro: «II Barone Poerio e Peppino Pica si hanno disputato a ohi m'avesse fatto uscire gli occhi per lo stringermi al loro cuore. Oggi forse è stato il più bel giorno della mia vita».

Altre lettere sono sottoscritte dal principe di Caballino Sigismondo di Castromediano, da Domenico Conte, da Giuseppe Pace e da Nicola Salerno.

Il Borbone neppure in cosi solenni momenti si smentiva! Tutte le lettere furono emparate. Non una raggiunse il suo destino!

214

ogni specie d'insinuazione e di calunnia. Il più bersagliato, però, era Carlo Poerio. Lo scrittore anonimo delle Osservazioni alla vita del Re di Napoli Ferdinando II (1) esclamava irritato: «Intorno a quest'uomo corre un grave equivoco; il grande avvocato non è già il vivente Carlo, ma è stato il fu Giuseppe Poerio, padre suo.

«Egli è sopra questo equivoco di nome che di un uomo nullo, di un volgare schiamazzatore, come Carlo Poerio, gridato ministro dai Club, e rimasto al ministero solo 28 giorni, si è fatto un illustre uomo di stato; e si è accagionato il Governo Napoletano di tenerlo imprigionato, quantunque in virtù di condanna regolare». Più tardi Petruccelli della Gattina, nei suoi Moribondi di Palazzo Carignano, in un accesso di atrabile e per ragioni di parte superò nel l'insulto contro l'illustre patriota gli stessi denigratori borboniani. I quali furono solleciti a sfruttarne Tamaro ingiusto giudizio a scopi settari cosi come se i fatti potessero mutare di significato per sentimento d'uno scrittore che, nella disamina degli avvenimenti storici, si facesse guidare da motivi di personale risentimento. Carlo Poerio è stato giudicato con qualche riserva da coloro che in lui vollero vedere il rivoluzionario, il ribelle, l'irriducibile cospiratore di poi fattosi uomo di destra. La verità, invece, si è che il nostro, pur avendo per la causa della libertà patito per tre volte il carcere prima del 48, fu del partito delle riforme e credette che il Borbone, contro del quale non cospirò mai per toglierlo di regno, avrebbe concesso e mantenuta la costituzione. «Dicasi quel che si voglia da altri, scriveva Saverio Baldacchini, io affermerò sempre che il Poerio non andò mai coi suoi desideri al di là dello stabilimento tra noi di una monarchia rappresentativa». Ciò, del resto, il Poerio stesso aveva costantemente affermato prima,

(1) Milano. Per i tipi di G. Radaelli, 1857 pag. 31.

215

durante e dopo la sua condanna e la sua liberazione. «Della Unione Italiana, egli scriveva, sono stato zelatore caldissimo, ma nel senso della Lega dei Governi della Penisola, come era in Germania e come si sta attuando sotto nuove forme in quella vasta regione; e quando sedeva nel Consiglio, nei supremi momenti del marzo 1848, lealmente esposi i miei principi per iniziare con pronta energia la federazione dei Governi italiani. Ed il mio avviso fu accolto dai miei colleghi nel Ministero. Questa è la Unione Italiana che ho vivamente caldeggiata: non quella che mi addebita l'accusa e che io energicamente respingo» (1). Non è, dunque, in questo il segreto della grandezza dell'insigne patriota; né in quello dei suoi meriti scientifici, poco apprezzabili. Carlo Poerio è tutto nella nobiltà e dignità della vita; nella saldezza adamantina del carattere; nella serena coscienza del suo martirio. Onde a suggello delle mie parole, mi piace conchiudere riportando dalla commemorazione che ne fece il Pisanelli nella Camera italiana, il brano seguente che ha valore d'una solenne testimonianza e d'un giudizio quanto altri mai autorevole:

«Gittato in orrende prigioni, egli disse, stretto tra i ceppi, egli provò tutte le pene che una forza brutale può prodigare per affrangere il corpo e tormentare l'anima di un uomo. Ma egli le sostenne con animo cosi forte e sereno, che umiliati parvero soltanto i suoi persecutori (2).

«Tratto innanzi ai suoi giudici, che gli chiedevano la sua difesa,

(1)

Incart. 49 68 (4) del fase. 15 a 44.

(2)

Il 25 Novembre 49 scrivendo dal Castello dell'Ovo alla madre Baronessa Carolina Poerio, la pregava di non fare inutili passi presso le autorità ed il Ministro, e Io sono, egli soggiungeva, nello stato di oppressione e debbo e voglio subirne tutte le conseguenze. I miei amici e difensori Castriota e Tofano adempiranno (ne son certo) con zelo e con premura a tutti gli uffizi della difesa

216

egli con voce calma e sicura, dimentico di sé, non fece altro che deplorare la cecità e l'inumanità del Governo. Quella voce si diffuse in tutta Europa e divenne presto una formidabile accusa.

«Sbalorditi i reggitori di quelle contrade del suo nobile contegno, impauriti dalle minacce di Europa mendicarono più volte dall'illustre prigioniero una domanda di grazia che egli non volle mai sottoscrivere; perché aveva la coscienza che dovessero domandare perdono, non coloro che erano tra le catene, ma coloro che regnavano. E continuò a soffrire e sempre con animo imperturbato».

Un uomo di cosi alto sentire fu ben degno d'impersonare, nell'ora de' nazionali rivolgimenti, il mezzogiorno d'Italia e di richiamare su di noi, per l'eroica virtù della sua anima e l'inflessibilità adamantina del suo carattere, tutta la simpatia degli statisti più eminenti e dei popoli civili della terra. Era la prova del fuoco quella a cui gl'italiani venivano, alla fine, chiamati. E la resistenza parve soverchiasse le forze istesse della natura.

E la battaglia decisiva fu vinta.

Il Giornale del Regno delle Due Sicilie, in un Supplemento straordinario del 22 maggio 1859 pubblicava:

«Un fiero sgomento ci assale in prender la penna e compiere il più penoso dei nostri uffici: Il Re Ferdinando II non è più. Egli trapassava all'una e mezzo pm. di oggi(1)».

(1) Era nato il 12 gennaio 1810; salito al trono l'8 dic. 1830; sposò il 21 nov. 1882 Maria Cristina di Savoia, dalla quale ebbe il figlio Francesco; vedovo il 21 genn. 1836; sposò in seconde nozze il 9 genn. 1837 Maria Teresa d'Austria, dalla quale ebbe, nove figli, cinque maschi e quattro femmine. Il panegirico delle sue virtù fu recitato in migliaia di discorsi dei quali se ne vede un numero abbastanza rilevante per le stampe.

217

E surse la voce lo avessero avvelenato! Per crear leggende non vi ha chi superasse i realisti. Egli scompariva dalla scena del mondo mentre tutto il sistema politico al quale si era votato ruinava miseramente e l'Austria, vinta a Montebello, faceva prevedere la sua prossima sconfitta. Moriva mentre tutta Italia era una primavera di eroismi e di fede, e, forse, nello spasimo dell'agonia, lo feriva la voce del poeta incitante alle nuove pugne:Dai monti, dai piani, dai mari veniteFigliuoli d'Italia, la guerra v'aspettaSellate i cavalli, le lance brandite.Correte nei ranghi gridate vendetta.Coraggio! Coraggio! La guerra è la vita!La pace de servi mai vita non fu!L'Europa sommossa all'armi v'invita!Vi scorra nei petti novella virtù!All'armi figliuoli dell'Itala terraLa Guerra! La Guerra! 218

La caduta del regno

Con la morte di re Ferdinando il regno di Napoli non vide attuarsi nessuno di quei benefici rivolgi menti che, in simili casi, soglionsi verificare.

Francesco II, a cui natura, checché ne dicano i suoi biografi, aveva dato qualità non molto apprezzabili d'intelligenza e di cultura, vissuto sempre lontano dalle cure di Stato e nell'adorazione del padre suo, si affrettò, salendo al trono, dichiarare ai suoi sudditi che egli avrebbe continuato la politica del suo bene amato augusto genitore. Egli, nonostante gli eccitamenti dei pochi illusi, che, mentre i troni della Penisola, in parte già rovesciati, erano per iscomparire, pensavano poter salvare la indipendenza del reame, e le minacce dei patrioti che, con l'animo rivolto all'eroe di Magenta, gli ricordavano la storia della sua Casa in cui il coltello della patria aveva ferito Enrico IV, Luigi XVI, il Duca di Berry, Filippo d'Orleans, il Duca di Parma e Ferdinando II, respingeva ogni consiglio e proposta di riforme, alle quali anche le potenze, Francia ed Inghilterra, specialmente, lo sollecitavano. E così veniva ancora una volta confermato il giudizio che di lui avevano dato i patrioti, lorchè, nel 59, s'era discusso di sostituirlo al trono in luogo del padre.

L'abdicazione di Ferdinando, essi sostennero, non avrebbe in nulla mutato le cose, dappoiché il figlio non era che una copia, ahi! quanto peggiorata del padre. Più tardi si ripetette il solito ritornello: che ogni buona disposizione del re fosse stata paralizzata dalla camarilla Corte. E fu detto del pari, con poca verità storica, che Liborio Romano lo avesse in tale atteggiamento confortato per renderlo sempre più odioso al popolo e scavare un abisso incolmabile tra la monarchia ed i liberali.

219

Certo i minuscoli consiglieri mostrarono di non intendere i tempi. La loro colpa, però, fu comune a molti altri, al re, che (le poche eccezioni non mutano la sentenza) fini col trascinarli nella sua rovina.

Nelle mie Pagine del Risorgimento è scritto il racconto di quelli che furono gl'inizi del nuovo regno ed i tentativi che, mentre infuriava la rivoluzione, furono fatti per evitare la catastrofe. All'amnistia per i reati politici (1),

(1) Un poeta anonimo metteva in giro una poesia in cui si manifestava tutta la diffidenza del popolo per un tale atto. Essa si chiude con queste strofe:Or che l'Italia ai tirannelliPrepara tempi tristi e ribelli,Che Dio dell'Austria l'arme conquideLiberticideOra, sì colma era la tazzaDi questa odiata perfida razzaChe Dio negli alti suoi giusti finiNon un MazziniManda per giudice ai nostri tortiMa scruta l'aure, scruta le cortiE redentori degl'italianiFa due Sovrani.All'armi! all'armi! su questa terraSi scuota, insorga, si muova guerraPer l'universo il grido suoniFuori i BorboniE dell'Italia tanto oltraggiataAl bando eterno sia condannata,Questa borbonica sozza geniaSenza amnistia.Min. di Poi. Gen. Inc. 318 Vol. 3. pag. 11 1859.


vai su


220

al richiamo in vita della Costituzione, al progetto d'una lega col Piemonte, fu dal popolo risposto: troppo tardi! Giuseppe Garibaldi, dopo avere rivendicato a libertà la Sicilia (1), nonostante le trame della diplomazia surta ad ostacolargli il passo, avanzava già vittorioso sul continente, mentre i soldati piemontesi, rotta ogni resistenza a Castelfidardo, gli tendevano la mano al grido fatidico: Italia e Vittorio Emanuele.Tra lo strepito intanto de Tarmi vittoriose e gl'inni di gioia, il Conte di Cavour continuava a tessere le sue reti ed a frenare gl'impeti del Principe Cortschakoff e del Barone Schleinitz i quali levavano alta la protesta contro il Governo Sardo che aveva osato «senza dichiarazione di guerra e senza provocazione passare la frontiera romana, patteggiando apertamente con la rivoluzione».

Dopo la disfatta delle truppe al Volturno,. a Capua ed al Garigliano, Francesco II, come si legge nel suo proclama ai popoli delle Due Sicilie,

(1) Ho rinvenuto un pugno di lettere di soldati che parlano dei moti rivoluzionari della Sicilia e dei combattimenti che in tutte l'ore si succedevano tra insorti e truppe borboniche. Uno dice: «Iddio ci vuole scansare la vita perché stiamo molto in pericolo - Le città di Palermo e le due Sicilie si sono rivoltate». Ed un altro: «Messina si è rivoltata ed abbiamo dovuto combattere notte e giorno». Ed ancora: «Dal mese di marzo non abbiamo avuto più riposo - Noi siamo stati fedeli alla Corona -E' stato peggio del 1848». Seguono altri: «Noi dobbiamo andare per la Sicilia per impedire ai soldati che sono sul mare di entrare nel nostro regno - Ci è stato detto che andremo a Milazzo ed a Catania» - «Quello infame rivoltoso di CarloBarda è sbarcato in Sicilia col braccio dei rivoltosi paesani, ma non hanno che fare questi bricconi rivoltosi innanzi alle reali bandiere. Questi sono come il ladro che spara e poi se ne fogge. Ossia, fin'ora hanno fatto cosi; non sappiamo d'ora innanzi. Carlobalda tiene 60 mila uomini attorno a lui ma dicono che lui fosse ferito e il figlio morto».

221per non esporre la capitale agli orrori d'un bombardamento, con gli avanzi delle rotte milizie, si rifugiò in Gaeta.

, Di tale decisione si accusa anche quel Cireneo di Liborio Romano, che l'avrebbe consigliata per tradire il suo re e spalancare le porte della capitale a Giuseppe Garibaldi, al cui incontro fu visto muovere osannando. Eppure, una tale decisione fu dettata unicamente dalla prudenza e dalla necessità. L'abbandono di Napoli, per fermo, veniva consigliato dalla impossibilità di poter difendere, con milizie provate dalla sventura ed in numero abbastanza limitato, una città aperta, tra le cui mura fermentavano, non solo, ma si manifestavano di già i segni della rivolta (1).

E non solo il problema bellico, ma quello dell'approvvigionamento d'una città cosi popolosa, stretta d'assedio per terra e per mare, si sarebbe subito imposto, ed avrebbe costretto i difensori alla resa.

(1) Non passava giorno che Napoli non si trovasse piena di cartelli con scrittovi: Viva Italia; Viva Garibaldi; Viva Vittorio Emanitele nostro Re. Altrettanto si verificava in tutte le città del regno. In Reggio un cartello affisso in piazza del Duomo diceva: «Viva il Re nostro Vittorio Emanuele. Unito al generalissimo Giuseppe Garibaldi con i fratelli Siciliani. Fuori il Borbone. E i suoi infami sbirri. Viva l'Italia del nostro pensiero. Libertà per tutti». Ed in Avellino: «Viva la Costituzione. Viva Vittorio Emanuele. Viva Carlo Alberto. Viva Luigi Napoleone. Viva il novello Re. Viva la libertà del popolo. Spandete la voce del giubilo». Dal 14 al 15 luglio 1860 tutta la Provincia di Lecce fu innondata di cartelli tricolori con i seguenti motti: Viva l'Italia Una. Viva Garibaldi. Viva la Sicilia. Viva Vittorio Emanuele. In molti scritti si leggeva: Viva zio Giuseppe, alludendosi a Garibaldi. In Ascoli si leggevano avvisi con queste parole: «Ascolani Palermo è in mano dei nostri prodi ed è caduto il tarlato trono della tirannia. L'imperatore d'Austria è stato stilettato e ce ne gloriamo». S'invitavano i soldati alla diserzione;

222

La verità è più modesta. Francesco II non pensò per un sol momento ad una possibile vittoria sulle armi della rivoluzione e del Piemonte. E lo dimostrò quando rifiutò il consiglio di quei fedelissimi che lo esortavano a montare a cavallo ed alla testa del suo esercito, vincere o morire da re. La vittoria, dopo Carlo III, aveva abbandonato le insegne borboniche! Francesco II ed i suoi Ulloa (1), che innondarono di lamenti, di proteste e di menzogne il mondo,

si aprivano comitati per far leva di uomini e per aiutare in tutti i modi la rivoluzione. Né mancavano le grida, le dimostrazioni, i conflitti. Molti tra i borbonici più in vista espatriavano, Le case dei famigerati Merenda e Campagna venivano svaligiate e se ne bruciavano i mobili. Così di altri funzionari invisi aggrediti e colpiti a sangue. Gli archivi della Polizia testimoniano della febbrile attività dei patrioti in accelerare le conclusioni degli eventi che nella loro complessa gravita si designavano fatali per la monarchia regnante.

La proclamata costituzione, inoltre, rimettendo in onore la libertà di stampa, dava la via libera alla pubblica opinione che si pronunziava apertamente contro la permanenza del Borbone al trono.

E ciò era tanfo più impressionante in quanto né il re, né i suoi ministri avevano accennato od accennavano a lasciare il potere.

(1) Vincenzo Alborella, nel suo libro: Gli Ultimi Borboni da dell'Ulloa questo profilo: Pietro Carlo Ulloa, ardente carbonaro nel 1820, per delitto di maestà incarcerato nel 1821, il quale denunziante i suoi compagni di sventura riscuoteva per prezzo del tradimento un carico in magistratura, e che nel 1844, per tema di perdere il prezzo di Giuda, sì dichiarò caldo partitante di libertà; ma che nel 1849 ritornò pubblicamente al mestiere che non aveva mai abbandonato, a quello della spia, sicché fu acerrimo reazionario e fra gl'iniqui giudici fu iniquissimo nelle condanne e nei processi politici. Perché nel 1860 con decreto del 16 settembre fu destituito dal carico di Consigliere della Suprema Corte di Giustizia, in omaggio alla pubblica opinione

223

mirarono a fine ahi! quanto più positivo! La fortezza di Gaeta perché adatta ad una più lunga difesa (la si disse approvvigionata per molti mesi) metteva il Borbone in punto di tentare quell'abile gioco diplomatico dal quale tante volte aveva tratto salute.

E sulle prima sembrò che la buona stella gli sorridesse essendosi ventilata la proposta d'uno dei soliti Congressi delle potenze per regolare la questione italiana.

Ma il sogno fu breve! La realtà tornò ad imporsi e mentre la Francia, legata al non intervento, per non accreditar voci tendenziose, suscitate dal contegno equivoco del Comandante Barbier de Tinon, ritirava la sua flotta che per quattro mesi aveva sbarrato le vie del mare, il Ministro degli Esteri Casella con una circolare del 18 gennaio 1861, si faceva a denunziare al mondo come la fortuna del re stesse inesorabilmente per precipitare.

«Da domani, egli scriveva, il porto di Gaeta resta bloccato, ed è aperta la strada agli attacchi marittimi contro la piazza. Da domani i legni stessi di S. M., consegnati con un tradimento il più infame al re di Piemonte, verranno a lanciare le bombe sopra famiglie disarmate, rifugiatesi qui, sopra il legittimo re e sopra la regina delle Due Sicilie. Non si può credere che l'Europa assista più lungamente impassibile allo spettacolo d'un re riconosciuto da tutte le potenze, spogliato dei suoi stati dalla più iniqua aggressione, in preda a tutti gli orrori d'un lungo bombardamento, senz'altro delitto che il coraggio di difendere valorosamente l'ultimo baluardo della monarchia contro una vile invasione. I sovrani ed i popoli comprenderanno finalmente che si difende a Gaeta qualche cosa di più che la corona d'un'antica dinastia; ai difendono i trattati in virtù dei quali regnano tutti i sovrani, il diritto pubblico, sulla forza del quale

224

e riposano la tranquillità e l'indipendenza dei popoli. S. M. il re è deciso d'affrontare sino alla fine tutti i pericoli della sua posizione abbandonata. Bloccato ed attaccato ad un tempo dal lato di mare e di terra potrà cadere sotto le rovine della piazza, potrà essere il prigioniero dei suoi nemici. Qualunque sia la sua sorte S. M. è pronto a sopportarla con quella grandezza d'animo e quella fermezza di cui da cinque mesi da prove si numerose e costanti».

Venuta meno ogni speranza nell'intervento immediato delle potenze, si die opera ad intensificare con tutti i mezzi la guerra civile che lo sbandamento delle truppe, specialmente, alimentava, perché fosse manifesto che «il Piemonte non aveva sull'Italia che il diritto della forza, e della conquista». Negli Abruzzi un proclama di Francesco Luvarà (1), dopo una violenta filippica contro gli usurpatori e quelle potenze che avevano abbandonato il legittimo re, il pio, l'augusto, il troppo clemente figlio della Regina santa, Francesco II, cosi continuava:

«Presto, presto dunque, scuotetevi dal letargo onde siete compresi all'aspetto delle presenti nequizie! Una mano di prodi viene tra voi ad innalzare la bandiera dell'augusto nostro Re! Quella bandiera alla cui ombra nasceste, che tutelò per tanti anni le vostre famiglie, e che, congiunta col vessillo della croce fu benedetta dal Vicario di Cristo. Stringetevi coli' affetto, colla voce e per quanti possono colle armi in pugno intorno a questa! Mostrate al mondo che in queste contrade vi è ancora fede in Dio e nel proprio Principe. Mostrate che se nella metropoli sopratutto si annidava il tradimento,

(1) Min. di Pol. Gen. Inc. 5. Vol. 13. (anno 1860).

225

nelle Provi noie alberga ancora «la fedeltà, e sostegno della fedeltà, il valore».

Con questi proclami, dai quali il regno fu in breve inondato, si mirava ad eccitare il sentimento delle popolazioni, quanto mai impressionabili, or con la pietà, descrivendo lo stato miserando del re legittimo, costretto, lui incolpevole, a combattere per la corona e la indipendenza del regno, solo, con un pugno di valorosi, scampati al tradimento ed alla morte, ai quali la regina era esempio d'intrepidezza e d'eroismo, ed ora col prospettare imminente o di già avvenuta la restaurazione, ciò che teneva sospesi gli animi, mentre si diffamavano con ogni più vituperevole invenzione e col più turpe linguaggio, i fattori del nostro risorgimento, Vittorio Emanuele (1), Cavour e Garibaldi, specialmente, la cui mercé, a loro dire,

(1) Il re, tra deliranti entusiasmi, al canto dell'inno che Leopoldo Tarantini aveva scritto e Mercadante musicato, il 27 Dicembre 1860, si partiva da Napoli, dove era giunto, aspettato re, il 7 novembre, con Garibaldi. I realisti si davano subito a diffondere per la città stampe e scritti oltraggiosi, riboccanti d'ogni più sanguinoso ed atroce insulto, co' quali si eccitava il popolo «ad insorgere, a vincere o morire anziché sottostare al governo infernale d'un mostro». Un Poter, fra le tante parafrasi d'orazioni cristiane, diceva:Poter tu parti e teco porti il nosterContro il santo voler di qui est in ccelis.Qridossi al tuo venir sanctiflceturOr maledetto sia il nomen tuum.Invece di conservar facesti adveniatL'argento e Voto nostro in Regnum tuum.Se il del ti punirà diremo fiatChe iniqua sempre fu voluntas tua.Noi che stavamo già sicut in cceloCi riducesti al fin di faccia in terraTogliendoci pur anche il panem nostrum.Che Dio ci avea segnato quotidianum. 226

il regno, con la perdita della sua indipendenza, sarebbe stato tratto in amara e dolorosa servitù. Ed ali' istesso fine sembrava scritto il proclama ai Popoli delle Due Sicilie che l'otto dicembre 1860 Francesco lanciava da Gaeta. Il legittimo Sovrano, dopo aver rinnovato in istil tronfio e manierato tutte le accuse ed i luoghi comuni contro i traditori e contro lo straniero che calpestava la terra su cui i Borboni, dopo averne ricostituita l'indipendenza e l'autonomia avevano per tanti anni regnato, si dava a magnificare l'eroismo dei soldati che con lui combattevano per la patria comune, nonché lo spettacolo delle nobili proteste (leggi brigantaggio!) che da lutti gli angoli del regno si alzavano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia. Ed a rinfocolare sempre più gli animi, specie della plebe incline a farsi trasportare dal sentimento, «io sono Napoletano, esclamava, nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il regno, i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni». E non si accorgeva che con queste parole, con le quali s'inneggiava al decrepito e superato municipalismo, egli pronunziava la sua irreparabile condanna.A chi dunque direm dimitte nobistA chi mai chiederem da nobis hodiefSe alcun soffrir non vuoi debita nostra?Che possa tu restar sicut et nosSenza poter mai dir dimittimus,Anzi odiato ognor da debitoriTi sovvenga del mal facesti ai nostris.Deh! gran Dio in avvenir ne nos inducasUn'altra volta in simil tentationem.Difendici non sol ma libera nosDa usurpatori, da ladri et omne maio.Amen, 227

Ancora una volta i Borboni camminavano a ritroso dei tempi e si ponevano contro la realtà storica che, nel suo fatale andare, li spazzò via.

I giornali del tempo registrano le sommosse sanguinose e gli episodi di ferocia o di valore che le bande armate consumarono nelle loro folli e disperate imprese. Prive dell'appoggio delle classi colte, passate quasi tutte alla rivoluzione, della borghesia, dedita alla famiglia ed alla quiete dei campi e perciò avversa all'azione e quindi senza di chi ne avesse diretto i movimenti ed accreditato gli scopi, sforniti di tutti gli apprestamenti di guerra, mentre i più fedeli al trono, nonché prendere le armi, si condannavano a volontario esilio, in poco di tempo, per l'insinuarsi e prevalere dei peggiori elementi, di vecchie birbe e di matricolati bricconi, tra' quali non pochi dimessi dal carcere per ingrossare le file dei combattenti, quella che avrebbe dovuta essere la Vandea italiana, (cittadini contro cittadini, legittimisti, armati di coltelli e di moschetto, assiepati nelle montagne, contro i Piemontesi) si tramutò in brigantaggio di cui, non già i generali borbonici, ma i Crocco, i Chiavone, i Ninco Nanco e simile lordura furono gl'indegni esponenti.

Ma ohimè! neppure quest'ultimo disperato tentativo valse a mutare il destino del re. Gaeta alla fine capitolava e Francesco II, dopo aver lanciato un altro dei suoi enfatici proclami, in cui vibravano tutte le passioni che in quell'ora suprema agitavano il suo cuore, s'imbarcava sulla Muette per l'esilio, donde non sarebbe mai più tornato (1).

(1) Mentre Francesco, per ingannare la noia dell'assedio, si dava allo sport di lanciare appelli disperati al mondo intero, la stampa della capitale ahi! strano contrasto, si abbandonava al più schietto umorismo, dando la stura a quella inesauribile verve, che ne fa del napoletano un popolo senza rivali. Dopo la caduta di Gaeta, un tale impulso non ebbe più freno.

228

All'una antimeridiana del quattordici febbraio 1861 egli giungeva da Terracina, dove era sbarcato, a Roma, in compagnia della Regina, sulla cui fronte splendeva l'aureola della sventura nobilmente sopportata, e dei Conti di Trani e di Caserta e si dirigeva al Quirinale che il Papa, memore dell'ospitalità filiale concessagli da Ferdinando nel 1849, aveva messo a sua disposizione. Ed in Roma, vivendo da sovrano regnante, con una Corte ed un ministero di cui Pietro Ulloa era il Presidente, vide cadere ad una ad una le sue speranze ed il sogno d'una restaurazione, con tanta fede proseguito, sparire miseramente, con l'unione di Roma all'Italia.

In quel giorno, forse, dovè pentirsi in cuor suo di non aver seguito il consiglio del Conte di Siracusa che il 24 agosto lo esortava a sagrificarsi alla grandezza d'Italia abbandonando un trono che nessuno "più sorreggeva.

Se Ferdinando era chiamato Bomba, per antonomasia, il figlio ne aveva, jure sanguini, ereditato il nomignolo, quanto mai significativo. Bomba o Bombino egli saliva al trono notato d'infamia, ed i liberali nulla omisero per renderlo sempre più odiato. Tra le innumerevoli scritture, così in versi che in prosa, apparse in quella circostanza, mi piace qui riportare le seguenti due orazioni. La prima è intitolata: La salutazione Angelica. «Ave Maria Teresa, disgratia piena, Oeccus Beppus teoum, maledicta tu in mulieribus et maledictus fruotus curae tuae materuae, Oeccus Bomba. Sanota Maria Teresa, matrigna Cecchi Bombae, ora prò nobis reationaris, nuno et in ora partentiae Bombae a Gaeta. Amen». E l'altra: II Gloria. «Gloria Cecoo Beppo, Bombino et pio Nono. In principio scacoioni eorum et nuno et semper et in saecula saeculorum, tisque ad completaci eorum distructionem. Amen». Di questi scritti diedi un breve cenno nella raccolta che va sotto il nome: Ricordi, Propositi e Speranze. Ma sarebbe da pubblicarli tutti a dimostrazione dei tempi e delle correnti spirituali che li tenevano agitati,

229

Il Times faceva seguire alla caduta del re questo commento:

«Francesco II è caduto dal trono come un pomo cade dall'albero, per la legge della gravita... Nella storia degli ultimi giorni dei Borboni di Napoli, molte cose ci ricordano gli ultimi giorni della dinastia degli Stuardi nell'isola nostra... Accade a Francesco II re delle Due Sicilie, ciò che accadde due secoli fa a Giacomo II re della Gran Brettagna e d'Irlanda: difensore della fede... Le simpatie dell'Europa non seguiranno il sovrano detronizzato nella sua fuga... Lasciate che le cose d'Italia siano bene ricomposte, ed in un paio d'anni il nome di Francesco II re delle Due Sicilie sarà dimenticato da tutti».

L'organizzazione del nuovo regno non fu opera facile né breve. Fra le dispute più che mai accese sulla opportunità e sulla formula del plebiscito, sull'unità e sulla federazione (1), sul garibaldismo ed

(1) Si disse che la Francia, dove Murat si dava a scrivere accuse che erano, poi, la voce delle sue amare delusioni, mirasse, dopo il colpo di mano sulla Savoia, alla Sardegna. Prevedendo il nuovo ingrandimento d'Italia, i nostri vicini le loro brame giustificavano dicendo: «Essere la Savoia a dieci milioni d'abitanti, come l'isola di Sardegna a venti milioni». Preoccupati, inoltre, di quello che, conseguita l'unità, sarebbe stato il nostro atteggiamento, menavano un'attiva campagna in pro della confederazione. E reca meraviglia (tanto lo chauvinisme francese non si smentisce mai!) vedere, tra quelli ch'erano stati i fautori della quistione italiana, penetrare la diffidenza come fu del Barone Brenier, e mettersi decisamente contro le nostre aspirazioni unitarie!

Ai realisti non parve vero afferrarsi a quest'ancora ch'essi avevano energicamente respinta.

Si contano a migliaia le brochures nelle quali essi sostengono

230

il mazzinianismo, sul napolitanismo ed il piemontesismo e su quella che avrebbe dovuta essere la nuova capitale d'Italia, la monarchia liberale consolidava, rapidamente, il suo credito e la sua autorità. Anche il brigantaggio, migliorate le condizioni economiche e morali del paese, battuto dall'esercito e dalle valorose milizie cittadine, perduto ogni favore, mentre la realtà, ahi! quanto diversa da quella vaticinata dai profeti di sciagura, confondeva tutte le menzogne, incominciò rapidamente a cedere fino a sparire del tutto. Vittorio Emanuele, il re galantuomo, acclamato padre della patria, realizzava, cosi, le più liete speranze della nazione ed il regno conquistato col valore e con la lealtà, fondava sulle granitiche basi della giustizia (1) di cui è documento

la federazione delle diverse nazionalità come unico mezzo di salvare l'Italia da sicura rovina. Tra la selva degli anonimi sostenitori di questa tesi oltre i Malvica, i Cognetti, i Socchi, fedeli all'antico regime, brilla l'Ulloa, che nonostante i tentativi da lui fatti per avvicinarsi al nuovo ordine di cose, continuò sempre ad invocare il ritorno del re legittimo sul trono di Napoli.

(1) Come indice dei tempi mutati mi piace citare due circolari di Silvio Spaventa lorchè rivestiva la carica di Segretario Generale. Esse si prestano al paragone con i dannati metodi seguiti, in casi simili, dal cessato regime. Con la prima del 5 giugno 1861, deplorando che le persone arrestate per ordine dei Governatori, Intendenti ed altre autorità di pubblica sicurezza, non vengano consegnate all'autorità giudiziaria nel termine stabilito dalla legge, invita i responsabili «di osservare rigorosamente simile prescrizione, che costituisce una delle più importanti garentie della libertà individuale, ed è base dell'ordinato disimpegno delle funzioni sociali». Con l'altra del 14 successivo si prescrivevano le norme con le quali si dovevano dalle stesse autorità dare le informazioni, specie per la epurazione del personale,

«Si è spesso sperimentata, in essa è scritto, la inesattezza o la leggerezza con cui queste informazioni sono date.

231

solenne quella legge delle guarentigie che regolò, quando più acuto era il conflitto, i rapporti tra la Chiesa e lo Stato, consentendo ai due sommi poteri di vivere l'uno a fianco dell'altro, liberi ed indipendenti nell'esercizio dell'alta missione ad essi confidata. A poco più di cinquantanni da quel giorno, popolo e re, in una nuova primavera di eroismi, di speranze, di fede scioglievano il voto di far libera ed una l'Italia da l'Alpi al mare.

FINE

In generale, anzi che essere un rapporto di fatti particolari da cui si desuma il concetto morale o la capacità degli individui di cui si chiede conto, si restringono a pure frasi come a dire che è un borbonico, un birbante, o al contrario un liberale, un onesto uomo, senza altra specificazione. Ora sarebbe desiderabile e giusto che simili gratificazioni anzi che essere date così senza appoggio di fatti che le comprovino risultassero piuttosto nell'animo di chi chiama le informazioni come una conseguenza dei fatti riferiti». Con tutto ciò i borbonici non mancarono di divulgare a mezzo dei loro libelli che il nuovo regime, in arbitrio e violenza, avesse superato quelli che l'avevano preceduti e che, la conseguenza era evidente, si stava meglio quando si stava peggio. Per il che unico rimedio a tanto male, la restaurazione dei borboni e dei principi spodestati sui loro troni. Ahi! i semplicisti. Chi ci libera da questi nemici?

INDICE

La Reazione e Guglielmo Gladstone pag 1

Come e perché furono scritte le prime due lettere » 30

Come furono preparate ed accolte le difese borboniche » 49

Scrittori ed amici del vecchio regime contro Gladstone » 110

Come fu soppressa l'indipendenza della Magistratura » 118

I processi della Setta l'Unità d'Italia e degli avvenimenti del 15 Maggio 48 »

137

Prigioni e prigionieri borbonici » 181

La caduta del regno » 218






vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.