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Leggere oggi gli atti di una delle prime sessioni parlamentari del 1861 - esattamente le tornate dal 2 al 6 aprile 1861, quando non era trascorso manco un mese dalla proclamazione del Regno d'Italia avvenuta il 17 marzo dello stesso anno - è molto istruttivo. Anche se deprimente. Tutti sono prigionieri dei giochi in cui sono invischiati e si preoccupano affatto di uscirne, ci sguazzano beatamente. Come i rappresentanti al parlamento delle provincie napolitane e siciliane.

Si passa dalla improntitudine di uno Scialoia che usa il suo intelletto per dimostrare la inferiorità economica, politica e giuridica del proprio paese, al servilismo di un Massari, segretario della seduta e da tempo anch'egli sul libro paga di Cavour, alla mente sopraffina di un Amari che dimostra la inconsistenza giuridica del castello costruito dai sabaudi ma non riesce ad andare oltre, avrebbe dovuto mettere in discussione la esistenza stessa di quel castello se fosse stato coerente con le sue argomentazioni.

Ci ritroviamo di fronte la spudoratezza di un Cassinis (l'uomo che aveva provveduto a far avere il minor numero possibile di rappresentanti napoletani al parlamento di Torino così come gli aveva raccomandato Cavour, cfr. Franco Molfese, Storia del brigantaggio) che, in nome delle "circostanze identiche" al periodo di nascita dello statuto, giustifica tutto l'impianto legislativo che si è arbitrariamente costruito nelle provincie meridionali.

Solo la visione profetica e il senso di giustizia di un Ferrari escono dal coro unanime dei sabaudi e dei loro servitori meridionali, egli infatti domanda una commissione di inchiesta per evitare altri danni.

Qui interviene la sapienza tattica dei vincitori, Cavour in testa, che lasciano sfogare in sterili chiacchiere i vari Crispi, Ugdulena, Natoli, Ricciardi (animato da pie intenzioni stroncate da continui risolini da parte dell'aula), Di TorreArsa, Ranieri che alla fine si appiattiscono sulle scelte della dinastia imperante, sacrificando per sempre gli interessi della loro terra di origine.

Durante la discussione viene fuori anche che al Montezemolo in Sicilia succederà Della Rovere, accorpando tutti i poteri civili e militari, ma nessuno dei deputati meridionali ha il coraggio di opporsi allo scempio in atto.

Tutto in nome della unità della patria. Quale? La padania di Bossi o quell'evanescente edificio che si affanna a puntellare il meridionale di turno ovvero il presidente Napolitano?

Buona lettura e non arrabbiatevi troppo.

Zenone di Elea - 5 agosto 2010

CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861
INTERPELLANZE DEL DEPUTATO MASSARI E DEL DEPUTATO PATERNOSTRO SULL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLETANE E SICILIANE.

(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)

Presidente. L'ordine del giorno porta le interpellanze del deputato Massari al ministro dell'interno sulle cose di Napoli.

Il signor Paternostro ha domandato di parlare per fare una mozione d'ordine.

Paternostro. Pregherei che mi si accordasse la parola immediatamente dopo il discorso del deputato Massari per le sue interpellanze al Ministero, intendendo anch'io di muovere un'interpellanza all'onorevole ministro dell'interno sulla amministrazione in Sicilia. Per tal modo mi lusingo che sarà per essere abbreviata la discussione, potendo il Ministero rispondere nello stesso tempo all'uno e all'altro.

Minghetti, ministro per l'interno. Io non ho alcuna difficoltà a che, dopo le interpellanze dell'onorevole Massari su Napoli, seguano quelle dell'onorevole Paternostro sulla Sicilia; anzi io sarei d'avviso che se, dopo questi due oratori, alcun altro avesse dei fatti relativi allo stesso argomento, sui quali volesse interpellare il Ministero, sarebbe più opportuno che lo facesse immediatamente, e cosi io risponderei a tutti ad un tempo. E dissi dei fatti, poiché, quanto alla discussione in merito, essa potrà aver luogo dopo quelle spiegazioni che il Governo di S. M. sarà per dare.

Presidente. Resta dunque inteso che, dopo il deputato Massari, sarà data facoltà di parlare al deputato Paternostro ed a quegli altri i quali dichiarassero di avere fatti speciali, sui quali intendessero movere interpellanza al Governo.

Il deputato Massari ha dunque facoltà di parlare per isvolgere la sua interpellanza al Ministero.

Massari. (Segni d'attenzione) Signori, se io non fossi compreso dalla profonda persuasione che, nel richiamare l'attenzione del Governo e della Camera intorno ad un grave e doloroso argomento di politica interna, adempio ad un dovere, preferirei di gran lunga al parlare il silenzio; ed anzi avrei colta con premura l'occasione che mi porgevano e la recente crisi o metamorfosi ministeriale, e gli aggiornamenti a cui hanno soggiaciuto le mie interpellanze, per desistere da esse, tanto è lontano da me il bieco intendimento, che non so con quanta benevolenza, in una delle scorse tornate, mi apponeva l'illustre presidente del Consiglio, allorché mi accusava di voler collocare il Ministero su di un letto di spine.

Che le spine ci sieno, pur troppo è indubitato; e sono acute, e sono pungentissime; ma, ben lungi dal volermi procurare la poco patriottica soddisfazione di costringere il Ministero ad adagiarvisi sopra, io non sono in questo momento agitato e vivamente preoccupato che da un solo timore, che le punture di quelle spine cioè abbiano a vulnerare il prestigio di un Governo che io credo utile e necessario alla salute del mio paese ed a tutta Italia.

Il pericolo è grande, o signori; e non giova dissimularlo, poiché la questione amministrativa può pregiudicare sostanzialmente la questione politica, ed i nostri nemici non attendono, non aspettano se non l'occasione, od anche il pretesto di poter dire che gli Italiani sono stati impotenti a costituire ed ordinare quella nazionalità che hanno voluta e proclamata, e che hanno conseguita a prezzo di tanta virtù e di tanto senno, di tanto valore e di tanti sacrifizi.

Io ben so che sollevo una questione ardente e che può dar luogo a discussioni irritanti; l'esperienza m'insegna che certe questioni non possono essere agitate senza pericolo, e

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TORNATA DEL 2 APRILE

con i propositi più fermi e più schietti di conciliazione e temperanza, invece di placare le passioni ed attutare le ire, si riesce pur troppo a infiammarle e ad aizzarle maggiormente.

Questa grave considerazione mi avrebbe persuaso al silenzio, se altre più rilevanti non mi avessero imposto di parlare.

I mali che affliggono le provincie dell'Italia meridionale di qua del Faro hanno raggiunto tali proporzioni che richiedono urgente rimedio; in questo caso gl'inconvenienti del silenzio sono sempre maggiori di quelli della pubblicità, e ad ogni modo è d'uopo aver fede nella libertà; né per guarire i mali che la libertà produce avvi rimedio migliore della libertà medesima. Quando una piaga fa sangue e sta per volgere in cancrena, è d'uopo avvivarla coll'aria pungente della pubblicità, è d'uopo curarla, se la si vuol guarire, col ferro rovente della libera discussione. D'altra parte ho riflettuto che il solo fatto di queste interpellanze e della discussione a cui esse potranno dar luogo sarà un primo rimedio, poiché esse mostreranno alle afflitte popolazioni dell'Italia meridionale che il primo Parlamento italiano rivolge benigno lo sguardo alle loro sorti, e si occupa di migliorarle, ed in tal guisa balenerà ai loro occhi la consolante speranza che l'ora di giustizia riparatrice, indarno attesa fin oggi, sia per suonare.

Prima però d'addentrarmi nel mio argomento ho d'uopo di premettere due dichiarazioni.

lo vengo a sollevare una questione di principii e non d'uomini, di sistemi e non di persone. Venendo ad esporvi i mali che travagliano il mio paese, io non intendo muovere censure ad alcun individuo, intendo solamente censurare il cattivo sistema da cui credo che quei mali sieno originati. Estraneo non alle lotte, né ai pericoli dei partiti, ma alle loro ambizioni, entrando in quest'aula non ho avuto mestieri di deporre alla soglia personali rancori, privali risentimenti. Ond'è che, se nella concitazione del dire, se nel procedere d'un discorso, del quale ho maturamente e lungamente meditato il concetto, ma non la forma, mi avvenisse di prorompere in espressioni, le quali implicassero qualsiasi personalità, prego la Camera, prego l'onorevole nostro presidente a volermene avvertire. Accoglierò l'avvertimento con gratitudine, m'inchinerò riverente all'ammonizione.

L'altra dichiarazione che voglio fare concerne la questione in sè medesima.

Certamente, trattando di così fatto argomento, mi sarà impossibile d'evitare assolutamente la politica; la questione però ch'io sollevo, lo dichiaro, è questione essenzialmente amministrativa, è questione di buon governo.

Se avessi creduto di dover trattare una questione politica, mi sarei rivolto non all'onorevole ministro dell'interno (e spero ch'egli non ravviserà in queste parole mancanza di deferenza verso di lui), mi sarei rivolto, dico, non all'onorevole ministro dell'interno, ma all'onorevole presidente del Consiglio, su cui pesa la maggiore e precipua responsabilità dell'andamento delle cose politiche.

Non ho stimato opportuno di sollevare la questione politica, perché su di essa non può essere discordia alcuna fra noi.

Qualunque sia il banco della Camera su cui noi sediamo, noi non abbiamo che un solo programma, l'unità italiana, e la monarchia costituzionale ereditaria di Casa Savoia.

Ond'è che io oso sperare che le mie parole non saranno per destare tra noi altra gara, se non che quella di concorrere efficacemente al miglioramento della sorte di tante infelici Provincie d'Italia.

Noi avremo in tal guisa data una risposta perentoria a quegli oratori francesi, i quali pare abbiano assunto il carico di volerci far rimpiangere il silenzio che per dieci anni è stato ad essi imposto, dimostrando loro col fatto che, se fummo concordi nel distruggere e nell'abbattere, sapremo essere pure concordi nel creare e nell'edificare. E questo Parlamento avrà continuato a meritare in pari tempo le lodi, che ad esso, or sono pochi giorni, largiva l'illustre ministro della più libera nazione del mondo.

Premesse queste dichiarazioni, io procedo senz'altro e coll'animo più tranquillo verso il mio tema.

A rettamente giudicare le condizioni del problema amministrativo che si deve sciogliere nelle provincie meridionali, è d'uopo, o signori, determinare preliminarmente con esattezza quali sieno le condizioni politiche e le disposizioni degli spiriti presso quei popoli, e quali le ragioni che li hanno determinati ad abbracciare con tanto calore la causa dell'unità italiana.

Mi si permetta di dire che i giudizi, i quali, in generale, si recano su quel paese, sono ben lungi dall'essere esatti; debbo anzi confessare (e faccio questa confessione con compiacenza, perché essa torna a lode del mio paese), che in medesimo, quando, dopo un secondo esilio di undici anni, ritornai in patria, nell'ottobre scorso, m'avvidi che il giudicio che lo recava sul mio paese era grandemente erroneo.

E opinione, non dirò accreditala, ma universalmente diffusa, che la rivoluzione sia stata, nelle provincie meridionali d'Italia, quello che, con una metafora economica, si direbbe fruito d'importazione. Signori, questo è un errore. Aggiungerò di più: non è soltanto un errore, è anche un'ingiustizia, poiché la rivoluzione covava latente in quelle provincie, e non aspettava che l'impulso per iscoppiare; l'impulso venne e la rivoluzione divampò come un baleno da un capo all'altro dell'ex-reame.

Mi duole di non vedere al suo banco l'onorevole generale Bixio, poiché egli, in una delle scorse tornate, ha reso, e ben si addiceva a lui che cosi eroicamente combattè per la causa nazionale, ha reso, io diceva, quest'omaggio di giustizia al mio povero paese, lo invoco la testimonianza di tutti quegli audaci e generosi volontari che, guidati da un invitto capitano, posero

Il piede per la prima volta sulla terra di Calabria. Il concorso che trovarono presso quelle popolazioni superò forse, non la loro speranza, ma certo ciò che si poteva immaginare. Ed io credo che non sarò contraddetto da nessuno de' miei colleghi in questo recinto, qualora affermerò che se lo sbarco, invece di aver luogo in Calabria, fosse succeduto o nelle Puglie o negli Abruzzi, quegli abitanti avrebbero imitato il nobile contegno dei generosi figli della Calabria. E l'impulso alla rivoluzione venne accolto con entusiasmo e con islancio, perché la bandiera che essa ci recava era la bandiera dalla quale erano significate le più care speranze e gli antichi desiderii di quelle popolazioni. Se su quella bandiera non fossero state scritte le parole Italia e Vittorio Emanuele, le accoglienze che essa avrebbe ricevuto non sarebbero state le medesime.

Un altro errore forse non meno accreditato del precedente si è che il sentimento nazionale presso le popolazioni dell'Italia meridionale sia fiacco, sia debole. Io invece affermo che esso è gagliardo, è potente, è profondo. Non solo con la mia esperienza personale ho avuto agio d'accertarmi del consolante fatto, ma credo di avere rinvenuta anche la cagione pratica dell'ardente desiderio che le popolazioni napoletane hanno di conseguire l'unità che hanno decretata. Questa ragione pratica, dico, è il desiderio istintivo, naturale, prepotente, che esse hanno di buon governo.

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L'autonomia napoletana non so quanto possa essere giustificata dalla storia e dalla geografia; ma certo è, o signori, che, se essa ricorda qualche cosa, non ricorda che una tradizione di tutto, di miserie, di vergogne, di dolori, di persecuzioni, e che questa tradizione il mio paese l'ha ripudiala, e la ripudia altamente.

I tentativi falliti, le lunghe e dolorose vicende a cui quelle povere provincie per tanto volgere d'anni hanno soggiaciuto, le hanno confermate sempre più in questa loro avversione contro l'autonomia. Le popolazioni napoletane vogliono buon governo, non vogliono la centralizzazione; perciò esse hanno voluto e vogliono l'unità; esse hanno smarrita ogni coscienza, ogni fede in loro medesime, come popolo, come nazione indipendente.

In altra condizione di cose questi fatti sarebbero una grande, una inenarrabile sventura; ma nella nostra condizione essi sono una grande fortuna per Napoli e per l'Italia. Sono essi che hanno costituita e formata l'Italia.

Mi giova avvertire che a confermare sempre più le popolazioni napoletane in questa loro opinione hanno grandemente giovato non solo i nostri martiri e le nostre persecuzioni, ma altresì gli stessi maneggi e le arti che i nostri tiranni adoperavano per soffocare in noi il sentimento nazionale. Ond'è che, se io non temessi di profanare un vocabolo che a buon diritto la riconoscenza dei popoli e l'ammirazione d'Europa hanno decretato a tanti illustri Italiani, mi farei lecito di dire che Ferdinando II e il suo successore furono altamente benemeriti della causa dell'unità italiana. (Movimento)

Una volta perduta ogni fede nell'autonomia, era naturale che le nostre popolazioni volessero e proclamassero l'unità. né l'avversione contro l'autonomia si limita soltanto ad una delle sue forme, all'autonomia borbonica: io posso assicurarvi, o signori, che ora l'autonomia napoletana è morta e sepolta, né vi sarà forza umana che possa farla rivivere; e ben errerebbero coloro i quali credessero che, trasportando quella bandiera dalle mani del Borbone in quelle di altri, essa potesse riacquistare la probabilità di prospero successo che ora ha perduto. Io non conosco un uomo di buon senso, un uomo onesto nel mio paese, il quale non sia profondamente convinto di questa verità, il quale non creda oggi che la causa dell'unità nazionale non solo è una causa generosa ed eminentemente patriottica, ma è anche la causa dell'ordine pubblico, è guarentigia di tranquillità, è necessità di esistenza e di vita.

Seggono in questo recinto tanti egregi ed onorandi uomini, con i quali, in un altro recinto, sono già parecchi anni, mi sono trovato essere avversario politico; essi allora si preoccupavano assai più della questione della libertà, che non di quella della indipendenza; ma oggi la divisione, che separava loro da noi, è completamente scancellata; essi,come noi, riconoscono che fuori dell'unità non vi è salute, ed essi al par di noi sono pronti, sono deliberati a far trionfare la causa della unità nazionale.

Posto adunque tra il dilemma della autonomia e della unità, il paese lo ha sciolto, e lo ha sciolto in modo definitivo ed irrevocabile nel senso nazionale.

Voi ben sapete, o signori, che, compiuta la rivoluzione, sfrattato il Borbone, si manifestarono a proposito dell'ordinamento dell'Italia meridionale due opinioni: una, la quale voleva l'annessione immediata, e l'altra che non la voleva: questa seconda aveva per sè l'autorità di uomini illustri per grandi e segnalati servigi resi alla patria, questa opinione poteva farsi strada attraverso le popolazioni per via del sentimento più nobile e più delicato che possa onorarle, vale a dire per mezzo della gratitudine.

Eppure, o signori, tanto era gagliardo e potente il sentimento della nazionalità nell'animo di quelle popolazioni, che esse fecero violenza perfino alla loro gratitudine, e vollero ad ogni costo che l'unione si facesse e si facesse prontamente.

Mi si dirà che, anche dopo il plebiscito del 511 ottobre 1860, sono avvenute nelle provincie meridionali" molte reazioni: ed io qui prego la Camera a non voler aggiustare così facilmente fede alle amplificazioni rettoriche di certe gazzette, ovvero alle dicerie di certe esagerate paure.

Quelle reazioni, quei tumulti, quelle sedizioni borboniche, di cui tanto si parlò, si riducono, quando vogliono esaminarsi da vicino, a ben poca cosa.

Una gara municipale, una rissa personale, una antipatia, basta ad accendere in un piccolo paese qualche disordine, basta a diffondere la discordia; e siccome coloro che amano a pescare nel torbido si trovano nei paesi meridionali come in tutti gli altri, e siccome a quell'epoca il pretendente era ancora rinchiuso nelle mura di Gaeta, cosi era ben naturale che tutti coloro che amano pescare nel torbido, tutti i faccendieri, ed aggiungerò anche tutti i malfattori, inalberassero la bandiera che sventolava sulle mura di Gaeta.

Io non posso tediare la Camera con minute e particolareggiate narrazioni di quei fatti; ma, se potessi entrare nella discussione di ogni singolo fallo, mi riuscirebbe agevole il provare che, tranne uno o due casi, quelle tanto magnificale reazioni si riducono a piccolissimi fatti, in cui la politica non ha a che fare uè punto né poco.

Diffatti, dopo la caduta di Gaeta, dopo quella più recente di Messina, non credo che di quelle reazioni si sia più sentito a parlare.

Mi si dirà che ci sono ancora i briganti.

Ma i briganti sono materia di polizia, non di uomini politici.

Riassumendo dunque quanto finora ho avuto l'onore di esporre alla Camera, parmi che io possa a buon diritto inferire che le genti napoletane hanno voluto l'unità per sentimento nazionale, per sete di buon governo, per odio alla centralità, per necessità di esistenza.

Hanno desiderato le popolazioni napoletane un buon governo, una buona amministrazione: l'hanno esse ottenuta? Potrei rispondere fin d'ora colla più recisa negativa a questa interrogazione, ma preferisco che la Camera slessa sia per dare la risposta, quando avrà avuta la pazienza di ascoltare i dolorosi particolari nei quali io debbo entrare.

La prima ed essenziale condizione di una buona amministrazione, la condizione, senza la quale non può dirsi che amministrazione esista, è la sicurezza pubblica. Ora, la sicurezza pubblica nelle provincie napoletane non esiste né punto, né poco. Non è questione di maggiore o minor grado, non è questione di proporzione, è mancanza, e mancanza assoluta. Si ruba a man salva e nelle campagne e nei villaggi, e dentro e fuori le mura delle città. Se l'onorevole ministro dell'interno vorrà, rispondendomi, dare l'assicurazione che è già stato dato l'ordine, oppure si sta per dare l'ordine di far percorrere le provincie dell'ex-reame di Napoli da colonne mobili, egli mi avrà dato una risposta molto più soddisfacente di quella che egli potrebbe darmi, qualora compulsando dei documenti, come veggo che fa in questo momento, volesse confondermi con delle cifre e delle statistiche. (Risa e movimento)

Dicevo che una delle ragioni che hanno determinalo le popolazioni napoletane a voler l'unità è stala la loro avversione

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DEL 2 APRILE

Il vecchio edilìzio, me ne appello a tutti gli onorevoli miei colleghi che dalle Provincie napoletane sono stati inviati a sedere in questo recinto, il vecchio edifizio sussiste, o signori, tale e quale, e per ciò che riguarda le persone, e per ciò che riguarda le cose.

Posso a questo proposito citarvi un esempio, il quale produsse su di me una profonda impressione. Un nostro onorevole collega, che non è venuto ancora a prendere posto in questa Assemblea, dopo essere stato parecchi anni in galera in compagnia del mio venerato amico l'onorevole Carlo Poerio, tornando a Napoli volle ripigliare la sua professione di avvocato. A Napoli vi è l'uso, un brutto uso, un uso che spero di veder sparire, che gli avvocati si recano ad informare i giudici delle cause sulle quali essi debbono poi giudicare. (Movimento d'attenzione)

Sapete che cosa avvenne a questo onorando nostro collega? Egli dovette soggiacere alla necessità d'informare, chi? Uno dei giudici che l'aveva condannato! (Movimento) Se ciò accenni a cangiamenti d'uomini e di sistemi lascio alla Camera la cura di giudicare. Non vi parlerò del disordine dell'amministrazione; sarebbe opera troppo lunga e troppo tediosa. Io voleva parlare in modo speciale dei disordini dell'amministrazione postale e dell'amministrazione telegrafica, ma l'onorevole ministro dei lavori pubblici, sospettando ch'io volessi avere la temerità di rompere una lancia contro di lui, mi ha disarmato prima di combattere. Egli ha promulgato, e gliene rendo molta lode, un decreto con cui ha soppresso il centro amministrativo postale ed il centro amministrativo telegrafico che esistevano in Napoli, surrogandoli con altrettanti centri parziali in parecchie località dell'antico reame. Auguro a tutte le amministrazioni il fato che il mio onorevole amico, il ministro dei lavori pubblici, ha fatto subire all'amministrazione postale ed all'amministrazione telegrafica, e gli raccomando di non fermarsi a metà del cammino ed a pensare in modo speciale all'amministrazione delle strade ferrate ed a quella delle acque e foreste, sulle quali ci sarebbe da dire tutto ciò che avrei potuto dire contro l'amministrazione postale e contro l'amministrazione telegrafica.

A Napoli, signori, una delle più brutte piaghe era la turpe, permettetemi di dire, l'infame consuetudine della venalità. (Sensazione) Questa consuetudine sussiste. Havvi un ceto di persone le quali, frapponendosi fra la gerarchia amministrativa e le parti interessate, assumono l'incarico di far prevalere i diritti di esse parti, non secondo giustizia, non secondo ragione, ma mediante il deposito prima, il pagamento poi, di una data somma. Questa è la classe dei sollecitatori; sicché un galantuomo, il quale abbisogna di farsi rendere giustizia, non deve misurare le probabilità di prospero successo dalla giustizia della propria causa, ma bensì dalla maggiore o minor larghezza di mezzi pecuniari di cui egli può disporre.

Un'altra piaga è la burocrazia. (A sinistra: Bene!)

Tutti sanno, o signori, che, per necessità di corruzione e per necessità di dispotismo, il Borbone aveva singolarmente ampliato il numero degl'impiegati. Credo di non andar errato affermando che in alcuni dicasteri napoletani il numero degl'impiegati giunge a pareggiare quello dei rispettivi dicasteri in Francia; di maniera che, se per disgrazia d'Italia il Borbone avesse potuto diventare il sovrano di tutta la Penisola, ne sarebbe avvenuta questa curiosa, questa strana conseguenza che, coll'ampliarsi del regno, cioè, non vi sarebbe stata nessuna necessità di accrescere il numero degli impiegati.

Si doveva sperare che col nuovo sistema la burocrazia non fosse distrutta, perché è impossibile distruggere ad un tratto un malanno che esiste da tanto tempo, ma che almeno si cominciasse a portare la falce sul vecchio edifizio.

Invece di questo, o signori, noi vediamo che il numero degl'impiegati e la pianta di alcuni dicasteri sono stati aumentali. Mi basterà di citarne un esempio solo, sul quale invoco in modo speciale l'attenzione dell'onorevole ministro dell'interno, e su cui sarei lietissimo ch'egli mi potesse procacciare qualche schiarimento soddisfacente.

Nel decreto luogotenenziale che costituì il secondo Consiglio di Luogotenenza nel mese di gennaio scorso, il dicastero di agricoltura e commercio fu aggregato al dicastero dell'interno. Pare che questa aggregazione non rendesse necessario né la creazione di un direttore, né l'aumento degli impiegati; invece è stato creato un direttore, è stata ampliata la pianta organica del dicastero, ed accresciuto al di là d'ogni misura il numero degli impiegati. Naturalmente poi, siccome si nominano degl'impiegati nuovi e si debbono mettere al ritiro quelli che già c'erano, ne risulta che, per non ledere i diritti acquisiti, bisogna dare delle pensioni; ed in tal guisa il bilancio dello Stato viene aggravato in modo, che, senza esagerazione, potrei qualificare di strabocchevole.

Non credo di essere indiscreto se rivolgo, a questo proposilo, all'onorevole ministro dell'interno la preghiera d voler fare ogni opera perché egli sia in grado di comunicare a questa Assemblea tutti i dati statistici concernenti gl'impieghi e le pensioni conferite in Napoli dal 7 od 8 novembre dell'anno scorso fino a questo giorno.

Quale debba essere, con queste premesse, la condizione delle finanze e del pubblico credito, mi pare sia agevole indovinare. Non essendo io menomamente competente in questa materia, mi astengo anche dal presentare alla Camera alcune cifre che mi sono state comunicate da autorevoli personaggi, e le quali certamente proverebbero che a Napoli è spalancata una vera voragine finanziaria.

Le sorgenti dei proventi sono gl'impieghi cresciuti, le pensioni e le giubilazioni accresciute, e, per sovrappiù, il contrabbando!

Davvero io compiango il mio onorevole amico il ministro delle finanze, che mi duole di non vedere ancora a sedere a quel banco (Indicando il banco dei ministri); e certo, se gli aspiranti al potere sapessero infrenare la loro ambizione in proporzione delle difficoltà contro cui debbono contrastare, non credo che vi sarebbe ministro più sicuro di stare per lunghi anni al suo posto, quanto il mio ottimo amico l'onorevole Bastogi.

Diceva di non voler toccare in modo speciale le cose di finanza, ma faccio un'eccezione solamente per un certo contralto che è stato conchiuso con una casa commerciale per coniare monete di bronzo per la somma di dodici milioni di franchi. Questo contralto è stato seccamente e senza ulteriori spiegazioni annunziato nel giornale ufficiale. Io, come già ho avuto l'onore di farlo in privato, richiamo pubblicamente su di esso l'attenzione dell'egregio ministro d'agricoltura e commercio. Il mese scorso, come se tutto ciò non bastasse, abbiamo veduto pubblicato nel giornale ufficiale di Napoli un decreto, con cui viene accordalo un milione a coloro che hanno patito danno nelle recenti vicende politiche. Con quale diritto sia stato accordalo questo milione, su quali fondi, io non saprei dire; panni però di non fare una censura fuori di proposito osservando che, se pure si vuole erigere in massima il principio delle indennità a coloro che hanno sofferto

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Quel decreto ha avuto oltracciò la conseguenza funesta d'accreditare l'opinione, che a noi invece preme molto di poter distruggere, che il Governo abbia ad essere il grande elemosiniere pubblico, il riparatore di tutti i mali. I liberali napolitani, o signori, io credo di potermi arrogare in questo momento il diritto di parlare a nome loro, sono di parere che vi sono sofferenze le quali non si compensano né con danaro, né con ogni altra maniera di guiderdone; sanno che vi sono sofferenze le quali non si compensano in altro modo se non che col conforto che risulta dalla coscienza dell'adempiuto dovere. (Bene!) Essi, o signori, non cercano altro compenso, e non aspettano dal Governo né milioni, né risarcimenti.

Mi è grato anzi di potere citare a questo proposito l'esempio di un egregio nostro collega, che mi duole di non vedere sedere in questo Consesso a cagione di tutto domestico, il quale, bersagliato più che altri dalla sorte, nel mese d'ottobre scorso ebbe la casa bruciata ed un figlio barbaramente trucidato, e che, appena giunto a Napoli, quando alcuni amici ed io gli parlavamo della possibilità di ottenere dal Governo del Re un compenso, una riparazione, rispondeva con maschia e semplice dignità: no, io non voglio capitalizzare la mia sventura. (Bravo! Bene!) Non voglio guastare con inutili commenti queste parole; ma certo posso affermare che in esse si racchiudono i sensi dei veri e buoni liberali napolitani.

Un altro vizio del cessato governo, del passato sistema, era l'inosservanza delle leggi. Anche questo vizio, mi duole il dirlo, sussiste in tutta la sua pienezza: le leggi sono promulgate e non sono eseguite.

Mi basti citare ad esempio la legge comunale e provinciale. Questa legge venne promulgata, se ben rammento, nella prima metà dello scorso gennaio; siamo al principio di aprile, e da quanto mi risulta non sono state date ancora le disposizioni nemmeno per procedere alla formazione delle liste, e alle altre operazioni preliminari necessarie all'attuazione della legge.... Veggo che l'onorevole ministro dell'interno fa segni di denegazione; se degli ordini si sono dati, essi sono recenti....

MINGHETTI, ministro dell'interno. Continui pure; risponderò dopo.

Massari. Io mantengo che, quando mi sono recato al Parlamento, vale a dire alla seconda metà di febbraio, quella legge, che era stata già promulgata, non aveva ricevuto neppure un principio di esecuzione. E mi affretto a soggiungere che le popolazioni ne accolsero la promulgazione con vivissimo trasporto di giubilo, perché ravvisarono in essa i primordi della loro vita e un principio di scentralizzazione.

Sarò dunque oltremodo lieto se l'onorevole ministro dell'interno vorrà assicurarmi che si procede all'attuazione di quella legge senza indugio e colla massima alacrità.

Ma, oltre le leggi promulgate e non eseguite, vi è in Napoli un'altra categoria di leggi, le leggi promulgate accademicamente, vale a dire promulgate colla condizione che non saranno eseguite. (Si ride) Io aveva recato con me il supplemento del n° 41 del giornale uffiziale di Napoli, nel quale è stampata la relazione che consacra questo singolare principio, ma temerei di abusare della pazienza della Camera condannandola a sentire la lettura di un documento che essa probabilmente già conosce.

Solamente mi sia permesso di notare in esso una cosa che non si riferisce alla promulgazione della legge in se medesima, ma accenna ad un principio contro il quale, per conto mio, io protesto, e protesto altamente.

In cotesta relazione è detto che i Consigli di ricognizione, nel passare in disamina le matricole della guardia nazionale, debbono cancellare non solo coloro che sono designati dal decreto, ma quelli ancora che per infermità o per fisiche indisposizioni, oppure per notoria propensione alla monarchia del Borbone, ecc. Vale a dire che, colla attuazione di questo principio, alle liste degli attendibili che esistevano sotto il cessato Governo borbonico, si dovrebbero surrogare le liste dei sospetti. (Risa)

Signori, il mio paese non vuole borbonici al potere (Bene!), ed ha perfettamente ragione; ma il mio paese vuole che il Governo non sia il Governo di una setta o di una fazione, vuole bensì che il Governo sia il Governo della nazione. (Movimento di approvazione)

E poiché ho citato la promulgazione accademica della legge sulla guardia nazionale, mi permetta l'onorevole ministro dell'interno che, a costo di parergli tedioso ed importuno, io gli rivolga ancora la preghiera di far eseguire, e prontamente, la legge sulla guardia nazionale, acciocché venga ordinata e venga armata, giacché armi non ha; e che venga soppresso quel comando generale della guardia nazionale di tutto l'ex-reame che esiste ancora, il quale comando, non solo è una negazione flagrante del principio di unificazione, ma inceppa eziandio e rende impossibile il buon ordinamento della guardia nazionale in tutte le provincie dell'antico reame.

Io slimo mio debito cogliere quest'occasione per rendere omaggio di pretta giustizia a tutte le milizie nazionali del Napoletano, le quali con uno zelo esemplare, da lungo volgere di mesi, prestano un servizio faticoso e quotidiano, e sono quelle a cui veramente ed esclusivamente è affidata e dovuta in questo momento la custodia della pubblica quiete.

Per definire la condizione, nella quale si trovano, non la excapitale, ma le provincie, non ho ad adoperare che una semplice espressione: le provincie sono in balìa della Provvidenza, in balla di loro medesime.

Le provincie non sentono né punto né poco l'azione del governo centrale, mentre la reclamano e la desiderano infinitamente; le provincie si difendono da loro medesime.

Io rammento che, in principio di febbraio, per circolare diramata da non so più qual dicastero della Luogotenenza napoletana, furono avvertiti i governatori ed i sindaci delle Provincie pugliesi lungo il litorale dell'Adriatico, che stava per partire da Gaeta un'aggressione di pirati. Bisognava vedere, o signori, cogli occhi propri come l'ho veduto io, Io zelo che i militi nazionali arrecavano nel far sentinella la notte e nel vegliare i punti più pericolosi della costa, colà dove lo sbarco era più facile; e frattanto questa nobile milizia nazionale, che dà tante prove di attaccamento alla causa patria, è lasciata senz'armi!

Io conosco delle città dove su 1300 guardie nazionali non ve ne sono che 100 che abbiano i fucili. Conosco delle borgate dove su 900 guardie nazionali non ve ne sono che otto sole che abbiano fucile; e poi, quello clic è peggio, e nelle città e nelle borgate c'è una quantità di malviventi, i quali, approfittando del disordine cagionato dui passati rivolgimenti, presero molte armi; sicché noi abbiamo questa singolare anomalia, che coloro i quali debbono difendere la quiete pubblica non hanno armi, e coloro i quali l'aggrediscono ne sono provvisti in gran copia.

Se la Camera lo permette, prenderò qualche minuto di riposo.

(Succede una pausa di un quarto d'ora)

365

TORNATA DEL 2 APRILE

Io diceva e ripeto che le provincie Sodo lasciate nel più completo abbandono. Le loro reclamazioni a Napoli rimangono pressoché costantemente senza risposta. Napoli, o per meglio dire il centro amministrativo che ivi è stabilito, non si ricorda delle provincie se non in due occasioni: in primo luogo, cioè, quando si tratta di rimuovere odi cambiare i governatori. Tutte le volte che una provincia riesce (e la cosa non è facile, né frequente), tutte le volte ch'essa riesce ad avere un amministratore solerte ed intelligente, sì può star certi che questo governatore a capo di pochi giorni è rimosso.

Questa è una delle pochissime manifestazioni dell'interessamento del centro napolitano verso le povere provincie.

L'altro caso è quello degli sbandati. É un regalo che non so davvero per qual ragione ha stimato doverci fare il dicastero della guerra.

Sono stati accordati congedi più o meno limitati, e credo anche taluni illimitati ai soldati, che facevano parte dell'esercito borbonico. Che cosa, o signori, arrechino questi soldati quando tornano nelle provincie, io non ho mestieri di dirvi; certo non vi arrecano né principii d'ordine, né principii di nazionalità.

Da tutto quanto son venuto dicendo finora, mi pare chiaro si possa inferire che il sistema amministrativo fino ad ora praticato a Napoli non sia stato punto informato dal principio dell'unificazione; anzi mi pare che coi fatti che ho citati delle leggi promulgate e non eseguile, delle leggi promulgate con condizione che non venissero eseguite, dell'aumento del personale e delle piante organiche degl'impiegati, e con altri fatti che per brevità taccio, mi pare, dico, che sia dimostrato fino all'ultima evidenza che le tendenze di quell'amministrazione accennano in modo incontrastabile ed evidente alla negazione dell'unità, al separatismo.

Taccio delle leggi che sono state promulgate alla vigilia della riunione del Parlamento, poiché riconosco che la promulgazione di quelle leggi era utile ed opportuna; e se avessi a fare un rimprovero non sarebbe certo quello di averle pubblicale con eccessiva premura; quelle leggi avrebbero dovuto essere pubblicate, non in febbraio, ma in gennaio od in dicembre. Ben inteso che, quando parlo di queste leggi, io intendo accennare in modo speciale a quella per la promulgazione del Codice penale ed alla legge relativa all'organismo giudiziario. Sulla legge dei conventi amo meglio non parlare; avrei desiderato che in questi gravi momenti si fosse evitato al paese una nuova cagione di discordia, si fosse evitato di turbare le coscienze. Ad ogni modo io sono persuaso che nella applicazione di quella legge si vorrà procedere colla massima mitezza, e che almeno ci si vorrà conservare quell'antico sacrario della civiltà italiana, che è l'abbadia di Montecassino...

(I ministri Cavour e Cassinis accennano di si.)

Sono lieto che due onorevoli ministri facciano un segno affermativo.

Per quanto poi concerne la legge sull'organico giudiziario, mi permetto di rivolgere una preghiera, della quale, del resto, mi sono arrecato a dovere di fare prima privata partecipazione all'onorevole guardasigilli. Io bramerei conoscere se le disposizioni relative all'applicazione della legge sull'organismo giudiziario saranno prese in Torino ovvero a Napoli; poiché, se esse verranno prese dalla potestà centrale, dal ministro di grazia e giustizia, le popolazioni di buon grado vi si rassegneranno; laddove non potrei dire lo stesso se questi provvedimenti fossero presi a Napoli.

Ad allegare un ultimo fatto, che dimostra la poca riverenza verso la legge con cui si procede in Napoli, citerò quello della circoscrizione della nuova provincia di Benevento.

Fu creata una Commissione per suggerire il piano di questa nuova provincia; credo che essa abbia dato il suo avviso, ma che questo avviso non sia stato seguito.

Sotto il cessato Governo, quando si trattava di circoscrizione territoriale, si sentiva prima le parti interessate, credo il Consiglio provinciale, e poi si sentiva il parere del Consiglio di Stato; questa volta non si è creduto nemmeno di conformarsi a questa regola; è stala costituita, non so per quale urgenza, una nuova provincia nell'antico reame, e per costituire questa si è stati obbligati a sconquassare e disfare cinque altre provincie, quelle cioè di Avellino, Salerno, Foggia, Campobasso e Caserta. C'è, fra gli altri, un distretto, quello di Piedimonte d'Alife, il quale, in seguito a questa nuova, improvvisata, arbitraria circoscrizione, si trova privato persino del diritto di eleggere il proprio deputato.

Io domando se, mentre il Parlamento siede, si possa ammettere che uu'autorità locale, temporanea e subordinata, abbia il diritto di mutare la circoscrizione territoriale dello Stato.

Non occorre, o signori, che io aggiunga che la prima condizione di un'amministrazione rispettabile debb'essere la deferenza assoluta e senza limiti alle ragioni della probità. Non parlo della probità che chiamerò volgare, che consiste nel non rubare; ma parlo di quella elevata probità, di quella elevata moralità politica a cui accennava l'altro giorno l'illustre presidente del Consiglio, allorché diceva che vi sono certi principii di morale che le nazioni stesse non violano impunemente.

Io applaudii di gran cuore a quelle nobili parole, e sarò lietissimo di vederle praticate anche nell'amministrazione interna delle provincie meridionali di qua dal Faro.

Io tocco in questo momento un punto assai delicato, poiché potrei facilmente andar ad urtare lo scoglio che mi prefiggo d'evitare, quello della personalità. Prego quindi la Camera a volermi essere ancora più indulgente di quanto lo è stala finora, giacché debbo ben misurare e ben ponderare le mie parole.

Io ben comprendo, o signori, come in certi ambienti, per certe tradizioni, per lunghe e tetre memorie di schiavitù, sia facile di smarrire il senso morale, il criterio differenziale tra il giusto e l'onesto, e come avvenga che inconsapevolmente un uomo commetta un'azione, la quale non sia conforme ai principii della probità politica. Faccio una parte larga ed ai precedenti ed agli ambienti; ma noi che viviamo in questa pura ed onesta atmosfera, noi dobbiamo stare fermi nel dichiarare che colla immoralità non si deve venire a transazione giammai.

Vi sono debolezze, le quali possono essere spiegate e scusate; giustificate e glorificate non mai.

Ora, debbo dirle, io ho veduto con profondo dolore, con amarezza indescrivibile che la prima amministrazione inaugurata in Napoli sotto gli auspizi di un onesto principe dell'onestissima Casa di Savoia racchiudesse nel suo grembo elementi, nei quali nessuno di voi, o signori, ravviserebbe l'incarnazione di quei principii di probità politica a cui tutti dobbiamo inchinarci.

Queste, o signori, sono le condizioni delle provincie meridionali. La quiete non è turbala, perché il buon senso delle moltitudini emenda e tempera gli errori di coloro che l'amministrano; ma in realtà la condizione delle provincie napoletane è oggi quella di una placida anarchia, la quale non mi pare che possa essere prolungata impunemente,

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Non posso conchiudere questo già troppo lungo discorso senza accennare brevemente a quelli che io credo debbano essere i rimedi più efficaci a guarire i mali che vi ho finora descritti.

Prima di tutto, o signori, io non richieggo né suggerisco poteri eccezionali; non vorrei mai che l'inaugurazione della libertà nel mio paese avesse principio colla scandalosa negazione della libertà medesima; ma non voglio nemmeno mezzi termini. Io bramo che si vada a troncare il male nelle sue radici, che non si cerchino spedienti, che tutto non si limiti a mutamento di nomi e di persone.

A Napoli finora si doveva amministrare mollo e far leggi poco o niente; si è fatto tutto il contrario; si è amministrato niente, e si sono fatte leggi e decreti a profusione. (Segni di assenso) Il compito di far le leggi tocca al Parlamento, quello di fare i decreti tocca al potere esecutivo sotto la sua responsabilità; io non veggo qual diritto ha un'amministrazione provvisoria e tutta temporanea a dettar leggi!

In secondo luogo io domando, e torno a pregare gli onorevoli ministri a far si che le leggi promulgate, e quelle segnatamente sull'ordinamento provinciale e sulla guardia nazionale vengano attuate.

In terzo luogo io credo che si debba promuovere il più che sia possibile la promiscuità degl'impieghi. Dico promiscuità e non preponderanza, poiché la preponderanza ferirebbe suscettività, le quali vanno senza dubbio rispettate.

Non abbiate timore, o signori, di ciò che si chiama piemontesismo: non vi lasciate spaventare da coloro i quali vi dicono che le popolazioni delle provincie napolitane temano di essere piemontizzate; credetelo a me, non ve ne lasciate spaventare; le popolazioni non comprendono affatto questo gergo; esse sanno che il Piemonte ha avuto l'ambizione di dare all'Italia la sua dinastia e le sue libere istituzioni; che il Piemonte ha avuto l'ambizione di dare all'Italia il nobile esempio del sacrifizio costante, dell'invitta devozione alla causa nazionale. Le nostre popolazioni sanno questo, e quindi non si lasciano spaventare da coloro che ci mostrano sempre il fantasma del Piemonte pronto ad ingoiarle e ad assorbirle.

Volete sapere quali sono i veri sentimenti di quelle popolazioni intorno al Piemonte?

Chiedetelo, signori, ai nostri bravi soldati che sono stati a Cosenza, a Lagonegro, a Foggia, a Bari e in altre città dell'aulico reame.

Chiedete loro in qual modo sono stati accolti, con quanto entusiasmo le popolazioni hanno festeggialo il loro arrivo.

Volete voi sapere quali sono i sentimenti delle nostre popolazioni verso il Piemonte?

Chiedetelo, o signori, ai militi del battaglione mobilizzato della guardia nazionale di Torino che ha tenuto guarnigione nella città di Sora, e che ivi hanno lasciato cosi bella e cosi gradita rimembranza di loro.

Che più? In gennaio scorso due egregi Cittadini, che mi rincresce di non poter più chiamare miei colleghi, almeno per ora, ma che io e molli di noi si vantano di poter chiamare amici, gli onorevoli avvocato Cornero e dottore Bottero, fecero un viaggio, il primo nelle Calabrie, il secondo negli Abruzzi. Interrogate questi onorevoli cittadini intorno ai sentimenti che essi hanno trovato nelle nostre popolazioni, ed essi vi confermeranno pienamente ciò che io in questo momento ho l'onore di dirvi.

In quarto luogo, o signori, un altro rimedio che enuncio in forma generica, ma che non ha mestieri di essere dimostrato, è l'attivazione dei lavori pubblici, e segnatamente delle vie ferrate.

Uno dei maggiori misfatti commessi dal Governo borbonico è stato precisamente quello di non aver dato a quel povero paese le strade ferrate, e credo che il maggiore e più imperioso dovere del Governo riparatore del Re galantuomo sia appunto quello di assicurare a quelle povere provincie questo beneficio.

Non volendo pregiudicare le domande che farà sulla via ferrata delle Romagnc e delle Marche l'onorevole mio amico il deputato di Ravenna, mi limiterò a pregare l'onorevole ministro dei lavori pubblici a sapermi dare qualche contezza delle due linee di via ferrata, di quella che dagli Abruzzi per il litorale delle Puglie andrà fino a Brindisi, e della diramazione che da Foggia, credo, debbe recarsi a Napoli.

Quanto più precisa sarà la risposta del mio onorevole amico, tanto più sarà accolla con plauso e con gratitudine dalle popolazioni.

Un altro rimedio consiste nel discenyralizzare l'amministrazione il più che sia possibile. In quanto a questo non ho a far altro che invitare tutti gli onorevoli ministri a rivolgersi al loro collega, il ministro dei lavori pubblici, e sceglierlo a modello.

Colla discentralizzazione, o signori, voi avrete raggiunto il grande risultamento di dare ai comuni ed alle provincie la vita ch'essi aspettano ed a cui hanno diritto; voi avrete in tal guisa raggiunto il fine di far venire a galla il paese vero, non il paese artificiale e il fittizio, non il paese dei postulanti e dei petulanti con cui avete a che fare adesso.

Il sesto rimedio, ed il più immediatamente praticabile, era la soppressione del Consiglio di luogotenenza. (Movimenti diversi) Anche in ciò sono stato fino ad un certo punto prevenuto dall'onorevole ministro dell'interno; ma mi duole di non potermi dare per vinto cosi completamente come ho fatto poc'anzi a proposito delle poste e dei telegrafi verso il ministro dei lavori pubblici.

Osservo adesso che il decreto è firmato dall'onorevole presidente del Consiglio

Minghetti, ministro dell'interno. Si volga ad esso.

Massari. Mi duole di dovere persistere, non nella mia censura, ma nelle mie osservazioni; in questo decreto avvi una sola cosa chiara, vale a dire che i consiglieri di luogotenenza cessano di chiamarsi consiglieri di luogotenenza per essere chiamati segretari generali. (Si ride)

Certamente questo è un passo; ma l'onorevole presidente del Consiglio non mi troverà indiscreto se affermo che è un passo piccolo assai, e che bisogna farne degli altri.

Bramerei a questo proposito di sapere se questi segretari generali saranno nominali dal segretario generale di Stato che è a Napoli, oppure dal Governo centrale.

Di Cavour e, presidente del Consiglio. Dal Governo centrale.

MASSARI. Non avea ancor letto la Gazzetta d'oggi; del resto la mia osservazione era fatta tanto nell'interesse del paese, quanto in quello del Governo. Evidentemente questa è un'altra anomalia dell'attuale condizione di cose; poiché, se legalmente il Ministero in generale, ed il ministro dell'interno in particolare, ha la responsabilità di ciò che avviene nelle provincie meridionali, è indubitato, è debito di buona fede ch'io lo dica, che egli non ha la risponsabilità reale.

Ora questa è un'anomalia che deve cessare.

Signori, non posso prolungare di più questo discorso, che voi vi siete compiaciuto ascoltare con tanta benignità e con tanta attenzione. La questione amministrativa è la questione essenziale del momento, e non può essere senza conseguenze immediate e pratiche sull'andamento delle questioni politiche.

367

TORNATA DEL 2 APRILE

Nella settimana scorsa, una grande discussione è stata agitata in questo recinto. Per rattezza dell'argomento, per la perizia degli oratori che vi presero parte, nessuna discussione era più acconcia di quella a sublimare lo spirito ed a commuovere il cuore, lo però, signori, debbo confessarlo, ho assistito a quei dibattimenti con un profondo, con un invincibile sentimento di tristezza; perché, al sentir rammentare il nome dell'alma Roma, mi si parava dinanzi agli occhi lo spettacolo della dolorosa condizione di cose che Onora vi ho descritto, e che esiste nell'Italia meridionale. Forse verso in grandissimo errore, ma a me pare che lo scioglimento del problema amministrativo nelle provincie meridionali agevolerebbe di molto la liberazione delle altre provincie d'Italia che ancora non sono restituite alla comune famiglia. Allo stesso modo con cui la buona amministrazione della Lombardia è un argomento poderoso in faccia all'Europa per dimostrare che la Venezia debb'essere restituita all'Italia, io credo che la buona amministrazione delle provincie napolitane sarebbe un nuovo e poderoso argomento nelle mani del Governo per dimostrare la necessità di rendere Roma all'Italia. (Bene!)

Non so, signori, se la mia voce sia riuscita grata od incresciosa agli uomini onorevoli che seggono su quei banchi (Indicando il banco dei ministri); so che, nei momenti del trionfo e dell'ebbrezza della vittoria, una voce che accenni a pericoli e a difficoltà, e che si fa lecito di suggerire qualche consiglio, una voce simile in tali casi è poco gradita, ed è forse trascurala e negletta. Ad ogni modo ricordatevi (Rivolgendosi ai ministri) che è la voce di un amico, e d'un amico il quale, in ogni caso, non posporrebbe la vostra amicìzia che ad una sola considerazione,, a quella del bene dell'Italia. (Vivi segni di approvazione)

Presidiate. La parola è al deputato Paternostro. Credo che egli voglia fare ora la sua interpellanza, non essendo l'ora tanto avanzata.

Minghetti, ministro per l'interno. Spero poter oggi rispondere anch'io.

De Blasiis. Parmi che, per evitare l'intralciamento della discussione, si potrebbe prima lasciar la parola al signor ministro. (iVo! noi)

Presidente. L'ordine della discussione era già stabilito. Innanzi che si facessero le interpellanze si era detto che prima avrebbe parlato il signor Massari sulle condizioni della parte continentale dell'ex-regno di Napoli, poscia il signor Paternostro sulle cose di Sicilia. Laonde la parola spetta ora all'onorevole Paternostro.

Paternostro. Dopo ciò che ha sviluppato l'onorevole Massari sulle cose di Napoli, poco mi resta a dire sulle cose di Sicilia, conciossiachè molte piaghe, molti mali siano comuni alle provincie napolitane ed alla Sicilia.

Io comincio dove il signor Massari terminava il suo discorso. Fate che le provincie meridionali siano ben governate; fate che si organizzino, perché possano darvi il loro contingente per la liberazione di quella parte d'Italia che non è ancora con noi, perché possano concorrere a sanarci dalla piaga più profonda che abbia l'Italia; e questa piaga profonda non è altro che l'Austria. Fate sì che l'Italia meridionale organizzata vi dia il contingente per cacciare gli Austriaci dall'Italia, e voi avrete ben meritato della patria.

Non farò un quadro luttuoso: oramai, per quanto se n'è detto colla stampa, i mali della Sicilia sono noti a tutti. Ma mi gode l'animo di poter dire che questi mali io li credo esagerati nella loro esposizione, che questi mali sono facilmente rimediabili, e che essi spariranno, se il Ministero vorrà metterci un po' di buona volontà.

Non intuonerò dunque un canto doloroso; rivelerò una speranza, quella, cioè, che possa presto alzarmi in quest'aula, e dire al Ministero: io vi ringrazio della vostra buona amministrazione, i mali della Sicilia sono spariti!

Diffatti, o signori ministri, ci vuol tanto poco a far sparire questi mali, non ci vuole che una cosa sola: governate, perché finora non avete governato!

Dico: non avete governalo, ma non vi accuso; perché, o signori, io comprendo che quel gruppo di circostanze, che. si chiama il domani di una rivoluzione, è uno scoglio ove vanno ad infrangersi le migliori capacità; comprendo che il governo centrale è stato fino ad oggi impossibilitato ad esercitare intera la sua azione governativa in Sicilia; comprendo bensì che quasi tutti gli uomini,che sono stati al potere in Sicilia dal momento del nostro riscatto fino ad oggi, hanno avuto l'intenzione di fare il bene, hanno cercato di farlo in tutte le maniere, hanno rischiata la loro popolarità; e se il bene non si è ottenuto, è ciò stato in forza di circostanze che non si possono porre esclusivamente a carico di alcuno.

Io non accuso i governi passati, non accuso il governo presente, non il governo locale dell'isola, non il governo centrale; solamente alzo la voce, perché oggi si agisca altrimenti di quello che si è agito pel passato; perché oggi non si lasci più la Sicilia governarsi alla giornata; perché oggi il Ministero pigli le redini dell'amministrazione con quelle modificazioni che potrà credere opportune, con quei riguardi ai bisogni locali che potrà credere necessari nello stato attuale; con quelle delegazioni che per avventura crederà utili all'andamento del servizio, al compimento di quella specie di liquidazione che deve farsi in Sicilia per arrivare alla uniformità dell'amministrazione. Ma la diriga cotesta amministrazione, e non la lasci più in mani che non sono responsabili, non la lasci esclusivamente in mano d'uomini che noi non potremmo menomamente accusare, non avendo alcuna responsabilità.

Lo stato della Sicilia, o signori, non è prospero; ma io non scendo a dettagli. La Sicilia ha bisogno, come le provincie napolitane, della pubblica sicurezza; ha bisogno di lavori pubblici; ha bisogno insomma di rimedi amministrativi e non di rimedi politici.

Nel dirvi: ha bisogno della pubblica sicurezza, io non intendo ripetervi cosa che è stata già detta e ridetta; io intendo dirvi: ha bisogno della riorganizzazione della pubblica sicurezza; ha bisogno che voi diate una volta, signor ministro dell'interno, un'occhiata all'amministrazione della pubblica sicurezza in Sicilia; ha bisogno che voi comprendiate che in quella amministrazione ci sono forse elementi che non possono starci; comprendiate che ci sono forse alcuni elementi che, lungi dal portare la pubblica sicurezza a quel grado che tutti desideriamo, sono d'inciampo, sono d'ostacolo allo stesso consigliere della sicurezza, poiché cosi si trova in falsa posizione. Vi sarà facile il conoscere dove sta il male, vi sarà facile il rimediarvi, perché in Sicilia non avete nemici dell'unità italiana a combattere, non avete reazione da reprimere: in Sicilia il partito solo che esista è il nazionale.

Fu qui pronunciala una strana frase parlandosi della Sicilia; frase che voglio credere corsa nel calore della discussione: fu detto che in Sicilia non esiste un partito del Governo; dico del Governo, intendendo dire partilo della maggioranza, partilo nazionale; perché in un paese libero,

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SESSIONE DEL 1861

Non parlerò di altri partiti, di aspirazioni verso principi stranieri; tutti sanno che in Sicilia non si è mai pensato a questo; accennerò solo al terzo partito, il partito della rivoluzione. Ebbene, o signori, sia detto in onore del mio paese, il partito della rivoluzione esiste, ed è esistito sempre: esso si rivelò prima del 1848, e nel 1848, all'alba del 12 gennaio, si rivelò con quella serie di sacrifizi che la Sicilia fece, con quella serie di atti e di aspirazioni italiane, come

10 permettevano i tempi e la condizione delle cose; si rivelò coll'esilio di illustri cittadini che aveano presieduto allora al Governo della Sicilia, dei quali onorandi cittadini molti ora siedono fra noi, qualcuno nel banco dei ministri; si rivelò colla operosità della Società Nazionale, la quale per mezzodì organi siciliani aiutava, per quanto poteva, lo spirito pubblico a sempre più sollevarsi e a nutrire la speranza di un migliore avvenire; si rivelò colla morte dei martiri del gennaio, fucilati in piazza Fieravcccbia, con Bentivegna caduto al grido l'Italia e Vittorio Emanuele; si rivelò il quattro aprile con la morte di Riso e de' suoi sventurati compagni; colla maniera franca, ardila, compatta, universale, con cui fu accollo l'eroe di Cablatimi quando venne a portar soccorso alla rivoluzione già iniziata in Sicilia. Si era già rivelato colle dimostrazioni all'epoca delle vittorie di Magenta e di Solferino; si rivelò forzando coloro che, dirigendo la cosa pubblica, voleano allontanare il momento dell'annessione; si rivelò col plebiscito; si rivelò infine colle elezioni, mandando al Parlamento uomini che fanno parte della maggioranza.

Che se qualcuno rappresenta la minoranza, rappresenta tuttavia quella minoranza onesta e nazionale che può divergere di qualche linea nello svolgimento del nostro concetto politico, ma che pur sempre appartiene al gran partito italiano.

Signori, i deputati della Sicilia sono tutti concordi in questo: l'Italia deve essere, la Sicilia deve far parte d'Italia con Vittorio Emanuele. Questo è il partito rivoluzionario della Sicilia; questo è il partito ch'io chiamo il partito nazionale.

Ma dovete voi governare sempre colla rivoluzione? in istato di rivoluzione? con le forme della rivoluzione? È giusto ciò che vi si diceva, che voi non governerete mai l'Italia meridionale se non vi ricacciale in braccio alla rivoluzione?

Le rivoluzioni distruggono, non riedificano, non governano; la rivoluzione in Sicilia distrusse la tirannide, distrusse l'amministrazione, distrusse l'abborrita polizia, distrusse molti abusi; ma la rivoluzione non ebbe, non ha avuto tempo fin oggi di riedificare; la rivoluzione non ebbe campo di ordinare un regime di governo, essa fece i suoi sforzi sciupando di mano in mano uomini pieni di buon volere. La rivoluzione non ebbe tempo di sopperire a questa mancanza di organizzazione, non ebbe tempo di correggere i proprii errori, e questo forse è ciò che produce in gran parte il male della Sicilia. Ma si faccia distinzione tra le forme rivoluzionarie ed

Il governo calmo del secondo periodo.

I mali esistono; ma volete il rimedio? Ve n'ha un solo, ed è questo: togliete il governo di Sicilia dalle influenze della piazza, togliete il governo di Palermo dalle influenze della piazza di Palermo, che non rappresenta né può rappresentare l'elemento rivoluzionario nazionale. (Movimenti)

E se io vi dico ciò, so quel che mi dico; so che le mie parole mi meriteranno il titolo di imprudente, so che dico cosa che può suscitare violenta opposizione (Noi noi), so che dico cosa la quale toccherà molte suscettività, ma io dico la verità; il deputato deve, se fa d'uopo, perdere la popolarità sua, piuttosto che svisare o tradire la verità.

Finché, o signori, voi non toglierete il governo della Sicilia dalle influenze, dalle pressioni di una minoranza ardita, che padroneggia la piazza, che commuove le popolazioni, voi non avrete mai governato la Sicilia.

E qui, perché la mia opinione non possa essere fraintesa, affinché la Camera sappia chiaramente quello che io ho voluto dire (Movimento al banco dei ministri) I signori ministri non si turbino anticipatamente della tempesta che forse potessero sollevare le mie parole.

Presidente. Nella Camera non vi sono tempeste; ci dev'essere e finora vi fu calma.

Paternostro....Io credo dire la verità tutta intera, e vi prego dunque di ascoltarmi, perché io parlo nell'interesse del paese e non nell'interesse di una personalità qualunque.

Quando io parlo della piazza, non intendo di parlarvi di tutti gli onorevoli cittadini di Palermo. No, non intendo parlarvi dei buoni che sono nella grandissima maggioranza; non intendo parlarvi degli uomini intelligenti che hanno rappresentato colla loro intelligenza e patriottismo un principio politico. No, questi uomini, signori, io li rispetto, io li amo. Non avrò forse nulla di comune con taluni di loro per divergenza o gradazione politica; ma io non oserò attaccarli, non oserò fare un fascio di tutti cotesti onorevoli cittadini.

lo vi parlo delle influenze di una sparuta minoranza sfrenala, di un pugno d'uomini arditi che hanno per bandiera l'agitazione; di un pugno d'uomini arditi che unità nazionale, autonomia, amministrazione di luogotenenza o di governatore, sicurezza pubblica, fanno consistere in ciò che le loro tendenze trionfino, e che facciano tutto quello che loro pare e piace, e che, se tutto non va secondo i loro desiderii, si uniscono in piccol numero, se volete, fanno dimostrazioni e si sforzano d'imporsi.

Parlo di costoro, signori; elementi che con certi altri qualche volta si riducono alla capitale, elementi che possono anche non essere del paese.

Io forse vado tropp'ollre; ma, signori, leggete la storia, e interrogate ad uno ad uno i deputati siciliani, i consiglieri di luogotenenza e lo stesso luogotenente, e vi diranno che, mentre la guardia nazionale di Palermo prestava immensi servigi e stentava per tutelare l'ordine; che, mentre gli onorevoli consiglieri di luogotenenza facevan di tutto perché le cose camminassero bene; nel mentre il luogotenente non risparmiava sforzi e fatiche; nel mentre tutti i buoni cooperavano a che gli animi si calmassero, venivano a sbarrare la strada certi elementi che non erano politici, che non si erano mai visti, taluni, per avventura, che non avevan ottenuto l'impiego, e tutti si raggruppavano per improvvisare una dimostrazione.

Voi avete veduto lo strano spettacolo di una grande maggioranza di voli riportati da uomini che una minoranza ardita avea costretti a ritirarsi.

Dunque, ripeto, io non attacco la generalità dei cittadini; non attacco i buoni, gl'intelligenti, i politici di buona fede; dico solo che, fino a tanto che voi non romperete con quel tale elemento, fino a tanto che voi non tirerete diritto allo scopo, finché non sarete attiri ed energici e non farete intendere

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TORNATA DEL 2 APRILE

Ci sono altri elementi di disordine che nascono dalle circostanze, ma più che dalle circostanze nascono dal governo; forse non ci avete potuto pensare ancora; ma pensateci: esistono in Sicilia individui che lasciarono le case loro, le famiglie loro e il loro impiego, la loro professione, ed accorsero a brandire le armi per la libertà del paese; esistono di quegli uomini i quali valicarono il Faro, arrivarono gloriosi là dove si erano prefissi di arrivare; questi uomini, lo so, voi non li avete messi sulla strada, voi li pagate, ma essi sono incerti del loro avvenire.

Si fa creder loro che saranno tutti messi sulla strada, che non vuol sapersi dell'elemento dell'esercito meridionale, che si vuol tutto piemontizzare. Questi uomini sono pertanto incerti del loro destino, e quindi un certo malumore, quindi dimostrazioni a teatro, intolleranza, opposizione.

E qui, se io debbo accusare alcuno, lo dico con dolore, debbo accusar voi del Ministero, perché so che fate, ma non fate presto; perché, volendo fare, non dite la buona parola; perché non avete detto a questi signori: voi non sarete messi sulla strada; abbiate pazienza, aspettate.

Quest'elemento che vaga nell'incertezza, o signori, è, senza forse saperlo, un elemento di disordine; pensateci.

Sicilia ha fatto immensi sacrifizi. Che cosa è avvenuto nella Sicilia dopo la rivoluzione? Nei primi momenti a nulla si badava, ché i primi momenti sono momenti di slancio, sono momenti d'entusiasmo, di gloria, di lotta; e nella lotta tutti gli uomini sono generosi, sono disinteressati; ma poco a poco le passioni si calmano, sottentra la riflessione che rallenta questo slancio, gl'individui guardano ai loro interessi materiali. Voi lo sapete, tutti gli uomini agiscono per qualche interesse, ed il sistema utilitario piglia grandi proporzioni all'indomani d'una rivoluzione. Nell'America del Sud tutti i disordini nascono per un interesse materiale. È un interesse iniquo, infame, contrario all'umanità, ma è un interesse materiale. Ho veduto la Sicilia che, dopo immensi sacrifici per la causa della libertà (ed ha fatto il suo dovere), dopo il sangue sparso, i patiboli e le carcerazioni, ora che è libera, le sue strade non sono aperte, le sue comunicazioni non esistono, come non esistono ponti; i lavori pubblici non sono attivati; la Sicilia ha dovuto dire a sè stessa: ma, infine, ci governino dall'interno stesso del paese, ci governino da Torino, ci governi il potere centrale o il potere locale, non importa chi; ma facciano qualche cosa per noi.

CAMERA DEI DEPUTATI - Discussioni del 1861.

Non mi faccio illusioni; comprendo come un Ministero, che avea da pensare a Gaeta, a Messina, al Mincio, al Po; che ha varie Provincie d'Italia agitate dalla rivoluzione; che ha da fare colla diplomazia, coi clericali, coll'opposizione, non può pensare alle strade della Sicilia'; lo comprendo. Ma i Siciliani dicono: pensateci, avete 24 ore in un giorno; datemi un minuto solo, e in questo minuto vedrete che la mia posta non passa, perché mancano i ponti, perché le strade sono in tale stato, che quando piove, non vi si può passare; che i miei prodotti rimangono ove sono, non han valore, perché mancano i mezzi di comunicazione, lo non vi dico: datemi una rete di strade ferrate; io vi dico solo: datemi le strade. Questo non l'ha veduto la Sicilia. Ecco un elemento di malcontento.

Volete il rimedio, o signori? Il rimedio è qualche segno di vita, un po' di movimento, qualche milione.

Debiti ne abbiamo molti; facciamone degli altri; ripeto: qualche milione ed un po' di movimento. Il popolo vedrà che voi non dormite, che voi non state come sopra un letto di rose; il popolo vedrà che dalla rivoluzione ha avuto almeno qualcosa. Gl'intelligenti, o signori, guardano la libertà, guardane all'indipendenza nazionale, guardano alle istituzioni che svolger debbono il suo commercio, la sua agricoltura; guardano a tutte le forze dello Stato che debbono più tardi fare la ricchezza della nazione; ma il popolo vuole segni materiali di miglioramento. Io quindi prego il Ministero di pensarvi.

Non credete, o signori, che la Sicilia sia ingovernabile.

Se io ho parlato del governo della strada, e di pochi agitatori, essi sono una minima frazione. Francamente vi dirò che l'isola nella sua grande maggioranza, direi alla quasi unanimità, desidera e vuole essere governata, e con calma.

Dopo questo io faccio un'interpellanza al signor ministro dell'interno, ed intendo che valga per tutto il Ministero.

Credete, da quanto io ho detto, che lo stato di Sicilia meriti la pena che voi assumiate la direzione degli affari? e, se l'assumete, qual è il vostro sistema?

Io ve lo domando, e, secondo il sistema che mi annunziente, vedrò se debbo continuarvi la mia fiducia, se debbo sperare bene pel mio paese, o se debbo combattervi. Voi mi direte se intendete assumere voi tutta la responsabilità e l'azione direttiva, perché per me sta (è un'opinione personale) che, finché il Governo centrale responsabile non dirigerà l'amministrazione, la Sicilia andrà sempre male.

Fatta questa domanda categorica, io conchiudo il mio discorso: qualunque sia la vostra risposta, vogliate o no fare la corte ad un sistema più o meno esteso d'indipendentismo, vogliate o no prepararvi la strada alla vostra idea favorita delle regioni, vogliate o no comprendere che è necessità assoluta che lo Stato abbia ministri che assumano intera la responsabilità dell'amministrazione, spendiate o no qualche milione per la Sicilia ne' suoi lavori pubblici, portiate o no rimedio ai disordini che attualmente esistono più o meno, un fatto è e sarà sempre che la Sicilia non darà mai un imbarazzo politico. Se trascurata, alzerà lamenti contro di voi, contro di noi, contro coloro tutti, che debbono pensare ad essa e non ci pensano; essa vi chiederà strade, ponti armamento della guardia nazionale; vi chiederà sicurezza pubblica, vi chiederà amministratori intelligenti ed energici; finché non avrete fatto tutto questo, la Sicilia vi dirà sempre: spero ed aspetto; ma unirà questo grido a quello di flotta e Vittorio Emanuele. (Bravo!)

Crispi. Domando di parlare.

Presidente. Il deputato Ricciardi ha ora facoltà di parlare.

370

CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 861

Amari. Ho domandato anch'io di parlare. Vorrei dire solo due parole.

Presidente. Lo prego di non interrompere la discussione.

Amari. Vorrei parlare per un fatto personale.

Presidente. Mi sembra che non si sia detto nulla di personale a lei. Al suo turno d'iscrizione ella parlerà.

Il deputato Ricciardi ha facoltà di parlare.

Ricciardi. Io non ho che un sol rimprovero da fare all'onorevole Massari, quello di aver detto poco (Ilarità), sopratutto per ciò che spetta al Governo, i cui errori in Napoli sono stati sfortunatamente tali e tanti, che è un vero miracolo, se disordini molto più gravi di quelli di cui ci dogliamo non siano accaduti; il quale miracolo si deve principalmente al raro buon senso, alla maravigliosa pazienza di quelle buone popolazioni, le quali, guidate da intuito generoso, vogliono ad ogni palio che l'Italia si faccia, e soggiaceranno a qualunque dolore, purché Italia si faccia.

Non debbo dimenticare avere contribuito a questo miracolo la guardia nazionale, cui ogni lode è scarsa, tanto che con ragione il generale Garibaldi, in un memorabile ordine del giorno, la dichiarava benemerita della patria.

L'onorevole Massari ha fatto in certo modo da chirurgo, mostrandole piaghe principali del paese; confesso che io gli debbo molti ringraziamenti per avermi risparmiato una parte molto penosa; per conseguenza io mi studierò di farla da medico (Ilarità) indicando i rimedii. A modo di prefazione, mi sia lecito dar cognizione alla Camera di una lettera, che credo importante, una delle cento lettere pervenutemi, dacché sono in Torino.

Bisogna premettere che l'autore di questa lettera é un uomo di gran buon senso, un liberalone (Ilarità), non liberale però in modo superlativo, ma piuttosto del genere malva. (Ilarità)

Ecco la lettera:

«Tutto quanto é stato operato dai nostri rettori direbbesi fatto coll'unico fine di rimpiangere il reggimento borbonico o desiderare il murattiano. Agli antichi abusi si aggiunsero i nuovi, e, per giunta, una crescente miseria, cui pure sarebbe stato facile l'ovviare, creando lavori a ogni costo. Pessimo effetto hanno prodotto le leggi di costì estese a queste nostre Provincie, che ne avevano di migliori; ma quella in ispecie é spiaciuta assaissimo che s'aggira intorno agli ordini giudiziari. Quanto ai decreti relativi alle manimorte, che si gran bene avrebbero potuto arrecare al paese, e' son guasti dal modo in cui sono eseguili, e prevedonsi già non picciole ruberie.»

«Possa il senno del Parlamento riparar tanti mali e porre il Governo in una via affatto nuova. Questi popoli erano e sono mirabilmente disposti a raccogliersi sotto la croce di Savoia, ed a serbar fede inviolata al plebiscito dell'11 ottobre; ma provare vorrebbero ornai i benefizi del nuovo stato. Solo così non rimpiangeranno la perdita dell'autonomia; solo così lascierannosi tonneggiare, o, per parlare più rettamente, cavoureggiare» (Ilarità generale)

Mi sia permesso di spiegare questo verbo di nuovo conio.

Ci sono molli i quali attribuiscono al conte Di Cavour una specie di autocrazia. Io non do ragione a costoro; solamente cercherò di spiegare il fatto. Essi dicono: il conte Di Cavour ha riunito nelle sue mani sino a tre portafogli; in questo momento stesso ne ha due, oltre la presidenza del Consiglio. Quando si parla del Governo, non si parla di nessun altro ministro che del conte Di Cavour. Leggete qualunque giornale europeo, italiano, francese, spagnuolo, tedesco, russo, chinese (entro in Asia) (Ilarità), quando si parla di politica italiana, il nome che spicca é quello del conte Di Cavour. (Si ride)

Evvi di più, in tutte le conversazioni, tanto al di qua come al di là delle Alpi, cominciando dai saloni indorati sino alle più umili bettole, il nome che viene sempre pronunciato in materia politica è quello del conte Di Cavour. Che volete? Persino se si tratta di vie si dà ad esse il nome di Cavour; si tratta di battezzare un piroscafo? Gli si dà il nome di Cavour. (Ilarità. Il ministro Cavour ride forte) Anche i sigari, passatemi la citazione, si chiamano Cavour. (Ilarità prolungata)

Ma lasciamo le celie, e parliamo sul serio; tanto più che si tratta di materia grave, anzi dolorosa.

Signori, le piaghe del paese son molle, molli ed urgenti i bisogni. Ma due in ispecie sono i bisogni più urgenti: 1° la moralità nell'amministrazione; 2°opere pubbliche d'ogni maniera, intese a sviluppare le immense ricchezze di quella mirabile terra, che finora sono, per così dire, latenti.

Veniamo ora ai mezzi.

Quanto alla moralità da introdursi nell'amministrazione, io credo che se gli impiegati notoriamente immorali fossero rimossi dai loro uffizi, e quelli rimasti in uffizio, riconosciuti

colpevoli, venissero tradotti dinanzi ai tribunali e severamente puniti, io credo che la moralità comincierebbe a far capolino nei dicasteri.

Vorrei inoltre veder diminuito il numero degli impieghi, che, come tutti sanno, crebbero a dismisura. Secondo me,

Il Governo più perfetto sapete qual è? Quello che governa meno, e ne abbiamo sott'occhio l'esempio in America, in Inghilterra, in Isvizzera.

Io mi ricordo un motto profondo di un ministro filosofo, il Fossombroni, il quale diceva che il mondo va da sé. Ben inteso che, per andare da sé, e per bene, bisogna che vi sia libertà, e libertà non vi è, se non quando il Governo governa poco ed ha pochi impiegati.

Dunque scemiamo il numero degl'impiegati; se domani io fossi luogotenente in Napoli, sapete quale misura adotterei per la prima? Direi: non si danno più impieghi a nessuno (Bravo! Ilarità), anzi gl'impieghi saranno diminuiti. (Benissimo! Ilarità generale)

Veniamo ora ai lavori pubblici: e qui dirò che le due questioni della moralità e del lavoro si legano strettamente, poiché, se voi date lavoro, voi moralizzerete, e più darete lavoro, e più presto avrete moralizzato il paese; in questo solo modo poi potrete curare la piaga gravissima di quelle Provincie, quella della impiegomania, piaga di cui gli onorevoli ministri sono ben conscii. (Segni generali d'approvazione)

Ma qui nasce una dolorosa obbiezione, che mi mette un po' in imbarazzo,: dove piglieremo noi i denari per fare questi lavori? L'obbiezione è grave, lo riconosco; ma finalmente io non credo che il caso sia disperato.

L'erario, senza dubbio, si trova oggidì in pessime condizioni, poiché non d'altro è ricco se non di debiti: è a mia cognizione che si è voluto contrarre un prestito per la città di Napoli, e, se sono giuste le mie informazioni, credo che si sia fatto un solenne fiacco, perché non si trovarono condizioni migliori di 70 ducati per ogni cento di obbligazione.

Si parlò altresì del prostito di 95 milioni di lire a prò dei comuni, e neppur questo io credo che sia riuscito; del resto, i signori ministri debbono saperlo e ci daranno i debiti schiarimenti.

Il paese non manca di risorse; per esempio, io mi ricordo che al tempo del generale Garibaldi si fece un primo decreto

371

TORNATA DEL 2 APRILE

Or bene, perché tutti questi beni, i quali sono di una immensa estensione e rendono pochissimo sotto l'amministrazione erariale, la quale non è fedele, io non esito a dichiararlo, perché, domando io, non si mettono all'asta tutti questi beni, a beneficio del pubblico erario?

Abbiamo altresì dei beni demaniali considerevolissimi, i quali anch'essi rendono pochissimo, sia per la mala gestione, sia per l'incuria naturale dell'amministrazione; ebbene,metteteli all'asta pubblica, che frutteranno assai più all'erario.

Poi vi sarebbe una risorsa importantisssima, della quale parlai invano al generale Garibaldi, cioè quella di spianare i quattro castelli, siccome fecesi un tempo di quello di Genova.

Abbiamo quattro castelli a Napoli, di cui un solo può esser utile, ch'è quello dell'Uovo, il quale è piantato nel golfo, e per conseguenza difende la città dalla parte del mare, gli altri tre sono stati costrutti unicamente ad offesa della città, e la storia è in mio favore. Ebbene, perché non si abbattono questi castelli? Perché sul suolo ove sorgono non si costruiscono delle case? Ci sarebbero delle compagnie, sì nazionali che estere, le quali comprerebbero immediatamente a grosso denaro questo suolo. Oltre a ciò avete compagnie prontissime ad anticipare capitali e cominciare subilo i lavori delle strade ferrate. Citerò l'esempio della compagnia Adami e Lemmi, sul cui contratto si è tento gridato un tempo; eppure era un contratto che si poteva benissimo accettare, poiché consentivano a vedere ratificato il trattalo dal Parlamento.

Poi ci abbiamo le immense risorse dei beni di manomorta, ma di ciò farò soggetto speciale al discorso in cui svolgerò alla Camera i motivi del mio progetto di legge su tale materia. Ci abbiamo infine delle ricchezze maravigliose latenti in quasi tutto il regno.

Vi citerò, per essere breve, l'esempio della provincia di cui ho l'onore di seder deputato.

C'è il così detto tavoliere di Paglia; si traila di sterminate pianure, le quali in questo momento fruttano pochissimo, perché sono addette in generale a pascolo, oppure soggiacciono all'antico barbaro sistema delle maggesi, cioè non producono che ogni due anni; la proprietà essendo divisa in poche mani, questi pochi proprietari non possono neppur coltivare secondo le loro idee ed il loro interesse.

Ebbene, si dovrebbero affrancare queste terre, e poi, introducendovi un sistema di irrigazione ben inteso, e piantandovi quegli alberi che vi mancano, quella provincia allora diventerebbe una seconda Lombardia.

Se io discorressi di tutte le provincie del regno, troverei in tutte miniere d'oro; tutto sta a saperle aprire.

Io vorrei, per esempio, che le deputazioni di ogni provincia formulassero una dichiarazione dei bisogni delle loro Provincie, e questa dichiarazione venisse tradotta in legge e applicata;e così, applicando il principio della divisione del lavoro, si potrebbe immediatamente dar mano per ogni dove ad opere importantissime.

Io non fo che attirare l'attenzione dei ministri su queste cose; io non posso che esprimere desiderii; i rimedi sta ad essi il metterli in atto.

Queste, secondo me, sono le nostre risorse, questi i rimedi da praticarsi. Ove il Governo li adotti, ei troverà in essi il vero mezzo a cessare ogni agitazione, antivenire ogni tumulto simile a quello dolorosissimo di cui Napoli è stata teatro (Bravo!), e sul quale preferisco stendere un velo. E si eviterà anche qualunque mena, qualunque intrigo di parte.

Ed a questo proposito dirò che i partiti hanno pochissima radice nel paese. Credete voi, per esempio, che i Borboni abbiano partigiani sinceri? Punto. Havvi un certo numero di famiglie, le quali vivevano degli antichi abusi, e che perciò erano interessate all'esistenza dei Borboni; fate che tutti abbiano da vivere e tutti saranno partigiani del Governo. (Ilarità)

Vengo ora alla questione dell'autonomia e della luogotenenza.

Io non sono dell'avviso dell'onorevole Massari; io credo che, fino al gran giorno in cui Roma sia nostra, rispettare si debba l'autonomia di Napoli. Non è già che io sia partigiano di questa autonomia, ma ne sono tenere le moltitudini. Naturalmente uno Stato, che da tanti secoli era indipendente, molto mal volontieri si vedrebbe assorbire da un altro. Venuto da Roma, ogni ordine sarà eseguito ciecamente, mentre da Torino, non bisogna dissimularcelo, non si vuol sapere di ricevere ordini.

Io non approvo, nò disapprovo un tal fatto, io lo enuncio; per conseguenza io vorrei che, invece di distruggere la luogotenenza, essa venisse afforzata (Movimenti diversi), e sopra tutto che gli onorevoli ministri mandassero al principe di Carignano una specie di programma, dessero delle norme precise, fondate in parte su queste idee, che non credo siano da disapprovarsi; vorrei che si provvedesse alla nomina dei governatori; in generale le provincie sono state malmenate, e questi governatori, meno poche eccezioni, non hanno soddisfatto ai bisogni delle provincie. Ebbene, bisognerebbe procedere alla scelta di quattordici uomini (e non sarà poi tanto difficile il trovarli) giusti, probi ed intelligenti.

Più, mi sia lecito fare una digressione sul signor Nigra. Io non conosco questo signore. Io non ho mai bazzicato nelle anticamere dei ministri, non ho mai domandato favori a nessuno; ma, da tutto quello che ho potuto raccogliere in Napoli, posso dire di lui quanto segue:

Giovane, e per conseguenza di cuor generoso, è intelligentissimo, e comincia a mettersi al fallo delle cose del paese.

Ora io vorrei che, in luogo di richiamarlo, fosse conservato in quel posto, e fosse circondato da cinque o sei uomini del paese, i quali potessero ben consigliarlo.

Io vorrei pure che si stabilisse una linea di demarcazione tra il dirigere gli affari ed il consigliare; vorrei che i consiglieri deputati a dare buoni consigli al signor Nigra, il quale, per non essere napoletano, non può conoscere bene il paese, si limitassero unicamente a consigliare (Ilarità) e ci fossero poi dei direttori pel disbrigo degli affari, i quali altro non facessero che dirigere gli affari.

Credo che questa sia un'altra idea che possa essere presa in considerazione dai signori ministri.

Ne esporrò ora un'altra.

Tutti sanno quali siano le mie opinioni, ma debbo dire che il mio paese è essenzialmente monarchico, e quando Io dico io, dovete crederlo. (Risa di approvazione)

Ebbene, o signori, nell'interesse della causa italiana, la quale esige che non si disgustino le provincie più vaste, più popolose e importanti della Penisola, vorrei che i signori ministri consigliassero al Re d'andare a Napoli, di rimanervi il più lungamente possibile, di non fare come l'altra volta che nessuno l'ha mai veduto, ma di farsi invece vedere dappertutto, siccome fa in Piemonte.

Per non istancare più oltre la Camera, terminerò proponendo un ordine del giorno, poiché, se sono poeta, sono pur negli affari politici l'uomo più positivo di questo mondo, e

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Se quest'ordine del giorno verrà adottato, prego i signori ministri di farlo immediatamente telegrafare a Napoli, ove produrrà un immenso effetto. (Si ride) Non c'è da ridere. Si tratta di promesse importanti, le quali basteranno ad ispirar fiducia ed a calmare l'agitazione. L'ordine del giorno ch'io propongo è il seguente: La Camera invita il Ministero a provvedere al più presto ed energicamente alle cose del già reame di Napoli, dando norme precise di governo alla Luogotenenza, e mirando in ispecie: 1° ad introdurre la moralità nell'amministrazione; 2" ad attivare al possibile le opere pubbliche d'ogni maniera, e passa all'ordine del giorno.

Pensale, o signori, che l'Italia dee combattere un'ultima guerra, forse più fiera di tutte quelle che ha combattute finora. Badale a far sì che il reame di Napoli, che la Sicilia non sieno d'impiccio in frangenti si gravi, ma sieno invece di aiuto, siccome debbono essere nove milioni e più d'Italiani. Questo dipende dall'attitudine e dall'opera dei ministri. Ora ch'essi conoscono la verità, qualunque cosa possa accadere di sinistro, la responsabilità ricadrà tutta sul loro capo. E, conchiudendo, mi farò lecito ricordare al conte Di Cavour il terribile verbo cavoureggiare. (Ilarità. Bravo!)

Minghetti, ministro per l''interno. Domando di parlare.

Foci diverse. No '. Domani! domani!

Presidente. Darò allora lettura dell'ordine del giorno per la seduta di domani:

Ordine del giorno per la tornata di domani:

1° Seguito della discussione intorno alle interpellanze del deputato Massari circa le condizioni amministrative delle Provincie napolitane;

2° Discussione del progetto di legge per la proroga dei termini stabiliti per l'affrancamento delle enfiteusi nelle Provincie dell'Emilia;

3° Svolgimento della proposta di legge del deputato Ricciardi per l'incameramento dei beni di manomorta e de' luoghi pii.

La seduta è levata alle 5 3|4.

TORNATA DEL 3 APRILE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE RATTAZZI.

SOMMARIO. Omaggi. - Congedi. - Comunicazione di vacanze di collegi. - Lettura della proposta di legge del deputato Musolino per un titolo ed un dono nazionale a Garibaldi. = Seguito della discussione sulle interpellanze del deputato Massari e del deputato Paternostro sull'amministrazione delle provincie meridionali - Discorso del ministro per l'interno in risposta alle interpellanze - Schiarimenti e dichiarazioni del ministro pei lavori pubblici - Avvertenze e censure del deputato Miceli, e spiegazioni del ministro per l'interno - Schiarimenti e dichiarazioni del ministro per l'agricoltura e commercio, e del guardasigilli - Osservazioni ed istanze dei deputati De Blasiis, Mazziotti, Greco, Piria, Cardenie, Castellano e Valenti - Voti motivati proposti dai deputati Ferrari, Pantaleoni, Miceli, Leopardi, Amari, Castellano, Fabrizj e De Blasiis.

La seduta è aperta all'una e mezzo pomeridiane.

Gigliucci, segretario, dà lettura del processo verbale della tornata precedente, il quale è approvato.

Negrotto, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

6930. Il Consiglio provinciale di Cagliari, non ravvisando fondate le ragioni messe innanzi dal Ministero dei lavori pubblici per opporsi a dichiarare nazionale la strada da Gonnesa a Portoscuso, deliberò, nella seduta del 30 prossimo passato settembre, di ricorrere al giudizio della Camera.

6931. Gatti avvocato Carlo Francesco, residente in Napoli, ufficiale del primo impero, in ora capitano di prima classe nell'esercito meridionale, in considerazione de' suoi servizi e delle riportale ferite, domanda di far passaggio nel corpo dei Veterani, e subordinatamente di essere posto a riposo colla pensione del suo grado, e inoltre chiede il rimborso delle paghe e competenze arretrate, la gratificazione semestrale e l'uso dell'uniforme.

6938. Scalaberni Luigi, di Faenza, proprietario di un teatro nella città di Nizza, dal quale, prima della riunione di quel territorio alla Francia, ricavava annualmente la rendita da sei ad otto mila franchi, chiede di essere indennizzato dei danni derivanti dalla definitiva chiusura del medesimo ordinata dal Governo francese.

6933. Marenco cavaliere Matteo, di Dogliani, provincia di Cuneo, maggiore in ritiro, attualmente commissario di leva del circondario di Firenzuola, domanda di essere reintegrato nella pensione di maggiore del battaglione Veterani invalidi, o quanto meno di capitano, non che il rimborso degli arretrati dal 19 aprile 1849.

6934. Folino Nicola, di Conflente, distretto di Nicastro, chiede di essere indennizzato dei danni sofferti per la causa dell'indipendenza italiana.

6933. Romagnoli Nicola, da Napoli, ex-maggiore del disciolto 54 reggimento borbonico di linea, posto a riposo colla pensione di capitano, domanda gli sia corrisposta quella del suo grado di maggiore.

TORNATA DEL 3 APRILE

ATTI DIVERSI.

Presidente Campolo Demetrio, di Messina, fa omaggio di una sua memoria: Proposte di riforme ecclesiastiche in Sicilia.

Palmi Giovanni, Casentinese, fa omaggio di tre esemplari di un suo scritto: Sulla necessità e sul modo d'introdurre la pubblica istruzione nelle classi agricole ed operaie.

Il deputato Stefano Jadopi scrive che, obbligato in questi giorni da nuovo tutto domestico a risentire tutto il peso di un profondo dolore, non ha forza a reggere ed assistere alle discussioni presenti del Parlamento sui fatti dell'amministrazione delle provincie napolitani, come avrebbe desiderato. Prega perciò la Presidenza a far noto alla Camera il motivo della sua lontananza, sperando di poter ben presto trovarsi al suo posto a servizio della patria comune.

Il deputato Maggi chiede, per importanti affari di famiglia, un congedo di giorni venti.

Il deputato Tonelli, per indispensabili affari particolari, chiede dalla Camera un congedo sino al giorno 7 corrente mese.

(I congedi sono accordati.)

Il ministro dell'interno partecipa alla Presidenza che S. M., con decreti in data di ieri, si è degnata di nominare segretario generale presso il Ministero di grazia e giustizia il signor avvocato Filippo De Biasio, deputato del V collegio di Napoli; segretario generale presso il Ministero delle finanze l'avvocato Filippo Cordova, deputato di Caltanissetta; e senatore del regno il commendatore avvocato Antonio Giovanola, deputato del collegio di Biandrate. Per tal modo i collegi di Napoli, di Caltanissetta e di Biandrate rimangono vacanti e saranno fatti gli opportuni uffici presso il Ministero perché siano riconvocati.

LETTURA DI UNO SCHEMA DI LESSE DEL DEPUTATO MUSOLINO PER UN DONO NAZIONALE AL GENERALE GARIBALDI.

PRESIDENTE. Avellilo gli uffizi I, IV, V, VI, VII, Vili autorizzata la lettura della proposta di legge fatta dal deputato Musolino, se ne darà lettura alla Camera:

«Art. i. Il generale Giuseppe Garibaldi è dichiarato primo cittadino d'Italia.

Art.2. In nome della nazione si offre al primo cittadino in assoluta e libera proprietà per sè e suoi eredi un vasto podere o più poderi demaniali della rendita annuale di. lire 130,000, a titolo nendi ricompensa, ma di dono nazionale, in omaggio dei grandissimi servizi resi alla patria.

È presente il deputato Musolino?

Voci. No! no!

Presidente. Allora, quando verrà, indicherà il giorno in cui crederà di svolgere la sua proposta.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLE INTERPELLANZE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLITANE E SICILIANE.

Presidente. L'ordine del giorno è il seguilo della discussione intorno alle interpellanze del deputato Massari sull'amministrazione delle provincie meridionali.

La parola è al signor ministro dell'interno.

Bruno. Ieri mi pare...

Presidente. Perdoni,ora la parola è al signor ministro.

Amari. Io ho ieri domandato la parola, e credo di essere in diritto di averla prima.

Presidente. Mi scusi, a termini del regolamento, quando un ministro domanda la parola, la ottiene sempre il primo.

Minghetti, ministro per l'interno. Permetta un istante; se gli oratori che domandano la parola sui vari banchi della Camera hanno dei falli sui quali intendono di muovere interpellanza al Governo, io preferirei che parlassero prima che io rispondessi agli onorevoli che ieri mi interpellarono; se poi si tratta di giudicare della condotta governativa, ed entrare nel merito stesso della discussione, io li pregherei di voler prima permettere ch'io risponda ai fatti e alle critiche che furono ieri mosse, ed indichi i provvedimenti che il Governo intende di prendere; per tal modo la discussione potrà seguire più ampia e più concludente.

Amari. Io credo appunto di essere nel caso enunciato dall'onorevole ministro dell'interno, perché, oltre ad alcune osservazioni, avrei a parlare di alcuni fatti sui quali bramerei di ottenere dal ministro le opportune spiegazioni; oltreché avrei a rispondere a certe parole che ieri la Camera, con dolorosa meraviglia, udì profferire contro una città tanto benemerita dell'Italia.

Presidente. Allora io lo prego di limitarsi ai semplici fatti che vuole addurre, e di sospendere le sue osservazioni fino a che venga il suo turno di parlare, senza del che rimarrebbe intervertito l'ordine degl'inscritti.

La Camera non ignora che parecchi si sono fatti inscrivere, ed io necessariamente debbo mantenere l'ordine nella discussione.

Amari. Io dovrei rispondere a certi fatti che sono stati addotti ieri, onde la Camera possa avere piena cognizione di causa.

Presidente. Risponderà quando verrà il suo turno.

Amari. Poiché il signor presidente non mi consente la parola, aspetterò il mio turno; ma osserverò soltanto che il signor Paternostro parlò ieri il secondo, mentre non era il secondo inscritto.

Presidente. Il deputato Paternostro ebbe prima la parola perché aveva interpellanze particolari a fare al ministro, il quale domandava di rispondere ai due interpellanti nello stesso mentre. Se anche ella vuole muovere interpellanze, senza entrare nella discussione, io le ripeto che do a lei la parola.

Amari. Purché mi sia assicurato di ottener la parola in questa discussione (Si! sii), io cedo alle osservazioni del signor presidente.

Bruno. Signor presidente, io mi troverei presso a poco nelle condizioni del signor Paternostro, poiché non potrei a meno di dare uno sviluppo a molti fatti da lui accennati in senso diverso, e dovrei pertanto fare ora interpellanze speciali; ma se il signor presidente non me lo consente, mi rassegno a differirle.

Presidente. Essendo contemporaneamente chiesta la parola da diverse parti della Camera per far interpellanze, le risposte sarebbero eccessivamente differite,

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CAMERA DEI REPUTATI SESSIONE DEL 1861

e la discussione andrebbe naturalmente in lungo, quindi io credi) assai più regolare che si lasci campo prima alle risposte del signor ministro.

Bruno. Da quanto il signor ministro ha detto, egli lascerebbe ora il campo a chi avesse a sottomettere alla Camera fatti positivi; e quelli che io vorrei addurre sono appunto documenti chiari e fatti nuovi.

Presidente. Il signor ministro avendo chiesto di parlare, gliene do facoltà

Minghetti, ministro peri_Memo. Ringrazio gli onorevoli oratori che mi interpellarono ieri sulle cose di Napoli e di Sicilia, non solo perché conosco la rettitudine delle loro intenzioni, ed apprezzo la temperanza dei modi che usarono, ma inoltre perché mi sembra che questa discussione fosse necessaria, e rispetto all'interno del regno, e rispetto al di fuori.

Rispetto all'interno del regno è di somma importanza che quelle popolazioni veggano che il Parlamento prende in seria considerazione i loro gravami.

Rispetto poi al di fuori è parimenti di somma importanza che i fatti siano recati innanzi e giudicati nel loro vero valore. Nulla havvi di peggiore che il susurrare agli orecchi la gravità delle cose, i pericoli che minacciano, i dubbi sull'avvenire. Gli onorevoli deputati che mi interpellarono sanno anch'essi quanto su queste vaghe supposizioni facciano fondamento i partiti i quali ci sono avversi.

Ora, senza negare che nelle provincie napoletane e siciliane vi siano realmente molti e gravi inconvenienti, io spero che dalla discussione presente sarà per risultare, primieramente, che questi mali e questi inconvenienti sono grandemente esagerati. In secondo luogo sarà per risultare che una parte di questi mali e di questi inconvenienti erano inevitabili nelle circostanze nelle quali si produssero. In terzo luogo, finalmente, sarà per risultare che questi mali e questi inconvenienti sono ancora riparabili.

Qual meraviglia, o signori, che i gravami di quelle Provincie siano stati esagerati? Pensiamo alle condizioni in cui giacquero i popoli delle provincie napolitane e siciliane durante s) lungo tempo; alle speranze immense che presentava ad essi un mutamento di governo; all'indole loro naturalmente vivace ed immaginosa, e finalmente ai partiti i quali travagliarono quei paesi e si valsero della stampa ciascuno pei suoi fini, e non dovremo stupire, siccome io dissi, se i giusti gravami furono grandemente esagerati.

Similmente io dico che di questi mali e di questi inconvenienti una gran parie era inevitabile.

Io debbo dolermi, se mi è lecito usare di questa parola, che gli onorevoli interpellanti abbiano tutti trascuralo di considerare le circostanze nelle quali si trovarono l'ex-reame di Napoli e la Sicilia durante questi ultimi dieci mesi.

Certo le rivoluzioni possono essere talora necessarie e talora giustificale dallo stato di oppressione di un paese, ma elleno sono pur sempre un male; elleno traggono inevitabilmente seco multi disordini.

Ora, se noi pensiamo alla successione di mutamenti che avvennero nel mezzodì d'Italia, prima colla costituzione data da Francesco 11, poi colla dittatura, poi colla luogotenenza, noi non dovremo meravigliarci se ad ognuno di questi mutamenti molti mali si sieno manifestati.

Similmente gli onorevoli interpellanti trascurarono di considerare che il primo elemento per mantenere l'ordine pubblico e per organizzare un paese si è di avere nelle proprie mani una forza.

Ora, durante il primo periodo della rivoluzione napoletana, e fino alla caduta di Civitella del Tronto e alla fine del gantaggio politico, il Governo di S. M. ha dovuto impiegare le sue truppe nell'espugnazione di Gaeta e di Messina. né si può accusare il Governo di non avere mandate nelle provincie meridionali maggior numero di truppe, imperocché voi non potete dimenticare che la linea del Mincio e del Po deve essere da noi gelosamente custodita, ché là stanno i destini futuri della nazione. (Movimento)

Quanto a me, io sono disposto a rendere giustizia a tutti gli uomini i quali assunsero il governo di quelle provincie,

0 vi cooperarono dal principio del movimento fino ad ora. Essi mostrarono grande abnegazione accettando il potere in condizioni difficili e senza quell'elemento, che io diceva essere il più essenziale, vale a dire senza avere una forza materiale della quale potessero disporre; ed io sono inclinato ad attribuire tutti i beni, che furono conseguiti, alla loro virtù; tutti i mali, invece, alle circostanze in mezzoa che si trovavano.

Io credo finalmente che i mali che esistono e gli inconvenienti che gli onorevoli interpellanti hanno accennato siano riparabili, e lo credo sia per la natura e l'indole di quei popoli così bene da loro rappresentatici; sia perché, cessata la guerra civile, noi possiamo disporre oggi di maggiori mezzi; sia perché il progresso del tempo ci farà conoscere viemmeglio i bisogni ed i rimedi che vi si debbono impiegare.

Egli è appena un anno trascorso, o signori, che si parlava della Lombardia quasi di un paese ingovernabile; si citava nei giornali stranieri il motto di un eminente personaggio, il quale aveva detto che la Lombardia sarebbe stata come una catena legata al piede della dinastia di Savoia che l'avrebbe trascinata in terra. Vi erano in realtà molte e non irragionevoli cagioni di malcontento. Or bene, da sei mesi ch'io ho l'onore di sedere nei Consigli della Corona, io debbo dichiarare che la Lombardia non solo non ha dato al Governo alcun imbarazzo, ma che al contrario si mostrò uno dei più validi sostegni della politica nazionale. (Benissimo)

Io sono lieto di affermare essere mia opinione che nessuu'altra provincia del regno possa dirsi superiore alla Lombardia, sia nella devozione alla monarchia, sia nella fede al regno d'Italia, sia nell'esercizio sapiente delle libere istituzioni. (Bene! Bene!)

Nessuno ha mai potuto supporre che nelle Romagne si rimpiangesse il regime caduto; però non mancarono uomini i quali si peritassero dell'esperimento della coscrizione in un paese che da cinquant'anni ne era stato privo. Ora si è fatto non una, ma due leve successive, ed esse sono riuscite senza alcun vero disordine.

Le notizie ch'io ricevo dall'Umbria e dalle Marche, dove ora si compie un'operazione somigliante, mi fanno sicuro che ivi ancora le operazioni della leva saranno con perfetto ordine compiute.

Non parlo della Toscana.

La Toscana presenta un fatto, il quale basta per tutti. Sono sei mesi che non vi è colà un soldato, e la Toscana non ha cessato di dar l'esempio di quella nobile e savia condotta che l'ha sempre onorata come il popolo più colto, più gentile di tutta l'Italia. (Approvazione)

Credo pertanto di poter, per queste ragioni, confidare che anche le provincie napolitane e le provincie siciliane, benché con alquanto più di difficoltà, potranno col tempo trovarsi nel medesimo caso, e spariranno, non dico già tutti gl'inconvenienti, ché questo sarebbe impossibile sperare, ma spariranno quei gravi sconci pei quali lo stato attuale viene giudicato, e non a torlo, richieder pronti rimedi.

375

TORNATA DEL 3 APRILE

Dopo queste osservazioni preliminari, entrerò particolarmente a rispondere sui varii punti, intorno ai quali dagl'interpellanti venni richiesto.

Parlerò innanzi tratto della pubblica sicurezza, ch'è, senza alcun dubbio, il primo, il più importante capo, al quale gli occhi del Governo debbano rivolgersi.

Qui ancora debbo invocare, se mi è lecito dir così, le circostanze attenuanti.

Una parte dell'esercito borbonico si disciolse al primo metter piede nelle Calabrie del generale Garibaldi; un'altra parte è stata rimandata alle sue case più tardi. (Parlerò poi dei motivi che suggerirono questa disposizione; per ora mi limito ad annunciare il fatto.)

Molti servi di pena uscirono di custodia o per evasione nei primi momenti del disordine, o per liberazione dalle carceri.

I volontari che entrarono nel regno avevano un punto di mira, ch'era quello di compiere la rivoluzione; essi non potevano, non volevano (e non sarebbe stato neppure tale la natura di quei corpi) fare le guarnigioni.

L'esercito, come dissi, fu occupalo nell'assedio di Gaeta e di Messina, e nella repressione del il quale, sventuratamente, non può dirsi del tutto finito; perché, sebbene non vi siano più bande armale le quali percorrano il paese, pur iscoppiano in qualche villaggio tratto tratto alcuni moti di reazione e di vendetta, moti che sono repressi immediatamente, ma che non per ciò sono meno dolorosi.

Gli antichi gendarmi potevano essi conservarsi?

Pesava sopra di loro l'odio, l'abbominio delle popolazioni; essi erano stati i ministri più crudeli di una crudele tirannide. La guardia nazionale non era organizzata. (Ed anche di questo parlerò più lardi, e ne spiegherò le ragioni.)

Ora, in mezzo a questa condizione di cose, chi può pensare che la sicurezza pubblica sia in quel grado che si deve desiderare, e che un giorno si potrà ragionevolmente pretendere?

AI politico suol sempre seguire un gio latrocinante, e gli avanzi delle bande dispersi vivono di grassazioni e di rapine. Nondimeno le grassazioni e i furti, fatta ragione delle circostanze anormali, non sono così frequenti come per avventura si potrebbe aspettarlo.

Io non citerò quadri statistici. So bene quanto essi valgano, e sebbene ne abbia veduti pur dianzi stampati nei giornali ufficiali di quelle provincie, non intendo di valermi dell'autorità di quelle cifre. Mi varrò però di un'autorità, che spero l'onorevole Massari non vorrà ricusare, e che non ricuseranno certo coloro i quali appartengono alle antiche provincie o alla Lombardia, e conoscono quanta sia la rettitudine, l'imparzialità, la veracità del generale de' , il signor Arnulfo. Esso scriveva, in data di Napoli 29 marzo, queste parole:

Se si avverte che nel settembre ultimo evasero a centinaia i servi di pena e i carcerati; che si sbandarono a migliaia armati i soldati borbonici; che migliaia di questi sonosi mandati alle case loro in congedo illimitato; che tutti costoro sono elementi che possonsi agevolmente adoperare per soddisfare antiche ire e vendette; che possono con facilità disporne i partiti malcontenti per fomentare la reazione; ripeterò delle provincie ciò che ho detto della città di Napoli, che in ragione delle circostanze eccezionali, i

ordinari non sono in esse più numerosi che nelle altre Provincie d'Italia, malgrado si sia qui sprovvisti di quella forza tutelare che altrove trovasi disseminata su tutta la superficie del territorio.»

Dirò fra breve quali sono i provvedimenti che il Governo intende di prendere per migliorare e consolidare le condizioni della pubblica sicurezza; passerò intanto ad un'altra accusa.

L'onorevole Massari ha parlato di prevaricazioni nei dicasteri: accusa gravissima, che il liberalismo italiano ributta con generoso sdegno. Imperocché in tutte le rivoluzioni che ebbero luogo in Italia nel tempo passato, quelli che le condussero, per quanti errori si possano loro attribuire, non furono mai accusali di aver prevaricato ed abusato della fortuna pubblica. Ma, o signori, come potrò io rispondere ad accuse così generiche?

L'onorevole deputato Massari ha descritta la inveterata piaga dei sollecitatori; l'onorevole deputato Ricciardi le abitudini corruttrici della burocrazia borbonica. Ora, se ciò è vero, credono eglino possibile lo sradicare immediatamente queste male piante?

Io stimo che il Governo debba e possa vegliare attentamente sui suoi impiegati, raccogliere con molta sollecitudine tutti i fatti che gli fossero particolarmente denunziati; io stimo che esso debba punire severamente, esemplarmente i prevaricatori, ma non saprei veramente immaginare un metodo per eradicare ad un tratto quelle abitudini, alle quali i due onorevoli interpellanti hanno accennato.

Del resto, nei momenti di rivoluzione, non dobbiamo dimenticare altresì che la calunnia è molto facile a gettarsi in mezzo, e molto facile ancora ad essere ascoltata e ripetuta. né io parlerei cotanto francamente di ciò rispetto alle provincie napoletane, se non avessi veduto recentemente nei pubblici giornali essere accusati uomini onorandi, il cui nome solo avrebbe dovuto bastare per impedire che mai uscissero simili calunnie. (Benissimo!)

Si è parlalo ancora del numero strabocchevole degli impiegati; ed anche in questo io non dissento che vi sia una parte di vero. Ma io prego la Camera di considerare che fino dall'epoca borbonica questo numero era strabocchevolmente grande, congiunto a tale una miseria di stipendi che era quasi un incitamento a mal fare.

Vi fu, come ho accennato, il trapasso dal sistema assoluto borbonico al periodo costituzionale, da questo alla dittatura, dalla dittatura al governo regio e alla luogotenenza. È naturale che, ad ognuno di questi cambiamenti, una grande schiera di postulanti si presentasse ai trionfatori e ai governanti; è naturale che certi uomini di fiducia dell'un governo non lo fossero intieramente dell'altro; è naturale che, avendo infiniti affari a trattare, non si pensasse pel momento ad una riforma siccome è quella della diminuzione del personale, la quale suppone non solo leggi precise che determinino le attribuzioni e le piante stabili, ma eziandio un andamento regolare nei pubblici uffici.

Io non mi meraviglio che una gran parte dei mali si faccia ricadere sugli impiegati; anzi reputo che vi sia in ciò una parte notevole di verità; ma credo ancora che, nei paesi avvezzi ad un governo assoluto, più che alla legge, più che alla mancanza di attività nei privati e nelle associazioni, si suol sempre guardare alle persone; tutto ciò che non va bene è attribuito agli uomini che seggono in ufficio; laonde, senza erigermi a difensore degli impiegati di quei dicasteri, che io non conosco, dico soltanto che molte colpe che loro si attribuiscono; che molte colpe, le quali si fanno dipendere dalla burocrazia napoletana, sono piuttosto un effetto necessario delle condizioni nelle quali versa il paese. Nondimeno io convengo che questo è uno dei punii nei quali sono necessarie delle riforme; però mi affretto a dire che queste

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SESSIONE DEL 1861

Io non potrei ammettere, come ministro di un governo regolare, le destituzioni in massa e le categorie di sospetto. Io ammetto di gran cuore la sorveglianza rigida, la punizione severa il restringimento progressivo di quegli uffici; ecco quello che io posso ammettere. Non posso accettare e non accetterò mai di farmi lo strumento di generali destituzioni. (Bene! Bravo!)

Fra i vari dicasteri i quali furono accusati di aver accresciuto il numero dei loro impiegati fu accennato principalmente il dicastero d'agricoltura e commercio. Io confesso che, quando vidi il decreto del 25 febbraio che ne costituiva la pianta, partecipai io medesimo ai sentimenti dai quali era mosso l'onorevole preopinante; anzi ne scrissi immediatamente, e domandai conto del perché si fosse fatta quell'opera.

Lascio alla Camera d'apprezzare il valore delle giustificazioni; a me corre debito di esporle. Mi fu risposto che il dicastero di agricoltura e commercio in un paese libero acquistava di necessità un'importanza che prima non aveva; testimonio il Parlamento dell'anno scorso, che credette di formarne un Ministero a parte nel nuovo regno. Mi si addusse che all'epoca della costituzione del 1848 si era fatto il medesimo a Napoli; voglio dire, si era separato il Ministero di agricoltura e commercio dagli altri Ministeri, e mi si recò innanzi uno stato discusso pel 1849 da quel dicastero, il quale portava una spesa di annui ducati 215,000.

Ora, soggiungevasi, non si è creduto di farne un dicastero a parte, ma si è aggiunto prima ai lavori pubblici, poscia all'interno. Si è dovuto nondimeno dargli un certo sviluppo, ma in guisa di non oltrepassare la somma di annui ducati 182,000; per conseguenza facendo un risparmio sullo stato discusso nel 1849 di 62,000 ducati.

Quanto poi alla qualità degli impiegati che erano stati introdotti in quell'ufficio, mi si rispose che, dei 46,21 già appartenevano a quell'amministrazione, e 11 erano stati presi da altri Ministeri, senza bisogno di surrogazione; dimodoché l'aumento del personale si riduceva in sostanza a soli 14 impiegati.

L'onorevole Massari ha rimproverato la luogotenenza di aver stanziato un milione di sussidio per quelli che soffersero per cause politiche. Risponderò primieramente che il Consiglio di luogotenenza non è responsabile se non dell'esecuzione di questo decreto, ma non della sua originaria emanazione. Questo decreto risale all'8 gennaio, ed è del Governo del Re, allora investito, in riguardo alle provincie meridionali, della pienezza dei poteri legislativi. Quel decreto diceva coll'articolo 3° che si distribuirebbero dei sussidi di cui il principe luogotenente avrebbe in appresso determinato la somma. Quel decreto nella sua generalità non suscitò alcuna censura, anzi fu accolto favorevolmente.

Il decreto del 17 febbraio, a cui allude l'onorevole Massari, non è dunque altro che l'esecuzione di quel primo atto sovrano, fatta in termini che non possono essere accusati di prodigalità.

Qui mi sia lecito di dire che il signor Massari mal si apponeva quando parlava d'indennità: so anch'io che il principio d'indennità è pericoloso, perché implica un diritto e una revisione completa dei fatti; e non si può nobilmente, come egli diceva, ricompensare con danaro i sacrifizi, ai quali solo degno premio è la gloria e la riconoscenza del paese; ma nel decreto cui faceva allusione si parla di sussidi alle famiglie povere, le quali hanno sofferto per causa di libertà. Come egli vede, v'ha un'immensa differenza tra questo provvedimento e la sua interpretazione.

Oltre di che la somma di 1,000,000 rispetto a tutte le provincie napoletane non mi sembra essere grave carico, e quanto alle somme annue che nel decreto del 17 febbraio si disse sarebbersi stanziate per l'avvenire, siccome dovranno venire portate sul bilancio dello Stato, cosi la Camera allora potrà farne quel giudizio che per ora sarebbe prematuro.

Si dolse l'onorevole Massari che la legge comunale e provinciale non fosse ancora attuata; la legge 23 ottobre fu promulgata il 2 gennaio 1861; ma egli sa meglio di me che occorre un certo tempo per la formazione delle liste, per la revisione di esse, pei riclami e pei giudizi definitivi; il qual tempo fu accresciuto ancora da questa circostanza che le Commissioni municipali che ne avevano l'incarico dovettero occuparsi prima delle liste elettorali politiche, perché fossero pronte al momento che dall'autorità regia era stato stabilito per le elezioni dei deputati. Così passò il mese di gennaio; dopo il quale le Commissioni si occuparono delle liste comunali, e posso assicurare l'onorevole Massari che pei 15 aprile saranno immancabilmente fatte le elezioni in tutte le provincie napolitane. (Benissimo!) (1)

Verrò ora a parlare della guardia nazionale. Difficilissima è la organizzazione della guardia nazionale nei paesi dove essa non esiste, ma più ancora dove preesiste, male costituita. Il primo decreto, il quale istituiva la guardia nazionale nelle provincie napolitane, era del 5 luglio 1860; le sue prescrizioni la rendevano non solo ristrettissima di numero, ma formata arbitrariamente dagli agenti del Governo.

Quando il generale Garibaldi fu a Napoli, il primo suo pensiero, com'era naturale, fu di mutare questa legge. Ma, preoccupalo maggiormente dalle considerazioni della città dove era, anziché da quella delle provincie, il suo decreto si riferiva soltanto alla città di Napoli. Esso prescriveva che dai 17 ai 50 anni tutti gli abitanti della città fossero chiamati sotto le armi. Che cosa ne avveniva? Ne avveniva che, mentre questa istituzione diveniva larghissima nella capitale, essa rimaneva ristrettissima nelle provincie; e queste, mal sofferendo di attuarla in tal guisa, la formarono piuttosto ad arbitrio, che secondo l'una o l'altra regola.

Il prodittatore Pallavicini e il luogotenente Farini stabilirono nell'ex-regno, con pochissime variazioni, l'organizzazione nostra, ed io trovo che ebbero perfettamente ragione.

Per quanto si voglia aver riguardo agli interessi locali ed alla varietà delle abitudini, bisogna che nella guardia nazionale, come nell'esercito, vi sia unità per tutto il regno. Ne abbiamo un esempio nella Toscana, la quale ha conservate, forse più di qualunque altra provincia, le sue antiche consuetudini e leggi, e nondimeno ha accettato volonterosamente ed ha già organizzata la guardia nazionale sulle basi della legge che vige nelle altre provincie del regno.

Io credo adunque che si possano usare delle cautele nel trapasso, ma convengo coll'onorevole Massari che la legge sulla guardia nazionale deve essere una per tutti.

Il decreto del luogotenente del 17 febbraio mirava precisamente a questo scopo, ma, sventuratamente, era accompagnato da una relazione., la quale, invece di porre queste cautele, ne sospendeva indefinitamente l'esecuzione.

Io confesso che fui sommamente meravigliato di quella relazione; tanto che non aspettai neppure che mi fosse comunicata d'ufficio per iscrivere a Napoli; e veggo con piacere che le osservazioni le quali ieri espose l'onorevole Massari non erano sfuggite punto al mio discernimento.

(1) Veggansi le spiegazioni date a questo riguardo dal Ministro dell'interno nella seduta del 8 aprile.

377

Dopo avere parlato nella mia lettera della singolarità di pubblicare una legge per non eseguirla, e dopo avere accennato ad alcuni punti che mi sembravano in contraddizione coi principii direttivi del Governo, io continuava con queste parole:

«A lei non è per certo sfuggita la gravità e l'anormalità di queste disposizioni, che, da una parte, ammettono il proletariato in massa nelle file della guardia nazionale, il che non è conforme alle nostre politiche istituzioni, e neanche a quelle di altri stati che poggiano su basi interamente democratiche; dall'altra ne escludono, per motivi politici, una classe di cittadini, con clausole cosi indeterminate, trattandosi di opinioni, che potrebbe forse chiamarsi una categoria di sospetti, fra i quali può comprendersi ad arbitrio, e secondo le passioni dei Consigli di ricognizione, anche qualsivoglia onorato cittadino e devoto alla libertà ed alla causa nazionale.

Sarebbe superfluo che io accennassi a lei a quante ingiustizie ed a quanti disordini potrebbero aprir l'adito queste disposizioni.»

A tali mie osservazioni fu risposto, primieramente, citando il decreto del generale Garibaldi; ma io debbo dire, per amore del vero, che questo decreto non era giustamente invocato, poiché, innanzi tutto, era speciale alla città di Napoli e non generale per tutte le Provincie, come ho pure dianzi accennato, in secondo luogo era evidentemente un decreto di opportunità.

Quando le truppe borboniche erano ancora sul Volturno, quando il generale Garibaldi voleva condurre tutti i suoi volontari a combattere, era naturale che in quei primi momenti, nei quali la reazione era ancor viva, egli mettesse tali clausole, le quali io sono certo che in tempi più normali egli avrebbe assolutamente escluse.

Mi fu inviata inoltre una dichiarazione dei maggiori della gaardia nazionale di Napoli, la quale approvava la sospensione della legge sulla guardia nazionale, ma era lungi dall'approvare completamente la relazione anzidetta; e d'altra parte posso dire che il generale Desauget, comandante in capo della guardia nazionale nelle Provincie napoletane, mi scrisse una sua lettera, nella quale, affrettando col desiderio l'organizzazione della guardia nazionale, accenna alla legge vigente nelle altre provincie del regno, come quella che debba anche colà pienamente adottarsi.

Finalmente la nuova relazione veniva giustificata da ciò che era rimesso al Parlamento di fare una nuova legge sulla guardia nazionale.

Io convengo che la legge presente sulla guardia nazionale è suscettibile di miglioramenti e potrà venire col tempo emendata; ma essa ha già fatto buona prova, e noi abbiamo tante altre leggi più urgenti da discutere, che, se volessimo differire a quell'epoca di metterla in esecuzione anche nelle Provincie napolitane, credo che dovremmo aspettare troppo lungo tempo.

Del resto, debbo dichiarare che, siccome la relazione non è una legge, parmi che, senza oltrepassare i diritti che la Costituzione concede al potere esecutivo, ci sia fatta facoltà di eseguire la legge quale fu pubblicata. E ciò progressivamente con alcune cautele pratiche; ma se alcuno volesse modificarla sostanzialmente, le proposte modificazioni dovrebbero essere prima sancite dal Parlamento. (Segni di assenso)

L'onorevole deputato Massari mi ha sollecitato vivamente a fornire di armi la guardia nazionale.

Camera Dei Deputati - Discussioni del 1861.

Farò intorno a ciò due osservazioni: una speciale e l'altra generale. L'osservazione speciale, che riguarda le provincie napolitane, si è che nei primi tempi e quando, come ho descritto, la guardia nazionale era ancora incomposta, furono distribuiti 80,000 fucili; ma questi pur troppo in molta parte andarono dispersi. Io non ne incolpo nessuno, ma solo la condizione dei tempi; dico soltanto che questo fu grande sventura. Aggiungerò che trenta mila fucili trovati in Gaeta sono stati consegnali alla luogotenenza per distribuirli nelle Provincie, avvertendo però che non sono a percussione, e che quindi sarà necessario un lavoro di riparazione, che può richiedere certo tempo. La seconda osservazione è generale, ed è questa. Fin dal primo momento che fui al Ministero mi occupai moltissimo dell'armamento della guardia nazionale, parendomi questo uno dei provvedimenti più importanti; ed era invocato da tutti, espresso con desiderio da tutte le guardie nazionali. Feci adunque tutto il possibile di trovare dei fucili, e mi confidava di potere all'uopo chiedere un credito supplementare, sicuro che la Camera lo avrebbe sanzionato.

Da quell'epoca fino ad oggi non ho mai tralasciato di occuparmene, e mi è occorso di trattare con 27 case di commercio che offrivano fucili; ma sventuratamente la maggior parte di questi fucili, quando si veniva allo stringere dei conti, non c' erano, od erano ad un prezzo esorbitante per modo che nessuno onestamente avrebbe potuto comprarli; oppure erano di quelle armi, le quali non fanno male se non a chi le adopera. (Si ride) Con quattro sole case ho potuto combinare dei contralti, e certo abbondai anche sul prezzo, sapendo che è impossibile, dove molta è la domanda c piccola l'offerta, che il valore non sia alto; ma queste stesse case, non ostante l'altezza del prezzo, non ostante le mie continue sollecitazioni, non possono fornirmi le armi promesse se non a piccole quantità mensili. Me ne appello su di ciò a tutti i militari che fanno parte della Camera, essi diranno quante difficoltà vi sia ad avere armi, non dirò buone, ma discrete; e quanto tempo esigano i fabbricanti a consegnarle. Conchiuderò il mio dire su questo argomento, assicurando l'onorevole interpellante che non istarà da me che non continuino le più accurate ricerche, ch'io non perdonerò anche a spese che in tempi normali potrebbero parere eccessive; ma, se l'armamento della guardia nazionale non può essere fatto con quella celerità che sarebbe da tutti e da me più che da ogni altro desiderata, la colpa non dovrà imputarsene al Ministero.

Vengo ora ai congedi dati ai soldati; ma prima domanderò il permesso di una breve pausa.

(Succede una pausa di alcuni istanti)

Presidente. Essendo presente il deputato Musolino, lo pregherei a dire quando intende svolgere la sua proposta.

Rosolino. Io sono agli ordini della Camera e svolgerò la mia proposta quanto più presto me ne sarà fatta facoltà.

Presidente. Allora sarà fissato lo svolgimento della sua proposta dopo le interpellanze in corso e dopo alcune altre cose d'urgenza che sono già all'ordine del giorno.

ISTANZA DEL DEPUTATO ALFIERI PER UNA STATISTICA DEGLI IMPIEGATI E PROFESSORI DELL'INSEGNAMENTO SUPERIORE.

Alfieri. In questo intervallo di un momento di riposo, vorrei fare una preghiera al signor ministro dell'istruzione pubblica intorno all'interpellanza che ha accettata.Avendo il signor ministro acconsentilo ad alcune interpellanze su cose che riguardano il suo dicastero, interesserei la sua cortesia a voler far apparecchiare, per quanto lo consentono le circostanze, una statistica degli impiegati e professori dell'insegnamento universitario e superiore di nomina regia, ora esistenti nelle Provincie settentrionali e centrali.

CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

Capisco le difficoltà che vi possono essere a stendere questa statistica in un modo compiuto, ma credo che in molte parti si possa fare. Spero pertanto che vorrà farla compilare e metterla a conoscenza dei membri della Camera, deponendola alla Segreteria, perché su questa statistica potranno i miei colleghi giudicare assai meglio dell'importanza delle questioni che io intendo di sottoporre alla Camera ed al signor ministro.

De Sanctis, ministro per l'istruzione pubblica. Si farà tutto ciò che sarà possibile.

RIPRENDE LA DISCUSSIONE SULLE INTERPELLANZE RELATIVE ALL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLITANE E SICILIANE.

Presidente II signor ministro per l'interno ha facoltà di continuare il suo discorso.

Mughetti, ministro per t'interno. Prima di passare oltre, osservo che mi fu posto dinanzi un biglietto, con queste parole: e il comando generale della guardia nazionale! Rispondo subito. Dal momento che la legge, che vige nelle altre provincie, sarà applicata anche alle provincie napoletane e siciliane, ne viene di conseguenza che non potrà più esistere un comando generalo della guardia nazionale, non solo per le provincie napoletane, ma neppure per la provincia di Napoli, giacché i comandi della guardia nazionale per legge comprendono un solo comune, e soltanto è conceduto riunire in un comando le guardie nazionali di un mandamento.

Passo ora ai congedi dati ai soldati, che furono anche, se non m'inganno, uno degli appunti fatti o dall'onorevole Massari o dall'onorevole Ricciardi.

Prima di tutto è d'uopo ricordare, che una parte dei soldati, quelli che erano nelle Calabrie, si sbandò al primo arrivo del generale Garibaldi; è d'uopo anche ricordare che un'altra parte fu rimandala a casa in virtù di capitolazioni, e tra questi furono, se non m'inganno, quelli che si trovavano dentro Capua e Gaeta, e quelli i quali erano riparati nel territorio tuttora soggetto al dominio pontificio.

Quanto poi ai congedi dati dal Governo, io credo che siano fondati sopra di una ragione, che la Camera vorrà riconoscer giusta. Delle otto classi, le quali erano sotto le armi nell'esercito borbonico, le prime quattro non solo erano già vecchie, ma per la maggior parte composte di uomini ammogliati e con numerosa figliuolanza. Ora, volendo noi riordinare l'esercito, e non riordinarlo separatamente, ma confonderlo nell'esercito italiano, era necessario il fare una cerna: gli uomini che erano già sotto le armi da un certo tempo avevano preso tali abitudini, che sarebbe stato difficile il vincere. Inoltre noi abbiamo bisogno di un esercito spedito, pronto a guerreggiare, facile a trasferirsi da un punto all'altro del regno. Se adunque tutti quei soldati rimanevano nelle file, e se avessimo dovuto prendere con noi, come era costume nel paese, anche le famiglie dei soldati, ci saremmo trovati con un esercito simile a quello di Serse. (Risa d'approvazione)

Io credo adunque che l'onorevole ministro della guerra abbia fatto ottimamente ritenendo solo le quattro ultime classi, perché composte dei più giovani, e di quelli che possono ancora essere piegati alla nostra disciplina ed alle nostre abitudini; inoltre parmi commendevole la fatta esclusione degli ammogliali, alcuni dei quali avevano molli figli, e che pure facevano parte delle ultime quattro classi.

Uno dei punti intorno a cui ho sentito vive accuse, e sul quale si sono anche presentate alla Camera alcune petizioni, è il cambiamento di circoscrizione territoriale, per quanto riguarda la provincia di Benevento, e, per cagione di essa, le altre finitime.

Io so bene che una delle opere le più difficili, una di quelle le quali suscitano più contrarietà ed amarezze, si è appunto quella del cambiamento della circoscrizione territoriale; nondimeno debbo dire quali fossero le cagioni che mossero la luogotenenza ad emanare il decreto del 16 febbraio.

Benevento formava una provincia dello Stato pontificio di soli 26 mila abitanti; questa provincia, così piccola, non avrebbe avuto ragione d'essere, specialmente dopo la legge comunale e provinciale colà promulgata. Bisognava adunque abolirla, riducendola ad un circondario, o, anche meglio, ad un mandamento,oppure bisognava ingrandirla. Per quest'ultima opinione stavano e l'importanza della città di Benevento, maggiore di popolazione di molte altre che l'accerchiano e di molti capoluoghi delle provincie napolitane, e la sua storia, che le dà un'importanza notevolissima in quei paesi. Sino dai tempi della dittatura del generale Garibaldi fu, dirò cosi, implicitamente risolta la questione quando si mandò a Benevento un governatore con tutti gl'impiegati quali sono nella pianta di una vera provincia; ma fu poco di poi risolta ancora più esplicitamente da un decreto, se non erro, del prodittatore Pallavicino. Quel decreto dichiarò provincia l'antico ducato di Benevento, riserbando di determinare in appresso la nuova sua circoscrizione. Che fece adunque il Governo della luogotenenza? Null'altro se non eseguire questo decreto del prodittatore; e perciò è responsabile non della massima, ma dell'esecuzione. Si dirà: l'esecuzione fu mal fatta. Io non sono qui per giustificare appieno tale opera, tanto più che non ho abbastanza cognizioni topografiche per darne compiuta ragione. Dirò solo che fu incaricato il governatore stesso del luogo di fare un progetto; poi, che vi furono mandati ufficiali del Genio per esaminare le condizioni dei luoghi; in seguito, che fu nominata una Commissione, la quale si occupasse specialmente di questa materia e desse il suo parere sul progetto; e da ultimo, io trovo nella relazione che furono uditi i rappresentanti dei comuni che venivano designati come elementi della nuova provincia. Non pronunzierò adunque un giudizio assoluto; ma per lo meno dirò che le censure e le accuse le quali sono state fatte alla circoscrizione della provincia di Benevento trovano, negli argomenti che ho accennati, molte giustificazioni. Dirò ancora che da questo specchio, che ho in mano,e che è stato pubblicato in Napoli il 16 febbraio, si vede come le provincie contermini sieno rimaste abbastanza grandi di territorio e di popolazione, e proporzionate alle altre del regno; che, per esempio, la Terra di Lavoro, da cui si è tolta la maggior parte dei mandamenti dati a Benevento, era dì 800,000 anime, e rimane di 680,000; che delle altre Provincie, parte con iscambi, sono state compensate del territorio che perdevano; e che i due Principati e la Capitanata rimangono sempre popolate di oltre 500,000 abitanti.

Finalmente, siccome al mio progetto di legge sulla ripartizione territoriale e sulle autorità governative dovrà andare

379

DEL 3 APRILE

L'onorevole deputato Ricciardi disse che voleva stendere un velo sui fatti del 27 marzo; io debbo sollevarlo, perché non posso permettere che penda sul Governo un'accusa che sarebbe grave nella sua indeterminatezza. È noto come a Napoli vi è l'abitudine di abbondanti elargizioni distribuite nella solennità di Pasqua: in questa occasione le domande e le pretese furono più gravi del solito, e una turba mista di accattoni e di altri individui si recò al Banco con clamori per essere sussidiata. La guardia nazionale che guardava il posto fece preghiera perché la turba si allontanasse; ma la preghiera non trovò ascolto, anzi furono lanciati alcuni sassi, ed anche minacciati colpi di bastone. Dopo di ciò fu creduto necessario far intervenire un drappello di truppa di linea, che si presentò, accompagnato da due delegati di pubblica sicurezza; né cessando perciò il tumulto, e prendendo anzi un aspetto aggressivo, furono fatte le tre intimazioni, secondo è prescritto dalla legge; e queste non essendo state ascoltate, fu giuocoforza disperdere l'assembramento. In questo fatto ebbe luogo, per quanto mi è noto, un solo ferimento.

Io sono dolente ogni volta che incontri di usare la forza, ma non posso a meno in somiglianti casi di approvare gli agenti governativi, e di assumere io stesso la risponsabilità dei loro atti. Perché in un paese dove sono tutti i mezzi legali di far valere i proprii diritti, quando si voglia tumultuare in piazza, la forza debbe restare alla legge, e il tumulto dee venire represso. (Vivi segni di approvazione su molti banchi della Camera, e bisbiglio a sinistra)

Dopo avere così parlato delle provincie napoletane, dovrei ora entrare a parlare della Sicilia; ma moltissime delle risposte che ho date all'onorevole Massari possono attagliarsi eziandio alle condizioni delle provincie siciliane: io debbo confessare inoltre che ho meno precise cognizioni dei fatti speciali dell'isola di quello che abbia delle provincie napoletane; ma, per quanto mi è noto, dubito che la pubblica sicurezza vi sia in condizioni piuttosto peggiori che migliori dell'ex-regno di Napoli; mi affretto però a soggiungere che nell'isola mancarono quasi al tutto fino ad ora quegli elementi di forza che erano in difetto nelle provincie napolitane; laonde, non ostante gl'inconvenienti colà avvenuti, parmi che meritano grandissima lode tutti gli uomini i quali in Sicilia si sobbarcarono al difficile peso di reggere la cosa pubblica.

Io non difenderò ad uno ad uno tutti gli atti della luogotenenza di Sicilia, dirò bene che vi ho sempre scorto le migliori intenzioni, e che, se qualche volta per avventura le influenze della piazza poterono farsi sentire persino sul Governo, ciò non fu né per mancanza di energia, né per mancanza di volontà dei governanti, ma unicamente per mancanza di quella forza la quale a ben governare in Sicilia era essenziale.

Da ultimo il luogotenente del Re, colpito da domestica sventura, travagliato da penosa malattia, rinnovò la preghiera al Governo di essere dispensato da quel gravissimo ufficio.

Siccome ho detto che le cagioni dei mali e degli inconvenienti nelle provincie siciliane furono ad un incirca pari a quelle delle provincie napolitane, così credo che i provvedimenti dei quali verrò discorrendo possano essere efficaci, tanto nelle seconde che nelle prime, a migliorare gradatamente la condizione della cosa pubblica.

Pertanto, dopo avervi forse troppo lungamente intrattenuti della giustificazione, non dirò piena, ma, a mio avviso, abbastanza plausibile del Governo, mi affretto a parlare dei provvedimenti che intende di prendere.

I provvedimenti che il Governo intende di prendere sono di varia maniera, e già il primo lo avete veduto nei decreti pubblicati i giorni scorsi, i quali, invece dei consiglieri di luogotenenza di Napoli, stabiliscono quattro segretari generali reggenti tutti i dicasteri.

L'onorevole Massari disse che questo era un cambiamento di solo nome. Io gli chieggo scusa, ma debbo contraddirlo. E diffatti, primieramente è soppresso il Consiglio di luogotenenza che era stato creato con decreto dell'8 novembre.

I quattro segretari generali non formano più un corpo collegiale, ma ciascuno di essi regge la parte degli affari che compete al suo dicastero, e questo mi pare sia un cambiamento più che di nome.

In secondo luogo non sono essi segretari generali della luogotenenza, sono segretari generali del Ministero. Così quegli che regge il dicastero dell'interno e della pubblica sicurezza non è il segretario della luogotenenza di Napoli, ma è il segretario generale del ministro residente in Torino, da esso destinato, come suol dirsi, in missione a Napoli.

Egli adunque, oltre gli affari ordinari e gli affari urgenti dei quali tratta colla luogotenenza, ha un obbligo mollo maggiore di quello che avesse in prima, di corrispondere, cioè, di riferire, di ricevere le istruzioni dal Ministero dirigente da Torino.

E ancora da notare che in questo modo i segretari generali perdono agli occhi della gente quel carattere politico che i consiglieri finora si ebbero; sarà un cambiamento di parole, ma anche le parole hanno un influsso nei popoli; ed io credo che, siccome essi annettevano all'idea del Consiglio di luogotenenza quasi quella di un Consiglio di ministri, ne giudicheranno oggi diversamente, sapendo che essi sono segretari generali dei ministri di S. M.

Appresso a ciò diviene necessario il fare un regolamento,

Il quale determini le competenze speciali, sia della luogotenenza napoletana, sia del Ministero.

Io non entrerò a discutere e ad esporre partitamente le nostre idee su questo regolamento di competenza, sul quale debbonsi ancora prendere alcuni accordi col principe che regge quelle provincie. Dirò solo che le nomine degli alti funzionarli dovranno essere fatte dal governo centrale; dirò ancora che tutte le questioni di massima dovranno portarsi, per la loro decisione, al Ministero. Non parlo di disposizioni legislative, né di decreti interpretativi: col giorno della riunione del Parlamento questo potere cessò; quindi sarebbe vano che io dichiarassi alla Camera, che nessuna legge, nessuna dichiarazione interpretativa di legge potrà essere fatta dalla luogotenenza; bensì noterò che né la luogotenenza, né il governo stesso centrale possono sospendere l'esecuzione di alcuna legge promulgata senza il placito del Parlamento, il quale è il giudice supremo. Le leggi sono state fatte; esse debbono eseguirsi; e, se taluna dovesse sospendersi, è necessario che il Parlamento lo deliberi. (Segni d'assenso)

Parimente è nell'intenzione del Governo di adottare la massima della promiscuità, specialmente negli impiegati superiori. A ciò il mio onorevole collega, il ministro dei lavori pubblici, come fra poco vi dirà egli stesso, ha già dato opera, e similmente ha fatto il ministro della marina trasferendo 18 impiegati napoletani in queste provincie e mandandone altrettanti in quelle; vi coopererà per la sua parte il ministro dell'interno nell'occasione della nomina di governatori e d'intendenti di circondario.

Un quarto provvedimento, o meglio direi massima alla quale non dovrà derogarsi, è che non si faccia alcuna ampliamone sulla pianta degli impiegati.

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

La pianta esiste e gli uffici sono occupati; ora il Governo non intende di accrescere questa pianta, nelle provincie napoletane e siciliane, di un impiegato solo, e neppure che si diano affidamenti per nessun impiego avvenire. (Segni d'assentimento)

Io ho già dichiarato che il Governo non intende di fare destituzioni in massa, né di procedere in modo arbitrario, che anzi avrà un riguardo alle posizioni acquisite nei termini della giustizia, ma dico però che questi riguardi non debbono impedire una graduata e progressiva riforma, la quale diminuisca e migliori il personale dell'amministrazione.

Quanto all'organizzazione della guardia nazionale posso promettere all'onorevole deputato Massari che partiranno di qui le istruzioni e gli eccitamenti i più vivi, perché essa sia nel più breve termine possibile organizzata secondo la nostra legge.

Quanto all'amministrazione comunale e provinciale è già in corso d'esecuzione la legge 23 ottobre 1889, e, come parmi già di aver avuto l'onore di dirgli, le elezioni perle provincie napolitane saranno fatte il 18 aprile; quanto alla Sicilia, esse sono già state compiute.

Finalmente, rispetto alle truppe ed ai mi occorre ancora di dire alcune cose.

Non è esatto che le provincie napolitane siano assolutamente sguernite di truppe. A Venafro vi è un battaglione dei granatieri di Sardegna, a Sora sonvi due battaglioni dei granatieri di Lombardia; havvi un battaglione a Vallo con una compagnia distaccata a Salerno, un battaglione a Foggia, uno ad Avezzano, uno a Taranto, uno a Capua, uno a Campobasso, uno a Catanzaro, uno a Cosenza, uno a Reggio. Questi dati sono del 24 marzo; inoltre il 28 partiva una colonna mobile di tre battaglioni, uno dei quali prenderà stanza a Bari, uno a Taranto ed uno a Lecce. V'ha altresì un battaglione di fanteria ed uno di bersaglieri all'Aquila, ve ne ha uno a Benevento ed uno a Castellammare. Oltre a ciò vi sono dei distaccamenti a Chieti, a Sulmona, a Celano, Lanciano, Orsogna, Arielli, Ortona e Pescara, ed alcuna parte di cavalleria a Venafro, a Sora, ad Avezzano ed all'Aquila. All'Aquila v'ha ancora una sezione d'artiglieria. Il resto delle truppe è stanziato a Napoli e nei dintorni.

Questo era lo stato delle cose al 24 marzo. Il Governo ha l'intenzione che nei capoluoghi d'ogni provincia possa stanziare un certo numero di truppa, la quale, occorrendo, possa, dirò così, irraggiare e percorrere i luoghi nei quali fosse meno difeso l'ordine pubblico.

Ma la sicurezza pubblica più che dalla truppa dipende molto dai e su questo punto confesso che vorrei poter fare ciò che l'onorevole Massari e tutti i membri di questa Camera desiderano.

I nostri sono mirabili per contegno, per disciplina, per fermezza, per coraggio congiunto ai modi più urbani e più cortesi (Bravo!), ma sventuratamente i nieri non s'improvvisano. E avvenuto in questa parte del pubblico servizio ciò che è avvenuto in alcune altre. Il solo paese organizzato liberalmente nei dieci anni trascorsi era il Piemonte. Gli altri paesi o non erano organizzali, o lo erano così male, che certi elementi sarebbero stati piuttosto di ostacolo, di quello che d'aiuto allo stabilimento dell'ordine. Egli si convenne dunque portare questi elementi dalle antiche Provincie in tutte le altre parti d'Italia, e con poco fare moltissimo, lo oso affermare che era impossibile che il Governo facesse di più.

L'organizzazione dei nieri pel regno d'Italia è nella sua pianta normale di circa 18,000. Per quanto il Governo abbia usato ogni solerzia, esso non è ancora giunto a poterne avere in pronto la metà. Di questa metà inoltre una parte è d'allievi, e sarebbe un grande errore il mandarli alle stazioni precocemente, perché essi andrebbero a guastarsi, e perderebbero forse quella buona educazione e quella disciplina, la quale fra sei mesi, forse fra quattro mesi sarà completa, sicché potranno allora apportare tutti quei vantaggi che noi ce ne ripromettiamo, e mantenere quella riputazione che li rende rispettati in tutte le parli d'Italia ed ammirati anche fuori dello stato. (Segni d'approvazione)

Dopo ciò dirò che nelle provincie napoletane vi sono 724 di origine nostra, e 1375 napoletani, dei quali si è fatta la cerna tra i gendarmi. Si sono presi soltanto quelli i quali si riteneva potessero fare buona prova e taluni (circa 500) furono spediti anche nelle antiche provincie. Intorno a questi mi è grato il dire qui per incidenza che il Governo ha molta ragione di lodarsene. Essi ne' primi giorni sembravano alquanto smarriti; ma coll'intelligenza viva che contraddistingue gli abitanti di quel paese, colla docilità, coll'altitudine ad essere disciplinati, essi fanno benissimo il servizio. né parlo di allievi solo, ma alcuni sono stati spediti nelle provincie, ed occupano stazioni con piena soddisfazione del Governo. Ma, per riuscire a questo intendimento, non si può fare d'ogni erba fascio; bisogna far ghirlanda d'ogni fiore, vale a dire bisogna sceglierli accuratamente; e questa è la ragione per la quale il generale Arnulfo, il quale comanda i in quelle provincie, non ha creduto fino ad ora di ritenerne più di 1375 nativi del paese, sicché avvi colà in tutto una forza di 2000 uomini circa.

Questa forza io la riconosco insufficiente, e posso promettere alla Camera che, appena usciranno allievi dalla scuola, mi farò debito, se sarò al Ministero, di mandarli a Napoli; ma sarei certo male avvisato se promettessi più di quello che posso mantenere.

Lo stesso dirò della Sicilia, con quest'avvertenza di più che, rispetto alla Sicilia, vorrei mandarvene al più presto possibile, perché ivi è ancora più vivo e più urgente il bisogno. Ora si trovano colà 365 nostrali, una parte dei quali vengono dalla Sardegna, e sono a cavallo, i quali hanno fatto cosi buona prova nell'isola, che ardisco ripromettermene eminenti servigi: ve ne sono 865 di Siciliani; in tutto 1230. Finalmente, rispetto ai lavori pubblici, che da tutti gli oratori furono invocati come provvidenza importantissima, ne lascierò discorrere al mio onorevole collega il ministro Peruzzi.

Tali sono i provvedimenti che il Governo crede di dover prendere rispetto alle provincie napolitane, e che intende di applicare eziandio alle provincie siciliane, quando, scelto il nuovo luogotenente, questi possa recarsi nell'isola a surrogare il marchese di Montezemolo, al quale mi è grato in questa occasione di esprimere i sensi di riconoscenza del Governo, e credo di poter aggiungere del paese.

Mi si dirà: voi dovevate far di più; dovevate abolire assolutamente la luogotenenza; dovevate applicare al regno di Napoli ed alla Sicilia il medesimo sistema che avete applicato alla Toscana.

Il Governo del Re ha lungamente pensato sovra di ciò, ma, dopo attenta disamina, ha creduto di non dover accettare questo partito. Non ci dissimuliamo, o signori, che, quando un paese ha delle ragioni di lagnarsi, quando sentesi malcontento, la prima idea che gli viene è quella di mutare tutto ciò che esiste. Ma il Governo ha obbligo di non lasciarsi tra

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Ora questo ci sembra essenziale per Napoli, essenzialissimo per la Sicilia. La diversità di molte leggi, la lontananza e la difficoltà delle comunicazioni fa si che il Governo locale abbisogni di molta latitudine: è impossibile, per quanto si voglia fare, che da Torino si possano risolvere gli affari ordinari; è impossibile che da Torino, per ora, si possano nominare tutti gli impiegati; è impossibile che si possano prendere i provvedimenti d'urgenza. Ora, se noi non avessimo colà se non dei segretari generali senza un luogotenente, egli è certo che essi non si crederebbero autorizzati neppure a prendere un provvedimento di urgenza senza consultarci; ma noi abbiamo mestieri che ci sia un'autorità sul luogo, la quale non surroghi già il Governo centrale nelle materie che ammettono dilazione e discussione, ma lo surroghi in quei momenti nei quali l'attendere il giudizio del Governo centrale potrebbe essere pericoloso.

La Toscana, che si reca in esempio, non era passata per tante fasi rivoluzionarie; non aveva avuti tanti mutamenti; quindi era più facile modificarvi l'ordinamento governativo, di quello che lo sia il modificare quello delle provincie napoletane e siciliane.

L'anno passato molti deputati della Toscana vennero al Parlamento portando desiderii analoghi a quelli, i quali ha espressi l'onorevole Massari; questa autonomia toscana era uno spino che stava loro negli occhi. Noi li rassicuravamo intorno a ciò, e dicevamo loro francamente: non vogliamo che l'autonomia toscana si conservi; essa deve fondersi nella grande autonomia italiana. Questo istesso lo diciamo oggi ai deputati di Napoli e a quelli di Sicilia: nessun dubbio intorno a ciò; il Governo non ammette che una sola autonomia, quella d'Italia. Ma nello stesso tempo noi diciamo loro: lasciate che andiamo adagio; lasciate che il trapasso si faccia eoo una certa gradazione, si che le scosse, gli attriti, le offese degl'interessi, che sono inevitabili in ogni cambiamento, siano le minori possibili.

Io credo che i deputati toscani, che erano l'anno passato in Parlamento, non si siano trovali malcontenti del trapasso piuttosto lento che ha fatto il Governo; spero che i deputati napoletani e siciliani penseranno il medesimo nell'anno venturo.

Finalmente vi è una ragione, la quale sovrasta a tutte queste, ed è che il Governo ha già presentato al Parlamento una legge di ordinamento generale del regno. Ora il fare una nuova istituzione provvisoria nel momento in cui questa legge è sottoposta alle vostre discussioni; quando fra due o tre mesi potrà essere (almeno io lo spero) votata, e dovrà applicarsi egualmente a tutte le provincie, parve a noi inopportuno, e la reputammo, direi quasi, una mancanza di riguardo al Parlamento, al quale si appartiene oggi stabilire l'organizzazione definitiva del regno.

Nondimeno io confido che i provvedimenti, dei quali ho finora parlato, se non potranno togliere per intiero i mali e gl'inconvenienti, ai quali gli onorevoli preopinanti hanno fallo allusione, producano salutari effetti. Ma non cesserò dal ripetere che non si può immediatamente ottenere il fine dei nostri desiderii; il mare, agitato da tanti venti, non si calma ad un tratto, e noi non abbiamo la pretesa di essere come Nettuno, che rasserena i cieli col volger dello sguardo e calma le tempeste.

Mercè i provvedimenti esposti, la risponsabilità risalirà più efficacemente al governo centrale; ma anche su di ciò io crederei di mentire, se affermassi che la responsabilità dell'andamento delle provincie napolitane peserà tutta intiera su di noi, e nello stesso modo come quella, per esempio, della Lombardia e delle antiche provincie.

Legalmente il Ministero è responsabile di tutti gli atti governativi in tutto il regno; moralmente non può essere così intera la sua responsabilità in quelle lontane regioni: questa sarà nell'indirizzo generale, nei grandi provvedimenti, non nei particolari.

Pertanto, mentre dichiaro d'assumere legalmente tutta la responsabilità che mi spetta, credo che la Camera comprenderà questa riserva, che ho stimato fare per debito di lealtà.

A noi manca ancora quella conoscenza precisa dei particolari, mancano quelle relazioni frequenti fra le provincie ed il centro, per le quali soltanto si può conseguire che lo spirito governativo penetri ed informi in tutti i punti del territorio. Ciò non può essere che in uno stato normale, e allorquando le leggi, che la potestà esecutiva dee far osservare, siano escile dalla deliberazione del Parlamento, ove seggono i rappresentanti di tutte le provincie.

Laonde, o signori, io non potrei conchiudere il mio discorso senza trarne un argomento per esortarvi a voler dare la più sollecita opera agli studi di quelle leggi, le quali debbono stabilire l'ordinamento definitivo ed eguale per tutto il regno. Questo è il compito al quale siete chiamati.

Se il riandare il passato può essere utile come mezzo per cercarne i rimedi, ciò pur troppo dà luogo sovente a recriminazioni, suscita ire e passioni, le quali sarebbe molto meglio attutire; noi abbiamo dinanzi a noi una grand'opera di creazione; dimentichiamo quanto è possibile il passato, e guardiamo confidenti all'avvenire. (Applausi)

Miceli. Domando la parola per rettificare un fatto posto innanzi dal signor ministro per l'interno.

Presidente. La parola spetterebbe al ministro pei lavori pubblici; se però il ministro vuol cedergli la parola, allora io gliela accordo.

Peruzzi, ministro pei lavori pubblici. Volontieri.

Voci. Ma il ministro per l'interno non c'è!

Presidente. Essendosi assentato il ministro, è meglio che attenda a parlare quando esso sia presente.

Il ministro pei lavori pubblici ha facoltà di parlare.

Peruzzi, ministro pei lavori pubblici. L'onorevole interpellante aveva detto che le sue interpellanze non avrebbero posto il Ministero sopra un letto di rose; ma, quanto al ministro pei lavori pubblici, egli non ha mantenuta la parola, con una cortesia della quale io lo ringrazio; se non che io che ho sempre veduti gli scanni ministeriali irti di spine, mi trovo il mio talmente infiorato di rose dalla cortesia dell'onorevole Massari, che egli non se l'avrà a male, io spero, se, per debito di giustizia e nell'interesse della cosa pubblica, ne prendo talune e le porgo all'onorevole mio predecessore che ora gli siede allato.

Io dico questo, perché credo che sia nell'interesse della cosa pubblica il dimostrare come il Governo non abbia mai omesso la sua sollecitudine a riguardo delle provincie dell'Italia meridionale; e negli atti governativi troppo spesso avviene che la lode od il biasimo si attribuisce a chi firmò un decreto, a chi promulgò una legge, senza tener conto degli atti preparatori!, i quali qualche volta meritano ancor più lode di quelli che ne sono il necessario risultamento..

Ora io devo dire che non avrei potuto proporre alla sanzione di S. M. il decreto del 19 marzo, col quale venivano riordinate le amministrazioni postali e telegrafiche delle provincie meridionali, se l'onorevole mio predecessore non avesse rivolto i suoi sguardi a quelle provincie fin dai primi

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Infatti sin dal settembre furono fatti con quella amministrazione dei contratti postali e telegrafici; furono inviati degli impiegati per aiutare la nuova direzione generale nell'ordinamento di quell'amministrazione; furono stabiliti servizi postali marittimi; furono pubblicati da quella direzione i nostri ordinamenti, ed estesi a quelle provincie i regolamenti amministrativi vigenti nel resto del regno, regolamenti riordinati poco prima che io assumessi il portafoglio.

Quanto al servizio telegrafico, furono nell'antico regno di Napoli riunite alle napoletane le linee delle Marche e dell'Umbria per Terni, e per la costa adriatica da San Benedetto a Giuliano va; fu costruita la linea per Sora e San Germano, e unita all'altra di Caserta e di Capua; furono di qua spedili in gran quantità fili ed isolatori, e fu provvisto il cordone sottomarino, che ora, caricato già sopra apposita nave, aspetta per essere trasportato e collocato nello stretto, che il mare lo permetta.

Gli stipendi degli impiegati degli uffici telegrafici erano nel regno di Napoli cosi meschini, che per lo più non oltrepassavano i cinque ducati al mese, e non andavano mai oltre ai diciotto.

Ognun vede, o signori, che quando si grida contro l'immoralità degli impiegati di quelle provincie, se molto è da attribuire al malefico influsso del regime borbonico, qualche circostanza attenuante si deve trovare pure in questa cattiva retribuzione; è dunque stata cura del Ministero di provvedere immediatamente perché in via transitoria fossero un po' meglio trattati, tanto che l'impiego potesse loro bastare a sostenere la vita, e non dovessero più, come spesso accadeva, esercitare altri uffizi, e per ciò abbandonare spessissimo l'uffizio telegrafico.

Di più sono stati inviati di qui fin da molto tempo, tanto pei telegrafi, quanto per le poste, impiegati esercitati nel nostro regolamento; vennero mano mano estesi in esse provincie i nostri regolamenti; e, mercé questi provvedimenti, ognuno vede quanto facile sia riuscito al Ministero attuale

Il fare quell'opera unificatrice, cui pose mano il decreto del 19 marzo.

Soppresse le direzioni generali, adesso abbiamo quattro direttori compartimentali nell'ex-regno di Napoli; ed appena il nuovo luogotenente andrà in Sicilia, noi estenderemo anche a quelle provincie, dove abbiamo già degli ispettori, tanto per le poste, che per i telegrafi, i quali stanno preparando quell'ordinamento, noi estenderemo anche là l'ordinamento vigente nelle altre provincie del regno.

Quello che noi adesso facciamo principalmente, si è di raccogliere impiegati, tanto delle poste, quanto dei telegrafi nelle varie provincie del regno, dove questi servizi procedono regolarmente, per inviarli nelle provincie meridionali; ed io sono lieto di assicurare la Camera che già l'altro giorno ho avuto il piacere di ricevere qui parecchi impiegati napolitani delle poste, che sono stati già distribuiti nei nostri uffici, ove servono egregiamente; e che sono, in parte, partiti, o stanno in sul partire, impiegati telegrafici e postali del Piemonte, della Lombardia, dell'Emilia e della Toscana, ecc., i quali saranno ripartiti tra i varii uffici dell'ex-reame di Napoli e della Sicilia.

Taluni i quali parlarono di piemontizzare quei paesi vedranno che non si tratta d'altro, così facendo, che di italianizzare queste amministrazioni; e l'onorevole Ferrari troverà anche in quelle amministrazioni quell'elemento di federazione che trovava l'altro giorno nel Ministero e negli uffici della Camera, elemento che il Ministero si studierà, quanto più gli sarà possibile, di sviluppare, inquantochè noi riteniamo che questo elemento sia il più efficace mezzo per rendere impossibile per sempre la federazione ed assicurare la perfetta unificazione di tutte le varie parti del regno. (Bene! Bene!).

Quanto alle direzioni compartimentali esse dipenderanno direttamente dal Ministero; e in questo momento si sta facendo la trasformazione, la quale spero ohe nel corso di questo mese per l'ex-regno di Napoli sarà compiuta, e in quanto a queste divisioni compartimentali sono stato ben lieto di vedermi citato a modello a' mici colleghi dall'onorevole Massari, non già per sentimento di vanità e di soddisfazione personale, ma perché in questo io non sono stato altro che il battistrada degli onorevoli miei colleghi, i quali sarebbero stati ben felici di potermi imitare, se un sentimento di delicatezza non li avesse trattenuti dal fare provvisoriamente quello che quanto al mio Ministero potevasi benissimo fare definitivamente per decreto reale, ma che quanto a loro non lo si poteva che per legge; ed a questo proposito io non posso che unire le mie preghiere a quelle dell'onorevole ministro dell'interno, perché possa, mercé le deliberazioni del Parlamento in proposito, cessare, quanto più presto si può, il provvisorio anche nelle altre parti dell'amministrazione, come è cessato in quella delle poste e dei telegrafi.

Non parlo in conseguenza dei molti inconvenienti accaduti nel servizio delle poste e dei telegrafi, perché sarebbe inutile; non prometto alla Camera che questi inconvenienti cesseranno ad un tratto, perché le linee non sono complete, e generalmente sono mal costruite; gl'isolatori per i telegrafi sono imperfettissimi. Di più, non essendovi strade, è naturale che riesca difficilissimo il mantenimento delle linee telegrafiche, e sopra tutto lo scoprire la cagione delle interruzioni, quando queste si verificano.

Il servizio delle poste in Sicilia è regolato da un contratto con un solo imprenditore per tutta l'isola. Questo contratto, che, a dir vero, aveva moltissimi difetti, è divenuto ancora più vizioso dopo che per semplici ministeriali disposizioni degli antichi dicasteri napolitani sono state modificate moltissime delle clausole più essenziali.

A cagion d'esempio dirò che in molti luoghi, dove ci sono strade rotabili, si fa il servizio delle poste a cavallo.

Quindi non si potrà al certo improvvisare un cambiamento; ma certamente l'azione del potere centrale si farà sentire operando tutto quanto starà in lui perché le cose procedano il meglio possibile.

Venendo ora alla parte più importante, nella quale tutti gli oratori che finora parlarono in questa questione non solo, ma ancora in diverse altre occasioni, si sono intrattenuti, cioè la parte dei lavori pubblici, dirò schiettamente quali siano gli intendimenti del Ministero a questo riguardo.

L'onorevole Brofferio diceva l'altro giorno che l'ufficio del Ministero dei lavori pubblici è di dare pane e lavoro al popolo. Io non ricuso questa definizione, se non che non la posso prendere alla lettera. Se, dicendo che il ministro dei lavori pubblici deve dare al popolo pane e lavoro, s'intendesse dire che dovesse improvvisare dei lavori pel solo scopo del guadagno immediato che il popolo potrebbe fare col lavorare, io non potrei accettare una tale definizione che penso sia lontanissima dall'intendimento dell'onorevole Brofferio; e credo che farei torto all'eletto suo ingegno se gli supponessi tale intenzione, cioè che il Ministero dovesse fare quello che in Francia facevano les atéliers natìonaux. Io intendo che si debba promuovere un lavoro veramente produttivo, il quale, creando opere pubbliche utili, sviluppi la ricchezza nazionale, spanda la vita in tutte le parli dello stato; per guisa che,

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TORNATA DEL 3 APRILE

ma migliori altresì, come osservava benissimo l'onorevole Ricciardi, la pubblica morale e distrugga l'impiegomanìa; imperocché l'impiegomanìa, secondo me, se in parte è effetto della corruzione borbonica, dall'altro lato è da attribuirsi al difetto d'industria e dei mezzi di esercitare privatamente la attività morale e fisica delle popolazioni napolitane sicule.

Ciò premesso, la Camera intenderà agevolmente che, quando coi pubblici lavori si voglia raggiungere un siffatto scopo, i pubblici lavori non vogliono e non possono essere improvvisati.

In conseguenza, venuto al Ministero, dovetti preoccuparmi di quello che fosse stato preparato per attivare opere pubbliche, ed ho dovuto convincermi che nell'ex-reame di Napoli, come in Sicilia, il Governo passato parlava molto di lavori, ma pochi ne faceva; ho dovuto esaminare quello che fosse stato fatto successivamente, ed ho trovalo che, in ispecie, quando l'onorevole Devincenzi reggeva quel dicastero, egli che l'intendeva, a quanto mi pare, come lo intendo io il dovere del ministro, aveva nominato molte Commissioni per studiare i vari progetti di opere pubbliche necessarie nel regno. Non avendo trovato le relazioni di queste Commissioni, né i progetti preparati, io divisai di mandare immediatamente uno dei più illustri ingegneri del nostro paese, e membro di questa Camera, il cavaliere Ranco, con altri ingegneri a Napoli, e lo stesso feci per la Sicilia, inviando colà l'ispettore del Genio civile cavaliere Marsano, egli pure assistito da vari ingegneri.

Il cavaliere Ranco, appena giunto, ha immediatamente eccitato le Commissioni nominate dall'onorevole Devincenzi, le quali, mi duole il dirlo, non avevano fin allora fatto molti studi; e ho avuto il piacere di avere dal medesimo l'annunzio che i rapporti sono già pronti e che mi perverranno quanto prima; anzi, per ciò che riguarda le strade ferrate, dirò che gli studi sono ora talmente avanzati, che io credo poter annunziare alla Camera che fra pochi giorni potrà essere posto mano alla linea dal Tronto a Napoli, traversando l'appennino nelle valli dell'Offanto e del Sele, ed il cavaliere Ranco mi assicurò che, non tardando ad intraprendere i lavori e conducendoli con la massima alacrità, potrà fra diciotto mesi essere aperta la comunicazione ferroviaria da Torino a Napoli, colla sola interruzione della galleria di tre chilometri a traverso l'appennino, e forse con altra breve interruzione attorno alla città d'Ancona. (Segni d'approvazione)

Il Ministero, che sa quali sieno gl'intendimenti della Camera e del paese a questo proposito, non ha esitato ad assumere la responsabilità d'autorizzare l'intraprendimento di questi lavori, tostochè sieno approvati gli studi, e spero che fra pochi giorni saranno effettivamente cominciati.

Tali opere saranno condotte da società private; la concessione e i relativi capitolati saranno fra poco presentati all'esame del Parlamento. Nel caso che la Camera non li accogliesse, il prezzo loro sarà rimborsato a chi li avrà fatti, non potendo subito essere presentati questi disegni di legge, perché i capitolati non sono ultimati, né credendo noi dover ritardare un'opera che certissimamente è nell'intendimento di tutti.

In Sicilia dirò che non si trovarono progetti preparati. Di più il corpo degli ingegneri del Genio civile sembra esservi in istato di quasi dissoluzione, per effetto di nomine di ispettori superiori di vari ordini, fatte negli ultimi tempi dal Governo dittatoriale; e si deve argomentare da vari documenti pervenutimi, che quel corpo, nel quale però vi sono distintissimi ingegneri, merita d'essere compiutamente riorganizzato.

Questo forse spiega l'avvertita mancanza dei progetti. Ora l'ispettore Marsano studia le opere che debbono essere intraprese immediatamente. Due società fanno gli studi delle linee di strada ferrata, e so che per la linea da Palermo a Termini sono compiuti, per modo che fra breve potrà esservi messo mano, come pure alla linea da Messina a Catania, la quale dee prolungarsi verso Siracusa da un lato, e deve far capo a Palermo, prolungandosi da Termini, dall'altro lato. Una convenzione che è stata firmata recentemente da me col signor Adami, come rappresentante della società concessionaria di varie strade ferrate nelle provincie napolitane, ed anche in Sicilia, sarà presto presentata al Parlamento, tostochè questa società avrà date quelle garanzie che sono stipulate, e che devono essere prestate innanzi che il Ministero richiami l'attenzione del Parlamento sopra quest'importante fatto.

L'intendimento del Ministero in fatto di strade ferrate è stato già da me spiegato alla Camera. Io spero che avrà soddisfatto ai desiderii dei più impazienti quanto ho operato. Aspetto intanto la relazione della Commissione che è già stata fatta quanto all'ex-regno di Napoli, ed attendo le indicazioni dell'ispettore Marsano, quanto alla Sicilia.

Quanto alle strade ruotabili, molte ve ne sono prive di ponti, come osservava ieri l'onorevole Paternostro. Per coteste appunto il cavaliere Ranco e l'ispettore Marsano sono incaricati di rintracciare i progetti, e già ne ho avuto varii per l'ex-regno di Napoli, sui quali interrogali che avremo i Consigli provinciali, poiché si tratta per la maggior parte di strade provinciali, mi farò premura di presentare alla Camera un progetto di legge per determinare i casi ai quali sia opportuno di dare dei sussidi o di anticipare le spese necessarie perché queste opere possano essere nella prossima campagna attivate.

Il Ministero intende che siano completate immediatamente tutte le strade ruotabili già cominciate, le quali non lasciano dubbio sul loro tracciamento, e quelle che sono sufficientemente studiate. Ed inoltre sarebbe intenzione del Ministero di far studiare nella prossima estate da apposita Commissione, tanto in Napoli, quanto in Sicilia, tutta la rete stradale per effettuare il compimento di quella tuttora molto incompleta, stata già iniziata, per modo da poter presentare verso la fine dell'anno al Parlamento un progetto di legge generale, che stabilisca l'ordinamento futuro dei pubblici lavori in quelle importantissime provincie, che tanto difettano di opere pubbliche.

Quanto poi alla cagione che l'onorevole Ricciardi assegna al ritardo dell'inlraprendimento delle opere pubbliche, io devo assicurarlo che egli è stato tratto in ingannò; il ritardo non ha altra cagione che quella che io diceva.

Quanto alla mancanza dei mezzi pecuniari per eseguire quelle opere, debbo assicurarlo che tale non fu la cagione di questo ritardo, imperocché io devo dire, e lo dico con molta soddisfazione, che il credito del nostro stato è tale, che ogni giorno sono sollecitato da rispettabilissimi intraprenditori, i quali vengono a chiedere di fare studi, di aver concessioni di strade ferrate e d'altre opere pubbliche; e mano mano che queste varie concessioni saranno completamente perfezionate nei loro particolari, avrò l'onore di presentarle al Parlamento, il quale vedrà come in questo momento noi siamo assistiti dai capitali di tutta Europa per l'intraprendimento dei pubblici lavori.

Miceli. Domando la parola per rettificare un fatto.

Presidente. Ha facoltà di parlare; la prego però di non estendersi in considerazioni estranee al fatto che intende rettificare.

Miceli. Il signor ministro dell'interno, parlando del doloroso avvenimento succeduto a Napoli in questi ultimi giorni, diceva che una turba di accattoni era andata a tumultuare sulla piazza delle Finanze, che la forza pubblica fu costretta a scioglierla, e che successe il ferimento di un solo individuo.

384

CAMERA DEI DEPUTATI

Da varie lettere che io ho ricevuto da Napoli, e da ciò che dicono tutti i più attendibili giornali del paese, tra i quali posso citare il Nomade, il fatto non andò cosi. Quelli che tumultuarono non erano una turba di accattoni, ma erano un centinaio di soldati appartenenti all'antico esercito meridionale.

Questi soldati congedati, che per la condizione delle Provincie meridionali erano privi di lavoro, stavano in Napoli. In quella città si parla spesso di arruolamenti che si debbono fare; e quei poveri giovani stavano aspettando il giorno in cui potessero rendere nuovi servigi al paese Essi mancavano del necessario, e chiesero un sussidio al Governo.

Il Governo aveva promesso questo sussidio, e fu stabilito il giorno, in cui essi dovevano andare a prendere un po' di danaro, credo al Ministero delle finanze. Andarono, ed invece di essere soddisfatti, furono mandati al palazzo di Maddaloni.

E qui mi sembra importantissimo notare che questi giovani, i quali chiedevano un sussidio, come conveniva che si desse a soldati congedali che avevano bene meritalo della patria, non dovevano essere mandati al palazzo Maddaloni a ricevere l'oltraggio di una elemosina. Umiliati da questo trattamento, e più dalla tenuità dell'elemosina, tornarono in tumulto alla piazza delle Finanze.

Io non posso approvare l'operato di que' soldati, ma nello stesso mentre non posso a meno di dire che quei poveri giovani erano costretti dall'estrema necessità a chiedere un sussidio; e che, quantunque siano trascorsi a qualche allo violento, essendo essi inermi, potevano altrimenti essere condotti al dovere.

E se qualcuno era degno di castigo doveva essere castigato dalla legge. Invece si abbassarono le baionette senza nessuna intimazione, e sono molti che asseriscono questo. Ma io voglio anche ammettere che vi sia stata intimazione: qual era in questa ipotesi lo stato delle cose?

Una mano di giovani inermi, affamati, senza proposito di oltraggiare, né di resistere, gridano, tumultuano. La forza pubblica organizzata, che ha la coscienza di essere di troppo superiore e di non aver nulla a paventare da pochi inermi, invece di disperderli a colpi di baionetta, io credo che avrebbe potuto usare altri mezzi pria di venire all'estremo di ricorrere alle armi.

Ho l'onore di assicurare il signor ministro che dei feriti non ve ne fu uno soltanto; furono quattro o cinque feriti ed uno morto. Questo giovine che ora è morto, come dicono le ultime notizie, non era un accattone, era un giovine volontario, nato in Campobasso, non ne ricordo il nome, ma i giornali lo riportano; apparteneva al battaglione Sprovieri.

Era dunque un giovine che ha combattuto, che ha sparso i suoi sudori ed il suo sangue per la libertà del nostro paese.

Potevano i nostri granatieri, i valorosi del nostro esercito, che hanno combattuto essi pure per la libertà, trattarlo meno indegnamente, trattarlo con quell'umanità che un uomo deve usare verso un altro uomo, se pure non voglia ammettersi che avrebbero dovuto trattarlo con la deferenza che un soldato deve avere per un suo compagno d'armi.

Signori, se il fatto successo a Napoli è quale io ve lo dico (ed ho ragione di crederlo in questo modo) i rappresentanti del signor ministro dell'interno a Napoli non hanno agito come si conviene ad impiegati di un Governo libero; ed i soldati, anziché meritare l'encomio che da un lato della Camera ho udito tributar loro,

SESSIONE DEL 1861

i soldati meritano invece grandissimo biasimo, perché un fatto simile non è degno di un soldato italiano, ma è degno piuttosto di un borbonico o di un croato. (Rumori) Voci. Oh! oh!

Minghetti, ministro per l'interno. Risponderò poche parole alle osservazioni fatte dal signor Miceli.

Prima di tutto io non ho detto che la turba fosse di soli accattoni: ho detto che vi erano accattoni frammisti ad altri individui. In secondo luogo la veracità dei giornali è da me grandemente messa in dubbio. Se vi è paese, nel quale la stampa in generale non adempia al suo nobile ufficio, lo dico con dolore, è la città di Napoli. (Segni d'assenso) In terzo luogo rispondo che il Governo ha l'obbligo di far osservare la legge verso tutti e contro tutti. (Bravo!) I miei rapporti ufficiali mi riferiscono che furono fatte le legali intimazioni, e che solo al rifiuto di obbedire, ed alle altitudini aggressive di quella turba, la truppa ha risposto con abbassare le baionette.

Lo stesso dispaccio ufficiale mi dice che un uomo è rimasto ferito, e fu trasportato all'ospedale dei Pellegrini, e che tre rimasero in arresto. Se il ferito sia poscia morto, non so; questo è possibile. Aggiungo che risulta anche da altri rapporti ufficiali, che fra i tumultuanti taluno trasse fuori uno stile; che, non ostante le intimazioni, minacciavano. Del resto, io ripeto, l'obbligo del ministro dell'interno, e di chi lo rappresenta nelle provincie, è quello di far osservare la legge sempre e dovunque; per quanto sia doloroso qualche volta il dover venire ad alti ai quali l'animo ripugna, io credo che mancherei al mio più stretto dovere se permettessi, in qualunque parte del regno, che avessero luogo dei tumulti in piazza, e che fosse violata la legge. (Bravo.! Bene! dalla destra e dal centro)

Prendo quest'occasione per dire una parola sopra la voce che, secondo il preopinante, era sparsa a Napoli di arruolamenti, e per dichiarare che degli arruolamenti legittimi io non ne conosco altri all'infuori di quelli che si fanno pel regio esercito e per la guardia nazionale mobilizzala, conformemente ai decreti pubblicali nella Gazzetta uffiziale. Fuori di questi arruolamenti, tutti gli altri sono illeciti, sono contrari! alle disposizioni del Governo, anzi contrarli alla legge, e per conseguenza soggetti a pena. Ed è dovere del ministro dell'interno, in questo come in ogni altro caso, di far rispettare la legge. (Segni di approvazione)

Presidente. La parola è al signor ministro di agricoltura e commercio.

Natoli, ministro per l'agricoltura e commercio. Mi corre l'obbligo di dare alcuni schiarimenti, che ieri mi chiedeva l'onorevole Massari, intorno ad una convenzione per monetazione, stipulatasi in Napoli tra la luogotenenza delle Provincie napolitane ed una casa di commercio francese, Estivant, rappresentata da un tal Colombier.

Saprà la Camera che, per effetto di legge 10 ottobre 1859, fu fatta convenzione tra il governo centrale ed una casa inglese di Birmingham per la monetazione di dodici milioni di lire, in bronzo. La moneta doveva essere rappresentata da un centesimo, due e cinque centesimi. Nel principio di questo anno altra offerta fu fatta pure dalla casa Estivant per coniazione di moneta, la quale offerta il governo centrale rimise alla luogotenenza in Napoli, onde vedesse se per avventura potesse colà convenire di stabilirvi un contratto simile a quello concluso colla casa inglese.

Non si lasciava però di avvertire che il desiderio di camminare sulla via dell'unità monetaria, uno de' simboli dell'unità politica, era universalmente sentito.

385

TORNATA DEL 3 APRILE

Ora la luogotenenza, studiata la convenzione passata tra il governo centrale e la casa di Birmingham, e trovatine vantaggiosi i patti, la tolse quasi intieramente a base per quella che concluse con Estivant. Che anzi, in alcune parli, ottenne migliori vantaggi; perciocché, mentre nella prima convenzione i tondini potevano essere costrutti, a piacimento dell'appaltatore, o in Italia o all'estero, per la convenzione passatasi in Napoli la confezione di essi per una sola metà era libera, ma l'altra metà dovevasi costrurre in Italia.

Intanto credo utile far conoscere alla Camera che la somma complessiva di entrambi i contralti ascende a 22 milioni di lire.

Questo è l'insieme de' fatti che ho potuto scorgere esaminando entrambe le convenzioni di cui ho tenuto discorso, e che ho creduto mio debito di palesare all'onorevole interpellante.

Presidente. La parola è al deputato Mirabelli.

Mirabelli. Come l'onorevole signor ministro dell'interno ha formalmente dichiarato che egli ha dato gli ordini, tanto in Napoli che in Sicilia, di far osservare la legge e di reprimere qualunque tumulto di piazza, cosi io mi dichiaro soddisfatto di questo provvedimento dato dall'onorevole ministro dell'interno, e cedo la parola all'onorevole deputato De Blasiis.

De Blasiis. Prego l'onorevole guardasigilli a dare prima gli schiarimenti che gli furono chiesti.

Cassinis, ministro di grazia e giustizia. L'onorevole Massari rivolse al Governo due interpellanze, le quali risguardano il Ministero che ho l'onore di reggere.

Queste interpellanze si riferiscono, l'una alla organizzazione giudiziaria, l'altra alla legge colla quale furono soppresse le corporazioni religiose nell'ex-reame di Napoli.

Colla prima esso chiede se il Governo centrale intenda esso medesimo di applicare ed eseguire la legge dell'organizzazione giudiziaria, ovvero se intenda di lasciarne la cura alla luogotenenza di Napoli.

Voi sapete, o signori, come nell'intervallo che fu tra il 17 dicembre ultimo scorso, data del regio decreto di annessione, e la riunione del Parlamento, le luogotenenze di Napoli e di Sicilia siano state sollecite di promulgare quei provvedimenti, pei quali si mettesse il diritto pubblico interno di quelle Provincie, tanto civile quanto ecclesiastico, in armonia collo Statuto.

Indi vennero in Napoli pubblicale, fra le altre, coteste leggi, già in vigore nelle antiche provincie e nella maggior parte delle provincie annesse: il Codice penale, il Codice di procedura penale, la legge d'organizzazione giudiziaria e, con alcune poche modificazioni, la legge abolitiva delle corporazioni religiose; nella Sicilia furono pubblicati il Codice penale, quello di procedura penale e la legge di organizzazione giudiziaria.

Per quanto spelta alla organizzazione giudiziaria, fra le altre conseguenze di questa legge si è che debbono cessare le Corti criminali, ora in numero di Ili nelle provincie napolitane, in numero di 7 nelle provincie siciliane, ossia di 8 oltre alle due Gran Corti miste di Messina e di Catania.

Vi sottentrerà per le cause criminali il sistema delle assisi e coi giurati, e quindi la necessità di stabilire il numero, le residenze, le circoscrizioni delle varie autorità giudiziarie, non che il numero degli uffiziali addetti a ciascuna di esse.

Queste disposizioni sono troppo gravi e troppo importanti ad un'uniformità di sistema in tutto lo Stato, perché il Governo non stimi debito suo d'indirizzare non solo l'esecuzione di questa legge, ma, assunti i lumi a ciò necessari, di attuarla esso medesimo.

Diffatti l'esecuzione in tal parte della mentovata legge richiede cognizioni pratiche delle circostanze locali; richiede studi i quali vogliono essere fatti nelle provincie medesime; ed a colai fine fu istituita apposita Commissione in Napoli; nella Sicilia, fissati certi punti di massima, ne fu dalla legge stessa affidato ai Consigli provinciali l'incarico.

Il Governo poi, come ha già intrapreso, così ancora seguiterà a dare quelle istruzioni che più siano opportune ad una conveniente distribuzione delle sedi e delle circoscrizioni predette, o quanto meno che tali gli paiano a norma delle più diligenti ed accurate informazioni che gli sono ampiamente fornite.

Le succennate mie dichiarazioni poi, sono confortate sin d'ora, quanto alle provincie napolilane, da un principio di esecuzione, voglio dire pel recente regio decreto del 29 marzo.

Voi sapete diffatti come all'art.5 di tale decreto sia stabilito che con apposito regolamento sarebbonsi distribuite quelle materie, le quali dovessero rispettivamente essere deferite all'amministrazione centrale, oppure spedite immediatamente dalla luogotenenza. Ora voi ben vedete quanta sia l'importanza dell'esecuzione pratica della legge dell'organizzazione giudiziaria; e come pertanto sia conseguenza del mentovato decreto che questa parte sia assunta dal Governo, non trascurando però di confortarsi dei lumi che gli vengono, come dissi di sopra, somministrati intorno alle circostanze di quelle Provincie.

Egli è in questo modo, o signori, che noi speriamo dj riuscire a far sì che queste leggi, tanto utili per loro stesse e s) eminentemente richieste dalla condizione del diritto pubblico nazionale, siano mandale ad effetto col maggior profitto di quelle popolazioni.

Così io mi confido che essi ne saranno doppiamente contente: ed in quanto esse conseguiranno l'istituzione dei giurati, quell'istituzione, di cui ben diceva l'illustre Pellegrino Rossi essere necessaria ed indispensabile per la retta amministrazione della giustizia penale; ed in quanto il Governo provvederà perché le sedi delle autorità giudiziarie e le circoscrizioni territoriali corrispondano, quanto meglio possibile, alle loro comodità, ai loro bisogni.

Questo dunque è quanto ho l'onore di dichiarare alla Camera, rispondendo alla prima delle interpellanze che mi ha rivolte l'onorevole Massari.

La seconda parte concerne le leggi colle quali vennero soppresse le corporazioni religiose.

Mentre l'onorevole Massari loda la pubblicazione delle leggi giudiziarie, non parve egualmente contento della legge colla quale furono abolite le corporazioni religiose; egli però toccò sì di volo la cosa, che non crederei che sia il caso di addentrarmi in siffatta questione.

Mi domandò se si sarebbe conservato o soppresso il monastero di Montecassino. A questo riguardo mi si permetta un'osservazione generale, poi dirò alcune cose speciali sul convento di Montecassino.

Quanto alle cose generali, io vi dirò, o signori, come la legge del 17 febbraio ultimo scorso, colla quale fu esteso a quelle provincie napoletane, tranne, come dissi, alcune poche modificazioni, la legge votata dal Parlamento subalpino il 29 maggio 1888, contenga la disposizione seguente:

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- SESSIONE DEL 1861

«Sono soppresse le corporazioni religiose, ad eccezione di

Ora, parlando del monastero di Montecassino, qual è l'erudito, anzi dirò l'Italiano, il quale non mandi a quel cenobio un saluto di venerazione e di riconoscenza? (Bene! Bravo!) Voi sapete, o signori, che san Benedetto, siccome scrisse ultimamente un egregio scrittore monaco di quel convento, raccolse l'Italia bambina dalle mani dei barbari; voi sapete come fra le braccia di quel monaco l'Italia vagì, e dalle sue labbra salmeggiane apprese il mistero della vecchia civiltà latina. (Bene)

Le rivoluzioni romoreggiarono, le passioni politiche s'agitarono intorno a quel sacro recinto, e quei monaci nella preghiera e nello studio mantennero viva la fede della religione, la fede della civiltà, la fede della libertà. Essi conservarono, custodirono con santa e gelosa cura i monumenti dell'antica sapienza, ne tramandarono la luce coi loro commenti a tutta Europa, e prepararono in quei silenzi il giorno della redenzione nostra.

Sì, o signori; e quando Pio IX nel 1848 pronunziò la gran parola del perdono e della libertà, essi la raccolsero santamente, piamente, e la dichiararono fermata eternamente in cielo; e vi posso ben dire che, quando le provincie napoletane furono libere, primi que' pii uomini salmeggiarono l'inno della risurrezione italiana.

Ora vorreste, signori, che il Governo pensasse di abolire il monastero di Montecassino? Oh! no, o signori, voi ben lo sapete che ciò non può essere; san Benedetto starà finché l'Italia e il mondo avranno in pregio la religione, le scienze, le lettere, la virtù. Spero di avere cosi soddisfallo ad entrambe le interpellanze dell'onorevole mio amico il deputato Massari. (Bravo! Bene!)

Presidente. La facoltà di parlare spetta al deputato De Blasiis.

De Blasiis. Signori, io sono ben lungi dal voler prolungare l'attuale discussione, la quale mi pare che sia ormai piena e completa. Al contrario io desidero di portarla a termine, e non un discorso mi propongo di fare, ma di dire soltanto alcune brevi parole sul proposito; volgerò quindi brevemente una felicitazione all'onorevole interpellante, una rimostranza al Ministero, una preghiera alla Camera.

Se può esser lieto, chi si fa a profferire una parola in quest'aula, di vederla immediatamente seguila da gravi e desiderali avvenimenti, certo l'onorevole Massari deve esser pieno di questa letizia. La sua interpellanza, al suo primo annunzio, produsse, oserò dire, la maggior parte degli effetti che si potevano ragionevolmente desiderare facendola. Prima a verificarsi fu la dimissione del consigliere del dicastero dell'interno nella luogotenenza di Napoli; seguì, poco stante, la dimissione dell'intero Consiglio, ed in quel giorno istesso in cui fu per la prima volta messa all'ordine del giorno l'interpellanza di cui si traila, il Ministero centrale si eclissò, secondo l'espressione dell'interpellante; ma fu breve l'eclissi; e quando ricomparve disposto ad affrontare la sollevata quistione sull'amministrazione delle provincie napoletane, l'onorevole presidente del riformato Gabinetto cominciò dal dichiarare alla Camera che il Ministero si era ricostituito con elementi novelli, specialmente improntati alle provincie meridionali, appunto per trovarsi meglio adatto a riordinare l'amministrazione governativa di quelle; amministrazione che riconobbe, senza difficoltà, sconvolta da molti disordini, irta di molte difficoltà, e degna di tutta l'attenzione della Camera e del Ministero, né a ciò si limitò, ma aggiunse che,

per rendere più ragionevole ed effettiva la propria responsabilità, il Ministero centrale avrebbe non solo riordinata la luogotenenza di Napoli, ma ne avrebbe variate le attribuzioni, per renderla a sè più direttamente ed efficacemente soggetta.

Nel dare tali leali assicurazioni all'interpellante ed alla Camera, parve all'onorevole presidente dei ministri di aver data la più opportuna risposta ad ogni interpellanza possibile sopra fatti già avvenuti, e de' quali riconosceva di avere il Ministero la responsabilità morale, ma non la responsabilità effettiva, resa impossibile dalle condizioni eccezionali di Napoli e dalla natura eccezionale anch'essa del governo quivi costituito; e si fece conseguentemente ad invitare l'onorevole Massari a ritirare la sua interpellanza.

Piacque però a questi d'insistere nel proposito di farla, e ieri infatti la Camera assistette, non senza grandissimo interesse, all'ampio ed eloquente svolgimento della sua interpellanza, nonché agl'importanti discorsi pronunziati in prosieguo dall'onorevole Paternostro e dall'onorevole Ricciardi.

In risposta a tali discorsi, l'onorevole ministro dell'interno principalmente, e molti altri suoi colleghi in prosieguo, han date le più soddisfacenti e le più accurate spiegazioni, le quali possono considerarsi come una vera parafrasi di ciò che il presidente dei ministri avea anteriormente accennato. A me sembra dunque che l'interpellanza non poteva avere un più completo sviluppo ed un più pieno risultato, e torno a felicitarne l'onorevole Massari.

Quanto al Ministero, io non esito a dirmi pienamente soddisfatto delle sue dichiarazioni e delle sue promesse.

Esso ci ha dichiarato che riconosce l'amministrazione governativa di Napoli degna di riforma, e che la riformerà; anzi ha già cominciato a riformarla; che non respinge la propria responsabilità, anzi, per renderla più efficace, richiamerà ad una maggiore dipendenza gli uomini preposti a quell'amministrazione locale, che intende di procedere in modo da combattere ed allontanare al possibile gl'inconvenienti che colà si verificano, ed apparecchiare a mano a mano le meridionali provincie a quella unificazione che dev'essere compiuta fra tutte le parti d'Italia, mercè la votazione che farà il Parlamento dei progetti di organamento amministrativo, di già presentati dal ministro dell'interno.

Io accetto di buon cuore queste dichiarazioni, ed anche da parte dei miei amici politici me ne dichiaro soddisfatto.

Ricciardi. Domando di parlare.

De Blasiis. Le interpellanze, o signori, non possono avere che due oggetti: o quello di richiamare l'attenzione di un Governo, di cui si ha fiducia, sopra fatti i quali si credono non essere perfettamente normali, acciò il Governo istesso, fatto avvertilo degl'inconvenienti, possa provvedere ad allontanarli; ovvero quello di censurare un Governo di cui non si ha fiducia affine di attirargli sopra il biasimo della Camera. Ora io mi compiaccio di aver trovato escluso questo secondo proposito tanto dal discorso pronunziato dal deputato Massari sui banchi di destra, quanto da quello pronunzialo dal deputato Ricciardi sui banchi della estrema sinistra; e mi sembra che nella Camera tutti siano concordi con gli onorevoli oratori nel mettere da banda ogni desiderio di ferire tanto i componenti del Ministero centrale, quanto i vari individui che hanno localmente governate le meridionali provincie, i quali se mai fallirono al loro compito, certo il fallo non dipese da mancanza di buona volontà.

Tutti convengono infatti che i casi che abbiamo a deplorare sono da attribuirsi piuttosto agli avvenimenti che non

387

TORNATA DEL 5 APRILE

venne a raccogliere la trista eredità; per conseguenza io vi domando, o signori, a che ormai si protrarrebbe più in lungo la discussione di un'interpellanza fatta con animo di additare i mali unicamente perché sieno rimediati, se il Governo, cui sono stati additati, li riconosce con tanta buona fede, econ tanta lealtà promette di ripararli, per quanto da lui dipende? Accogliendo dunque le dichiarazioni fatte dai signori ministri, e specialmente da quelli dell'interno e dei lavori pubblici, intorno agli espedienti ai quali intendono ricorrere per riordinare l'amministrazione, e riportare l'ordine e la prosperità nelle provincie meridionali, io una sola rimostranza mi permetto di fare ad essi, ed è questa.

Tutto quello che hanno promesso di fare, lo facciano con prontezza, con energia, ed avvalorando i loro ordini con quel corredo di forza che è necessario per non farli rimanere inadempiuti; poiché fatalmente le provincie meridionali, essendo state conculcate da un dispotismo cosi lungo e così brutale, quei popoli non sono avvezzi a rispettare gli ordini, se non li vedono in qualche modo accompagnali dalla energica volontà di farli eseguire e da convenienti mezzi di esecuzione. Io non consiglio già mezzi violenti e molto meno arbitrari; ma dico che, nell'interesse appunto delle libertà che si vogliono stabilire in quei paesi che non sono accostumati a fruirle, è d'uopo che l'autorità delle leggi e del Governo riassuma tutte le sue forze, e, prima di comandare, si metta in misura di far rispettare i suoi comandi.

Vengo quindi a fare una preghiera alla Camera, ed è di volere, se lo crede, chiudere la discussione

Voci. No! no!

De Blasiis. Poiché vi sono molti che si oppongono alla chiusura, io non insisto su di essa, ma propongo un ordine del giorno concepito in questi termini:

La Camera confida che il Ministero riordinerà l'amministrazione delle provincie meridionali in modo che possa regolarne l'andamento ed esserne effettivamente responsabile; e, invitandolo a fare che l'autorità delle leggi e del Governo in quelle provincie sia raffermata, la sicurezza pubblica guarentita ed aumentato il benessere delle popolazioni col promuovere i pubblici lavori, passa all'ordine del giorno.»

Presidente. Prego il deputato De Blasiis di deporre sul banco della Presidenza la proposta da lui fatta.

Darò ora cognizione alla Camera che furono trasmessi al banco della Presidenza due altri ordini del giorno: l'uno, presentalo dal deputato Fabrizj, e sottoscritto anche dai deputati Alfieri, Bertolami, Caracciolo, Tommasi, Oldofredi, Massari, BonCompagni, Raeli, Paternostro, Baldacchini, è cosi concepito:

La Camera, confidando che il Governo del Re prenderà i provvedimenti più alti ad accelerare l'unificazione amministrativa delle provincie napoletane e siciliane, e ad assicurare efficacemente la pubblica sicurezza e la vera osservazione della legge, passa all'ordine del giorno.

L'altro ordine del giorno è del deputato Leopardi, ed è formulato nei seguenti termini:

«La Camera, persuasa che i ministri del Re vorranno senza indugio far opera di riordinare il Governo delle Due Sicilie, ponendo ogni cura perché non sia lasciato ai poteri locali di Napoli e di Palermo, se non solo quella parte della pubblica amministrazione che si riferisce all'ordinario andamento degli affari, ovvero abbisogni di provvedimenti di urgenza quasi istantanea, passa all'ordine del giorno.»

Vi è pure un altro volo motivato proposto dal deputato Miceli, e così concepito:

«La Camera, vista la condizione delle provincie meridionali d'Italia, invita il Governo ad usare ogni legale provvedimento che possa dar termine al disordine ed allo scontento, attuando una politica la quale, mentre conduca alla perfetta unificazione della patria, eviti ogni mezzo che abbia sembianza di coazione, reintegri la giustizia e soddisfi pienamente i voli delle popolazioni.»

Panni che ora la discussione si potrebbe...

Bruno. Signor presidente, chiedo di parlare...

Presidente. Farmi chela discussione...

Mazziotti. Avevo chiesto la parola...

Presidente. Abbiano pazienza un istante. Farmi che ora la discussione si potrebbe portare su questi ordini del giorno.

Ricciardi. Permetta, signor presidente; io sono stato il primo a proporre un ordine del giorno...

Presidente. È già stato letto ieri.

Ricciardi. Mi sembra che dovrebbe avere la priorità nella votazione.

Presidente. Finora gli ordini del giorno non sono ancora in deliberazione.Quando verranno messi a partito si vedrà quale sarà il più largo, e a quale dei medesimi si dovrà dare la preferenza. Avverto però che la priorità non è in ragione della presentazione, ma bensì della materia che possono contenere.

Bruno. Debbo far osservare...

Presidente. Permetta un istante. Il dibattimento, a parer mio, si potrebbe ora aprire sugli ordini del giorno stati presentati; se qualcuno però intende proporre qualche altro modo di discussione, gli darò la parola.

Bruno. Quell'uno sono io. (Ilarità)

Presidente. Ha facoltà di parlare.

Bruno. Parmi che il signor presidente dovrebbe ricordare che io aveva poc'anzi annunziato alla Camera di avere ancora dei fatti da narrare. Il signor De Blasiis sarà soddisfallo delle risposte avute dal signor ministro, e sta bene; molti altri deputati saranno parimenti soddisfatti; ma io credo però che l'interpellanza non sia terminata ancora; l'ho dichiarato ieri, l'ho ripetuto questa mattina, debbo fare delle nuove interpellanze, debbo annunziare nuovi fatti.

Se si vuol chiudere la discussione, si faccia pure; se si vuol precipitare, si precipiti pure....

Voci. No! no!

Bruno io credo però che si avrebbe dovuto tenere in qualche considerazione la riserva da me fatta, e che si dovrebbe lasciare quindi un ulteriore sfogo alla discussione.

Voci. Sì! sì! si!

Presidente. Non c'è alcuno, ad eccezione dell'onorevole De Blasiis, che abbia chiesto di chiudere la discussione; si trattava soltanto di stabilire se si voleva chiudere, sull'interpellanza, la discussione generale, e portarla negli ordini del giorno. Se il deputato Bruno ha ancora fatti da esporre, la discussione può continuare, ed egli avrà la parola al suo turno. Intanto, secondo l'ordine d'iscrizione, la facoltà di parlare spelta al deputato Mazziotti.

Mazziotti. Veramente poche parole mi rimangono a dire dopo le interpellanze dell'onorevole Massari, e dopo le risposte, per la maggior parte soddisfacenti, dei signori ministri.

Mi associo pienamente al deputato Massari nel dichiarare che le popolazioni napolitane hanno tutto il sentimento unitario e nazionale, che non hanno affatto nessun

- SESSIONE DEL 1861

intendimento

Malamente si appigliava il signor Ferrari alle elezioni, fatte nelle provincie napoletane, di tutti Napolitani, per credere che esse inclinassero al federalismo.

Questa proposizione è falsa nel fatto, perché il primo collegio di Napoli ha nominato a suo rappresentante l'inimitabile generale, il nuovo Cincinnato, Giuseppe Garibaldi; secondariamente la città di Chieti ha nominato il signor cavaliere Farini a suo deputato; e se altri illustri delle altre parti d'Italia non sono stati eletti nelle provincie meridionali, ciò soltanto ha dipeso perché le medesime hanno voluto non fare nomine inutili, e perché sedesse in questa Camera il maggior numero possibile di deputati, e tutti i collegi avessero il loro rappresentante; sicure che queste notabilità italiane sarebbero state certamente elette nelle proprie provincie.

Riguardo poi alle lagnanze fatte dall'onorevole Massari per il milione concesso dal Governo a titolo di sussidi, io, lungi dall'unirmi a lui per muovere su di ciò una censura, all'opposto credo che convenientemente abbia fatto il Governo del Re in Napoli, quando volle che si stanziasse la somma di un milione per sovvenire quelle famiglie che, agiate prima, per effetto dei rivolgimenti politici si trovarono sulla pubblica strada mancanti di tutto il puro necessario; è vero che tante sventure e tante irreparabili perdile non possono da nessuna somma compensarsi, ma tuttavia sembra fosse appunto dovere del Governo di soccorrere in qualche modo chi per solo amore di patria trovossi ridotto alla miseria; e tanto più quando a queste famiglie non si poteva dare impieghi lucrosi, sia perché non ve ne fossero vacanti, sia per la loro poco idoneità.

Piuttosto io pregherei il ministro di far si che la dispensa tanto dell'accennato milione, quanto delle 500,000 lire annue, assegnate alle famiglie più bisognose tra quelle che hanno sofferto politicamente, venga fatta equamente ed in modo che il rimedio non venga a riuscire peggior del male. Quando io partii da Napoli si pagavano ancora delle pensioni date per servizi resi alla famiglia borbonica; l'uccisore di Carducci aveva ancora la sua pensione, e credo che l'abbiano ancora gli autori della strage fatta degli eroi di Sapri. Ora io vorrei che questa somma di pensioni, portata, secondo il decreto, a 600,000 lire, si concedesse non a quelli che più stanno da vicino ai segretari generali in Napoli, ma indistintamente a tutte le provincie; io vorrei che le proposte per questi sussidi venissero fatte dai Consigli comunali, rettificate dai provinciali, ed infine emendate e moderate da una Commissione centrale in Napoli.

Una sola preghiera ora mi credo in debito di fare all'onorevole ministro degli affari ecclesiastici.

La legge che il commendatore Mancini pubblicava alla vigilia dell'apertura del Parlamento per sopprimere le corporazioni religiose, io la credo, francamente parlando, inopportuna, e, direi quasi, incostituzionale; perché, siccome il Parlamento stava per radunarsi, era solo còmpito ed ufficio del medesimo di fare delle leggi comuni anche a quelle provincie nuovamente riunite. La ritengo inopportuna ed impolitica ancora, perché nella conciliazione, che tutti abbiamo desiderato e che il presidente del Consiglio ci ha cosi felicemente fallo sperare non più tanto lontana, la conciliazione, dico, colla Corte di Roma, questa legge di soppressione riuscirà nuovo argomento di discordia, poiché essa ne impedisce di fare che la Chiesa sia perfettamente libera in mezzo d'un libero regno, secondo la nobile idea del conte Di Cavour. Credetelo, con questa soppressione non ci guadagnerebbero né l'istruzione né il liberalismo, mentre il basso clero è tutto liberale in Napoli, e, temo, nemmeno le finanze.

Come deputato particolare poi del collegio elettorale di Torchia, resta mio debito di aggiungere:

«Il Governo dei Borboni, invece di promuovere l'istruzione del popolo, la avversava in ogni maniera, per cui i comuni del Cilento, sentendo questa deplorevole mancanza dell'istruzione popolare, dopo una decisione presa nel seno dei Consigli decurionali, chiesero al Governo che loro venisse concesso di stabilire un istituto per educarvi la gioventù, speranza della patria, in un con veli lo sito nel mercato centrale del Cilento.

Dopo molto richiedere,finalmente si ottenne; il monastero è stato riedificato a carico tutto dei comuni. Si è aperto l'istituto, e la gioventù delle principali famiglie del Cilento è ivi raccolta ed educata.

Ora la soppressione (che per altro io non posso credere mai che avvenga) di questo monastero addetto alla pubblica istruzione porterebbe un dispiacere ed un malcontento grandissimo in quella popolazione.

Debbo rivolgere un'altra brevissima preghiera al Ministero dell'interno.

Io concorro perfettamente nella sua idea, che bisogna conciliare tutti i partili, e che tutti gl'Italiani non debbono avere che un solo colore politico, il nazionale.

Ma, ora che l'Italia non è ancora perfettamente unita, che non siamo ancora pienamente in tempo normale, io credo che bisognerebbe scrutinare quegli impiegati del vecchio regime che sono attualmente nel Consiglio di luogotenenza e nelle segreterie del governo delle provincie.

È a mia conoscenza che molti savi provvedimenti, che richiedevano una esecuzione immediata, atteso specialmente il concentramento di tutti i poteri ed anche dell'amministrativo nel capoluogo di Napoli, quei provvedimenti, dico, sono rimasti nascosti per molto tempo, ed alcuni per sempre.

I governatori si lagnavano di non ricevere risposta dai consiglieri, mentre essi l'avevano fatta, e questa rimaneva sepolta nelle segreterie.

Traversando i corridoi ministeriali di Napoli, ho inteso colle mie orecchie impiegati ed anche gli stessi uscieri mettere in derisione gli ufficiali ed anche i consiglieri del dicastero dicendo: è una perfetta babilonia, le cose non possono più durare in questo modo; e fregarsi per gioia le mani.

Io non credo che un edilizio possa costrursi con artefici i quali hanno tutto l'interesse a disfarlo; io non credo che con i pennelli intinti nei colori giallo e nero si possa dipingere la nostra bella e tricolore bandiera italiana.

Queste sono le osservazioni che ho stimato mio debito di brevemente esporvi, e che ora con fiducia lascio all'intelligenza ed al patriottismo del Ministero di apprezzare.

Presidente. Il deputato Greco ha facoltà di parlare.

Greco. La Camera ha udite le interpellanze dell'onorevole Massari, quelle dell'onorevole Ricciardi e le risposte state date dal Ministero; è per ciò che mi restringerò a fare due sole osservazioni, le quali non furono per anco trattate.

Si sono annoverate molte cause di malcontento delle Provincie meridionali d'Italia, ma io credo che due sieno state appena survolate.

Una di queste (e mi rincresce il dirlo, premettendo che io non tratterò la quistione personale, né intendo fare allusione a chicchessia, ma considero solo i fatti) è la seguente.

Ognuno conosce quell'esercito che, da Genova venuto in Sicilia, corse trionfante tutte le provincie meridionali fin sotto le mura di Capua. Esso constava di vari elementi: co

389

TORNATA DEL 5 APRILE

Io esso annoveravansi molti distinti ufficiali dei Cacciatori delle Alpi e di tutto l'esercito regolare che avevano ottenuto la loro dimissione, e mano mano si aggiunsero degli ufficiali borbonici che, vergognandosi di combattere la causa di un tiranno, pugnarono strenuamente per la libertà. Un lungo lavoro, iniziato dall'eroico Pisacane, erasi fatto per trarre dalla nostra parte, quanti più si potessero, soldati ed ufficiali borbonici, e negli ultimi tempi, prima che il Borbone partisse da Napoli, larga messe erasi colla da questo lavoro. Gli altri furono gl'intrusi o coloro che, caduta Capua e Gaeta e perduta ogni speranza di poter militare utilmente a prò del Borbone, compirono la facile adesione al Governo nazionale. Da ciò ne risulterebbe che ogni possibile considerazione dovevasi avere per le due prime categorie ed usare severità per la terza. È avvenuto il contrario, ed abbiamo visto non pochi esempi coi quali sono stati considerali come disertori i difensori della patria, quando il difenderla costava qualche cosa, e molti riguardi si souo avuti verso coloro che, stati per lo innanzi acerrimi nemici del loro paese, lo hanno combattuto sino alla fine. Quanto ciò sia giusto, la Camera decida, ed io mi guarderò bene dal recare innanzi ad essa esempi di questi falli, per noe venire alla dolorosa quistione personale.

Quanto all'ordinamento provvisorio che cogli ultimi decreti si è dato alle provincie napoletane, credo che bene siasi avvisato il Ministero a far si che, sino al tempo che l'Italia non sia definitivamente ordinata colla sua capitale a Roma, era necessario che un centro di amministrazione fosse lascialo a Napoli, senza eludersi la responsabilità ministeriale. Ma la responsabilità futura non deve coprire la passata. Certamente i Governi, che dopo la dittatura si son succeduti a Napoli, aveano avuto istruzioni dal Ministero. Incumbe dunque a questo l'obbligo di chiedere un rendiconto dei fatti passati alle persone da esso destinate a governare quella parte dello Stato e renderne informato il Parlamento.

E qui chiamo l'attenzione dei signori ministri sullo stato della finanza napolitana, che lamentasi di essersi molto stremala a causa precipua del lusso di pensioni e di soldi accordati a coloro che non tutti li hanno meritati. Anzi, se vere sono le ultime notizie di Napoli, pare che in questi ultimi giorni quella tesoreria sia stata chiusa per mancanza di numerario, e che gl'impiegati non abbiano avuto i loro soldi.

Perché, a mio avviso, si faccia qualche cosa di utile a quelle Provincie, domanderei che il Ministero destinasse una Commissione d'inchiesta a Napoli, la quale, rivolgendosi per ogni provincia a persone probe ed insieme interessate alla causa nazionale, eserciti un sindacato su ciò che si è fatto del denaro pubblico, e sulle cariche conferite o da conferirsi, sui bisogni del paese, sul modo di ovviarli, per renderne poscia conto al Parlamento.

Ho sentilo con piacere che la legge comunale e l'altra sulla guardia nazionale sarebbero presto messe in pratica.

Dimando che, a tutela dell'ordine pubblico, non colonne mobili del nostro valoroso esercito, il quale ha missione più nobile da compiere, vale a dire di guardare le nostre frontiere contro un nemico che non ci perdona e ci minaccia sempre, ma che i vi fossero organizzati in buon numero, senza guardar pel sottile alle formalità richieste per la compiuta organizzazione, e che, non bastando essi in via provvisoria,siano mantenuti quegli armati che, guidali, com'è nella mia provincia, da onesti e provati patrioti, vi stanno egregiamente, mantenendo l'ordine.

Costoro, meglio organizzati, sarebbero come una guardia nazionale mobilizzata, e, unitamente a' distaccamenti delle guardie nazionali mobili delle borgate ed a' , potrebbero mantenere l'ordine nelle città ed andare incontro ai briganti nelle campagne.

Associandomi a' miei colleghi delle provincie meridionali, dimando che i lavori delle strade ferrate siano cominciati al più presto possibile e segnatamente la strada ferrata di Calabria, che dovrà congiungere il continente colla Sicilia ed aprire nuovi emporii di commercio coll'oriente.

Coll'onorevole Ricciardi dimando altresì che il decreto del dittatore, che ordinava la demolizione di Sant'Elmo, sia compiuto al più presto possibile.

Signori, lasciamo l'onta di minacciare le città a' re bombardatori, il cui diritto è la forza, e lungi da noi il pensiero che il regno costituzionale d'Italia debb'essere custodito a Napoli da Sant'Elmo, anziché dall'amore del popolo alla causa nazionale ed alla gloriosa dinastia di Savoia. Perché i popoli di quelle provincie, non ha guari affrancati all'Italia ed alla libertà, potessero avere innanzi agli occhj esempi da specchiarsi, ed il Governo stesso potesse trovare in essi la sua forza, bisogna introdurre nelle diverse amministrazioni di colà quel sentimento di morale che domina nelle amministrazioni di queste antiche provincie, non perché vi sia difetto di uomini , ma perché il pessimo indirizzo, ch'era dato dalla passata signoria a tutte le pubbliche faccende, continua tuttora; le cause non sono state tolte ancora, e nel personale non si è fatta quella depurazione richiesta dal tempo, dalla morale e dalla necessità.

Siate forti, o signori, ma della forza che vi dà la libertà, non negate la soddisfazione ch'è dovuta alle legittime aspirazioni di un paese ch'è eminentemente italiano.

Piria. Domando di parlare per un fatto personale.

Presidente. Ha facoltà di parlare.

Piria. L'onorevole preopinante, parlando dei mali che si lamentano pur troppo nelle provincie meridionali, ne ha gettato particolarmente la colpa sulle amministrazioni che si sono succedute dopo la dittatura. Egli, per altro, ha creduto che quelle amministrazioni fossero state sempre in dipendenza diretta del Governo centrale. Io dichiaro che nella prima di tali amministrazioni, di cui ebbi l'onore di far parte, i capi dei singoli dicasteri non erano tutto al più che in relazione officiosa coi membri del Ministero centrale, e che per conseguenza debbono essere dirette ad essi le interpellanze circa agli atti della loro amministrazione; dei quali atti, per conto mio (e sono certo che altrettanto faranno tutti i miei colleghi), ne accetto l'intiera risponsabilità, quando l'interpellante voglia formolare con precisione i capi di accusa.

Cardente. Dopo che l'onorevole mio amico Massari ebbe tanto dettagliatamente posto innanzi agli occhi di questa Camera tutti gli sconcerti e gli sfaceli in cui giacciono le povere provincie napoletane a cui appartengo, mi resta ben poco a dire. La Camera vorrà essere, spero, indulgente verso me, non edotto alle parlamentari discussioni, né dotato da Dio della necessaria facondia.

Rispetto alla guardia nazionale, debbo dire che vi sono compagnie intere le quali non sono provviste che di sette od otto fucili. Ma il signor ministro dell'interno disse poc'anzi che dovevasene attendere lo acquisto, come lo accomodo delle migliaia trovate in Napoli, disadatte, perché non a percussione. Ma quando io sento assaliti, pochi dì fanno, dei paesi interi, come Presenzano e Capriata, ove rimasero dolorosamente pur ferite delle guardie nazionali che accorsero a respingerne lo attacco, come si possa ancora attendere a provvedere, non vedo. Diansi provvisoriamente anche dei fucili a scaglia a chi ne manchi, indi man mano si rettifichino.

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Leggemmo ier l'altro, se ben rammento, un altro real decreto, mercè cui quei ministri a Napoli hanno cambiato di nome, ed invece del titolo di consiglieri di luogotenenza hanno assunto quello di segretari generali, cioè hanno preso il nome che portano i ministri in America. Ora, io non vorrei che quei signori si dimenticassero di essere segretari generali a Napoli, e credessero di esserlo invece a Nuova York;epperciò di dover governare il popolo americano, anziché il napoletano; poiché, debbo dirlo, sevi ha argomento da aggiungere ai tanti, per provare la veracità del plebiscito nel Napoletano voler far parte della gloriosa Dinastia Sabauda, evvi quello irrefragabile di aver quel buon popolo saputo resistere calmo tanto all'anarchia governativa, quanto agli agenti borbonici.

Vengo ai lavori pubblici. Il signor ministro ha voluto prima di terminarsi di dire sull'interpellanza, rispondere; sarà quindi cortese, spero, di novelle spiegazioni. Certa stampa esagerata da una parte e delle grida di piazza dall'altra assordavano Napoli nello scorso inverno, che si dovesse dar lavoro, pane al popolo, che ne abbisognava istantaneamente; e quel generoso municipio, tra l'altro, sobbarcavasi all'arduo e grave incarco di pagare un tanto di più sul prezzo del pane, di cui dispensavansi a migliaia buoni quotidiani. Ma ciò, ognun lo vede, mentre dall'un canto degrada il popolo, dall'altro difficilmente, se non giammai, ottiene lo scopo prefisso... Ma quelle stesse grida esagerate, quegli stessi eccitamenti erano forse provocati da una classe notissima, a cui alludeva l'onorevole mio amico il deputato Massari, di faccendieri, di mestatori ne' pubblici negozi, per far si che quella finanza versasse nelle di loro mani delle vistose somme, di cui una frazione infinitesimale (quasi per larvare) scorre poi nelle mani del popolo!... Quindi si ottenne, tra l'altro, il proseguimento de' lavori della ferrovia che da Capua per San Germano mena a Ceprano.

Signori, sono orinai vicini i cinque anni da che ebber principio i lavori di detta ferrovia, la quale, oltre del costare il triplo forse di ciò che vale, ha in sé tali e tanti errori d'arte visibilissimi, per inconcepibilità di tortuosi giri, d'inutili, vicinissime e lussuose stazioni, che rimarrà, fra i tanti, duraturo monumento del cessato mal governo in quelle mie contrade.

Ora io domando al signor ministro de' lavori pubblici, a chi mai, in quali mani versava, come forse versa tuttora quella finanza delle vistose somme, che ascendono, mi si assicura, oltre i diecimila ducali per settimana! Sono coloro che ne eseguiscono i lavori, degli appaltatori, de' costruttori per regio conto, o che cosa mai? In quelle parti ciò s'ignora tuttora, come igooravasi sotto i Borboni... come ignorasi dove e quando celebraronsi subastazioni all'uopo... Ma io dico, anche vi esistessero decontratti, in vista della lesione enorme da parte dello stato, in vista dello scandalo, qual legge negar può il dritto di annullarli? E dietro analoghi rilievi de' lavori già esistenti ed anco pagati (ed io, come accennava più su, li ritengo per più che pagali!) procedasi tosto a de' veraci, parziali appalti, giusta le vigenti regole, e far che terminisi una volta l'operai...

Intanto eccovi, o signori, in iscorcio il quadro vero della cosa: finanza che paga ogni di; operaio, che si demoralizza, perché non vi lavora nemmeno pel terzo di ciò che gli viene retribuito in mercede; lavoro quindi che lentamente e quasi per nulla progredisce.

Il Borbone aveva ordinato questa via, perché voleva forse gettare polvere negli occhi; ma la via non la voleva realmente, perché certamente non voleva mettere le città d'Italia in comunicazione tra loro.

Ma attualmente questa via pel Napoletano è d'immensa necessità, non tanto dal lato commerciale, che da quello politico. Giacché, a prescindere dagl'innumeri lucidissimi argomenti, dedotti in quest'aula, e dalla pubblica stampa, la questione di Roma, come della nobile Venezia, parmi un affare di gravitazione. In vero un gran corpo attrae a sé, al di qua, quelle due sue membra, di necessità assoluta, vitale, che tanta ripulsione sentono al di là!.... Ed è noto essere la legge eterna del pari che irresistibile!

Chiedo dunque alla cortesia del signor ministro pei lavori pubblici, che ci voglia dare qualche spiegazione; se la strada, cioè, si prosegua con coloro che erano già addetti a questi lavori nello scorso inverno; perché, mi ricordo, che, cosa curiosa! uno dei ministri (il signor Nigra, parmi), venuto un dì verso Teano, a visitare i lavori, trovava sempre la stessa massa dei lavoranti nei varii punti in cui girava, perché egli descriveva curve, ed i lavoranti delle rette a trovarsi di nuovo innanti a lui (Ilarità)

Signori, giacché si volle scoprire la piaga in questo recinto, ed io non era certo di tale avviso (preferendo la officiosa e franca comunicazione al Governo del Re), come possono attestarlo molti dei miei rispettabili colleghi, sento il sacro debito di dire il mio debole parere.

Si è gridalo da tutti per la fame che perseguita quelle popolazioni, si è parlato della necessità dei lavori pubblici nella scorso inverno, e forse si grida tuttora; ma io debbo dire a questo Consesso che là si sente fame di moralità, di abnegazione, di probità, come di religiosa osservanza delle leggi, e di attitudine nei pubblici funzionari. Ecco ciò che ardentemente da ogni onesto sospirasi in quel paese.

Se la rivoluzione coll'esercito dell'eroe Garibaldi dall'una parte, e quello vittorioso del magnanimo Re dall'altra, han vinto, mi si conceda il paragone, in quel paese l'acuto del male borbonico, vi resta tuttora la gran lue, la quale sventuratamente invade non poche delle sue membra.

Mi si perdoni che io sia stato troppo franco; ma se, al dire dell'eloquente Brofferio, la responsabilità ministeriale è come l'araba fenice (ed io la ritengo cosi), ora, perché è grande e complicata la mole del riscatto quasi insperato, subitaneo, della patria nostra, io credo d'altronde che la responsabilità, che pesa su di noi, rappresentanti del primo Parlamento italiano, nelle attuali critiche emergenze, sia gravissima, immensa, sì rispetto alla nazione, che alla storia (Bravo!)

Scongiuro dunque il Governo a voler provvedere, e tosto, allo stato ansiosissimo di quelle provincie, con mezzi positivi, efficaci, ed anco, se fia d'uopo, eccezionali.

De Vincenzi. Domando la parola per un fatto personale; debbo rispondere alle asserzioni del deputato Cardente.

Presidente. Non mi pare che si sia nominata la sua persona; non vi è perciò nulla di personale.

La facoltà di parlare spetta al signor Ranieri.

Ranieri. Vi rinunzio.

Presidente. Il deputato De Donno ha facoltà di parlare. De Donno. Vi rinunzio.

Presidente. Allora può parlare il deputato Baldacchini.

Voci. Non è presente!

Presidente. Parli il signor Castellano.

Castellano. Io sarò brevissimo nelle parole che rivolgo alla Camera, imperciocché non intendo abusare del suo tempo; ma nondimeno trovo debito della mia coscienza di manifestare l'opinione che porto sulle gravissime circostanze in cui versa il paese, che in questo Parlamento io rappresento.

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Il Governo, come è stato esercitato sinora nelle provincie napoletane, solleva una questione pregiudiziale, ed è quella delle norme secondo le quali fu condotto in quelle provincie, come nelle siciliane, e come, credo, anche nelle Marche e nell'Umbria dai commissari straordinari.

Ora io domanderei al Ministero, se questi commissari sono stati o no muniti di sue istruzioni; imperocché nel primo caso ritengo che le istruzioni furono malamente date, come nel secondo credo ugualmente che la responsabilità sia nel Ministero per non aver dato le convenienti istruzioni.

Diffatti, o signori, dove troviamo, quando non vogliamo dissimularci tutta la profondità della piaga che si è voluta svelare, dove il maggiore dei danni che a quelle provincie sia toccato dall'azione del Governo? Per me io non posso in verun modo acconsentire a quella facoltà di legiferare che hanno creduto di poter esercitare tutti gli uomini che si sono succeduti al potere nei successivi Governi; imperciocché le leggi nuove che si venivano facendo non essendo corroborate né dalla necessità, né dal maturo giudizio, e, quello che è più, senza il prestigio dell'autorità del Parlamento, quelle leggi non hanno soddisfatto ai bisogni di quelle provincie, le quali avevano necessità, più che di leggi, di essere bene amministrate.

Non è già che io voglia espressamente rimproverare a quegli uomini tutto ciò che essi hanno fatto, mentre io pure fo conto delle tante difficoltà che essi avevano da superare; ma non per questo io posso dividere il principio da essi adottato, di voler tutte rinnovare, ed a proprio arbitrio, le antiche istituzioni dell'ex-reame, per sostituirne delle nuove senza aspettare l'intervento del Parlamento nazionale.

Il ministro di grazia e giustizia, per esempio, alle interpellanze Massari rispondeva che la legge sull'ordinamento giudiziario si proponga d'introdurre nelle provincie meridionali il sistema dei giurati, quel sistema da cui tanti vantaggi debbe ripromettersi il paese per la migliore e più pronta amministrazione di un importante ramo della giustizia; ma io domanderei al signor ministro di grazia e giustizia: é forse la legge dell'ordinamento giudiziario quella che si propone soltanto di raggiungere siffatto scopo, col variare benanche tante circoscrizioni giudiziarie, e sopprimendo quelle che attualmente esistono, col creare uno spostamento d'interessi materiali, in modo da accrescere le difficoltà, già per sé grandi, che il movimento rivoluzionario ha fatto sorgere nelle provincie meridionali?

Se dunque questa legge ha potuto differirsi sino alla vigilia dell'apertura del Parlamento, valeva ben la pena di aspettare che fosse convocato, e che, colla maturità del suo giudizio e coll'autorità dei rappresentanti della nazione qui accolti, si fosse avuto il suo volo per tutte quelle molte leggi laggiù emanate; così quei governanti avrebbero potuto rendere ragione di un fatto che, in mancanza di ciò, niente basta a giustificare.

Il guardasigilli aggiungeva che, con la promulgazione della legge per la soppressione delle corporazioni religiose, non si fosse fatto altro che rendere comune alle provincie dell'Italia meridionale quella che era stata precedentemente sancita dal Parlamento subalpino.

Io però richiamerò il ministro guardasigilli al confronto delle due leggi, ed egli vedrà la grandissima mutazione che coloro i quali si sono fatti a promulgarla nell'ex-reame di Napoli hanno introdotta alla legge del Parlamento subalpino, perché abbia a concludersi che, senza l'autorità del Parlamento, non si potevano quei consiglieri di luogotenenza elevare alla qualità di legislatori.

Ma io continuo nel mio esame, e trovo che, in quanto a tutte queste disposizioni, se alcune vogliano qualificarsi di opportunità politica, altre certamente non lo sono.

Io scorgo anzitutto che la ragione che il guardasigilli adduceva, cioè di aversi, con la pubblicazione di quelle leggi, lo scopo di unificare il diritto pubblico interno, non sussiste. Diffatti, o signori, avete forse trovato che questa ragione si fosse fatta valere per apportare le stesse innovazioni in tutte le novelle provincie, dove non ancora si sono introdotte, per allentare alle istituzioni proprie della Toscana, le quali rimangono ancora come sono? No certamente. Quindi non vi è ragione di dire che si possa così di leggieri mutare una legislazione senza che l'autorità dei rappresentanti della nazione all'uopo maturamente possa spiegarsi.

È dunque mio pensamento che in gran parte i mali, i quali si sono prodotti nelle provincie meridionali dell'Italia, derivino sopratutto dalla soverchia leggerezza con cui le istituzioni antecedenti si sono andate immutando; imperciocché significa forse autonomia soltanto il conservare una separata amministrazione?

Io credo che il senso di autonomia abbia una più alta portata, ed é quello di conservare, per quanto sia possibile, a ciascun paese le proprie istituzioni.

Noi non avevamo difetto di leggi più o meno buone, ma sibbene di esalta, di morale esecuzione delle leggi stesse.

Ebbene, che cosa ha fatto il Governo che finora ha retto quelle provincie?

Non ha fatto che distruggere, senza possibilità di riedificare; non ha fatto che abbattere le vecchie leggi per sostituirne delle nuove, che, mentre mancavano del prestigio di autorità legittima, non si aveva la forza di far rispettare; e tanto valeva,e meglio, l'attendere l'autorità del Parlamento, che almeno le avrebbe raccomandate colla sua maestà, che alla nazione le avrebbe potuto fare legittimamente accettare.

Egli é quindi sotto questo punto di veduta che io mi fo a pregare il Parlamento perché porti la sua seria e sovrana attenzione su tutte le innovazioni le quali nelle provincie napolitano in materia legislativa si sono venute consumando; e prego che la porti, perché l'unificazione per tanto sarà più duratura, per quanto più utile; dappoiché questa unificazione va fatta nel senso che vicendevolmente le provincie si mutuino il meglio delle loro istituzioni, e tutte le altre adottino per sé quelle che troveranno più convenienti in ciascuna di esse.

Io trovo quindi che, fatta questa discussione maturamente dal Parlamento, sarà il caso di potere opportunamente rimediare ai mali Che affliggono le provincie napoletane. Per ora esprimo il voto che il Ministero sottometta alla Camera tutte le disposizioni legislative le quali dai governi dittatoriali e dalle luogotenenze furono emanate, perché la Camera possa portare sulla loro convenienza il suo giudizio. Imperciocché io ritengo nel dippiù che le dichiarazioni del Ministero, intese a stabilire che il riordinamento dell'amministrazione ha per iscopo di poterlo efficacemente condurre ad assumerne la responsabilità ministeriale, sieno sufficienti, perché al Governo io lascio la facoltà di governare, come glien'è propria la responsabilità.

Propongo quindi il seguente ordine del giorno, che ho l'onore di deporre sul banco della Presidenza, così concepito:

«La Camera prende alto delle dichiarazioni del Ministero, intese a stabilire che col riordinamento dell'amministrazione nette provincie meridionali si proponga di diventarne effettivamente responsabile; ed invitandolo a presentare al Parlamento tutti gli atti legislativi promulgati in quelle provincie dai governi dittatoriali e dalle luogotenenze, perché possano essere esaminati, passa all'ordine del giorno.»

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Presidente. Debbo far noto alla Camera che furono deposti sul banco della Presidenza altri tre ordini del giorno. (S( ride)

Il primo è del deputato Pantaleoni, sottoscritto pure dai deputati Sacchi, Marliani, Pepoli C, Borgatti, cosi concepito:

«La Camera, soddisfatta delle spiegazioni date dal Ministero nelle interpellanze mosse sopra la condizione dell'ex-reame di Napoli e della Sicilia, ed insistendo sopra la pronta applicazione delle misure dal Governo promesse, passa all'ordine del giorno.»

L'altro è del deputato Emerico Amari; esso è in questi termini:

«Invitando il Ministero a presentare al Parlamento, per essere discusse ed approvate, secondo le forme costituzionali, tutte le leggi organiche e non di stretta urgenza pubblicate in Sicilia dalla luogotenenza, e tutti gli ulteriori mutamenti organici che potrebbero riguardarla, passa all'ordine del giorno.

Un altro del deputato Castellano è del seguente tenore:

«La Camera prende atto delle dichiarazioni del Ministero, intese a stabilire che col riordinamento dell'amministrazione nelle provincie meridionali si proponga di diventarne effettivamente risponsabile; ed invitandolo a presentare al Parlamento tutti gli atti legislativi promulgati in quelle provincie dai Governi dittatoriali e dalle luogotenenze, perché possano essere esaminati, passa all'ordine del giorno.»

Il deputato Valenti ha facoltà di parlare.

Valenti. Mietuto è il campo; a me non resta che raccoglierne poche spighe. Ma, poiché colle risposte gentili e cortesi che all'onorevole ministro dell'interno è piaciuto rendere alle interpellanze di Massari io non posso soddisfare alle grida di dolore che mi vengono dal mio paese e che si riepilogano in queste parole: «sempre soffrire, sempre! come vi diceva, andrò raccogliendo queste poche spighe ed accennerò a brevi fatti particolari, d'onde emergono i mali delle nostre provincie.

Il primo fu un certo sistema di esclusività che piacque al Governo di luogotenenza di osservare, sistema crudele, iniquo, in quanto che il Governo doveva incarnarsi nella rivoluzione, doveva dirigerla, portarla a compimento, perché la rivoluzione aveva tese le braccia al Governo che aveva invocato, proclamando Vittorio Emanuele, Re Galantuomo, Re di tutta Italia.

Si volle uccidere la rivoluzione, si vollero oppressi, vilipesi, bistrattali i suoi rappresentanti; ed il popolo, che vide afflitti e perseguitati i suoi apostoli, cominciò a perdere la fede nel Governo.

Questa fu la vera sorgente dei nostri mali.

Signori, convengo che non era utile fare un'esclusività degl'impieghi, ma conveniva pure ricordarsi della sentenza del Machiavelli, il quale sentiva ben altamente nelle cose di Stato, e diceva che nei mutamenti politici conviene conservare del vecchio tutto quello che è buono, rigettare il cattivo; che quando si vuol salire conviene dallo scalino di sotto passare a quello di sopra. Al contrario la nostra luogotenenza volle rimanere all'uscio e credette d'essere arrivata in su. Non ispetta a me d'accertare tutte le pecche di questo modo di governo. Non incolpo di ciò le persone onorevolissime che erano a capo degli affari, ma il solo sistema che si seguì. Provarono le nostre provincie il flagello dei governatori, poiché pareva che si spedissero a bella posta i più tristi, ed io ricorderò con orrore alla Camera che è governatore un tale che era intendente della mia provincia, e si trovava intendente perché cognato d'Aiossa. (Oh Oh!)

Voci. Nominatelo!

Valenti. Englen.

De Blasiis. Posso assicurare che Englen non è parente in alcun modo di Aiossa.

Presidente. Il signor De Blasiis non ha ora facoltà di parlare; potrà rispondere dopo

Continui il deputato Valenti.

Valenti. Che se per avventura talvolta si urtò nel buono, e non è difficile urtarvi, ed alcun governatore incontrò l'aggradimento di qualche provincia, fu subito dismesso o traslocato.

Ne abbiamo esempi recentissimi. Vi parlo in nome della mia provincia, in nome di 300,000 abitanti dolenti di vedersi governati da un pascià a tre code (Si ride), quale, avendo fatto mala prova in Aquila, fu mandato a Bari; e là costui sospende a suo piacere i sindaci; per lui non vi è Statuto, per lui non vi è governo centrale.

Vi citerò un solo fatto. Una delle prime città della nostra provincia, e forse la città più florida, è Bitonto. Il giorno 18 febbraio avveniva un tumulto. Una mano di facinorosi assaliva le case dei benestanti. La guardia nazionale non si sentiva forte, perché disarmata e disorganata, ed invocava le guardie nazionali delle vicinanze. Accorrevano 100 carabinieri da Bari. Si giungeva ad arrestarne 28, ed a frenare il tumulto. Ebbene, sopravviene il governatore e pone in libertà i 28 carcerati. (Movimento)

Posti costoro in libertà, cominciarono a gridare: abbasso il municipio! abbasso la guardia nazionale! Si dimette il municipio e la guardia nazionale; e quel paese, che è la perla della provincia, si trova ora in balìa di quei 28.

Signori, io potrò depositare al banco della Presidenza, quando si voglia, un centinaio e più di lettere, che mi sono venute da quella provincia, e documenti ufficiali anche venutemi dai sindaci e dai decurionali.

Altra piaga, cui gli onorevoli preopinanti accennarono, è la disfatta delle finanze. Eppure, o signori, noi sotto il Borbone pagavamo i medesimi pesi che paghiamo adesso. Il Borbone manteneva un'armata di 120,000 uomini, manteneva una tremenda camarilla, manteneva un milione di spie, poneva fondi in tutti i banchi all'estero, dotava larghissimamente la figliuolanza numerosa, e tuttavia il tesoro era fiorente. Ma perché? Perché le leggi in tal qual modo si osservavano; perché prima rendita delle finanze erano le dogane. Ma invalse il sistema di voler abrogare le leggi, e ritenere gli impiegati, mentre presso noi ottime erano le leggi, tristissimi quelli che ponevan mano ad elle; ed ora il contrabbando si fa in dogana, ed è fallita perfettamente la rendita dei dazi indiretti.

Posso parlare del mio paese che è uno dei più commercianti della provincia; il mio paese dava all'incirca 120 mila ducati l'anno al Governo; ora dal mese di ottobre non ha dato un obolo; e questo perché? Per tener una caterva infinita di impiegati inutili, demoralizzati, i quali meriterebbero, se non altro, una traslocazione, che pur frutterebbe qualche cosa nel tempo necessario ad acquistare nuove relazioni.

Vi dicevano i preopinanti, e ve lo accennava l'onorevole Brofferio, che il popolo grida: pane e lavoro I Bene ha risposto il ministro de' lavori pubblici; ma, signori, il ventre non patisce dilazione, il popolo non si satolla colle parole, perché la fame è reale per la mancanza del raccolto di quattro o cinque anni. Mi direte: mancano i mezzi; e io consentirò con voi; ma non si beffa la fame di un popolo.

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TORNATA DEL 3 APRILE

Ora la luogotenenza prometteva ai comuni un prestito di sei milioni, perché eseguissero opere pubbliche a loro piacimento e poi andassero indennizzando il tesoro via via; quando i comuni ebbero fatta la richiesta di questo prestito, non se ne parlò più; si rinnovarono le inchieste, i clamori, le petizioni, i pianti; furono mandati nella mia provincia, che è di quasi 600 mila abitanti, 32 mila ducati.

Ora, 32000 ducati, divisi in 54 comuni, danno 600 ducati circa per comune. Io vi domando: il mio paese ha 25000 abitanti; a che cosa si ripara con 600 ducati, quali lavori si possono fare?

Ma ciò non basta. Si posero delle condizioni all'esazione, alla natura dei lavori, ai mandati; insomma si addoppiarono talmente le difficoltà, che credo non vi sia un comune che ne abbia approfittato.

Perché, domanderò al ministro onorevolissimo dei lavori pubblici, perché le strade ferrate non si fanno in tutti i punti e nelle Puglie specialmente? La popolazione non abbisogna di parole; i mutamenti morali, i mutamenti di leggi si sentono dalla classe colta; le classi basse li godranno in seguito, ma ora hanno bisogno di pane e di lavoro, anche per un pensiero già vagheggiato da altri, ed è quello di porre ostacolo in tal modo alla malvivenza.

Ricordatevi, o signori, di far bene; ricordatevi che simbolo del nostro ex-reame è un cavallo sfrenato, ma non un cavallo indomabile; vale a dire un cavallo come era Bucefalo, che sdegnavasi e sprangava calci quando un uomo volgare voleva cavalcarlo, ma cedeva ad Alessandro, perché Alessandro aveva indovinato che era la sua ombra che gli faceva paura. Togliete adunque l'ombra, ed il cavallo non sarà più sfrenato, sarà con voi; perché, ripeto, il voto dei Napoletani è l'unità italiana sotto lo scettro costituzionale di Re Vittorio Emanuele; e se noi, che siamo qui per istabilire e raffermare quest'unità ed indipendenza d'Italia, nulla avremo fatto di positivo, oh! (perdonate, o signori) ricordiamoci che sopra di noi peserà il ghigno del nemico, peserà lo scherno dell'Europa, peserà il rimprovero degli elettori nostri, il pianto eterno dell'Italia, la maledizione di Dio! (Bravo!)

La seduta è levata alle ore 5 3|4.

Ordine del giorno per la tornata di domani:

1° Seguito della discussione sulla interpellanza relativa alle condizioni delle provincie napolitane;

2° Interpellanza del deputato Rasponi al ministro dei lavori pubblici circa le ferrovie delle Romagne e delle Marche;

3° Discussione del progetto di legge che proroga i termini fissati per l'affrancamento delle enfiteusi nell'Emilia;

4° Svolgimento della proposta di legge del deputato Ricciardi per l'incameramento dei beni di manomorta e de' luoghi pii.

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

TORNATA DEL 4 APRILE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE RATTAZZI.

SOMMARIO. Omaggi. - Parole del deputato Massari in difesa di un funzionario nominato ieri dal deputato Valenti. =. Seguito della discussione intorno alle interpellanze dei deputati Massari e Paternostro sulla condizione delle provincie meridionali - Discorso del deputato Ferrari, e sua proposizione d'inchiesta parlamentare. - Presentazione di due disegni di legge del ministro per l'interno:per sussidio alla società del tiro nazionale, e per la durata del servizio dei corpi della guardia nazionale. - Discorso del deputato Scialoia, e suoi ragguagli sulla situazione - Risposta del deputato Pepoli Gioachino al deputato Ferrari - Discorsi dei deputati Petruccelli, Nicolucci e Bruno - Spiegazioni chieste, e date - Incidente sulla chiusura della sione proposta dal deputato Gallenga - Discorsi dei deputati Bertolami e Amari sulle cose di Sicilia.

La seduta è aperta all'una e mezzo pomeridiane.

Tenca, segretario, il processo verbale della tornata precedente, il quale è approvato.

Giciiiucci, segretario, il seguente sunto di petizioni (1):

6956.17 cittadini di Sinigaglia, provincia di Ancona, reclamano contro il decreto emanato dal regio commissario delle Marche il 5 gennaio prossimo passato intorno alla soppressione delle corporazioni religiose, e fanno instanza perché venga dichiarato nullo e come non avvenuto.

6937. Gl'impiegati addetti al corpo del genio civile in Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, domandano che sia loro computato pel diritto di pensione tutto il tempo del servizio prestato antecedentemente al 15 febbraio 1860, prelevando dal rispettivo loro soldo quanto basti a indennizzare il pubblico erario delle ritenute non rilasciate.

6938.11 municipio di Piazza, capocircondario in Sicilia, provincia di Caltanissetta, reclama contro la circoscrizione elettorale sancita colla legge 17 dicembre 1860, per cui quella città venne aggregata all'ufficio principale di Caltagirone, provincia di Catania, e disgiunta dai comuni del proprio circondario, e chiede si proceda alla riforma della tabella elettorale.

6939. Greco Vincenzo, da Cerciano, provincia di Calabria Citeriore, sottopone al giudizio della Camera uno schema di legge architettonico, diretto a formare un corpo artistico di ponti e strade.

6940.90 proprietari ed abitanti nelle borgate Balma, Cornetti e Polpresa, frazioni del comune di Viù, provincia di Torino, chiedono di essere indennizzati della perdita dei diritti di pascolo e taglio dei boschi, dei quali usufruivano quelle borgate da tempo immemoriale.

6941. Bertoldo Gabriele, di Lentie, comune del distretto di Lanzo, lamentando la mancanza d'istruzione in quelle popolazioni, propone che il ginnasio privato instituito dal teologo Giacomo Bricco in Martassina d'Ala sia traslocato nel fabbricato dei Cappuccini in Lanzo, ed eretto in collegio pubblico.

(1) Indicazione delle petizioni state trasmesse alla Camera, ma mancanti dei necessari requisiti:

Bartolini dottore Guglielmo, di Capolivieri.

Bertuglia Vito, caporale furiere nella guardia nazionale di Mazara.

Brusco Nicola, di Ravenna (Molise).

Biondi Vincenzo, di Mirabelle

Blumetti Ettore, di Basilicata.

Cinque Carlo, ispettore di polizia.

Colarusso Pasquale, di Napoli.

Tre abitanti della provincia del Chiablese (Savoia).

Il clero di Agnone.

Il clero di Reggio (Calabrese).

De Virgilio Stefano, sergente furiere nell'esercito meridionale.

De Riso Ippolito, di Calabria.

De Grandis Gioachino, cancelliere sostituito di Matera.

De Alexandria Cesare, di PalombaTM (Sabina).

Emanuele Pasquale, di Valido riga (Calabria Ulteriore seconda).

Foselli Giovanni, di Lavlano.

Franchi Giacomo, di Chieti.

Frate Bonaventura, di Roccamoricc.

I capi consoli dei facchini di Genova.

Fissurde Giosuè, di Calabria.

Gelsi Gaetano, di Capolivcri, capitano in ritiro.

Greco Vincenzo, di Cotrone.

Laporta Tommaso, di Catanzaro, giudice di circondario.

Leone Nicola Vincenzo, di Castelbaronia.

Lucchini Ambrogio, furiere nell'esercito meridionale.

Loria Giovanni, di Pedavoli (Calabria Ulteriore prima).

Mariano Giuseppe, di Cannitello (Calabria).

Mita Giovanni, di Brindisi.

Sessantasette militi di San Biase.

Monaco Giuseppe, di Palena (Abruzzi).

Poletti Tommaso, di Torino, exmilitare.

Paolone Nicola Maria, di Santo Stefano (Molise).

Procopio Pasquale, da Stefanaconi (Catanzaro).

Povigna Carlo, maestro di metodo.

Perrini Domenico, di Monteleone.

Presterà Francesco, di Monteleone.

Romeni Giuseppe, da San Paolo a Monte.

I ricevitori generali e distrettuali, ecc.

Stefani Paolo, di Borgo a Mozzano.

Sarzana Salvatore, ricevitore di Corleone,

Sacco Bruno, di San Mango (Calabria Ulteriore seconda).

Scardamaglia Francesco, di Nicastro.

L'ufficio topografico militare di Napoli.

Torchia Francesco Zaverio, di Serrastretta.

Diciotto abitanti di Valsassina.

Nove cittadini di Vasto.

Valentino Zaverio.

Zelasclii Pietro.

Grazi Pasquale, di Valdichiana in Toscana.

Germano notaio Vincenzo, di Pedaroll, provincia di Reggio Calabria.

TORNATA

DEL 4 APRILE

CANDENTE. Pregherei la Camera a voler dichiarare l'urgenza per la petizione del circondario di Teano, di cui si è letto il sunto in una delle precedenti tornate, portante il numero 6896.

Presidente. Il deputato Cardente propone che la petizione presentata dal circondario di Teano, portante il n°6896, sia dichiarata d'urgenza.

Se non vi sono opposizioni, s'intenderà ammessa l'urgenza.

(È ammessa. )

Presidente. Rabbene Davide, da Parma, fa omaggio di cinque esemplari di una memoria intorno alle condizioni della statistica nell'Italia centrale e delle Commissioni di statistica nell'Emilia.

Galletti Giuseppe, Trompeo Paolo, compilatori, e Botta Giacomo, editore, fanno omaggio dei tre volumi della ristampa degli Atti del Parlamento Italiano, contenenti le Discussioni dei due periodi della Sessione scorsa 1860 della Camera dei deputati, e i Documenti tanto della Camera che del Senato del regno durante la stessa Sessione.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLE INTERPELLANZE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLITANE E SICILIANE.

Presidente. L'ordine del giorno porta il seguito della discussione alle interpellanze sulle cose di Napoli e di Sicilia.

Massari. Domando la parola per una semplice dichiarazione.

Nella tornata di ieri l'onorevole Valenti fece allusione, e non in termini di lode, ad un personaggio che amministra la provincia della quale egli ed io abbiamo l'onore di essere rappresentanti. Non entro nei particolari dei fatti, poiché li ignoro; mi preme soltanto di assicurare la Camera, per debito di giustizia e di amicizia, che il personaggio a cui l'onorevole deputato Valenti ha fatto allusione, è, per probità di carattere, per elevatezza di sentimenti, e per devozione alla causa nazionale, superiore ad ogni eccezione.

Io ho tanta fiducia nella buona fede dell'onorevole deputato Valenti, che sono persuaso che, qualora egli avesse conosciuto quel personaggio come lo conosco io, si sarebbe astenuto dal parlarne come ha fatto.

Valenti. Chiedo la parola per un fatto personale.

Godo che l'onorevole Massari, nella delicatezza del suo carattere, abbia preso le parti dell'amico lontano; ma egli deve pur convenire con me che, per quante doti lodevolissime si abbiano gli amici nostri, certamente essi non sono infallibili; epperò io domando al Ministero un'inchiesta sulle cose da me dette e su altre da dire, quando la Camera deciderà che io possa essere interrogato.

Presidente. La parola è al deputato Ferrari.

Ferrari. Signori, quando ieri io ho inteso le risposte dell'onorevole ministro dell'interno alle interpellanze fattegli sulle provincie meridionali, io fui compreso di un sentimento di profonda tranquillità; la calma scese nel mio cuore, ed io mi sentii avere in uno stato regolarmente costituito, direi quasi antico, e guardandomi attorno io credevo che queste colonne invece di essere di legno fossero di marmo, e che queste mura invece d'essere di calce fossero di bronzo.

Mi sembrava poi che noi continuassimo una discussione ereditaria, cominciata da più secoli dai nostri predecessori immaginari. (Ilarità)

I consiglieri della Corona parlavano della situazione della Lombardia, che trovavano felice; degli abitanti dell'Emilia, i quali si dicevano contentissimi dell'attuale Governo; la Toscana era considerata come la più beata di tutte le regioni; e quanto al cessato regno delle Due Sicilie, le interpellazioni davano, per cosi dire, risalto alle risposte dei consiglieri della Corona, e si vedeva che ad ogni disordine era stato preparato un rimedio, e che ad ogni reclamo delle più lontane parti del regno aveva risposto un pensiero di protezione; in una parola noi eravamo forzati ad ammirare l'ignorata previdenza del nostro Ministero.

Ma, o signori, noi siamo riuniti da ieri; noi ci conosciamo appena; noi siamo ancora frementi del giubilo inaspettato per moltissimi d'incontrarci in questo recinto; noi sappiamo che da quattro secoli simile riunione non fu mai data all'Italia, e che conviene risalire ai tempi di Cola da Rienzo, tempi tumultuosissimi, per ritrovare un'Assemblea che a questa si rassomigli. Noi non siamo sicuri del luogo dove ci riuniremo domani, e noi siamo giunti qui rappresentanti di che? D'una rivoluzione, svariala, piena d'incidenti; d'una rivoluzione a cui l'amministrazione del Piemonte ha dato un aspetto regolare ed una specie di calma italiana; ma che in fondo ribolle quanto quelle di Parigi.

Ed appena, diffatti, aveva cessato il signor ministro di parlare, che alcune voci del mezzodì protestavano in modo concitato contro la pretesa tranquillità di quelle provincie; ed all'intendere quegli accenti, allora si mi sono sentilo non in una regione fantastica, non in un recinto improvvisato, ma in mezzo alla nazione, tra i dolori dell'Italia.

Ne nasce che appena ora ardisco io prendere la parola, perché mi sembra quasi di defraudare la Camera ritardandole d'intendere veci più autorevoli, altri oratori del mezzodì, i quali le apportino nuove rivelazioni. Però, invitato dallo stesso signor Maresca che mi cede la sua volta, io parlerò per ciò solo che, solidari tutti nelle sorti nostre, lo Stato delle Due Sicilie importa ai Lombardi, ai Toscani, agli Emiliani, ai Piemontesi, quanto quello dello stesso Piemonte, della stessa Lombardia, della Toscana stessa e di tutte le altre provincie. La rovina di Napoli e di Palermo ricadrebbe sopra di noi; e per istabilire le diverse risponsabililà, per rischiarare ogni concetto, io desidero che sia fatta una formale inchiesta, un'inchiesta parlamentare sulla situazione del cessato regno dei Borboni.

Onde appoggiare questa mia mozione, permettetemi due parole di storia contemporanea.

D'onde mosse questa discussione? Dessa altro non è, se non la continuazione di un altro dibattimento, che fu l'ultimo della passata Legislatura.

Trattavasi allora di sapere se si devesse fare l'annessione immediata ed incondizionata delle terre 'meridionali, e, al dire del presidente del Consiglio, urgeva che l'annessione fosse fatta, che fosse immediata, che fosse incondizionata. E per quali ragioni, signori? Per ciò solo, diceva egli, che eranvi germi di disordini, che la dittatura di Garibaldi poteva

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- SESSIONE DEL 1861

Ecco quattro mesi passati; voi non potreste, signori, accusarci, accusar nessuno (non parlo di me, che non conto) di avere interrotto l'opera vostra; i dittatori, i prodittatori, i tribuni, i volontari, tutti scomparvero, tutti vi lasciarono vuoto il terreno; nessuna opposizione; voi avete trionfato senza contrasto alcuno; sia indifferenza, sia astensione disdegnosa, sia vostra felicità, voi trionfaste nelle stesse elezioni. Ma che cosa avete fatto? In qual modo, signori ministri, avete voi profittato di tante concessioni? Non intendo rivelarvi nuovi fatti, e, se ne conoscessi, li tacerei. Non ispetta a me il raccontare, il rivelare; a me spetta l'occuparmi della solidarietà italiana che emerge in questa quistione, il dedurne le conseguenze, e risulta dagli oratori più favorevoli al Governo che avete presa la terra senza redimerla.

Trattasi dei municipi? Essi sono ancora adesso presso a poco nella situazione in cui erano lasciati da Garibaldi.

Trattasi della guardia nazionale? Io non voglio insistere; in quattro mesi, voi l'avete confessato, essa trovasi ancora disarmala, ancora disorganizzata.

Parliamo del popolo. Vi siete voi fatti amare? Perché l'amore, in fondo, è la base dei troni, la base degli Stati (Segni di assentimento a sinistra), e sorgono gli Stati grazie alla forza creatrice dell'amore. Siete voi amati? I vostri governatori, quelli voglio dire nominati dal Governo di Napoli per le Provincie, sono stati rinviati; voi stessi siete stati forzati di mutar più volte i vostri luogotenenti; i loro Consigli furono più volte modificati, e, senza entrare nell'esame di simili mutazioni, la vostra stessa mobilità attesta le antipatie da voi seminate.

Io non vi parlerò dei briganti, dei ladri, ed intendo benissimo che il furto sia delitto assolutamente estraneo alla politica. Ma, se nelle vie stesse di Napoli i ladri fanno fuoco contro la guardia nazionale al Calvario, se il procaccio per Cosenza è assalito, se numerosi assassini attristano le floride città della Sicilia, se la sicurezza pubblica trovasi minacciata, se il vostro Governo è si impotente che il brigandaggio pesa oramai come un potere dello Stato, a chi la colpa? A Garibaldi forse?

Havvi di più. A Napoli ed a Palermo le dimostrazioni si succedono ad ogni tratto; saranno forse colpevoli, ma sono esse reclami; avranno forse torto, ma esse ci mostrano il Governo separato dal popolo, avaro di provvide misure, non seguito dalla folla, non amato dalle moltitudini. Al 27 di marzo potevasi amichevolmente congedare una dimostrazione di marinai a Palermo, ma quella di Napoli, di cui parlava ieri l'onorevole Miceli, si sciolse essa di buon grado? Rispondeva il signor ministro dell'interno che i cento garibaldini avevano tumultuato. Ma sa egli che avevano atteso tutto il giorno, dalle 9 del mattino alle 3 pomeridiane, per avere un soccorso? Sa egli che, benché affamati, furono respinti feriti colle baionette?Tale era il vostro diritto, voglio dire la vostra legge; sta bene: reprimete, conculcate. Ma, onorevoli signori, se, invece di cento, cinquecento fossero insorti, e se, invece di cinque, centocinquanta fossero stati i feriti, il trionfo sarebbe rimasto ancora alla legge; ma questa legge non sarebbe stata amata, sarebbe stata odiata. Che, se progrediste in questo modo, a capo di pochi mesi che cosa diventerebbe il regno? Amaramente illusi, attendevano gli infelici volontari che si facessero arruolamenti per nuove battaglie, e qui pure il ministro rispondeva giustissimamente: non v'hanno altri arruolamenti fuorché quelli riconosciuti dalla legge, fuorché quelli della guardia mobile e dell'esercito regolare.

A meraviglia; ma l'anno scorso se ne fecero altri arruolamenti, tra la pubblicità ed il segreto, autorizzati e non autorizzati, e se adesso, quando parlate, chi vuol cingere la spada non vi prende sul serio, ancora una volta, di chi è la colpa?

Non parlerò delle finanze; nulla aggiungerò a quanto disse l'onorevole Valenti sul contrabbando organizzato, sulla cessazione degli introiti dei dazi. Ma qui ancora l'impaziente vostra signoria non scorgesi forse colpevole? Il giorno in cui colla forza dell'amore Garibaldi giungeva a Napoli non era forse la rendita al 112, mentre adesso tocca appena l'80? (Movimento in senso diverso)

Si parlò di disordini della stampa; frase impropria, giacché il disordinare è primo e sacro diritto della stampa, dove la libertà deve essere ed è l'unico, il vero freno della licenza. Pure esaminiamo questi disordini.

I giornali di Napoli accusano uomini onorevolissimi di avere dilapidate le finanze del cessato regno; al leggerli, si direbbe che gli uomini più amici del Ministero sono stati i più infedeli alla più volgare legge dell'onore; ed io sono lungi dall'associarmi a simile polemica, fosse pure diretta contro i miei propri avversari. Ma, o signori, l'anno scorso le stesse accuse di dilapidazioni, di furti, accuse ignobili, accuse infami, non erano esse prodotte qui nell'alta Italia contro i più fidi amici di Garibaldi? E da chi? Da giornali officiosi e, direi quasi, ministeriali, se potessi supporre simili complicità tra il Ministero e giornalisti troppo screditati.

Nella questione poi degli impiegati, con mia meraviglia, tutti i partiti napolitani rimproverano al Ministero di aver conservati, premiati, guiderdonati i borbonici, i servitori dell'antico Governo. E siccome non siete amati, siccome siete poco considerati, io devo concludere che, prestando appoggio e sostegno agli antichi servitori della corona borbonica, voi fate una reazione invece di una rivoluzione. Giunti coll'amore, voi volete imporvi colla forza.

Scusavasi il signor Minghetti adducendo che esageravansi le critiche, che calunniavansi i suoi governatori, che il falso pervertiva il vero stesso dei reclami. Il falso! la calunnia! E non sapete voi che la calunnia stessa é un'arma contro un Governo odiato? Non ci sarebbe facile il dimostrarvi che l'Austria fu calunniata, ma era detestata, ed era giustamente respinta? Terribili, o signori, sono le leggi dell'odio; esse vi precipitano di abisso in abisso, la ragione stessa nulla vale contro i suoi furori; perciò io desidero un'inchiesta fatta dai Parlamento, senza offesa, senza biasimo di nessuno; io vorrei che un'esatta ricerca fatta da testimoni ufficiali misurasse i progressi dell'anarchia, e ci mettesse in grado di ritornare all'istante primo in cui Garibaldi iniziava coll'amore l'unione dell'alta colla bassa Italia.

Ma quali provvedimenti proponete voi a rassicurare i rappresentanti del mezzodì? Voi ci apprendete che oramai la luogotenenza avrà quattro segretari dipendenti dal Ministero. Che mi cale che vi siano quattro o dieci segretari? Dipendenti dal signor Nigra o dal signor Minghetti, la risponsabilità, la politica non è forse la vostra? I vostri luogotenenti non sono forse i vostri amici, o, come il signor Farini, una parte di voi stessi? Non voglio neppure seguirvi quando mi parlate o di telegrafi rinnovati, o di Codici poco stimati, o di particolari amministrativi messi innanzi, quasi a mascherare la rivoluzione contromandata del mezzodì. Una sola parola mi scosse e mi punse quasi fosse uno strale, e benché io mi senta in qualche modo associato al Ministero finché combatte il pontefice e l'imperatore, quando l'intesi assicurare, promettere che manderebbe buoni gendarmi nel mezzodì, che

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TORNATA DEL 4 APRILE

E che, signori, promettete baionette da Torino nell'antico regno? A qual fine? Per fare la polizia? Ma non vi accorgete dell'enorme vostro controsenso? La bassa Italia si offre, si dà, vuol essere di Vittorio Emanuele, si sottomette, sanziona la propria dedizione con un voto unanime, e credete che abbia bisogno di gendarmi spediti dal Piemonte? Ogni paese che non sia artificialmente scompigliato dalla mala direzione del Governo, non possiede forse io se stesso i mezzi per fare la propria polizia? Il ladro, l'assassino non sono forse eccezioni rare e mostruose?

Io temo che, a vostra insaputa, voi non vogliate fare la guerra all'antico regno, proteggendo impiegati antipatici, inviando governatori poco graditi,e confidandovi in truppe

Il cui numero non supplirà mai all'affezione del popolo. E il mio timore si aggrava quando considero le condizioni storiche delle Due Sicilie, la cui tradizione si spinge assai più lungi nella notte dei secoli che non giunga la real Casa di Savoia.

Più secoli prima di Beroldo il mezzodì formava un sistema separato, co' suoi duchi longobardi frammisti a' suoi duchi bizantini; poi i Normanni fondavano il regno, quando i conti di Savoia appena avevano un nome; poi sotto Carlo d'Angiò rigeneravasi il mezzodì, sottoposto al nuovo centro di Napoli. E Napoli regnava poscia sulle Due Sicilie come Parigi sulla Francia, e riproduceva passo passo tutta la storia della centralizzazione parigina, e come la capitale francese aveva le sue guerre contro le provincie, le sue vittorie nefaste, i suoi sanguinosi trofei, e, in una parola, è dessa ancora la terza capitale d'Europa.

Che il regno fosse ultimamente caduto in mani colpevoli, che i Borboni l'avessero avvilito, che dalla rivoluzione francese in poi i Borboni, sforzati di resistere all'esterno a tutte le rivoluzioni, resistessero nell'interno a tutti i moti, a tutte le aspirazioni le più generose; che questo perpetuo sforzo, loro imposto dall'Europa progrediente, li condannasse a una condotta criminosa; che questa condotta corrompesse poco a poco le moltitudini; che la corruzione si estendesse dalla capitale alle provincie; che la Sicilia fosse da questa tirannide invasa, d'accordo; ma non erano infelici gli uomini del mezzodì di essere Napoletani o Siciliani, ma bensì erano infelici di essere sotto questa esecrata pressione! (Benissimo.')

Quindi, quando giunse Garibaldi, il regno svanì, i Borboni fuggirono da Napoli, l'Europa fu attonita meno delle vittorie di Garibaldi che della diserzione dell'esercito napolitano, e gli antichi regnicoli furono i più felici tra i popoli, vedendosi subitamente ammessi al consorzio dell'Italia liberata. E che cosa volete voi fare adesso? Ve lo domando, o signori, a nome della rivoluzione proclamata, a nome dell'unione nazionale, a nome dei popoli che si sono dati a Garibaldi ed al Re sotto l'impulso dell'amore! Che volete fare dell'antichissima unità della bassa Italia? Volete voi spezzarla in più regioni? seminare la discordia nelle provincie meridionali? fare in modo che si rivoltino contro il centro di Napoli, e smembrino quanto è unito dai secoli? Voi vi siete impegnati io un'opera impossibile!

Io avrei desiderato che le Due Sicilie si dessero con riflessione, con maturità di consiglio, che l'annessione fosse differita, e che voi foste ora innocenti di tutti i mali.... (Mormorio)

Presidente. (Interrompendo) Prego l'oratore di ricordare che l'annessione non può più essere messa in discussione, poiché è un fatto compiuto, e con una legge del Parlamento.

Ferrari. Ed io l'accetto, e se io vi ho resistito allora, se ebbi anzi il dolore di essere quasi solo nell'oppormi al voto generale, non era per negare né l'annessione in massima, né il dominio a Vittorio Emanuele, o la ricostituzione generale della Penisola col mezzo di un'unica Costituzione, ma era solo perché il Ministero, da me combattuto, esigeva da me un voto di fiducia, esigeva un'annessione subitanea, un'annessione incondizionata, un atto nel quale io prevedeva gli attuali disordini; ed io voleva, o signori, come oggi ben lo vedete, riservare al Governo italiano tutti gli allori, meno le spine della rivoluzione.

Gli uomini che avevano incominciata l'opera dovevano compierla: ne conoscevano i segreti, erano seguiti dalle moltitudini, tutto condonavasi alle loro intenzioni; in essi l'irregolarità stessa dei mezzi concorreva alla regolarità della rivoluzione. Ma i ministri,qui presenti,parlavano cornei servitori di un'antica corona; l'ordine meccanico del Governo preoccupava anzitutto; quindi hanno rispettato i borbonici, uomini anch'essi di governo; quindi hanno riconosciuto i diritti acquistati nel servizio dell'odiata dinastia; quindi hanno disconosciuto i diritti opposti della rivoluzione, e ne nasce che adesso le feste di Napoli più non sono quelle di Torino.

Dove la Camera me lo conceda, mi riposerò alcuni istanti.

(Succede una pausa di pochi minuti)

Se il regno d'Italia, costituito dalle annessioni anteriori a quella delle Due Sicilie, fosse stato ordinato; se il tempo avesse potuto consolidare quest'opera; se noi fossimo usciti da quello stato sempre irrequieto e febbrile, che chiamasi provvisorio; se, in una parola, nessuna discussione fosse stata immaginata, né di buona, né di mala fede, sulle leggi, sulle capitali, sulla preponderanza di questa, piuttosto che di quella provincia; il pericolo che ci viene dalle provincie meridionali sarebbe doloroso sì, ma non micidiale, perché un regno antico, rassicurato nella sua base, validamente sussidiato dall'esercito suo, potrebbe far fronte all'insurrezione delle sue lontane provincie. Ad ogni regno, d'altronde, è concessa la forza di commettere qualche errore; guai allo Stato che fosse condannato all'infallibilità sotto pena di morte!

Ma le nostre leggi sono provvisorie, le nostre annessioni recentissime; nello spazio di soli due anni lo Statuto è stato violato nel 1859 dai pieni poteri consentiti al Ministero, e nel 1860 dalla riduzione subitanea che diminuì della metà il numero dei deputati; pochi giorni sono il presidente del Consiglio ci prometteva la completa separazione del civile dal religioso, il che implica, se mal non mi appongo, la libertà dei culti.

Ora, se in mezzo a tali incertezze ci giungesse una disgrazia nelle provincie meridionali, quale sarebbe la nostra sorte? Senza dubbio le provincie dell'alta Italia e del centro sono fedeli e rassegnate; decise ad una lotta mortale contro gli antichi Governi, esse non si scosteranno mai dalla corona che le protegge. Se il signor presidente del Consiglio conta su questi loro sentimenti non s'inganna punto; ma se volesse dedurne che accettano l'amministrazione sua interiore, che sono contente delle leggi, dei regolamenti, della burocrazia nuovamente loro imposte dal regno, che considerano l'attuale regime cometa meta dei loro desiderii, che basta loro l'essere nel regno per essere felici, l'errore suo non potrebbe essere più grande. Si attende, si comprimono i fremiti, si dissimulano le impazienze, perché tutto viene differito al giorno sperato della liberazione di Roma e di Venezia.

Spiritosamente il signor conte Di Cavour rappresentò nei passati giorni la mia critica del suo governo con colori sì strani, che, in questo momento in cui il soggetto mi conduce

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Lo ripeto, la Lombardia attende, o se pure vi chiede una diminuzione, pagherà sulle imposte non solamente il 19 per cento, ma anche il doppio, alla condizione che voi facciate cose grandi. E, perché le faceste, essa vi ha spinto nell'Italia centrale; dimentichi di sè stessi, i suoi figli volevano altri fratelli. Simili poi ai Lombardi, i Toscani vi volevano a Palermo, e la Sicilia esigeva che Garibaldi andasse a Napoli, il che vi pone ora nella necessità di parlarci di Roma. Ma finora la vostra corsa a traverso la Penisola ha dato lo scambio a tutti i desiderii, e se giungendo prossimamente sul Tevere voi potrete sfuggire a moltissime critiche, non crediate che i desiderii dei popoli o le censure de' capi si rilucano ad alcuni reclami amministrativi, a misere particolarità di finanza o di giurisprudenza: i gravami che vi attendono sul Tevere sono quelli delle autonomie.

Se nella Francia, sì antica, sì stretta nella sua unità, le Provincie non hanno cessato di ribellarsi ad ogni rivoluzione fino negli ultimi tempi del 1789, al certo le provincie italiane, da secoli indipendenti, non dimenticheranno d'un tratto la propria autonomia.

Questa non si riduce né all'aspirazione di una bastarda indipendenza, né al vano decoro di una luogotenenza ondeggiante tra vecchie tradizioni e nuove instituzioni; l'autonomia riassume il potere ereditario di cui è dotata ogni terra abituata a reggere sè stessa, potere che si sviluppa all'infinito, che trae la sua origine dal passato il più remoto, che contempla le sue creazioni possibili nell'avvenire più lontano.

Io fo professione di non occuparmi qui dei reclami attuali e latenti delle autonomie italiane, che possono essere per sè frivoli come il reclamo di Elena fatto dai Greci; ma tutte le Provincie si agitano, l'antica vita sussiste nelle antiche capitali e tutte attendono il gran giorno di Roma. Quanti problemi di geografia, di storia, di morale, di religione', avete voi accettati in quest'ultimo problema!

Confido nella Francia che ci ri spanni era forse le rapide cadute, sì frequenti nella storia nostra. La Francia ha voluto la nostra rivoluzione, i suoi Governi volontariamente od involontariamente hanno dovuto soccorrerci; per lunghi anni hanno data ospitalità ai nostri esuli. Ogni fuggente che partiva o da Torino, o da Firenze, o da Modena, trovava amici, ospitalità, pensioni, e fino gl'impieghi aperti nella grande nazione, la quale, benché magnanima, pensava pure di associare un giorno l'Italia alle proprie guerre, ai propri destini.

Il giorno è forse vicino, forse dura già da due anni, e la nostra libertà è talmente voluta dalla Francia, che l'Imperatore risiedente a Parigi si fa più libero ai Francesi, onde esserlo agli Italiani.

In ogni tempo i capi della Francia fecero appello alla discussione dei Parlamenti, quando volevano avversare le tradizioni della Chiesa romana, e il recente decreto del 24 novembre, accordando nuove franchigie ai Parlamenti di Parigi, accorda, per così dire, nuovo soccorso all'Italia contro gli antichi suoi nemici di Roma e di Vienna. Chi sa? Forse la Francia pensa ai tempi di Tilsitt, in cui l'Europa stava per partirsi in due imperi; forse l'impero francese medita una nuova esplosione; forse la tradizione di Napoleone I, e delle sue incoronazioni, già fatta leggenda popolare, ci addita quali siano i disegni dell'impero francese sulla nazione italiana.

L'antica Italia ebbe due regni: quello delle Due Sicilie e il regno del nord. Nello stesso modo che molte nazioni si sono fondate coll'antagonismo, e che, per esempio, la Germania emerge dalla lotta tra Berlino e Vienna, e la Grecia antica dalla guerra tra Sparta ed Atene, noi siamo stati organizzati coll'opposizione di due regni egualmente uniti contro il nemico esterno, benché dissidenti nelle cose interne.

Nessuno negherà, né che i due regni abbiano esistito, né che la diplomazia abbiali riconosciuti da secoli, né che abbiano essi combattuto per la nazione nei nostri stessi tempi, quando nel 1814 i due nostri re sbarcarono l'uno dalla Sicilia, l'altro dalla Sardegna, per riacquistare il continente italiano.

Orbene, nell'intervallo dell'epopea napoleonica, quando il primo dei Bonaparte volle rinnovare l'influenza di Carlo Magno sulla penisola, quale fu il suo concetto? Egli volle che vi fossero due regni: il regno del mezzodì e quello d'Italia; e la Penisola obbedì a Murat e a Beauharnais.

Qui sorge, signori, un'ultima considerazione, ma la più solenne di tutte: quella propostaci appunto dalla memoria di Murat e del regno d'Italia. Ascoltatemi pazientemente. Io ho giurato fedeltà al Re d'Italia, e non riconosco altra repubblica, se non quella che si riunisce in questo recinto. Di più, se un'idea di federazione sta nel fondo del mio cuore, essa si svilupperà sempre colle leggi del regno a cui appartengo, perché si servono le federazioni appunto col servire, innanzi tutto, lo Stato dove si nasce. Ciò posto, nel parlare delle Provincie meridionali che hanno formato un regno floridissimo, che sono state indipendenti dai tempi più antichi, noi dobbiamo ricordarci che non dai soli Borboni vien rappresentata la loro indipendenza, ma che esse vantano un'altra tradizione, una tradizione cresciuta, immaginata, svolta al di fuori del regno d'Italia. Ancora una volta, io ripeto che ho giurato fedeltà al Re; ma infine esiste la storia di Gioachino Murat... (Rumori)

Presidente. Prego ancora l'onorevole Ferrari di riflettere che non può essere messa in discussione l'integrità del regno d'Italia.

Ferrari. Io non voglio offendere l'Assemblea; chieggo soltanto che mi sia permesso di spiegare chiaramente il mio concetto

Una voce a sinistra. Lo lascino spiegare!

Presidente. Lo esponga in modo da non escludere l'unità del regno italiano.

Voci. Parli! parli!

Ferrari. Le mie previe dichiarazioni non avevano altro scopo. Voci. Parli! parli!

Ferrari. Giacché vedo la disposizione di sentire il resto del mio discorso, parlerò.

Presidente. Anzi è meglio che spieghi il suo concetto, perché le sue prime parole potrebbero essere interprÉtate in un senso che non corrisponde forse alle sue intenzioni.

Ferrari. Come vi dissi altra volta che io non cospiro, io vi ripeto che faccio consistere l'orgoglio della scienza nel non cospirare nemmeno dall'alto, nell'ignorare ogni cosa che possa concernere, al punto di vista individuale, alcuna testa coronata. Io parlo come se non vi fossero né Murat, né Bonaparte, e solo m'attengo alla legalità costituita degli Stati, senza della quale le parole stesse diventerebbero impossibili. Io so adunque che vi fu nel passato un Gioachino Murat; so che fu uno degli uomini più cavallereschi dell'Europa; che all'estero il suo coraggio fece la meraviglia di tutti i capitani; che tra noi il suo cuore lo rese il primo cittadino della nazione; so che egli diede il nome alle leggi più ri

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Ora, io vi domando: se non contentale i popoli del mezzodì, se essi non sono felici col governo che parte dal regno d'Italia, che cosa nascerà in un prossimo avvenire? Sono i popoli che fanno i re; sono i moti irrequieti, sono le ovazioni, ora incerte, ora frenetiche, clic creano i pretendenti. Intendete il resto!...

Io dimando pertanto di conoscere lo stato delle Provincie meridionali, facendo un'inchiesta solenne, imparziale, destinata ad istruire non meno il Governo che il Parlamento nazionale. Io escludo da questa proposta ogni spirito di parte, io ne escludo i miei proprii sentimenti. In verità, se io dovessi proporre un ordine del giorno, seguendo l'impulso personale delle mie simpatie, se io dovessi ascoltare amicizie, del resto non politiche quasi, io vi direi: voi potete sanare d'un colpo tutte le piaghe dell'Italia meridionale. (Oh! Oh!) lo vi direi: l'uomo che ha incomincialo il gran lavoro potrà agevolmente finirlo; vi direi: Garibaldi è adorato a Palermo; le feste di Napoli lo chiamano; fidatevi dell'uomo che riunisce le due qualità sì spesso disgiunte nella storia, dove i tribuni sono nemici dei re. Io direi infine: vada il nuovo Masaniello là dove il destino lo vuole, e dove Io spinge l'amicizia sua per Vittorio Emanuele II. Ma forse voi penserete a Garibaldi quando sarà troppo lardi: e quindi, rinunziando non solo alle mie simpatie, ma alle mie idee, mi limito alla mozione d'una inchiesta nazionale, inchiesta nella quale concordano in fondo tutti i partiti; giacché tutti furono concordi nel riconoscere l'attuale anarchia delle Due Sicilie. Che la Camera scelga adunque una Commissione nel suo seno. Finché parlano gli individui, quantunque onorevolissimi, possono tutti ingannarsi; io stesso, se venissi dalle provincie meridionali, potrei darvi le mie impressioni personali come verità assolute, e gli avvisi varierebbero all'infinito, non essendo sostenuti da alcuna testimonianza che afferri i fatti in modo legale. Al contrario la Commissione del Parlamento farebbe cessare la incertezza, il Governo vi troverebbe un sussidio, i popoli dell'alta Italia un lampo di luce, e quelli di Napoli e di Palermo un raggio d'amore.

Presidente. La parola è al deputato Scialoia.

Pace. Domando la parola solamente per fare una comunicazione.

Presidente. È una comunicazione relativa a questa discussione?

Pace. È relativa alle cose di Napoli.

Presidente. La farà quando verrà il suo turno d'iscrizione.

Pace. Io non intendo di entrare nella discussione, o indicare rimedii al male esistente nelle provincie napoletane, ma unicamente di comunicare un fatto che riflette la situazione gravissima di quelle provincie, la cui conoscenza potrà servire di materia e di norma agli oratori successivi.

Presidente. Io non posso interrompere l'ordine d'iscrizione; tutti gli oratori possono avere dei fatti da accennare e delle comunicazioni da fare; perciò le darò la parola al suo turno.

PRESENTAZIONE DI DISEGNI DI LEGGE PER SUSSIDI ALLA SOCIETÀ DEL, TIRO AL BERSAGLIO, E SULLA DURATA DEL SERVIZIO DEI CORPI DISTACCATI DELLA GUARDIA NAZIONALE.

MINGHETTI, ministro per l'interno. Ho l'onore di presentare i seguenti due progetti di legge: il primo per un assegnamento annuo di lire 100,000, onde venire in sussidio alla società del tiro al bersaglio; l'altro concernente la durata dei servizi per i corpi distaccati della guardia nazionale.

Presidente. La Camera dà alto al signor ministro della presentazione di questi due progetti.

SI RIPRENDE LA DISCUSSIONE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLITANE E SICILIANE.

Presidente. La parola è al deputato Scialoia.

Scialoia. Signori, alcune imputazioni generiche furono fatte ieri ai sistemi seguiti dai governi locali nelle Provincie meridionali; avend'io avuto l'alto onore di fare due volte parte di quei locali governi, dopo il 7 settembre 1860, non potrei col silenzio dare tacito assentimento a quelle imputazioni; epperò chiedo alla Camera il permesso di discuterle con brevità e con quella calma che è richiesta dalla religione del luogo e dalla importanza della materia.

Fu detto che si sono impartite leggi nuove, troppe leggi, senza l'autorità del Parlamento, quando che le leggi napolitane erano ottime. Si è soggiunto che la Luogotenenza volle seguire nel conferire le cariche un sistema puramente esclusivo. Infine si disse che Napoli ha bisogno urgente di pane e di lavoro, e che non si pensa a provvedere né al lavoro, né al pane.

Signori, esistevano in Napoli ottime leggi? Mi sia permesso di dirvi che in Napoli esistevano leggi sufficientemente buone; ma buone relativamente al tempo in cui furono emanate, buone relativamente alla forma assoluta del governo, ed ottime, se vuoisi, relativamente all'arbitrio che dal Governo si faceva sussistere accanto alle leggi.

Ma qual era l'origine di queste leggi, quale era l'indole loro? E per le loro origini e per l'indole loro meritavano esse tutto quel rispetto che ieri da taluno ci si raccomandava, ed oggi si raccomanda dall'onorevole Ferrari?

Quanto all'origine, l'onorevole Ferrari vi diceva: l'autonomia del Napolitano fa d'uopo rispettarla, specialmente nel suo diritto consuetudinario, antico, che sale sino alla monarchia dei Normanni. Ma egli medesimo, conchiudendo il suo discorso, rammentava che le leggi buone di Napoli sono opera di Murat. E per vero, o signori, l'origine di quelle leggi è recente, è tutta francese; è una vera e semplice importazione.

Didatti, cominciando dall'ordinamento amministrativo, che cosa trovate voi in quelle leggi? L'indole stessa delle leggi francesi non solo, ma delle leggi del tempo dell'impero francese. In effetto vi predomina assolutamente l'incentramento il più completo, il più arbitrario che siavi mai stato; l'incentramento del primo impero francese: il governo della burocrazia, ecco i suoi caratteri.

Nell'amministrazione giudiziaria predomina il principio dell'imperio assoluto. Non inamovibilità dei giudici, non giurati; le Corti criminali delegate unicamente ai giudizi crimi, e per ciò appunto con facile tendenza a diventare Corti speciali; i giudici di mandamento chiamati a giudicare in casi gravi di reati ed a condannarli con pene che salgono sino a cinque, talvolta sino a dieci anni di carcere.

Le leggi d'amministrazione comunale e provinciale quale carattere si avevano?

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Nessuna libertà del municipio e della provincia nelle cose amministrative; tutela assoluta del governo centrale; nomina governativa di tutti gli uffiziali che si dicevano rappresentanti del comune e della provincia.

Nell'amministrazione doganale, tariffe informate dal principio prorettore; esagerato questo principio da un uomo certamente molto capace delle cose finanziarie, ma fautore di quel sistema, dal cavaliere de' Medici. Quanto alle leggi civili, esse, con lievi mutamenti, sono il Codice francese; le penali sono al certo le più perfette, cioè quelle a cui i giureconsulti, che furono chiamati a discutere il Codice francese, nell'importarlo, apportarono le più notevoli modificazioni, introducendovi alcune nuove e sensale dottrine; ma il fondo di quel Codice è ancora il francese. Il Codice penale militare poi ammetteva ancora la pena della bacchetta, ed escludeva, in qualsiasi caso, ogni scusa di provocazione del superiore, di qualunque grado.

Ecco, o signori, l'origine delle leggi napolitane; ecco l'indole loro, ecco i principii da cui erano informate: non antiche, non tradizionali, esse sono importazione straniera, ed il loro carattere è perfettamente quello delle leggi francesi, del primo impero, e dell'impero quasi assoluto.

Queste leggi non pertanto furono accettate dai Napolitani; queste leggi, quantunque i nostri padri facessero contro di esse gli stessi reclami che oggi alcuni di noi hanno fatto contro le presenti leggi che malamente diconsi piemontesi, queste leggi allignarono nel paese, non perché leggi francesi, ma perché nelle leggi francesi erano già entrati, non in tutto, ma certo in parte i principii del 1789; perché il Codice civile, specialmente, vi portava in fatto la libertà civile.

Ora, o signori, le leggi che diconsi piemontesi, sono l'opera dei Parlamenti che ci hanno preceduto, i quali tanto nell'ordine amministrativo, quanto nell'ordine giudiziario le hanno quasi tutte rifatte, ad eccezione del Codice civile, che come il napoletano è in sostanza il Codice francese. Ebbene, queste leggi che cosa contengono? Tutta quella parte dei principii del 1789 che erano già passati nelle leggi francesi, importala in Napoli, coll'aggiunta di tutti quei miglioramenti che vi hanno introdotto quell'altra parte dei principii del 1789, che riguarda la libertà politica.

Io quindi non so perché contro di queste leggi che, da una parte, hanno tanta analogia di carattere e di origine colle leggi che si vorrebbero conservare in Napoli, e dall'altra stanno tanto al disopra di esse quanto la libertà politica sta al disopra del dispotismo, non so, dico, perché s'invochi contro di esse una tradizione che non esiste, ed un'antichità che le leggi locali non hanno.

Ma scendiamo ad esaminare i fatti.

Quali sono le leggi importate in Napoli dal 7 settembre 1860?

L'onorevole deputato Massari, dopo aver ripetuto anch'egli l'imputazione che si sono fatte troppe leggi in Napoli e si è troppo poco amministralo, passando a rassegna le leggi pubblicate in Napoli, diceva: tutto il male provenire da ciò che quelle leggi non si sono eseguite. Se il male è derivato dal non averle eseguite, non so perché si censuri di averle pubblicate.

Massari. Domando la parola.

Scialoia. Fra queste leggi v'ha la legge comunale e provinciale. Domando: come si poteva in Napoli annunziare un mutament d'ordini politici, come si poteva in Napoli pubblicare lo Statuto, cosa che fece già l'illustre dittatore, senza far seguire la pubblicazione della legge provinciale e comunale? Come si poteva iniziare la libertà politica, continuando il dispotismo della provincia e del comune?

Si disse che uno dei gravi mali di quel paese è il soverchio incentramento. Ma si poteva questo incentramento distruggere per via di fatti amministrativi? No; bisognava che precedesse l'attuazione della legge ordinaria della provincia e del comune, ch'è legge discentramento amministrativo. Il pubblicarla era un'assoluta, un'imperiosa necessità.

Si pubblicò la legge sulla guardia nazionale.

Gli oratori che mi hanno preceduto invocarono tutti concordemente l'esecuzione di questa legge per riorganizzare la guardia nazionale.

Qui lo stesso onorevole Ferrari non ripeterebbe le parole che pur erano in una relazione che ha acquistata una certa celebrità in Italia, nella quale dicevasi che non bisognava mutare le precedenti consuetudini rispetto alla guardia nazionale. Credo che, in fatto di guardia nazionale, non esistessero invidiabili consuetudini in Napoli, prima del 7 settembre 1860.

Altra legge importata fu quella della pubblica sicurezza.

Si poteva, o signori, continuare in Napoli l'osservanza non dirò d'una legge, chè non ce n'era alcuna, ma di una serie di ministeriali decreti, i quali erano stati raccolti da un impiegato di polizia per nome Mozzillo? Bisognava invocare pel mantenimento dell'ordine le leggi Mozzillo? No, signori; era impossibile, col nuovo ordine di cose, di non introdurre in Napoli le nuove leggi di pubblica sicurezza vigenti in Italia.

La legge sulla stampa era, come legge organica di libertà, quasi inseparabile dallo Statuto; quando specialmente quella borbonica che preesisteva, era, per l'odiosa sua origine, caduta in assoluta dissuetudine, e la stampa abbandonata alla licenza.

L'importazione di un'altra legge, della quale io sarei più specialmente colpevole, è la tariffa daziaria pubblicata sotto la dittatura fin dal settembre 1860.

Pei federalisti, non meno che per gli unitari, o signori, le dogane non possono essere regolate da leggi diverse. Era impossibile che, mentre si entrava a Napoli per proclamarvi l'unità d'Italia, si tenessero ancora divisi i porti di Genova e di Napoli, quasi che fossero porti stranieri; era impossibile che il commercio napolitano fosse governato da leggi assolutamente diverse. Dico assolutamente diverse, poiché la tariffa napolitana era informata ad un principio diametralmente opposto al principio a cui da dodici anni in qua s'andava informando la tariffa sarda, divenuta poi italiana: quella era informata al principio della protezione, questa al principio della libertà.

Rispetto alle leggi sull'istruzione, potrebbe dirsi che in quelle provincie l'istruzione era governata a sufficienza liberamente. Diffatti in Napoli sussistevano i privali docenti per l'insegnamento professionale; docenti privati ai quali davasi però dal Governo un'arbitraria autorizzazione, che spesso arbitrariamente loro si ritirava, come fu ritirata a me medesimo nel 1849, per ordine d'un commissario di polizia. Ad ogni modo esisteva in principio l'insegnamento privato libero, almeno l'insegnamento professionale. Ma tutti i miei colleghi di quelle provincie possono dire, se esistesse veramente la istruzione primaria, e in che condizioni si trovasse l'istruzione secondaria. Per provvedere all'uno e all'altro ramo della pubblica istruzione, era necessario pubblicare nuovi statuti, ed introdurre nuovi ordini e nuove leggi. Dovrei ancora parlarvi dell'organizzazione giudiziaria e del Codice penale e di procedura penale; ma veramente queste leggi non furono pubblicale al tempo in cui io ebbi l'onore di far parte del Governo di luogotenenza.

In ogni modo, a me sembra davvero che la organizzazione giudiziaria, la quale ammette i giurati, che localizza i tribunali,

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e li avvicina a coloro che devono essere giudicati; una legge che fa sparire le Corti criminali speciali, è legge infinitamente migliore di quella che esisteva.

Oltre di queste, non sono state pubblicate altre leggi, se si eccettuano alcuni urgenti provvedimenti legislativi, se volete, ma tali che erano richiesti dalla necessità immediata delle cose, ovvero che erano utili per introdurre quei miglioramenti di amministrazione, i quali non si possono attuare senza il concorso di certe modificazioni legislative: ne menzionerò alcune.

Per esempio, il ministro delle finanze emanò un provvedimento legislativo per permettere che le cedole nominative del debito pubblico si convertissero in cedole al portatore. Questo atto è più amministrativo che legislativo. Non si potrebbe quasi dire esser questa una legge nuova introdotta in Napoli; è una legge che già in Napoli sarebbesi dovuta fare da mollo tempo, per non isolare il credito di quelle provincie, ed agevolare la negoziazione delle carte che lo rappresentano.

Un altro provvedimento fu emanato per permettere i depositi grano con libera riesportazione, di cui dirò appresso; un altro per l'abolizione di un divieto che esisteva in Napoli, e per il quale più di cinque individui non potevano riunirsi, stringere fra loro una società commerciale. Si dirà anche questa una buona legge abolita? una legge da conservare in grazia dell'autonomia? Non esistevano in Napoli, come non esistono ancora, istituzioni private di credito, intese a provvedere al facile trasferimento de' valori, in luogo del materiale trasporto delle somme. Credetti utile quindi ordinare un servizio, per cui le tesorerie, a comodo dei privati e del commercio, potessero ricever somme in un luogo e pagarle in un altro, mediante un piccolo aggio, con facilità grande e con assoluta sicurezza.

In questo caso neppure non mi si dirà che v'eran leggi da conservare, o che, invece di far leggi, si avesse da amministrare; poiché queste e simili provvisioni sono ad un tempo sussidio di buona amministrazione ed atti legislativi.

Riassumendo dunque questa prima parte del mio discorso, io dico che le leggi, quali esistevano nell'antico Stato napoletano, non sono né per la loro origine, né per la loro indole del tutto diverse dalle leggi, sarde una volta, ora italiane, e già state rifatte dai precedenti Parlamenti. Queste anzi compiono e sviluppano i principi! che si trovano in quelle, sicché a me non pare che si offenda alcun precedente storico coll'introdurle in quelle provincie.

Passo alla seconda imputazione.

Si dice: nel conferire gl'impieghi la luogotenenza ha pensatamente seguito il principio della esclusività. Per dire il vero, io non ho ben capito questo concetto. Quali individui, quale partito si crede che il Governo abbia di proposito voluto escludere? Escludere i liberali? Ma, signori, spero che non sarà venuto in mente ad alcuno, che noi volessimo escludere per principio tutti quelli del nostro partito.

Una voce a sinistra. Ha ragione! ha ragione!

Scialoia. Questa, mi perdoni la Camera, mi pare un'asserzione tanto poco credibile, che non ho bisogno di combatterla. Si replicherà: ma, in fatto, avete ritenuti tutti i borbonici, e non avete dati impieghi ai liberali.

Signori, in luogo di rispondere a quest'affermazione, io intendo di esporre alla Camera quale è stato il sistema che noi abbiamo voluto pensatamente seguire.

Camera Dei Deputati - Discussioni del .

Non intendo con ciò di dire che noi non ci siamo, nei singoli casi, potuto ingannare: questa sarebbe una presunzione assurda. Penso però che abbiamo il debito d'informare la Camera del sistema che ci siamo proposto.

Il sistema era questo: non destituzioni in massa; lo proclamo altamente, questo principio regolatore c stato il nostro. La Camera non consentirebbe che io mi fermassi a dimostrare quanto esso sia giusto. Io credo anzi essere questo uno di quei principii che basta enunciarlo per averne l'assentimento universale. Non destituzione in massa, dunque, ma riforma calma, oculata del personale, in modo che si dovesse rimuovere persino il sospetto che noi volessimo entrare in quelle Provincie per farvi delle vittime politiche, in modo che si potesse eliminare persino l'apparenza che volessimo considerare gl'impieghi come offa gettata in bocca ai gridatori, o come rimunerazione a patimenti, i quali hanno un valore che non si può, né si dee rimunerare con danaro. (Segni d'approvazione) il metodo che ci siamo proposto, o signori. Ma in qual modo procedere per attuarlo? Bisognava che ciascuno di noi, entrando in amministrazioni più o meno numerose per impiegati, e certo numerosissima era, per esempio, quella delle finanze, che io ebbi l'onore di reggere, bisognava, dico, che ciascuno di noi cominciasse prima di tulio dal resistere alle molte domande che ci si facevano per nuovi impieghi, e non rare volte anche con molta insistenza. Poiché, per giudicare se colui che domanda è meritevole, ci vuole della calma e della tranquillità; tanto più che, essendo non solamente già tutti i posti occupali, ma le piante organiche di molto superate, bisognava, per dare impieghi a Tizio o a Caio, toglierli a Pietro e a Sempronio. Occorreva quindi, per ogni caso, fare un doppio esame del merito del petente e del demerito di colui, il cui posto il postulante avrebbe dovuto occupare. Signori, in momenti in cui un paese è commosso e le passioni sono esaltate, la difficoltà d'avere esatte informazioni è grandissima. Non ho bisogno dell'inchiesta dell'onorevole Ferrari per provarvelo; ne avete avuto ieri qui dentro una prova.

Certamente l'onorevole Valenti era fortemente commosso allo spettacolo di certe irregolarità, e per conseguenza nel suo discorso fu molto impetuoso, e giunse persino a condannare con dure parole due pubblici funzionari delle provincie napolitane. Ebbene, uno degli onorevoli nostri colleghi ha già difesa la riputazione di uno di que' due funzionari, e credo che d'entrambi molti di noi abbiano opinione diversa dal deputato Valenti.

Questa è certo una prova evidente delle difficoltà dei giudizi individuali in tempi agitati, come quelli in cui noi siamo stati al potere.

Come dunque potevamo raggiungere il nostro scopo col minor numero d'inconvenienti possibile? Si pensò di farci affiancare da Commissioni d'uomini probi, che conoscevano questa o quell'altra provincia, e che con noi potevano concorrere a prendere queste informazioni il più esattamente che si potesse, o a fornircene. Ciò tuttavia non era sufficiente guarentigia contro le involontarie ingiustizie.

Le riforme del personale a me parve che si avessero a fare complessivamente in ogni ramo di servizio, per eliminare il sospetto che parziali destituzioni o parziali conferimenti di impieghi si facessero per odii o per favori.

Oltreché, non procedendo per via di riforme generali, non si possono osservare quei riguardi di giustizia che pur si devono agl'impiegati antichi e meritevoli, dinanzi ai quali non bisogna mettere tumultuariamente i nuovi.

Ebbene, questo è il metodo che fu tenuto, che tenni io medesimo, non dipartendomene se non per casi eccezionali ed urgenti.

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CAMERA. DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Cominciai dunque dal riformare un ramo di servizio, quello dei ricevitori e dei percettori dei dazi diretti; e cominciai di là, o signori, non senza ragione, poiché quelle cariche nelle antiche provincie erano di preferenza date dal cessato Governo per puro favore o per rimunerazioni politiche.

Debbo a tal proposito rendere omaggio a quegli ottimi cittadini, di cui due or sono nostri colleghi, che vollero aiutarmi in quest'opera difficile; essi sono testimoni del grado, se potessi cosi dire, di spersonalizzamento cui io medesimo mi posi, presiedendo la Commissione di cui essi facevano parte.

Essi diranno, come spesso qualche ora fu da noi spesa a discutere un reclamo, quando gravi dubbi sorgevano sulla veracità d'imputazioni che pesavano su taluno, o a ponderare i meriti relativi di più richiedenti il posto medesimo. Ma pure l'opera fu compiuta, ed in quel ramo d'amministrazione credo che tre quarti degli antichi impiegati fossero mutali. E in questi mutamenti io posso senza tema domandare se taluno possa asserire che siavi stato favoritismo od esclusività.

Parecchi de' nostri colleghi, che siedono sui vari banchi dalla destra sino all'estrema sinistra, possono attestare che dei loro parenti o dei loro amici furono indistintamente pregati di accettare di quegl'impieghi, senza nessun riguardo estraneo alle loro qualità personali ed ai meriti loro.

Quanto ad un altro ramo importante dell'amministrazione finanziaria, a quello dei dazi indiretti, un'altra Commissione procedeva sotto la presidenza di quell'egregio direttore generale, quando io rassegnai, coi miei colleghi, la mia rinuncia dalla carica.

Signori, una delle principali condizioni per compiere la riforma del personale è quella di avere sufficiente tempo per farla. Or la Camera sa e rammenta che dopo il 7 settembre vi furono in Napoli quattro mutamenti nel governo locale. Il primo Ministero dittatoriale, di cui io faceva parte, rimase venti giorni al potere, il secondo quarantadue; il primo Consiglio di luogotenenza sessanta giorni, il secondo sessantaquattro o sessantacinque.

Durante questi brevi periodi di tempo, dovendo governare amministrazioni più o meno sconvolte, non tanto per colpa degli uomini, quanto per la condizione stessa delle cose, appena qualche ora del giorno si poteva aver libera per destinarla all'esame minuto e coscienzioso del personale. Ora, io domando, in sessanta, in cento ore che cosa si può richiedere da un Consiglio di luogotenenza, e se possa con giustizia imputargli di aver poco fatto in questa materia.

Non ho parlato finora che del ramo, il quale più direttamente mi riguardava: toccherò degli altri.

Nella polizia tutto il personale fu riformato; nell'ordine giudiziario fu riformato in gran parte; parecchi tra' presenti nostri colleghi furono pregati ad accettar cariche giudiziarie, ed alcuni fra loro accondiscesero a rinunziare a maggiori guadagni che facevano nell'esercizio del patrocinio per abbracciare la carriera giudiziaria, e concorrere a moralizzare la magistratura; altri tennero fermo nel rifiutare l'invito. Ma una riforma considerevole è stata fatta. E se per i giudici delle Corti criminali non fu tanto ampia quanto altri desidererebbero, si fu perché pensavasi che nessuna maggiore opportunità si poteva avere per farla, quanto quella dell'introduzione dell'ordinamento organico giudiziario, per le quali queste Corti facevansi interamente svanire.

Per ciò che concerne l'interno, io trovo tra le mie carte una nota, in cui è detto che nel breve periodo di 60 giorni del Consiglio di luogotenenza di cui parlo,

118 impiegati d'intendenza furono rimossi, oltre di quelli che sono stati traslocati.

Vengo ora alla terza imputazione che si faceva al Governo locale. Dicevasi: il popolo abbisognava di pane e di lavoro, e non si diede al popolo né lavoro né pane; a questa obbiezione risponderò dopo un istante di riposo.

Pepoli. Mentre si riposa l'onorevole Scialoia,domanderò alla Camera il permesso di dire una parola sola all'onorevole signor Ferrari, per rettificare un fatto storico che a me preme assai. (Parli!parli!)

Presidente. Ha facoltà di parlare.

Pepoli. Io prego l'onorevole Ferrari di rammentarsi soltanto nella storia dell'Avo mio, che egli fu il primo a proclamare la necessità di quella unità italiana, che oggi, mercè Iddio e la lealtà del nostro Sovrano, abbiamo, spero, consacrata per sempre in quest'aula sotto lo scettro costituzionale della Casa di Savoia! (Vivi applausi)

Ferrari. Se mel consente la Camera, risponderò una sola parola. (Si! si! Parli)

Io non ho fatto che proclamare il primo eroe della indipendenza italiana, e prego l'onorevole deputato Pepoli di ricordarsi che in quest'aula nazionale, in quest'aula, dove si riuniscono tutte le provincie italiane, si rappresenta la più grande libertà che sia mai stata concetta sulla terra! (Bene!)

Noi Italiani siamo stati infelici, siamo stati forse al disotto di nazioni più ricche e più potenti, ma abbiamo avuto dall'antica Roma e dagli stessi pontefici questo privilegio, di non poter mai parlare di noi stessi, senza parlare del mondo intero, e senza giudicare e re e papi e imperatori con assoluta libertà! (Bene! Bravo! dalla sinistra)

Scialoia. Pane e lavoro! Ogniqualvolta, o signori, il prezzo medio dei cereali aumentava in Napoli, i Borboni fingevano di volervi rimediare, intimando ai proprietari di vendere per forza i loro grani, minacciando e talvolta incarcerando i commercianti dediti a quel ramo di negozio, e comprando essi del grano all'estero per distribuirlo alle popolazioni della capitale e delle provincie. Nell'anno precedente, a quello dell'ultima rivoluzione furono comperati 1,400,000 tomoli di grano. Facciamo plauso ai Borboni; essi davano pane al popolo.

Noi non abbiamo creduto di seguire questo medesimo sistema. Più d'una volta mi fu detto: ma i Borboni lo facevano. Ed io rispondeva: è questa una ragione di più per non farlo anche noi. Io però non avrei così risposto certamente ab irato, per aver il piacere di far il contrario di ciò che i Borboni facevano, se non avessi creduto che i Borboni, lusingando bassamente le passioni e i pregiudizi, invece di diminuire, accrescevano la penuria.

Credetti quindi mio debito il resistere a tutti i suggerimenti che in questa materia mi vennero fatti, e che in sostanza si riducevano a comperare del grano e a venderlo a basso prezzo, scacciando così il commercio e sgomentando i proprietari; ovvero ad offrire dei premii ai commercianti, i quali volessero venire a vendere i loro grani in Napoli; ovvero, infine, rinnovando uno di quei tanti altri espedienti, di cui erano fecondi inventori i nostri maggiori, ma il cui risultato, la storia lo attesta, fu sempre l'accrescimento, e non la diminuzione della carestia.

Un solo espediente, ch'era stato già introdotto, parve che si avesse a tollerare, come straordinario intervento dell'autorità pubblica in sostituzione del soccorso che la parte più agiata della società deve moralmente alla parte più povera nelle circostanze eccezionali. Questo espediente fu quello di distribuire prima 28000, poi 40000 boni a persone più misere, le quali potessero andar a prendere il pane a miglior mercato in apposito magazzino.

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TORNATA DEL 4 APRILE

Ma, nella distribuzione di questi boni, sapete voi che cosa avvenne nella città di Napoli? Il Governo aveva dato il permesso di poterne distribuire fino a 40000, ma il municipio non riuscì mai a dispensarne più di 25000.Or ditemi, o signori, se veramente esistesse in quella cospicua e popolosa città tanta fame, quanto si è detto dai giornali e predicato dai partiti.

Il Governo non pertanto si preoccupò non del caso straordinario ed eccezionale, che non era in quella provincia, dove il valore dei grani non è stato mai superiore a quello che fosse nelle altre parti d'Italia, ma si preoccupò di un fatto che esisteva realmente, cioè del prezzo dei cereali più elevato di quello che non fosse negli anni precedenti, e cercò di ridurlo alle minori possibili proporzioni, col rimuovere gli ostacoli artificiali opposti al commercio dei grani e col concedergli ragionevoli ed eque agevolazioni.

Uno di questi ostacoli, o signori, che io avrei proposto immediatamente di togliere, era il divieto dell'esportazione; ma qui confesso altamente una mia colpa. Io ho avuto la debolezza di non insistere sino a rassegnare le mie dimissioni, ed ho ceduto alle calde instanze che mi sono state fatte di non revocare questo divieto.

Se però cedetti per riguardi politici e di convenienza, io presi tutti i provvedimenti possibili per rendere vano nell'applicazione quell'irragionevole divieto, e riuscire cosi all'intento che mi era prefisso.

Diffatti, sulla mia proposta, il luogotenente stabili che i grani importati dall'estero potessero essere depositati in magazzini che il Governo stesso somministrava, e liberamente riesportati. Fu aggiunto che il valore di questo grano sino ad una certa concorrenza potesse essere scontato alla cassa di sconto in Napoli è tenuta dal Governo medesimo.

Ecco le agevolezze che sole poteva e doveva fare il Governo per rimediare, senza inconvenienti, a quel difetto di cereali che si chiamò fame, un nome che è molto al di sopra della realtà della cosa.

Ma il lavoro?

Signori, quali fossero i principii che informavano il Governo locale rispetto al lavoro, risulta da' suoi atti ufficiali. Leggo in una delle relazioni al luogotenente che «un popolo rimasto lungamente sotto il peso di una signoria che elevava a sistema di governo il corrompere e l'essere corrotto, ed impediva, come sorgente di malcontento, la istruzione popolare e lo sviluppo dell'industria e del commercio, aveva grande ed urgente bisogno di due radicali rimedi, l'educazione ed il lavoro.»

Ma le spese pubbliche non s'improvvisano; esse richiedono stadi precedenti e denaro da spendere.

A tutto questo certamente andò provvedendo il Governo; in piccole misure in sul principio, e di mano in mano con più larghe misure.

Soggiungo che ho qui un elenco dei lavori comunali autorizzati già, o impresi sotto il Governo della luogotenenza. E, quanto ai lavori di maggiore importanza, siccome diceva ottimamente il ministro dei lavori pubblici, spesso credesi che vi si sia provveduto da chi emanò il decreto finale, quando che quelle provvidenze sono realmente da ripetersi da chi andò facendo le operazioni necessarie perché quel decreto venisse attuato.

Alle preparazioni fu atteso; ma ricordatevi, o signori, che il primo Governo della luogotenenza fu di sessanta giorni.

Rispetto poi alle finanze, di cui qualche cosa fu detto a proposito della materia che sto discutendo, dirò che esse non meritano la duplice qualificazione che ne fu fatta, di floride tempo dell'ultima dominazione, e di miserabilissime .

Signori, nel bilancio pel 1860, preparalo sotto la dominazione borbonica, era preveduto un disavanzo di 5,4000,000 ducati, cioè di circa 23,000,000 di lire. Questo disavanzo si era già verificato in alcuni degli anni precedenti, ed a questo disavanzo, negli ultimi mesi del 1859 e nel primo semestre del 1860, si pensava di provvedere col creare nuovi debiti. Ma quel Governo, compiendo tutto nel segreto, riesciva a questo, che il resto d'Italia e l'Europa, ignorando i suoi atti, credevano che molte cose fossero diverse da quello che realmente erano. Così lo stato delle finanze era opinione che fosse floridissimo, e che il bilancio lasciasse un sopravanzo.

A giugno del 1860 il disavanzo dei 25 milioni era già stato superato, e liquidavasi un vuoto di 27 milioni.

Il Governo borbonico cercò di provvedere a que' disavanzi colla creazione, in ottobre 1859, di 200,000 ducati di rendita; in maggio 1860 di altri 100,000; in giugno d'altri 200,000; ed in agosto d'altri 450,000.

Ecco il florido stato delle finanze a cui successero la dittatura e la luogotenenza.

Io non voglio, o signori, discendere ad altri particolari; quando si tratta di cose finanziarie e di credito pubblico bisogna essere assai discreti.

Certo le spese straordinarie del 1860 costituiscono uno stato di cose eccezionale; ed oltracciò le sorgenti della pubblica ricchezza sono così ampie nelle Provincie napolitane, e così poco fecondate dal concorso dell'arte e di capitali, che gran prò ne potrà trarre in corso di andar di tempo l'erario nazionale.

Dirò solamente all'onorevole Ferrari che, se il corso della rendita prima del 7 settembre era al disopra di 90, e che poi andò di mano in mano abbassandosi, non è questa certamente una prova irrefragabile che allora fossero floride le finanze, e poi diventate misere. Il fatto dell'alto corso della rendita in Napoli era principalmente effetto di questa cagione: che, cioè, essendo ivi scarso l'impiego del denaro nelle cose commerciali e nelle imprese industriali, e scarso pure l'impiego che se ne faceva nell'agricoltura, attesa una non buona legislazione ipotecaria ed una pessima legge di espropriazione forzata, che neppure il signor Ferrari sarebbe troppo tenero di conservare, i capitali circolanti cercavano un impiego utile nell'acquisto di cedole del debito pubblico. E dacché la negoziazione di quelle, essendo i titoli nominativi, era quasi alla sola borsa di Napoli ristretta, il corso vi si manteneva elevato.

Ma, o signori, non era questa certamente una prova di prosperità.

Proclamata l'annessione, dacché la rendita in questa parte superiore d'Italia era più bassa per cause in gran parte opposte a quelle che ho rammentato essere nell'Italia meridionale, necessariamente ne avvenne che il valore della rendita napoletana si avvicinò a quello della rendita sarda. E questa è una prova, o signori, che, appena liberato dalla dinastia borbonica, il regno di Napoli acquistò la coscienza che era divenuto parte integrante del gran regno italiano, poiché, se fosse persistita la coscienza opposta, la rendita napolitana non avrebbe seguito le tendenze di ragguagliarsi al corso rendita sarda, per confondersi nel corso unico dell'antica rendita italiana. (Benissimo!)

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CAMERA DEI DEPUTATI -SESSIONE DEL 1861

Signori, ho finito; ma, prima di cedere ad altri la parola, mi permetta la Camera di dirle che sono stato profondamente addolorato pel quadro troppo fosco che è stato fatto, certo con ottime intenzioni, dai precedenti oratori, dello stato di quelle sventurate provincie.

Signori, per raddolcire quelle tinte, che io reputo troppo cariche, farò riflettere alla Camera che, mentre da Napoli udivasi ancora il cannone tuonare sotto le mura di Gaeta; mentre, le nostre gloriose truppe essendo rivolte all'impresa della espugnazione di quell'ultimo ricovero della dinastia caduta, le nostre provincie erano sguernite di soldati; mentre l'antica gendarmeria era sciolta e non erano ancora ordinati i carabinieri, sotto il governo della luogotenenza, di cui io ho avuto l'onore di far parte, le provincie napolitane furono tranquille, se se ne eccettuano i più remoti Abruzzi, dove i tumulti erano importati da bande armate e spedite da Roma.

Ora ditemi se questo stato di cose è veramente desolante, se esso è indizio di disamore, se è prova di riottosa resistenza. Potrei affermare che l'ordine mantenuto in quelle gravi e difficili circostanze fu tutta arte del Governo? No; mentirei, o signori; esso fu merito di quelle popolazioni. (Numerosi segni di approvazione)

Presidente. Il deputato Petruccelli della Gattina ha facoltà di parlare.

Petruccelli. Dopo ciò che fu detto da quelli che mi hanno preceduto ieri e l'altro ieri, poco o nulla mi resta ad aggiungere sui fatti e sugli eventi. I ministri che hanno susseguito, bisogna confessarlo, hanno difesa con una grande abilità la loro politica; quindi ne viene che vi furono dei soddisfatti, soddisfatti che domandarono l'osanna della chiusura. Ma, se v'erano dei soddisfatti, ve ne erano anche di coloro che non lo erano punto; e, se vi sono dei soddisfatti in questa Camera, dubito forte che ve ne siano moltissimi in quelle Provincie di cui noi discutiamo i destini. Si è parlato di mali e di rimedi; io credo però che non si è profondamente toccata la causa di questi mali. Ora vi è un assioma medico, il quale dice: conosciuta la causa, il rimedio è trovato. Le cause sono molteplici; però io credo che si possono gruppare sotto tre ordini: gli avvenimenti, il carattere e le esigenze del popolo, ed il Governo. Le rivoluzioni in tutti i tempi, sotto qualsiasi latitudine, producono sconvolgimenti; era dunque necessario, era inevitabile che esse ne avessero prodotto nelle provincie meridionali. Però, quando questi sconvolgimenti sono profondi, si traducono ordinariamente con due fenomeni: il fenomeno morale ed il fenomeno economico.

Ora, io domando all'onorevole ministro della giustizia, i delitti si sono essi aumentati dopo l'entrata di Garibaldi? Si sono aumentati i furti, i briganti; ma l'onorevole ministro dell'interno ne disse le ragioni, ed erano ragioni validissime. Il sistema economico è desso stato sconvolto? Io domando all'onorevole ministro delle finanze se vi è ristagno, se vi è opposizione nelle riscossioni delle imposte, se vi è stata crisi finanziaria, se vi sono stati fallimenti, bancarotte; no, al contrario, il commercio è aumentato. Dunque, se gli avvenimenti furono cagione di disordine, la cagione gravissima non è in essi. Sta forse nel popolo? No, signori. Certo i Napoletani non sono un popolo d'angioli; e, se io dovessi caratterizzare un popolo che ha subito si lunghe signorie straniere e la empia signoria dei Borboni, userei una parola che riescirebbe rincrescevole e che non bisogna mandare a' tribolati che hanno tanto bisogno di simpatia.

Che cosa domanda questo popolo infine? Vi domanda forse che gli diate più libertà? No. È forse malcontento dell'autonomia? Affatto.

Accoglie forse con compiacenza i ridicoli programmi che vengono di Buzeval? Punto. Che cosa vi domanda questo popolo? Vi domanda pane, lavoro, armi, lavori pubblici, magistrati, ed infine che gli sieno restituiti i demanii usurpati dai proprietari.

Hanno parlato di pane e d'opere pubbliche. Io divido coll'onorevole ministro pei lavori pubblici e coll'onorevole Scialoia l'opinione che non si deve fare elemosina ai popoli, poiché non vi sono che i governi tirannici, come quello dei Borboni, i quali dicono che i popoli si governano con tre f: forca, farina, feste. governi liberi amministrano coll'onore e colla giustizia. Dunque, pane per elemosina, no, mai! Se questo popolo vi ha domandato pane, però, gli è perché sa che la beneficienza pubblica possiede tre milioni e mezzo di ducati; che vi sono delle case di sussidio che, oltre le elemosine, hanno 180,000 ducati; che vi sono monti frumentari, i quali hanno 574484 ducati. Ora, se questo popolo vi domanda che lo soccorriate in momenti supremi, io credo che non si debba caratterizzare come un popolo di mendicanti, e sopratutto che non devesi badare unicamente al popolo della capitale, ma altresì a quello delle provincie.

Questo popolo ha domandalo lavoro. I lavori, diceva l'onorevole ministro dei lavori pubblici, non s'improvvisano senza utilità e senza studio. Però l'onorevole ministro dei lavori pubblici sa che vi erano per tre milioni e mezzo dei lavori che già erano stati quasi ordinati sotto il governo antico.E non si trattava solo di strade ferrate, imperocché in quei paesi non vi sono ponti, non strade vicinali, non comunali, non provinciali, non vi è nulla: in un paese che ha una superficie di 2033611 miglia quadrate, non vi sono che poco più di 1800 miglia di strade.

Ora, se vi domandava lavoro, era forse perché volesse forzare la mano al Governo ad eseguire strade ferrate? Vi sono lavori nei comuni, lavori nelle provincie; perché non avete autorizzati i vostri governatori a farli?

Il popolo vi domandava armi, e perché? Perché la sicurezza pubblica non esiste, perché quei carabinieri, che, come diceva l'onorevole Minghetti, si stanno qui istruendo, non sono là a tutelare la pubblica sicurezza. Anzi si è fatto di più: i battaglioni provinciali, creati, organizzati da Garibaldi, furono distrutti: se, adunque, si domandavano armi, era per difendere la tranquillità, la casa, la famiglia; era perché il proprietario non poteva uscire dalla sua casa e recarsi alla campagna, senza essere assaltato, violentato dai ladri e dai banditi.

Altri pochi, è vero, le domandavano per altra ragione. Quando si chiese il plebiscito, lo si chiese per «Italia una e indivisibile,» e allora soltanto si è detto: l'Italia sarà una quando Roma e Venezia siano libere. Ora Roma e Venezia non si acquistano con canzoni, né per conversazioni, si acquistano colle armi. E se quel popolo vi domandava armi, vi domandava di mantenere il vostro programma.

Il popolo, infine, vi domandava magistrati. L'onorevole Massari vi diceva che siedono vicini la vittima e il carnefice, chi usciva dal bagno vicino a chi ve lo mandava; non vi sono giudici, e quelli che vi sono, sono ancora quelli i quali sotto i Borboni erano gli strumenti della tirannide (Bravo!), ora forse ne sono le spie.

Nelle provincie napolitane vi sono circa 10,000,000 di moggia di pubblico demanio. Di questo demanio, sapete voi quanto ancora ne vi resta? Al Governo resta una rendita di 637,000 ducati! (4,770,000 lire.)

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TORNATA

DEL 4 APRILE

Sapete voi a che cosa è ridotto oggidì quel pubblico demanio? Vi basti questo esempio.

Il demanio della Sila, nel 1791, contava ancora 55000 moggia di terre; nel 1842, a cui data l'ultima statistica che io mi conosca, questo demanio è ridotto a 5000 moggia. Il Governo borbonico ne ha venduto qualche poco, ma la massima parte è stata involata dai possidenti convicini.

Ora, questo popolo non vuole già la restituzione del demanio, perché gli sia distribuito, spartito. Vuole soltanto che sia restituito alle comuni, perché, appartenendo alle comuni, il popolo, che nulla possiede, che è proletario, avrà dove andar l'inverno a tagliare un branco di albero per riscaldarsi

Voci. Ma no, che debbono abolirsi! (Noi no!)

Petruccelli... dove condurre il bestiame al pascolo. (Rumori) Vi sono altri fatti e gravissimi.

Questa mattina il mio collega deputato Pace ha ricevuto dalla sua provincia una domanda, che sarà rimessa al Parlamento, la quale rivela fatti e documenti gravi, assai gravi! E se quanto prima non si daranno serii provvedimenti su questo proposito, io assicuro il signor ministro dell'interno che la primavera non passerà senzachè scoppiino in quei luoghi disordini gravissimi, forse una jacquerie. (Nuovi rumori di dissenso)

Lo ripeto, delle jacqueries. Ed io mi ricordo, o signori, che sotto i Borboni, negli ultimi vent'anni, vi furono quattro sommosse nelle sole provincie di Basilicata e di Catania, quattro sommosse per queste stesse ragioni; i Borboni punirono i sollevati come uomini sovversivi della società, come demagoghi che attentavano all'ordine pubblico, e nominavano delle Commissioni per esaminare le usurpazioni. I proprietari comprarono i commissari, perché in quelle Provincie allora, come ora, tutto si compra e si vende, e le cose restarono tali quali.

Dunque, se il popolo vi domanda ciò, è egli colpevole del disordine, della disorganizzazione sociale? No. Il colpevole dunque è il Governo. (.Si ride) L'onorevole ministro Cavour ride, perché crede che ciò sia un ritornello obbligato degli uomini che siedono a questa parte. Ebbene, no. Noi non facciamo l'arte per l'arte. Se il Consiglio attuale fosse disciolto, e questo piccolo numero d'uomini della sinistra potesse prendere le redini del Governo, forse noi potremmo pure fare l'opposizione per l'opposizione. Ma noi non faremmo che rovesciare un Gabinetto della destra per crearne uno del centro. Vale a dire che noi cadremmo dalla padella nella bracia e tireremmo i marroni dal fuoco della destra per farli mangiare al centro.

Ebbene, per noi l'abito fa il monaco, ed i monaci, sieno essi bigi o bianchi, per noi è sempre lo stesso, sono sempre monaci. Dunque, se noi diciamo che il Governo è colpevole, gli è perché nella nostra coscienza noi lo crediamo tale. Nel Governo però vi sono gli uomini e la istituzione. Io non accuso alcuno: se fra gli uomini che da Garibaldi fino ad oggi hanno avute le redini delle cose in quel paese, ve ne furono alcuni paradossalmente incapaci, ve ne sono stati degli altri che eranò capacissimi. L'onorevole cavaliere Farini, gli onorevoli Scialoia e Conforti, lo stesso Liborio Romano, l'onorevole Liborio Romano, Migra, Imbriani, erano uomini abili, i quali, se fosse stato possibile salvare un sistema colla capacità degli uomini, coprendo anche il difetto di capacità dei loro colleghi, l'avrebbero certamente fatto: non per tanto noi li abbiamo veduti soccombere miseramente. È dunque colpa degli uomini? No; è colpa del sistema. Non era dunque colpa degli uomini, era colpa del sistema di luogotenenza.

Che cosa è il sistema luogotenenziale? Io non mi batto contro un morto, il Ministero lo ha ucciso

Macchi. Domando la parola.

Petruccelli... non mi batto contro un morto, ma persisto a dire che il sistema luogotenenziale è il colpevole, perché con l'attuale cangiamento dei consiglieri in segretari non si è cangiato punto l'essenza della cosa, ma appena la forma, la pura forma.

Ora, che cosa è il sistema di luogotenenza? È un sistema di Governo il quale riunisce tutti i mali dell'autonomia e tutti i mali dell'unione; è una barricata di sacchi di sabbia che si mette fra il popolo ed il governo centrale, impedisce ai reclami del popolo di arrivare al governo centrale, ed al governo centrale di far sentire le sue provvidenze al popolo.

In fatti, che cosa sanno gli onorevoli ministri delle cose di laggiù? Ne sanno tanto quanto piace a quei consiglieri, a quei segretari di fare loro conoscere; essi si rimettono al giudizio di uomini, i quali, per iscusare se stessi, e per rendersi possibili, e continuare nella loro amministrazione, calunniano il popolo.

Sotto il luogotenente Farini non sentimmo noi dire che tutti i tumulti, tutti i disordini provenivano da un pugno di garibaldini, da un pugno di mendicanti d'impieghi? E non pertanto questo pugno di uomini oggi si è talmente aumentato, che si trova necessario di fare un'inchiesta, di fare un'interpellanza, e quest'interpellanza non l'ha fatta un demagogo, non un deputato della sinistra, ma l'ha fatta un deputato ministeriale, e deputati ministeriali e della sinistra hanno convenuto che ogni colpa ricadeva sul sistema.

Io domando adunque l'unificazione la più completa, la più assoluta, l'assimilazione di queste alle altre provincie. (Bene!) Quel paese, se ha sete di qualche cosa, ha sete di giustizia; ha sete di essere governato non con leggi eccezionali, perché da secoli geme sotto leggi eccezionali, ma da leggi che convengano ad un popolo libero; quel paese anela di rientrare nell'ordine, nella giustizia, nella libertà. (Bravo!)

Domando adunque al signor ministro che faccia al più presto applicare la legge dell'amministrazione comunale e provinciale, ed al più presto ancora la legge sulla guardia nazionale. Allora si mettono essi direttamente in relazione con i governatori di quelle provincie, perché in questo solo modo essi possono far sentire che il Governo di Vittorio Emanuele è un Governo provvido, libero, benefico.

Mi rimane a dire ancora una parola sugli impiegati.

L'onorevole ministro Minghetti ha detto: noi non vogliamo destituzioni in massa. E neppur noi le vogliamo; ed alcuno non le vuole. Però il Governo ha il dovere di fare rispettare le leggi. Ora i Borboni avevano una legge organica amministrativa che fissava la cifra degli impiegati. Questa cifra è stata enormemente superata. Gl'impiegati si sono elevati al di là di 64000. Il Ministero ha inoltre l'obbligo di ridurre gl'impiegati di una provincia, un dì Stato autonomo, alla proporzione d'impiegati di una provincia, perocché l'ex-reame altro ora non è, altro esser non deve.

E qui vi è inoltre un atto di morale; perché, ora che la vita pubblica risorge in quei paesi, ora che vi è una via aperta all'attività individuale, mi sembra che sia giustizia lasciare questa gioventù alla propria iniziativa, allo sviluppo della propria intelligenza e delle proprie forze, onde provvedere ai proprii destini, senza rimanere con l'eterna prospettiva di fare dei rapporti che non hanno né grammatica, né ortografia. (Benel bene!)

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Ecco dunque due categorie d'individui cui il Ministero può agevolmente applicare la legge. Resta la probità. La probità come si prova?

Facile è il provarla. Nominate delle Commissioni, fate che ciascun impiegato mostri il suo incartamento, si esamini la fede di perquisizione, si esplorino gli archivi di polizia, dei tribunali criminali, delle intendenze, e, secondo le note che ciascuno avrà, si riterrà o si manderà via. Io non domando nulla d'inquisitoriale, domando anzi che questo scrutinio fosse fatto in segreto, perocché, anche tristi, sono costoro pur cittadini d'Italia, e non debbonsi mettere a banda dalla società. E solo dopo fatte queste ricerche che voi potrete conoscere, aggradire e conservare i buoni.

Io domando quindi, per conchiudere, che il sistema delle luogotenenze sia abolito, che la legge provinciale e comunale, e la legge della guardia nazionale, siano applicate immediatamente, e che le Provincie napoletane siano governate direttamente, come già sono governate l'Emilia, le Romagne, l'Umbria. Questo io domando. (Bravo! Bene!)

Presidente. Il deputato Nicolucci ba facoltà di parlare.

Nicolucci. Ben poco mi rimane a dire sulle condizioni delle province napoletane, dopo il molto che hanno detto fin qui gli oratori che mi hanno preceduto. Io non cercherò di ritoccare le linee del loro quadro, né mi studierò d'infoscarne ad arte le tinte, o di renderne meno pallidi i colori. Aggiungerò solo alcune osservazioni, le quali mi sembrano potere dar luce alla discussione e ricondurla al suo vero punto di vista pratico.

Dirò che le cagioni del malcontento nelle province meridionali non sono poi molte, e che il male alla fin fine non è cosi grave da non potervisi apportare un pronto ed efficace rimedio. Molti, ne propose ieri l'onorevole ministro dell'interno, ed io fo plauso alla rettitudine de' suoi sentimenti ed nlla sollecita cura ond'egli intende al miglioramento di quelle nobilissime province. Ma alcuni de' suoi farmaci mi parvero, a dir vero, troppo semplici, e però inefficaci a vincere que' mali che da gran tempo noi deploriamo.

Una delle cagioni principali del malcontento nelle province napoletane è quella accennata già da altri miei onorevoli colleghi, di vedersi tuttora conservata tanta parte di satelliti dell'antico regime nelle varie amministrazioni, e il non vedere scelti i nuovi impiegati fra gli uomini più capaci ed onesti, ma quasi sempre fra i faccendieri e brigatori, che si stringono intorno al Governo per sola sete e libidine di mercede. E quando dico satelliti dell'antico regime, non intendo già parlarvi indistintamente di tutti gl'impiegati sotto la cessata signoria, fra i quali molti io ne conosco onorevolissimi e meritevoli di ogni considerazione, ma solamente di coloro che aveano dato opera a consolidare il dispotismo, e si erano fatti strumento di oppressione e di tirannia. Ribattezzati o no, sono uomini iniqui, e la pubblica opinione li condanna e li maledice. La cosa è assai più grave che a primo aspetto non paia, o signori, imperocché di tanta maggiore autorità e di tanto maggior prestigio si circonda la legge, che sola impera ne' governi liberi, quanto più degni di universale stima sono coloro che sono chiamati ad amministrarla. Che se per avventura a costoro mancasse la fiducia pubblica, la legge stessa scemerebbe di autorità, il freno governativo sarebbe rallentalo, ed in breve tempo minacciato di dissoluzione.

Tale, o signori, è la condizione delle provincie napoletane. Si sono mandati intendenti e magistrati in vari luoghi e non si sono voluti ricevere; ma perché, o signori?

Perché in quegli intendenti ed in quei magistrati non si vedevano dal popolo i veri rappresentanti della pubblica opinione, ma sibbene uomini che si erano bassamente

prostituiti al dispotismo, o, peggio ancora, che erano stati strumenti di tirannide, ovvero uomini di nota incapacità ed indegni di essere preposti alla cosa pubblica.

L'altra cagione del malcontento (e qui mi perdonerà se dico il vero l'onorevole deputato Scialoia) è stata l'intempestiva pubblicazione di tante leggi e regolamenti organici, che hanno gettata la confusione e lo scompiglio in tutti i rami della pubblica amministrazione. Ognuno che afferrava un portafoglio stimava suo debito di erigersi a legislatore, e tanto meglio parevagli di avere adempiuto al suo ufficio, quanto maggiore fosse stato il numero delle sue innovazioni.

Molte di quelle leggi furono pubblicate alla vigilia dell'apertura del Parlamento, quasi a sfregio della rappresentanza nazionale, mentre, essendo esse d'importanza grandissima, dovevano essere pubblicate col prestigio della solenne autorità dei poteri costituiti dello Stato.

Il signor ministro guardasigilli, rispondendo alle interpellanze mossegli da alcuni miei colleghi, ben disse ieri che la necessità di uniformare la legislazione di tutte le provincie del regno, lo aveva indotto a consigliare la pubblicazione di quelle leggi.

Ed invero, chi non intende che un delitto commesso a Palermo non deve essere giudicato con norme e pene diverse di quelle con cui si giudica e punisce un simile delitto commesso a Milano? Ma molte di quelle leggi potevano essere attuate in epoca più o meno remota, senza che per questo ne scapitasse l'unità dello Stato. Intendo parlare innanzi tutto di quelle sulle corporazioni religiose e sui beni ecclesiastici, le quali non sono state pubblicate né in Toscana, né nei ducati, né nelle Romagne. E chi oserebbe dire che l'Emilia e la Toscana si oppongano alla nostra unità, perché appunto non hanno quelle leggi?

Io non m'addentro a discutere sulla loro equità e sulla loro giustizia, e mi limito soltanto a riconoscerle come inopportune ed intempestive; poiché, quando il Governo aspira rettamente alla conciliazione dei partiti, ed alla pacificazione degli animi, non so davvero con quanto senno politico abbia potuto gittare fra il popolo questo pomo di discordia, il quale non può fare a meno di non accrescere il numero dei malcontenti e dei nemici delle nostre istituzioni.

Il signor ministro guardasigilli avrebbe dovuto rispondere: perché si pubblicavano quelle leggi, la cui attuazione poteva differirsi a tempo indeterminato, il giorno prima dell'apertura del Parlamento? Temeva egli forse che il sentimento religioso del popolo napolitano le avesse fatte respingere in quell'aula da' suoi rappresentanti? Ed allora, io domando, perché imporre ad un popolo una legge che esso non vuole? Mirate a quel miracolo de' tempi nostri, il generale Garibaldi. Egli, investito della dittatura dell'Italia del mezzodì, con un tratto di penna avrebbe potuto abolire tutte le corporazioni religiose, incamerarne i beni, e dividerli forse anche fra quei valorosi che fecero l'Italia; ma egli conosceva il rispetto che si deve alla religione del popolo; conosceva puro che molti ordini religiosi hanno traviato dal loro indirizzo, e non conservano più le rigorose discipline dei tempi primitivi; ma, per quella venerazione che tutti dobbiamo alla fede de' nostri padri e nostra, si limitava, in Sicilia, ad abolire due soli ordini religiosi, e nelle provincie napolitano, un solo, sul quale, se non pesasse altro grave carico, basterebbe a farlo bandire da ogni civile comunanza, quello solo di alimentare nel suo seno gli scrittori della Civiltà cattolica.

La terza causa del malcontento, e la più grave, è quella di

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TORNATA DEL 4 APRILE

Fatta eccezione della guardia nazionale di Napoli che ha reso eminenti servigi in tempi difficilissimi, e che si è meritata la stima e la gratitudine eterna di tutti i Napolitani, nel rimanente di quelle provincie siffatta milizia è pressoché ancor tutta disarmala. Armi, armi, si sono chieste, e si chiedono istantemente, ma sempre invano, al Governo che le ha promesse sempre, e non le ha date mai. Ed intanto la reazione prima ed ora il brigandaggio scorazza in molti di quei paesi; le vie sono mal sicure, i traffici impediti. E se suonasse Torà del pericolo, chi sarebbe a difesa del paese e della libertà?

Il signor ministro dell'interno assicurò che erano stati distribuiti alla guardia nazionale delle provincie meridionali presso ad ottantamila fucili. La cifra gli giunse al certo assai esagerata; ma, se pure fossero stati distribuiti in certo numero, non lo furono a chi si doveva, cioè ai municipii, perché allora non si sarebbero dispersi, e non avrebbero armato quelle braccia, che tanto male ci han fatto con le reazioni e col brigandaggio.

Io mi do carico delle difficoltà in cui versa il ministro per poter avere con sollecitudine le armi desiderate; ma io lo prego di porre questo suo pensiero in cima agli altri, se mai egli ha bisogno di una preghiera per ciò che ha tratto alla libertà ed alla sicurezza del nostro paese. (Segni di assenso del ministro Minghelti)

Con mia grande soddisfazione, e credo di tutti i miefeonorevoli colleghi, il signor ministro dell'interno ci fece aperto il suo intendimento di tutelare energicamente la tranquillità delle provincie meridionali per mezzo di truppe regolari che si spandano per quelle contrade, e in tutti i sensi le percorrano in colonne mobili.

E qui raccomando al signor ministro di gettare uno sguardo sulla carta topografica della bassa Italia, e di osservare i confini che separano le provincie napolitane da quelle rimaste ancora sotto il dominio pontificale. Vedrà ivi una serie di paesi che sono stati in questi mesi il teatro di feroci reazioni. Or bene, in quella lunga linea di confinazione al presente domina la tranquillità, perché occupala dalle nostre milizie; ma come queste abbandonano alcuni di quei punti, tosto la reazione alza il capo, favorita e promossa da tutti quegli uomini di perduta fama, che fuggili, come nemici, dalle nostre provincie, ed accolli nelle terre pontificie, ospitali, pagati, incoraggiati dal governo dei preti, sono ivi rattenuti, come mastini al guinzaglio, per essere scagliali sulle nostre frontiere, come il momento opportuno si presentasse. Le voci di costoro si fanno udire minacciose ai pacifici abitanti di quelle contrade, e di tratto in tratto vi fanno anche scorrerie e vi scandagliano il terreno. Un mese addietro fu a S. Giovanni, paesello in Valle di Roveto, nelle vicinanze di Sora; dieci giorni addietro a Carsoli. Se questa linea fosse abbandonata dalle nostre milizie, tutto il confine sarebbe in rivolta, eniuno potrebbe assicurare quale è il limite dove essa si arresterebbe.

Se vi sono adunque provincie che debbono maggiormente richiamare l'attenzione del Governo, perché si tuteli energicamente la pubblica sicurezza, sono quelle appunto che io testé v'indicava, dove massimamente il timore di veder turbata la quiete pubblica è grandissimo, la necessità di armare la guardia nazionale imponentissima, e il bisogno di mantenervi acquartierato un buon numero di truppe regolari evidentissimo.

Ora vi dirò la mia opinione sulla convenienza di conservare od abolire la luogotenenza di Napoli.

Io credo essere savio consiglio quello di conservarla sino a che non siasi provveduto alla definitiva organizzazione del regno; altrimenti,

come oggi è diviso il Napoletano, il Governo da Torino dovrebbe corrispondere con quindici centri governativi, quante sono quelle provincie, e trattare con essi, ad una distanza di molte centinaia di miglia, senza facili mezzi di comunicazione, di affari talvolta lievissimi.

Oltrechè Napoli, priva del potere centrale, sarebbe ora ridotta alla condizione di una meschina capitale di provincia, essa, la prima ciltà della Penisola, una città di mezzo milione di abitatori.

Io credo adunque che la luogotenenza debba durare tuttavia, e solamente allora potersi pensare ad annullarla, quando, determinale le regioni amministrative, Napoli divenuta centro di una di esse, perdendo la luogotenenza, conserverebbe non pertanto la sua superiorità sulle provincie che le verrebbero aggregale, e non perderebbe quel prestigio di che è stata fin oggi circondata come capitale dell'ex-reame delle Due Sicilie.

Le mie ultime parole le rivolgerò a tutto il Ministero, e prego sieno accolte ed esaudite.

Signori, l'agitazione regna nelle provincie napoletane, vari partiti vi sono in presenza l'uno dell'altro. Vi è il partito dei decaduti, il quale non osa affrontare la pubblica opinione, ma soffia nel fuoco ed accresce il malcontento; vi è il partito dei pretendenti che si sforza di disunire gli animi, carezzare il concetto dell'autonomia locale, screditare l'autorità governativa, e dimostrarla inetta ed incapace a reggere il freno di que' popoli. Signori, non confidiamo ciecamente ne' prosperi destini d'Italia.

Signori, vegliale attentamente alle nostre libertà ed alla nostra sicurezza pubblica. Non pretendiamo di voler conciliate ad un trailo fra di loro passioni le più disparate; voi provvedete alla pubblica tranquillità se vorrete assicurarvi l'amore di quelle popolazioni; garantite la proprietà e la quiete se volete che prosperi la grandezza di questa nostra Italia; fateci forti e saremo grandi; fate scomparire il malcontento con una buona amministrazione finanziaria; assicurate la giustizia e la tranquillità in modo stabile e duraturo, e voi non sentirete più lagnanze da quelle provincie, ed allora veramente potrete avere il bel vanto di dire: l'Italia è fatta.

Presidente. Il deputato Bruno ha facoltà di parlare.

Bromo. Signori, ieri ho fatto tutti i miéi sforzi per impedire la chiusura della discussione; non era mio intendimento di venire a presentare dei fatti, i quali avrebbero potuto portar disonore al paese, per vana pompa di parlare; ma io non poteva però, o signori, assoggettarmi ad accettare le ultime frasi del signor ministro dell'interno, perché in questo caso io avrei firmalo la mia personale condanna. Ne dirò il perché.

La Sicilia ha fatto una rivoluzione; essa ha scoppiato fa un anno a quest'oggi, ed ha avuto un periodo di rovesci e di fortune, ma pur si è sostenuta sempre, malgrado la mancanza delle armi, fino a che ha potuto arrivare il generale Garibaldi, il quale non fece trionfare le sue opinioni, le sue convinzioni soltanto, ma quelle altresì della grande maggioranza dei Siciliani, le aspirazioni, insomma, italiane, che in Sicilia erano state proclamate prima assai che si potesse immaginare l'aiuto del prode generale.

Garibaldi, o signori, arrivato a Palermo, costituì un governo dittatoriale provvisorio ben definito, perché fu proclamato dittatore per governare in nome di Vittorio Emanuele.

La Sicilia proclamava l'unità italiana, e la proclamava non

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non perché sedotta da pressioni straniere, ma per intima e profonda convinzione, perché nell'unità vedeva la forza, perché nell'unità trovava un potente mezzo per far sì che Io Stato prosperasse grandemente, nella convinzione che l'unità dispensa da una moltitudine di spese che le parziali autonomie sono obbligate a sostenere, senza dare il vantaggio della forza, della quale non può non tenersi gran conto nello stato presente d'Europa e con le tendenze che si manifestano.

La Sicilia dunque proclamava quell'unità, quell'indipendenza nazionale, che non è un'idea nuova, e molto meno dal 1830, come ha voluto dire il signor Ferrari, questa idea era tanto diffusa pria del 1815, che il figlio del pretendente di Napoli non avrebbe dovuto disconoscerlo. Del resto, consulti un proclama del padre stesso che ei invoca, scritto allorquando, pressalo dalla rovina della sua pessima amministrazione, de' suoi errori politici, cercando di risorgere, alzava, nella fiducia di appagare il sentimento degli Italiani, la bandiera dell'indipendenza nazionale, si presentava nelle Marche. Falli l'impresa, è vero; ma non dovrà dimenticarsi il fatto da chi, per sedurci, non trova altro spediente che ricordarci il passato di suo padre, nella ipotesi strana di combattere un nostro profondo ed antico sentimento; lusingato persino dagli eterni nostri nemici gli Austriaci, i quali per mezzo di Nugent e Bellegarde entrando nel Lombardo-Veneto alle rovine di Napoleone, nello scopo, non di spingerci contro lui, ma di trascurarne la difesa, ci parlarono di indipendenza, di unità e libertà italiana, sicuri di suscitare un sentimento che sapevano in noi caro e diffuso.

Io diceva dunque che l'idea dell'unità nazionale non è nuova; era già radicata in Sicilia, nè, per piccoli disordini locali che abbiano potuto succedere, essa si potè mai modificare.

Questi fatti eloquentissimi serviranno del pari contro il signor Ferrari, il quale, in due discorsi che contengono quanto dissero di più velenoso i nostri nemici alle tribune inglesi e francesi, è venuto, nuovo profeta di danni, a presagire rovine, invocando morte tradizioni, e una serie di inconvenienti che, disposto come sono a deplorarli, non mi faranno punto temere che possano tristamente influenzare in Sicilia contro il radicato sentimento dell'unità nazionale; profondo sentimento che rivela l'errore e l'ingiustizia di chi, come il signor Ferrari, vorrebbe dipingere i Siciliani costretti a subire, anziché amare l'unità. Come Siciliano, perdonatemi, se io respingo con disprezzo si orrenda accusa.

Ho detto, o signori, che la Sicilia, proclamando l'unità, cacciava i Borboni, contro la cui amministrazione soffriva da più tempo danni pur troppo noti all'Europa.

Ciò posto, si comprende di leggeri che quegli isolani aspettavano dalla rivoluzione un governo di riparazione, un governo che vendicasse i suoi torli e ne rassodasse i destini. Ma può dirsi che dalla rivoluzione a questo giorno gli uomini che hanno governalo in Sicilia abbiano corrisposto alle giuste speranze del paese? Io non disconvengo che privi essi di forza regolare, ossia stabilmente organizzata, privi di quel prestigio governativo che tanto influisce al rispetto dell'ordine e delle leggi, trovandosi essi in condizioni eccezionali, hanno dovuto subire l'influenza della critica posizione, e quindi che sono stati costretti emanare una quantità di atti, i quali, lungi di riparare i danni dell'amministrazione passata, l'hanno potentemente aggravata; ebbene non è questa risposta una prova convincente a persuadere il ministro dell'interno che sarebbe errore imperdonabile accettare, senza beneficio alcuno d'inventario, una lunga serie di atti che portano l'impronta di un vizio patente?

Né da parte mia posso credere vi sia una ragione di convenienza rispetto al generale Garibaldi, perché, a parte che ei stava lontano, a parte che ripetutamente proclamò che in fatto di amministrazione ne lasciava ad altri la cura, comecose a lui poco note, invocando il manto di Garibaldi, confessando timori per una disamina che il paese reclama, la giustizia consiglia, non si fa cosa giusta.

Il nome di Garibaldi nessuno più di me lo stima, lo ammira; ma non posso in alcun modo associarmi all'opinione di rispettare, sotto il pretesto del nome di Garibaldi, e quasi di legittimare con un voto della Camera tutti gli atti d'una amministrazione, che racchiude inconvenienti che riguardano al presente, che ci legano all'avvenire, ed assicurano mali che nell'interesse del nome di Garibaldi medesimo è giusto respingersi da tutti, e da me a preferenza che, combattendo, come feci, quegli alti della dittatura e prodittatura cui accenno con tutta l'energia che m'ispirava la forza della mia convinzione, accettandole oggi, darei prova tristissima del mio procedere.

Né questo è tutto; ricorderò al ministro dell'interno che, arrivato in Sicilia il Re, il nostro augusto Vittorio Emanuele, proclamava che avrebbe iniziato un governo di riparazione e di concordia. Di riparazione e di concordia! Nelle persone? No, perché tal cosa erasi già verificala. tutti quanti stavamo in Sicilia, annessionisti condizionati od incondizionati, votando unanimi il plebiscito; ogni discrepanza fra noi avea cessata.

Le parole del Re adunque, che furono tanto grate ai Siciliani, riferivansi agli atti della nuova amministrazione, che doveva ispirarsi nel sentimento della giustizia, nel dovere della riparazione delle antiche e nuove vessazioni sofferte per vicissitudini di circostanze, se volete indipendentemente dagli uomini sotto cui ebbero a svolgersi ne convengo, tua che non escludevano, come non escludono, un inventario per riparazioni.

Il Governo del Re era impegnato in una guerra; circondalo dalle difficoltà che la gravezza stessa della riparazioni presentava, avea potuto differire l'attuazione della regia parola; né di ciò io l'accuso, né mi lamento se non avea apparecchiato numerose falangi di se non poteva accorrere con prontezza a far cessare i tanti inconvenienti che gli si affacciavano.

Ma, lo ripeto, non lagnandomi del passato, comprenderà egli che non potrei accettare un ordine del giorno che tutte le malversazioni, tutti gli alti di arbitrio, di favoritismo che si commisero prima e dopo la rivoluzione che cacciava i Borboni, venissero, direi quasi, riconosciuti dalla Camera. L'ho detto e lo ripeto, io non accuso né la dittatura, né la prodittatura, accuso le circostanze, accuso l'impossibilità in cui trovavasi ognuno di adempiere agli obblighi suoi, ma insisto sulla riparazione.

Ciascun conosce che la polizia borbonica inspirava odio feroce, e parecchi suoi agenti sono stati miseramente trucidati, altri sono fuggiaschi; il paese non può, non vuole ricettarli; è impossibile pretendere che esso stendi ora la mano a questi sciagurati. Mi si dirà: ne abbiamo mandali in Ustica, ne abbiamo chiusi nelle carceri. Ma, si affermava da taluno, ed il ministro dell'interno parve assentirvi, non possiamo far leggi dure, leggi d'arbitrio, di violenza, ed io approvo; ma qui si tratta di prendere una risoluzione che metta in pratica il principio generoso, e siccome non è possibile, per le pruove successe, farli vivere in mezzo ad un popolo che li detesta, perché non assicurare l'esistenza di tutti que

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DEL 4 APRILE

La Sicilia pagava, sotto i Borboni, una tristissima e pesantissima imposta, il macino; per riscuotere il quale vi erano destinati, n parte di pochi impiegati superiori ed onesti, una moltitudine di agenti fiscali odiati più dei birri medesimi, e furono salvati a grande stento dal furore popolare. La prodittatura, influenzata da circostanze eccezionali, come si è stabilito, ordinò pagarsi a costoro tutti i soldi che antecedentemente percepivano; impiegarsi a preferenza nelle dogane; con la condizione che i giovani corressero all'armi; ebbene pochi, o nessuno, obbedì; e intanto sono stati indistintamente pagati. Invano si è reclamato contro il danno delle finanze, contro l'ingiustizia di una disposizione che considera impiegati graie che non ne avevano le qualità, che faceva pagare indistintamente coi buoni i molti che prima della rivoluzione stavano sotto processo per furti commessi alle finanze.

Avete voluto sussidiar gente infelice, sia; ma continuerà il Ministero a pagarla? E, tornando sul passato, come perdonare alla prodittatura, alla dittatura,di aver pagato a titolo di soldo le indennità, che nella percezione del dazio potevano ricavare coloro che, per aver dato una cauzione, ne riscuotano l'entrata?

Il Governo della prodittatura, voi Io sapete, subì molte trasformazioni; per divergenze politiche moltissimi uomini non vollero più stare al potere. I nuovi si trovavano in condizioni eccezionali, obbligati, per governare, a lottare, direi quasi contro il sentimento del paese; essi hanno dovuto cercare dei mezzi per poter resistere alla piena; ed allora n'è venula, o signori, una folla di nomine; nomine Sì scandalose, che hanno destato dei clamori unanimi nella stampa, clamori che hanno assordata l'Europa. Prima che arrivasse il Re, il disordine giunse a tanto che lo stesso Mordini dovette telegrafare a Napoli: Io non posso tenere una sol ora la posizione; se Vostra Maestà non può arrivare, mandi persona per surrogarmi.»

Ebbene, signori (chiedo un po' di pazienza e domando scusa Illa Camera se debbo annoiarla con queste recite). Dietro queste nomine, mercè le quali nel giornale ufficiale vi sono quarantacinque impiegati, mentre nella gazzetta ufficiale del regno di Torino ve ne sono quattro; che crearono infine nn esercito d'impiegati; e avvertite che, mentre il primo governo dittatoriale nominava provvisoriamente e in modo, rendiamogli questa giustizia, da non dare ad alcuno il diritto a nuovi impieghi, voi, rispettando alla rinfusa tutto il già fatto, "(fendete la giustizia, legate al paese una eredità di pesi che dovrà pagare per la semplice voglia di non fare giustizia.

Mi direte che gli impiegati di cui parlo sono liberali, che servirono il paese. Ammettendo che per molti ciò sia vero, e non per tutti, qual conseguenza dedurne?

Liberalismo significa sacrifizio e disinteresse; posso mai credere dunque che i liberali del mio paese vogliano gravare le finanze di quel popolo che amano, non per servirsene alla guerra, ai bisogni precisi dello Stato, ma per farsi pagare i travagli dei loro sostenuti! In altri termini, posso mai credere che liberalismo nella terra classica per la libertà voglia ora definirsi mercato e danno alla nazione?

La Sicilia, o signori, odia la burocrazia quanto odiava i Borboni; la Sicilia è tal paese che odia così profondamente i Borboni che, qualunque siano le piccole ingiustizie che potesse subire, non sarà mai a pentirsi del voto col quale ha domandata l'unità italiana. Ma, o signori, il popolo di Sicilia ha tutto il diritto di presentarvi i suoi riclami ed io compio questo dovere.

Camera Dei Deputati - Dùcussioni del 1861.52

Il ministro dell'interno ha dichiarato qui che la posizione della Sicilia egli non la conosceva perfettamente; ebbene, io mi lusingo che per le cose che ho dette, o per quelle che dirò, egli vorrà mutare la dichiarazione che combatto.

Che cosa fare, o signori, di questo esercito d'impieghi? Ritenerli tutti? Ma allora la finanza sarà costretta a pagare molto denaro; ricordatevi che il deficit che presenta attualmente il budget della Sicilia, senza contribuire per l'esercito, ma solo per sopperire alle spese di un'amministrazione così inviluppata, ascende a circa 40 milioni di franchi.

Possiamo, o signori, dire a questo popolo, che altro torto non ha che quello di amare sinceramente, fortemente l'unità nazionale e la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, possiamo dirgli: paga nuove imposte, perché gli uomini che ti dichiararono liberato ieri, che ti dissero di volerti aiutare, questi uomini debbono aver tutti una pensione vitalizia? Questo, o signori, sarebbe impossibile, e credo che si farebbe insulto al liberalismo italiano, al liberalismo siciliano; perché ritengo, o signori, e qui converremo tutti, che i liberali di Sicilia non sono pochi in un paese che unanimemente detestava i Borboni. Del resto, che cosa farete di questo esercito d'impiegati? In Sicilia non vi era, per fortuna, un Ministero della guerra, se n'è creato uno; non vi era un Ministero di marina, se n'è creato uno; non vi era un Ministero degli affari esteri, se ne è creato uno. E quando, o signori, si pubblicavano questi organici? Appunto quando si proclamava il plebiscito; ed i nomi degli impiegati si pubblicavano dopoché il plebiscito era già proclamato....

Voci a sinistra. No! no!

Bruno. In gran parte, o signori, e sono pronto a dimostrarlo. Vi ha di più; facendo come credete voi chiudete la strada a coloro che non vollero servire la prodittatura, che ne rassegnarono gli uffici perché ne osteggiavano la politica per un sentimento di cui non si ha da vergognare. Che dire delle finanze? Farete pagare a questo popolo tutte le pensioni di grazia accordate ai suoi oppressori e sin oggi rispettale? Noi credo, perché la giustizia ripugna nell'ammetter ciò, e guai se l'uomo politico la trascura. Bisogna lasciare a monte gli umani riguardi! Ve ne do una prova. Ammiratore per sentimento di giustizia della politica del Governo, io combatto in questo momento e senza esitazione una proposizione del ministro dell'interno, per un altro non meno caro sentimento di giustizia.

Vi dirò qualche cosa ancora: si giunse al punto che i rabinieri organizzali in Sicilia si ebbero la paga di campagna, quando era già entrato il Re, vale a dire quando la guerra era finita.

Si sono commesse cose un po' più dure. Io non accuso gli uomini, non accuso i ministri, perché, ripeto, si trovavano in. una posizione eccezionale; ma non puossi rispettare alti emanati sotto forti pressioni.

Veniamo ora al governo della luogotenenza. Si esigono i dazi. Ma io domando se il Parlamento abbia autorizzati i governi locali ad esigere i dazi.

Vi dirò di più. Mentre il numero degli impiegati è così straordinario, gli attuali consiglieri di luogotenenza hanno fatte molte promozioni, hanno dato nuovi impieghi ed hanno conceduto delle pensioni di ritiro.

Nè questo è tutto. Il governo della prodittatura, travagliato profondamente, dirci quasi, volendosi mettere in grazia, mi si perdoni la frase, col municipio di Palermo, ha fatto una legge molto dura: ha stabilito che tutti i debiti dei comuni debbano pagarsi dallo Stato.

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Signori, lo ripeto, questa è una legge durissima; se sia giusta o no, non lo so; ma bisogna discuterla: ora non so se è stata sospesa; non so se si eseguisce; quello che so è che bisogna prendere a questo riguardo un serio provvedimento.

I borbonici ordinarono nell'ultimo momento della loro amministrazione la vendita dei beni comunali. Si è sospesa una legge così turpe? Non credo.

Circa le opere pubbliche, mi si dirà, o signori, che mancavano i progetti ed il tempo; si soggiungerà da allrFeho, avendo la Sicilia dovuto fare le spese della guerra, mancava il danaro. Signori, mi permettano che io esprima un contrario avviso. Vi stavano opere principiate che furono abbandonate, e riguardo a denaro ricorderò che la Sicilia con la rivoluzione faceva dei guadagni serii, non pagava più il Ministero a Napoli, non pagava più la Consulta, non pagava una infinità di spese di polizia; il guadagno era circa di due milioni; e con tutto ciò di opere pubbliche nulla nulla si è fatto.

Crispi. E la sicurezza pubblica!

Bruno. La sicurezza pubblica, mi si dice. Sapete quant'è l'organico della questura di Palermo? Quattro volte maggiore di quella di Torino.

Crispi. Non è vero!

Bruno. Non è ministro, signore, chi risponde, ed io ripeto: quattro volte maggiore. Perché questo? Lascio a voi considerarlo. Nella prodittatura furono conservati molti borbonici, ed or se ne accusa il Governo; io non voglio certo che i tristi borbonici rimangano; noto la contraddizione, ed insisto al contrario perché, se vi hanno dei borbonici, e lo credo, si escludano, perché ho la convinzione che borbonici, ossia gente sfegatata pei Borboni, che non sia ladro, spia o di ignoranza classica in Sicilia, non esistono, e questi vorrei presto puniti; come desidero evitare le ingiustizie contro i buoni esclusi per semplice voglia di spostamento.

Si invoca continuamente il nome di Garibaldi per fare opposizione, per nascondersi, se volete; ma ricordate che taluni degli uomini, che fingono spasimare per Garibaldi, disprezzavano i suoi decreti e qualche volta li laceravano! Lasciate dunque che io lo dica francamente: bisogna accettare con riserva gli alti della prodittatura; facendo il contrario, signori, che ne avverrebbe? Voi conservaste una folla immensa d'impiegati a Palermo, un esercito, direi quasi, d'impiegati; abbrutireste il paese e dareste vittoria ai pochi i quali tremando che, entrando il governo della giustizia, debbano andarsene alle case loro, hanno prodotto un'atmosfera, un'opinione fittizia, che non è l'opinione del gran popolo di Palermo, di quel popolo che vi ha dato l'esempio di un'abnegazione straordinaria; me ne appello a tutti. Coloro che gridano di far del bene a Palermo, o signori, non si sono curali sotto la prodittatura di far eseguire un bacino di carenaggio che pure era stato deciso sino dai Borboni, e che il paese reclamava, e che io, sotto questo rapporto, prego l'onorevole ministro pei lavori pubblici ad occuparsene, perché io che, non sono di Palermo, che non sono deputato di Palermo, desidero che quel paese abbia pure quei vantaggi che ha diritto di sperare.

lo non rimprovero che la sicurezza pubblica abbia presentato dei piccoli disordini, e protesto validamente contro talune parole che ho veduto scritte in taluni giornali, i quali hanno detto che vi è reazione in Sicilia: questa è una buffoneria; in Sicilia reazioni borboniche non ne sono successe, né succederanno giammai; e se mai alcuno amasse potentemente i Borboni, egli nasconderebbe questo suo amore, perché sa che dal villano al più felice signore non si desidera altro che ordine, giustizia, unità italiana e Vittorio Emanuele.

SESSIONE DEL 1861

Ed io, a nome del mio paese, domando pure ordine e sicurezza.

Ma direte: è mancata la forza. E qui ne convengo. Ma provvedetevi ora, e domandando forza, non chiedo quella forza, come diceva l'onorevole Ferrari, senza la quale si può tremare pell'unità italiana; come se avessimo bisogno di baionette per governare!

In Sicilia, o signori, sono usciti dalle prigioni circa 12000 condannati; rimasti in un periodo di tempo non corto senza governo per necessità politiche; il prestigio governativo è un po' intaccato; non lo è però in senso politico, perché il senso morale del paese è intatto, a dispetto di chi desidera altrimenti.

Quindi, quando si domanda forza per la Sicilia, non domandiamo forza di baionette, poiché non è il caso d'imporre delle opinioni politiche al paese, il paese le imporrebbe a noi se fossevi bisogno; perché sente per l'unità, per Vittorio Emanuele più di noi medesimi, se volete.

Ma il signor ministro per l'interno ci ha detto che in Sicilia vi sono 1200 e se veramente sono in tal numero, e vecchi io li credo soverchi.

Tuttavia osserverò che in Sicilia vi era una istituzione chiamata una volta dei compagni d'arme, ed ora detta dei militi a cavallo, istituzione tutta liberale, che i Borboni fra tante vessazioni non poterono mai distruggere, perché essenzialmente utile. Voi potreste dire che non presenta quell'utile che ora richiede il Governo con vigore, e che siete sicuri ottenere con altra istituzione; ma questa è cosa discutibile, ed ora il paese è abituato a questa istituzione, mercé la quale, con 23 o 18 individui per circondario, garantiva la propria responsabilità, non nominale, ma reale, perché pagavano tutti i furti che succedevano, sia a passo, sia di abigio, da tutti gli incendi, da tutti i devastamenti delle strade pubbliche; scortano la posta, e non hanno che il soldo meschino di tre franchi al giorno; quindi io non vi dirò di conservarla, ma bensì di esaminare se vi sia veramente convenienza a distruggerla, e che ciò, in ogni caso, si faccia col concorso del Parlamento.

Ho detto queste cose, perché le parole del ministro: noi useremo dei a cavallo, suonano, o almeno (perdoni la mia intelligenza) parmi suonassero soppressione dei militi a cavallo, perché a cavallo e militi a cavallo non potrebbero sussistere. Ora il paese è abituato a questa istituzione, cui, non ostante i suoi difetti e gli elementi che vi si introdussero, si considera utile, indispensabile; e lo è; perché la Sicilia poté per molti anni offrire lo spettacolo che, quantunque tutti odiassero i Borboni, in modo che non fa d'uopo ripetere, furti non ne succedevano assolutamente, e si poteva passeggiare per tutte le strade ed a tutte le ore, senza la menoma paura di essere aggrediti, né derubati.

Non so se il Ministero accetta la mia osservazione, ma so che avrei mancato al mio dovere se non l'avessi proclamata altamente; io desidero che il signor ministro si faccia presente l'istituzione dei compagni d'arme, ossia militi a cavallo, perché è essenzialmente benefica quando sia bene diretti e sorvegliata.

In Sicilia, o signori, vi furono, ed in grande numero, uomini che si batterono per la patria, riuniti in isquadre prima dello sbarco di Garibaldi; e voi avrete visto sotto i portici qui in Torino due fratelli Santanna, i quali con altri bravi sostennero e contribuirono non poco a prolungare la

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TORNATA DEL 4 APRILE

Creati colonnelli, risposero (terminato il pericolo di Palermo): Generale, amanti e dell'Italia e di Vittorio Emanuele, abbiamo combattuto (entrambi furono feriti); ma, non credendoci capaci di fare i militari,, che abbisognano di cognizioni speciali, ci ritiriamo; io desidero che il signor ministro ritenga questo fatto, che certo non è unico in Sicilia.

Per rispondere ai molti che dicono: io sono liberale, senza che pur abbiano fatto nulla, o che per essere liberali pretendono di vivere alle spalle dello stato; e qui io dichiaro al Ministero che sull'articolo di finanze vorrei un sistema il più severo; poiché, se il paese è pronto a pagare e sostenere tutti i sagrifizi, desidera siano fatti nell'interesse della patria; per dar a mangiare a tanti parasiti non sarà disposto giammai! Gl'impiegati devono servire ai bisogni proporzionati del paese e non il paese a chi cerea impieghi.

Io desidero riparazione ai mali lasciati dal governo borbonico; sotto quel triste governo successero fatti scandalosi. Desidero, o signori, che, per quanto è in potere del Governo, si esaminino, poiché sarebbe assurdo che, mentre una rivoluzione trionfa, noi rispettassimo poi gli atti di quelli che ci hanno governati male, atti che furono condannati, e lasciassimo nell'impunità coloro che li hanno commessi.

Ma, mi dirà il signor ministro, con che norma, con quali mezzi si potrà finirla con questa caterva d'impiegati? Io credo che un mezzo ci sia; e già privatamente ho cercato tutti i mezzi possibili per persuaderne il signor ministro dell'interno; e se ora insisto alla Camera, si è per necessità, poiché io non amo popolarità con discorsi alla Camera; anzi ripeterò quello che disse un mio amico: non curo l'infamia, porche sia pel bene della mia patria; cioè non temo esser chiamato infame, purché nel fondo noi sia.

Ora io non ho più nulla da aggiungere. In quanto ai lavori pubblici, il signor ministro che regge quel dicastero disse che se ne sarebbe occupato; ed io lo spero e vi confido, perché la rapidità delle comunicazioni agevola lo sviluppo della vita nazionale. Circa i disordini che succedono nel paese noi ne parliamo qui perché siamo in famiglia (Movimenti diversi), ed il signor Ferrari s'inganna a partito quando dei disordini gravi che succedono in Sicilia ne accusa il sentimento dei miei concittadini; il mio paese non gli ha dato tale incarico, spero.

Previdente. (Interrompendo) Osservo al deputato Bruno che qui tutti sono deputati della nazione e non di una provincia, e quindi ciascuno ha diritto di parlare in nome di essa.

Bruno. Accetto questa dichiarazione, e invito il signor Ferrari a consultare la storia del paese, e vedrà che a Napoli ed in Sicilia si desiderava l'unità sin dal 1820 (Con calore); che per essa si combatteva sin dal 1814; che Messina e le Provincie di Catania, Caltanissetta al 30 non pugnarono per la federazione; esse volevano l'unità italiana, che per essa combattevano Bentivegna e tutti coloro che insorsero nel memorando giorno del h aprile; che per l'unità, mentre stavano 53000 soldati nelle strade di Palermo, si gridava: Viva Vittorio Emanuele'. Che a Catania il giorno 8 aprile 1860, 30000 individui disarmati, inermi, hanno fatto ritirare 3000 uomini armati, al grido di Viva Vittorio Emanuele! viva l'Italia! E cosi si gridava a Siracusa città chiusa da mare, a Messina sotto la cittadella, a Noto, dapertutto, tutto ciò prima ancora che Garibaldi giungesse nell'isola.

lo non voglio con questo menomamente diminuire la gloria di quell'uomo grande; ma quando sento menomare la gloria del mio paese, io sento il dovere ed il diritto di difenderlo e pretenderla a preferenza di chicchessia. (Bene! Bravo!)

Ciò posto, io scongiuro il Governo a non lasciarsi imporre da quegli uomini che gridano, in nome di Garibaldi, esservi disordini in Sicilia: lo proclamo alla Camera: la Sicilia non vuole che una cosa sola: unità nazionale e Vittorio Emanuele. Lo provò colla rivoluzione e col plebiscito. Ama Garibaldi perché ci aiutò efficacemente, ma per governanti desidera chi ha scelto e la legge.

Dietro queste osservazioni, io desidero che il Governo faccia in Sicilia un governo di assoluta giustizia e non di transazione; poiché altrimenti il Governo perderebbe la fiducia, e intende con ciò parlare di voi, signori ministri, poiché il Governo costituzionale monarchico resterebbe sempre intatto, poiché tra le persone dei ministri e tra un principio vi è una gran differenza. (Bravo! Bene!)

Depretis. L'onorevole deputato Bruno ha allegato alla Camera un fatto sul quale non posso rimanermi in silenzio.

L'onorevole Bruno ha detto che, durante la prodittatura, i decreti del generale Garibaldi erano spesso non eseguiti e talora lacerati.

Credo che l'onorevole Bruno sarà in grado di dar qualche spiegazione della sua allegazione, ed io la sentirò volontieri; perché, se mai si pensasse che io avessi una qualche parte in un fatto simile, desidero che luce sia fatta, ed aver modo di giustificarmi.

Bruno. I fatti cui ho accennato non riguardano la prodittatura del signor Depretis; egli sa che io l'ho sempre stimato e come individuo e come prodittatore; se però la Camera desidera che io giustifichi le cose da me dette, lo farò volontieri.

Depretis. Io non ho dimandato spiegazioni per mio conto personale; ma, avendo il signor Bruno parlato della prodittatura in generale, domando, in nome della verità e della giustizia, che egli chiarisca i fatti.

(Parecchi deputati domandano di parlare.)

Gallenga. Propongo la chiusura della discussione. (A sinistra: No! noi)

Ugdulena. Domando di parlare. Non sono che quattro parole, ma è nostro debito di rispondere.

Crispi. Mi perdoni, signor presidente, parlo per una mozione d'ordine.

Presidente. Se si crede di fare eccitamenti al signor Bruno, perché egli specifichi i fatti che ha genericamente indicagti, credo che non sia ora tempo di farlo. Ove il signor Bruno intenda di farlo, ne avrà l'occasione quando gli toccherà di nuovo la facoltà di parlare. Ho dato facoltà di parlare al signor Depretis per un fatto personale soltanto. Ora il fatto personale è escluso, perché il signor Bruno dichiarò che quanto ha detto non si riferisce al signor Depretis. Quindi questo incidente essendo terminato, la discussione debbe continuare sulle interpellanze.

Ugdulena. Chiedo di parlare per un fatto personale.

Se il fatto di cui parlò il signor Bruno non riguarda la prodittatura del sfgnor Depretis, non può riguardar altro che quella di Mordiui. E siccome io feci parte del costui governo, mi credo in diritto di domandare spiegazioni al signor Bruno intorno al fatto da lui allegato.

Bruno. Rispondo.

Un mattino fu stabilito dal generale Garibaldi che io intervenissi in Consiglio di Stato. Non si poterono riunire tutti i membri del Consiglio, nondimeno si prese una determinazione che interessava il ministro delle finanze, e fors'anche il ministro dell'interno. Questa determinazione non fu ese

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- SESSIONE DEL 1861

Si trattava degli affari di Nicosia. Il Comitato di Nicosia aveva prese alcune deliberazioni; il generale Garibaldi le aveva accolte; ma, per un abuso di potere di chi doveva darvi corso, non ebbero seguito.

Occorsero molti altri fatti di questo genere;non potrei ora citarli, perché la mia memoria non li ha ben presenti; ma li ho notati.

Crispi. Io ricordo questo fatto, e affermo che non intervenne né un decreto, né una legge del generale Garibaldi; fu presentata una supplica al dittatore, il quale la rimise al Ministero. Siccome avviene in tutti i dicasteri, la pratica fu sottoposta ad esame e quindi riferita al capo del Governo, il quale risolse contrariamente alla domanda. Quindi gli ordini di Garibaldi furono per niente violati. Se poi si volesse ben conoscere questo fatto, direi delle circostanze che forse non piacerebbero. (Movimento)

Bruno. Parli!

Crispi. In Nicosia si era fatto un movimento contro il ricevitore, del modo stesso che in altre parti della Sicilia. Si diceva che il ricevitore era un borbonico, che non faceva il suo dovere, e qualcuno, che ambiva di succedergli in quella carica, voleva fosse destituito.

Essendo state, prese le debite informazioni, si trovò che il ricevitore di Nicosia era uno degli uffiziali, che, comunque avesse servito sotto il passato regime, nondimeno aveva fatto il suo dovere quale gestore del danaro pubblico. Non essendosi in conseguenza trovato nulla che si potesse imputare a lui né sulla moralità, nè sul modo come comportavasi nell'esercizio delle sue funzioni, il generale Garibaldi decise che quella destituzione non era a decretarsi, onde coloro, che ne erano promotori per venire sostituiti in quel posto, ne rimasero dolenti. Ma non ci fu nulla nel fatto che possa dare a credere che furono dati ordini da Garibaldi, e che questi ordini non furono mai rispettati. Le cose andarono né più né meno nei termini da me enunciati. La petizione, lo ripeto, fu mandata al dicastero; il dicastero, esaminata la pratica, lo riferì al generale Garibaldi, il quale, persuasosi che non fosse il caso di destituzione, ordinò che le cose dovessero restare allo stato in cui erano.

Presidente. Il deputato Conforti ha facoltà di parlare.

Conforti. Siccome le ripetizioni sono una noiosissima cosa, io rinunzio alla parola. (Bene! Bravo'.)

Presidente. La facoltà di parlare spetta al deputato Ruggiero.

Ruggiero. Rinunzio io pure.

Presidente. Allora la facoltà di parlare spetta a) deputato Bertolami.

Gallenga. Io insisto per la chiusura. È il terzo giorno che si discute, e pare che la materia sia stata abbastanza dibattuta. Abbiamo perduto del tempo prezioso per i lavori importanti e urgenti che il Parlamento ha da preparare e da porre a termine, e per conseguenza è necessario chiudere questa lunga discussione, e venire ai voli sulle proposte.

Presidente. Metterò dunque ai voti la chiusura.

Crispi. Io mi oppongo alla chiusura, e domando facoltà di dirne le ragioni.

Plotino. M'oppongo io pure, perché ho delle comunicazioni importanti a fare.

Presidente. Domanderei prima di tutto se la Camera appoggia la chiusura; qualora vi si siano dieci deputati che l'appoggiano, darò la parola sulla chiusura, e il deputato Amari potrà parlar dopo; se no, si riprende la discussione.

Chi appoggia la chiusura, è pregato di alzarsi. (È appoggiata.)

Il signor Crispi può parlare contro la chiusura.

Ugdulena. Chiedo di parlare.

Crispi. Quando furono annunziate le interpellanze dell'onorevole Massari si presentarono come se dovessero aver luogo unicamente sull'amministrazione di Napoli. Ne avvenne quindi che nessun Siciliano pensò a farsi inscrivere.

Un deputato volle impegnare anche la questione delle Provincie siciliane; qualche altro ha voluto anche venire a una storia retrospettiva, nella quale tutti noi siamo interessali; e per un certo dovere ed un diritto che abbiamo delle nostre opinioni e per la legittimazione del fatto nostro, credo che la Camera non vorrà lasciarci sotto il peso di accuse che si sono fatte, senza che noi potessimo in qualche modo difenderci. Quindi chiudere la discussione in questo momento sarebbe lo stesso che togliere facoltà di parlare ai deputati siciliani, che sono i soli che non abbiano parlato. (Bravo! a sinistra e nel centro)

Posto ciò, prego la Camera a voler essere indulgente e permettere che uno o due di noi possa dire quelle cose le quali interessano ed il paese e noi individualmente.

Presidente. Già avevo detto prima che, quand'anche si votasse la chiusura, restava riservata la facoltà di parlare al signor Amari; ma io non poteva far distinzione fra Siciliani e Napolitani.

Il deputato Gallenga insiste sulla sua proposta di chiusura?

Gallenga. Siccome non vorrei privare i deputati siciliani della facoltà di parlare specialmente sulle cose dell'isola, che credono non abbastanza discusse, domanderei che si chiudesse la discussione almeno per ciò che spella a Napoli.

Plutino. Se la discussione si chiudesse ora, avendo io cose molto rilevanti a dire alla Camera, sarò costretto, per adempiere al mio dovere, di muovere nuova interpellanza per domani. È dunque assai meglio che ora si esaurisca l'argomento.

Presidente. Allora, se non s'insiste per la chiusura, mi pare che si possa concedere facoltà di parlare al deputato Bertolami.

Voci. Sì! sì!

Presidente. Il deputato Bertolami ha facoltà di parlare.

Bertolami. Mi pare che la discussione è meglio finisca oggi...

Voci. Si! si! il più presto possibile.

Bertolami. Allora l'animo mio si trova in tale stato di violenza, che io procurerò, o signori, di stringere quello che debbo dire nelle minori possibili parole. (Bette!)

Io non avrei voluto trarre più oltre questa discussione; ma, d'altra parte, mandalo dalla Sicilia in quest'Assemblea, sento il dovere di esporre la mia opinione. Mi affretto a dire che volentieri dichiaro il mio consentimento alle idee del ministro dell'interno.

L'onorevole ministro ha detto molte cose, che, secondo me, sono giuste e vere; però, o signori, non potrei schiettamente aderire a tutte le sue parole; c'è nel sub discorso qualche frase che non mi contenta affatto.

L'onorevole ministro ha parlato, o signori, di circostanze straordinarie; ha parlato di gravi difficoltà a superare, e quindi ha finito col dire che queste difficoltà andranno scomparendo col tempo, e questa frase l'ha adoperata sull'argomento gravissimo della pubblica sicurezza. La frase, se melo consente l'onorevole ministro, mi pare elastica, e questa elasticità

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Io, o signori, ho avuto sotto i miei occhi le condizioni della mia regione natale, e, dico la verità, dopo undici anni e mezzo di esilio, espulsi i Borboni da quell'isola, io non avrei mai immaginato che avessi potuto vederla nelle misere condizioni in cui la vidi.

In questo momento, o signori, io non voglio indicarne tutte le cagioni, ma queste cagioni non possono certamente pesare sul Governo del Re, perché il Governo del Re non ispiegò, né poteva spiegare azione alcuna in quel paese prima che il plebiscito si fosse proclamalo.

Certo è, o signori, che noi abbiamo avuto nell'Italia meridionale, e dico particolarmente in Sicilia, un'insurrezione che io, senza tema di esagerazione, ardirei dire portentosa; portentosa prima del soccorso generoso che ebbe la Sicilia da parte di un invitto duce, seguito da giovani animosi e valenti; portentosa dopo gli sforzi di quel magnanimo; ma la rivoluzione però non mi pare che fosse seguita.

L'insurrezione fu grande, la rivoluzione mancò; lasciate che io dica la parola, perché non sono uso ad annebbiare con perifrasi il mio pensiero. Compiuta l'opera dell'insurrezione, l'opera della rivoluzione io non la trovai; che anzi, se dovessi palesare tutto il vero, come a me parve, direi che trovai invece l'opera della controrivoluzione. Mi spiego: io intendo che è molto più difficile combattere la tirannide che il tiranno. Il despota ed i suoi satelliti possono qualche volta sgombrare come per incanto, e come per incanto, invero, sgombrarono i più esecrati mostri delle moderne tirannidi, i Borboni di Napoli; ma se i tiranni si pongono in fuga, non è altrettanto facile far scomparire gli effetti della tirannide. Quegli effetti io li trovai troppo tristi, perché la rivoluzione che, secondo me, dee cangiare l'anima di un popolo, potesse vincerli; la rivoluzione credette dover usare della condiscendenza per le passioni più vive e più ardenti, e le passioni riie ed ardenti in un paese pessimamente corrotto dalla tirannide, qualunque fosse nel fondo l'indole generosa del popolo siciliano, al quale non v'ha certo Italiano che non renda oramai giustizia, non salvarono il paese dallo spettacolo di un'avidità ed un'ingordigia che non fu dai buoni abbastanza biasimata. Era, secondo me, dovere della rivoluzione l'opponi a quella corrente: la rivoluzione non lo fece; sia per fiacchezza, o per qualunque altra ragione, io non so. Il fatto è questo, ed io non posso permettere che alcuno negasse l'evidenza dei fatti.

Io andai in Sicilia, e tutto ciò che vidi produsse in me tale un dolore, che non ebbi altro conforto che quello di non aver avuto partecipazione alcuna all'amministrazione di quel paese; tanto, ve lo ripeto francamente, l'amministrazione di quel paese mi fece male al cuore!

Pensate quindi, o signori, come gravi si furono le difficoltà quando doveva veramente mettere radice in quel paese un Governo italiano, un Governo quale noi tutti lo desideravamo, un Governo che doveva provvedere ad un grande avvenire. Le difficoltà erano enormi, gigantesche, ed appunto per questo io non ardisco alzare una lagnanza contro il Governo. Se mai alcuna cosa di quello che avvenne in quel paese fosse avvenuta per opera del Gabinetto attuale, io per imprescindibile dovere sarei oggi il più fiero oppositore del Governo; ma io non posso incolparlo, perché, ripeto, ho osservato tutto cogli occhi miei, e posso far testimonianza che il Governo non agi in nessun modo, ma che la rivoluzione non compì il debito suo.

Posto ciò, o signori, noi abbiamo veduto le gravi conseguenze che ne vennero; ne vennero appunto i mali lamentati in questa discussione, e il più grave di tutti, secondo me, è la mancanza di pubblica sicurezza.

Questa mancanza di pubblica sicurezza è tal cosa che non si può abbastanza immaginare dai felici che vivono in ben altra condizione che quella di un popolo, il quale, uscendo dal dispotismo, invece d'avere rassicurate le proprietà e la vita, si trova invece balzato in tali elementi, che sono d'inciampo continuo alla civiltà a cui anela di tutta l'anima. Oggi che le circostanze straordinarie sono sparite, alla pubblica sicurezza si dovrebbe altamente provvedere con un sistema di governo, il quale non scenda più ad alcuna transazione.

Questo è, o signori, il pensiero che io amo esternare solennemente.

Secondo me, il Governo del Re è stato come un chirurgo il quale si trova innanzi ad un'operazione tremenda da fare, e non ha il coraggio di porvi mano; vede tutti i danni che possono venire al malato, ma pure non si sente forza che basti.

Nè, o signori, vi farò commenti di questo pensiero; ciascuno di voi può considerare le dure condizioni in cui si trovò il Governo all'indomani del plebiscito; allorquando la cittadella di Messina era ancora in mano del Borbone; quando non eravamo entrati in Gaeta. Or bene, il Governo non credè di affrontare quelle difficoltà, preferì di transigere, e di transazione è passato in transazione, di debolezza in debolezza; cosicché oggi, fatto doloroso! ma, pur troppo, da tutti ripetuto, il Governo del Re è esautoralo in Sicilia.

Se colai fatto avesse a continuare, sarebbe per noi la massima delle sventure.

Io quindi sento nella mia coscienza che è dovere di ogni uomo che qui siede di dar forza al Governo, ad un Governo che non ci viene né dall'alto né dal basso, al Governo sorto dalla politica nazionale, scelto da noi.

Nè in ciò io ho altro pensiero, altro intendimento che quello di Giorgio Washington, il quale, mi si permetta questa citazione, diceva che il potere e il diritto che ha un popolo di crearsi un Governo sarebbero vani, ove non fosse in tutti i cittadini il dovere di sottomettersi a quel Governo. Giorgio Washington diceva che la libertà non esiste, se non di nome, là dove il Governo non è forte, dove il Governo non può contenere ciascun membro della società dentro i limiti che sono prescritti dalla legge, dove non può guarentire a tutti i cittadini il libero godimento dei loro diritti.

Cosi intendeva, o signori, la libertà Giorgio Washington, e non come certi Catoni d'oggidì, che in paese libero sono per lo meno ridicoli. Così la intendo io; perciò tengo seriamente risponsabile il Governo di qualunque futura debolezza. L'anno governativo per l'Italia meridionale comincia da oggi; e ricordi il Ministero l'adagio: Anno nuovo, vita nuova. Ecco quello che io desidero: desidererei che le leggi fossero religiosamente eseguile in Sicilia, come in qualunque altro angolo del regno italiano. Così, soltanto così potranno aver termine una volta i mali che si sono aggravati sulla mia isola natale.

Quanto al signor ministro dei lavori pubblici, io lo scongiurerei a trovar modo di porre fine alle incredibili miserie nelle quali sin ad oggi quel povero paese si giace. Si gravi pure l'erario di alcuni milioni, onde por roano, senz'altri indugi, a quei lavori, senza i quali è vano sperare vita industriale e vita di popolo civile. Sì, vi si ponga mano piuttosto oggi che domani, poiché tanto le opere che il lavoro sono di un'estrema necessità.

Nessuno di noi può immaginare in quali orride condizioni si trovi la Sicilia, e, per parte mia, posso dirvi che, quando mi

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Presidente. La facoltà di parlare ora spelta al deputato D'Ondes Reggio.

Voci. Non vi è!

Presidente. Allora può parlare il deputato Amari.

Minghetti, ministro per l'interno. Dopo il deputato Amari, domando di parlare un momento per dichiarare quale ordine del giorno il Ministero accetta.

Amari. Come cittadino e deputato di Palermo, non potrei lasciar passare inosservate certe parole dolorose per me e fors'anco per la Camera, che io intesi nella prima giornata di questa interpellanza.

Io intesi dire che i mali della Sicilia erano in gran parte derivali perché non vi era Governo; che se il Governo di Sicilia non si sottraeva alle influenze della popolazione di Palermo o della piazza di Palermo, non eravi possibilità di governare. Queste parole, lo replico, mi hanno profondamente addolorato. Un'accusa di tal natura, mettere Palermo come all'indice e della Sicilia e dell'Italia, debb'essere accompagnata da gran corredo di fatti, di argomenti, di dimostrazioni, prima che si slanci con tanta leggerezza.

Io prego la Camera a non credere che per me si vogliano sollevare tempeste; prima, perché non mi sento i fianchi di Eolo politico, c poi, perché ho un profondissimo rispetto alla Camera, innanzi a cui io parlo. Quindi non dirò parola che possa menomamente offendere alcuno; dirò solo, c replicherò, che un'accusa di tal natura, u si porta avanti con gran corredo di argomenti, o non si arrischia.

E di quale città si parla, o signori? Di una città che ha fatti immensi sacrifizi per la causa italiana. E quando altresì le si muove quest'accusa? Nel momento appunto in cui tutti invochiamo la concordia, nel momento in cui gli uomini più ostinati nelle loro opinioni cedono e comprimono dentro al loro cuore qualunque sentimento che, scoppiandone, potria produrre un dissidio; perché in faccia all'Italia, in faccia all'Europa ci presentassimo uniti in un pensiero ed in un affetto; ed in questo momento, lo ripeto, si muove un'accusa cosi grave contro Palermo!

Ma l'accusa porta con sé la sua confutazione, perché il deputato che la profferì, facendo comuni alla Sicilia tutti i danni, tutti i disordini, che si sono enumerati dal signor Massari, e, secondo lui,esistono nel già regno di Napoli, disse esistere anche in Sicilia tali mali.

Ora l'onorevole signor Massari, con diligentissima cura avendo esaminate ad una ad una le cause dei mali dell'ex-reame di Napoli, non credette, né gli passò neppur per sogno in mente di attribuirle alla città di Napoli.

Dunque, come è possibile che gli stessi mali che voi dite avvenuti in Sicilia siano attribuiti a Palermo?

Potevano mali simili avvenire nell'ex-reame senza averne colpa la città di Napoli, perché gli stessi, quali voi li dite, non potevano avvenire in Sicilia senza darne colpa a Palermo? E notisi che, se d'influenza si parla, la ricca, polente c popolatissima Napoli n'ha certamente assai più che Palermo sulle Provincie a cui appartiene.

Ma il signor Paternostro, conoscendo la leggerezza della sua accusa, ed, aggiungo anche, l'ingiustizia, credette ripararsi dietro un artificio di esclusioni. E venne escludendo dalla colpa la gran maggioranza, i ricchi, gli uomini ben educati, la guardia nazionale, io credo, che n'è costituita, gl'intelligenti e qual altro non so Ma, in nome del buon senso e della giustizia, ammettete tutte le esclusioni fatte dal signor Paternostro, e che resta d'una città?

Oh! che resta? Resta qualche cosa, e il signor Paternostro la trovò. Resta la piazza. Ecco la parola felicemente trovata. Parola vaga ed indeterminata che si presta a tutte le interpretazioni, secondo le passioni degli uomini; e a chi si presenta sotto aspetto tristo, pare abbominevole.

Ma che cosa è questo popolo, questa piazza di Palermo?

Ascoltate. Noi abbiamo avuto, in dieci mesi, dittatori, prodittatori, luogotenenti del Re: dite quali sono stati offesi da quella piazza, chi di loro ha dovuto cedere in faccia a quella piazza?

Ma sapete che cosa è il popolo di Palermo? E quello che da 20 anni ha sofferto la più efferata tirannide senza mai avvilirsi; quello il quale ha fatto tante rivoluzioni, e le ha fatte per l'Italia, ad onta che un altro deputato, rovistando le memorie dei tempi andati, sia venuto a rammentare cose già sepolte nell'oblio, e che non si dóvean mai disseppellire, perché erano memorie di fraterne discordie, e già cancellate dalla sublime unanimità del 1818.

Questo popolo è quello che si precipitò innanzi al Suo liberatore, ed in un giorno, mentre mille dei nostri fratelli erano morti o morenti sotto le rovine, alzava quelle barricale che cinsero, come dentro un vallo inespugnabile, non una guarnigione, ma un esercito, e l'obbligava a ritirarsi.

A questa città, per metà distrutta dalle bombe, si offrivano larghi patti di libertà, per secoli negati alla Sicilia; ma essa rispondeva con un grido che echeggiava nella reggia di Napoli, e vi portava lo spavento: Non accettiamo! Guerra a morte! Viva Italia! Viva Vittorio Emanuele.» E questa è stata la città la quale diede impacci al Governo del Re? A tale accusa sarà, lo spero, sufficiente risposta la bontà colla quale m'ha la Camera ascoltalo. E se le parole qui pronunziate contro della mia Palermo giungeranno colà oggi, oggi il li aprile, il popolo di quell'eroica città, che festeggia l'anniversario della sua gloriosa rivoluzione, altro non farà che ripetere la parola di quel magnanimo romano, il quale, accusato da un tribuno ingiusto, rispondeva, pieno di calma sublime: «Andiamo a ringraziare gli Dei, chè in questo giorno stesso ho salvalo la patria. (Bene! Bravo!)

Ciò detto non mi dilungherò intorno alle condizioni della Sicilia. Il quadro che ne han fatto alcuni oratori è tale da far rizzare i capelli. Ma è egli esatto? Il signor ministro dell'interno, il quale, sebbene abbia confessato di non essere minatamente informato di tutti i fatti, deve pure, in sua qualità di ministro, avere ragguagli meno esagerati, e più fedeli di qualunque altro, ha pur detto che lo stato delle cose non è così deplorabile come si dice. Non c'è dubbio che la sicurezza pubblica non è quale la desideriamo tutti; vi sono dei disordini, degli inconvenienti; ma la colpa di chi è?

Io non accuserò mai persona: quando si pensa che noi siamo stati dieci mesi in rivoluzione, e che in dieci mesi sono successi i fatti più straordinari,

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i mutamenti più radicali c prodigiosi, insomma una rivoluzione come non ve ne avvengono due in un secolo, non ci è d'uopo accusar gli uomini dei mali che non possono evitarsi.

Quando si parla di rivoluzione, io vorrei, signori, che tutti quelli che qui seggono fossero stati presenti alla rivoluzione di Sicilia. Le rivoluzioni della Sicilia non sono come le altre rivoluzioni. Là si comincia dal distruggere tutto, e si deve distruggere tutto, perché tutto è organizzato all'oppressione. Al momento che la vittoria si dichiara per la rivoluzione, in quel momento non esiste più forza pubblica, non esiste più ordine pubblico, non esistono più ordini di nessuna maniera, e per giunta e colmo di sventura, per un'antica pratica dei nostri oppressori, è stata una delle loro industrie di guerra, direi quasi uno dei loro arcani controrivoluzionari, lo spalancare le porte delle carceri e vomitare in mezzo al popolo tutta la feccia delle galere, e questa prende le armi, parte si batte, o parte finge di battersi; ma finalmente essa s'agita e si confonde in mezzo agli altri.

Ora, come volete che in un momento tutti questi uomini possano tornare sotto il freno della legge e dell'ordine, mentre vi sono tanti e si terribili elementi di disordine?

E siccome la prima operazione della rivoluzione siciliana deve essere quella di distruggere la forza che manteneva la pubblica quiete, e nessun'altra le si può sul momento sostituire, conseguentemente questi disordini continuano, e, secondo una frase famosa di chi avea visto e governate rivoluzioni vere, bisogna far l'ordine col disordine.

Onde io non sono tanto meravigliato di quegli inconvenienti che sono avvenuti, ma ringrazio la Provvidenza, che non ne siano avvenuti assai più terribili, perché finalmente si limitano a delle aggressioni, a delle private vendette, ma non c'è stato mai una insurrezione, né una sedizione generale, non un principio di guerra civile.

Io ho sotto gli occhi de"rapporti che dimostrano come lostato di tranquillità di quelle provincie sia molto migliorato; ho letto sui giornali ufficiali che da più settimane la quiete nella città di Palermo e nelle provincie si mantiene inalterata. So bene clic oggi siamo arrivali al punto che a tutto ciò che viene dal Governo del Re si crede; che noi ci inchiniamo, e certo io il primo ad un documento che mi presenta il Ministero mi inchino, perché non posso immaginare che un ministro del Re voglia menomamente offuscare il vero. Ma è tutt'altro quando viene alcun documento dal Governo di Napoli o di Sicilia; allora non si crede più; allora quelle si eredon menzogne. Ebbene, io dico che meritano fiducia tanto gli uni quanto gli altri, sia perché gli uomini che li scrivono sono tutti egualmente uomini d'onore, sia perché quei di Sicilia o di Napoli non sono finalmente altro che una emanazione del Governo del Re. (Bravo Bene!)

Ora bo sotto gli occhi una statistica, la quale con cifre (e l'eloquenza delle cifre vai meglio che l'eloquenza delle parole), con cifre ci dimostra che dal mese di settembre i delitti nel circondario di Palermo, il quale vale quanto due provincie, perché consta di più di 500 mila abitanti, sono andati gradatamente scemando, e che tutti i reati che sono succeduti nel mese di gennaio non sono che 47.

Capisco che gli è pure una cifra elevata, la quale debbe fare penosa impressione, se volete confrontarla colla Toscana, ove passano anche di mesi senza che avvenga un delitto; ma, se la mettete a confronto colle cifre de' mesi antecedenti, vi verrà dimostrato che vi è una diminuzione della metà.

La frequenza de' delitti è conseguenza quasi inevitabile dei disordini che trascina seco la rivoluzione; ma poco a poco l'ordine ritorna, la calma si ristabilisce:

quindi, a che spingere il Ministero oltre di quello a cui il suo dovere naturalmente lo spinge, oltre a quello che ci ha promesso? A che gridare: forza, forza, e forza ancora? lo, per me, vi risponderò, o signori, che il meno che sia necessario di dire ai Governi, è di esser forti: i Governi hanno da loro una tale inclinazione ad esser forti, che non hanno bisogno de' nostri consigli e delle nostre sollecitazioni. (Segni di approvazione a sinistra)

Le finanze! Certo le finanze di Sicilia non sono in una condizione prospera, ma esse non si trovano attualmente in uno stato normale. Il generale Garibaldi, per una misura di necessità politica, per una misura eminentemente rivoluzionaria, abolì c doveva abolire il dazio sul macino. Ma sapete quanto rendeva questo dazio? Esso rendeva circa il terzo delle entrate dello Stato. Egli abolì e doveva abolire la tassa sul bollo, la carta bollata, la quale aveva fatto fare una rivoluzione in America. Egli abolì la carta bollata, perché era un segno della schiavitù borbonica, perché era stata imposta dopo la reazione del 1849. Essa doveva essere abbruciata dal generale Garibaldi, e l'abbruciò. (Movimenti diversi)

Io parlo di quello che è stato; con quest'alto non si pregiudicò l'avvenire. Quella fu una misura eminentemente rivoluzionaria.

L'abolizione di queste due imposte ha diminuite della metà tutte le entrate dello Stato. Ma questo non è il tutto. Mentre le entrate diminuivano della metà, le spese crescevano a dismisura. Io ho inteso a dire che crescevano per l'aumento degl'impiegati. A questo riguardo io vorrei che il Ministero mettesse un termine a tutti questi reclami d'impiegati, c domando con insistenza che esso faccia un'inchiesta; e se quell'inchiesta che ha domandato l'onorevole Ferrari non c'è concessa, io vorrei che almeno si facesse questa, perché così, se è vero, si chiude per sempre la bocca a coloro i quali potrebbero essere ancora tentati a domandare; se non è vero, si chiude la bocca a coloro che vogliono esagerare e far vedere la Sicilia quasi formata di due milioni di sollecitatori e di accattoni.

Un onorevole nostro collega muove rimprovero al Ministero, chiedendo con quale diritto fossero le imposte riscosse, in Sicilia. A tal proposito può osservarsi che, se furono finora in vigore le disposizioni del luogotenente, presentemente questa questione è sciolta, perché nella legge che autorizzava il Ministero a continuare la riscossione per altri tre mesi di tutte le imposte del regno, la Camera estese anche questa facoltà alle provincie napoletane e siciliane. Siamo dunque in piena e perfetta costituzionalità.

Ma ciò non toglie la mancanza dei tesoro: questa autorizzazione legalizza l'esazione, ma non impingua le casse dell'erario.

Io qui non posso far rimprovero a nessuno, imperciocché le imposte si sono pagate e si sono riscosse in mezzo a tanti allegati disordini; e intanto le spese della Sicilia quali sono state? Diceva un onorevole deputato, la Sicilia ha guadagnalo molto. Ha guadagnato la lista civile dovuta al Borbone, e qualche altra somma che non si paga più; ma non vi contrapponete le immense spese della guerra che essa dovette sopportare? E che? La Sicilia per sei mesi non fece le spese di tutte le spedizioni, e pel fatto di Milazzo, pel passaggio del Faro, per tutte insomma le spedizioni sino a Napoli? E non ha dessa contribuito pei fucili, per 18 vapori, e per tutto l'equipaggio di un'armata che solamente si arrestavo a Capua? E sempre si parla dello sperpero delle finanze siciliane; e voi sapete che queste spese, comprese quelle

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SESSIONE DEL 1861

Tale è lo sperpero, ed, aggiungo, tale la moralità degli alti funzionari che hanno governato la rivoluzione della Sicilia! perché io debbo render giustizia a loro, e questa giustizia gliela rese sin dal 1849 il Governo più corrotto è più ostile a noi, che quando fece i conti di tutti gl'impiegati (e qui ho il piacere di vedere tanti miei onorevoli colleghi i quali ebbero il maneggio di grossissime somme nel 1848 e 1849, e molti di loro tornarono ad avere il potere nel 1860), fece giudicare questi impiegati da un magistrato eccezionale creato da Ferdinando II, eppure ne uscirono tutti puri, e nessuno potè accagionarsi della menoma malversazione. (Bene! Bravo'.)

Quando si parla di corruzione, egli è vero che tutta la colpa può rivolgersi contro il Governo, ma non toglie che noi dobbiamo dire la verità; che noi, cioè, non siamo tutti corrotti per essere stati soggetti al Governo il più corrotto. Io dirò una volta per sempre, che non bisogna rappresentare questi due popoli come non altro che una cancrena; no; noi siamo Italiani ed abbiamo conservato le virtù italiane; abbiamo fallo la rivoluzione, e questo basta per dimostrare la nostra moralità. (Bravo Bene! dal centro e dalla sinistra)

A proposito di finanza, bisogna far conoscere ai signori ministri, e non so a chi specialmente mi debba rivolgere, ma mi rivolgerà al presidente del Consiglio (poiché, come ben diceva un onorevole nostro collega, egli, in certa maniera, personifica l'idea del nostro Governo), che la nostra finanza non sarebbe in tanti guai, com'è apparentemente, se il presidente del Consiglio ci avesse fatto ottenere un po' di giustizia dalle finanze di Napoli, le quali sono ancora sotto la sua sorveglianza.

Il generale Lanza, prima di partire, portò dal pubblico banco di Sicilia quanto vi era della finanza e del tesoro siciliano, e non furono meno di 600,000 ducati, e questi li portò tali quali, in moneta sonante, al tesoro di Napoli.

Ora il tesoro di Sicilia ha chiesto più d'una volta (e qui chiamo in testimonio l'onorevole signor marchese di Torre Arsa, che per un momento portò con me la croce di essere consigliere di luogotenenza); quante domande abbiamo fatto, quante preghiere, affinché ci si rimandassero questi 600,000 ducali, coi quali si avrebbe potuto sopperire ai bisogni più urgenti della finanza, e principalmente a metter mano alle opere pubbliche, necessarie ed urgenti in Sicilia più che in qualunque altro paese del mondo!

Le finanze sono dissestate, senza dubbio; ma sapete quanto han pagato in Ire mesi per soli congedi ai garibaldini? Si parla di tre o quattro milioni di lire al mese. Io non sollevo qui nessuna questione, non dirò neppure se io creda utile o non utile la misura presa dal Governo, ma è certo che essa costò a noi due o tre milioni al mese.

Delle opere pubbliche non parlo, perché, dipendendo la loro effettuazione dallo stato delle finanze, nelle condizioni in cui si trova, qualunque opera pubblica era diventata impossibile.

Soltanto osserverò al signor ministro dei lavori pubblici, il quale attribuiva la mancanza di studi sulle vie ferrate alla disorganizzazione di una certa Commissione, che non è punto questa la causa, ma bensì ciò derivò dall'esistenza di un decreto, il quale aveva concesso tutte le strade ferrate alla casa Adami e Lemmi; ora questo decreto restò come tanti altri in aria, e non si sapeva se dovesse o no avere esecuzione.

Era quindi impossibile pensare a costrurre strade ferrale quando la via era chiusa da una concessione, che non si sapeva se fosse o no accettata, cui però ora sento dire essere definitivamente conchiusa, e me ne rallegro con tutta l'anima.

Dopo ciò, o signori, non negherò che vi sia in Sicilia agitazione, ma è un'agitazione non materiale, ma piuttosto negli spiriti; è un'agitazione che punto non minaccia i pericoli che si vanno sognando, è un'agitazione che nasce dall'incertezza delle sorti degli uomini, delle classi e di tutto il paese. (Movimenti)

Mi permetterà la Camera che io creda di non aver oltrepassato d'una sola linea i dettami della più riservata moderazione, e colla stessa moderazione mi permetterà che le dica tutto quello che sento

Voci. A domani! (Escono parecchi deputati)

Presidente. Vuole ancora continuare a lungo?

Amari. Debbo dire qualche cosa di quello che sento, debbo fermarmi sulla materia d'un ordine del giorno che già proposi.

Molte voci. A domani! a domani! La seduta è levata alle ore 6.

Ordine del giorno per la tornata di domani:

1° Seguito della discussione sulla interpellanza relativa alle condizioni delle provincie napolitane;

2° Interpellanza del deputato Rasponi al ministro dei lavori pubblici circa le ferrovie delle Romagne e delle Marche;

5° Discussione del progetto di legge che proroga i termini fissali per l'affrancamento delle enfiteusi nell'Emilia,

4° Svolgimento della proposta di legge del deputato Ricciardi per l'incameramento dei beni di manomorta e de' luoghi pii.

TORNATA DEL 5 APRILE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE RATTAZZI.

SOMMARIO. Omaggi e congedi. - Seguito della discussione sulle interpellanze intorno all'amministrazione delle provincie meridionali - Il deputato Amari continua il suo discorso - Discorso del ministro guardasigilli intorno all'emanazione ed esecuzione di leggi prima della riunione del Parlamento - Discorso del ministro per l'agricoltura e commercio in difesa degli atti della luogotenenza in Sicilia - Discorso del deputato Ugdulena in difesa degli atti prodittatoriali in Sicilia - Chiusura della discussione-Voli motivati proposti dai deputati Ranieri, Fabrizj ed altri, Ricciardi e Brofferio - Alcune proposte sono ritirate - Voto proposto dal deputato Di Torre Arsa, e suo svolgimento - Spiegazioni del ministro per l'interno - Discorso del deputato Mellana in appoggio della proposta Ferrari - Incidente sul rinvio della discussione - Si delibera di non rimandarla - Parlano sulle proposte i deputati Crispi, Massari, Brofferio ed il ministro per l'interno - La deliberazione non ha effetto per mancanza di numero.

La seduta è aperta all'una e mezzo pomeridiane.

Tenca, segretario, dà lettura del processo verbale della tornata precedente, il quale è approvato.

Gigliucci, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

6912. Il municipio di Bel castro domanda che la strada nazionale da compiersi dalla città di Catanzaro sino a Cotrone, invece di percorrere il litorale del mandamento di Cotrone, tocchi il comune di Belcastro.

6945. I medici e chirurghi dei circondari di Crema e di Binasco chiedono che nel progetto di legge presentato dal ministro dell'interno nella tornata del 13 scorso marzo sia introdotta una disposizione per rendere obbligatoria a ciascun comune la spesa del servizio sanitario pei poveri e di pubblica igiene, come pure i consorzi comunali definiti nella tabella di circoscrizione sanitaria.

6944. Morelli Francesco, di Bologna, presenta vari documenti comprovanti i lunghi suoi servizi prestati sotto il Governo pontificio, le sofferte vessazioni, onde essere provveduto di conveniente pensione.

6945. Il Consiglio comunale e alcuni possidenti di Acqua Formosa, Calabria Citeriore, ravvisandosi gravati dalla quota del tributo fondiario, chiedono si addivenga alla verifica dell'estensione e della qualità dei terreni da loro posseduti, persuasi di ottenere una notevole diminuzione di contributo.

Sanseverino. Pregherei la Camera di voler dichiarare d'urgenza la petizione 6943, presentata dai medici e chirurghi di Crema, i quali domandano che siano nei comuni dichiarate obbligatorie le condotte mediche.

(È dichiarata d'urgenza.)

Amari. Domando la parola per un'osservazione sul processo verbale.

Nel rendiconto che fu ieri distribuito, dove si accenna che la parola era stata data al deputato D'Ondes, mi pare si aggiunga che questi era assente. Ora io ho ricevuto una lettera del signor D'Ondes, nella quale mi dice che è a Genova ammalalo. Io vorrei che questa circostanza fosse notata.

Presidente. Ne sarà fatta annotazione, e risulterà dal rendiconto d'oggi.

CAMERA DEI DEPUTATI - Discussioni del 1861.53

ATTI DIVERSI.

Presidente. Il signor Masci Giuseppe, deputato al Parlamento napoletano negli anni 18481849, fa omaggio di una sua opera: Teoria del governo dei popoli secondo i veri principii cristiani, e sua pratica applicazione negli odierni stati d'Europa.

Il ministro d'agricoltura e commercio trasmette alcuni esemplari della relazione intorno all'amministrazione delle regie miniere e fonderie del ferro di Toscana, e documenti di corredo.

Il deputato Salvagnoli scrive che per ragioni di pubblico servizio gli occorre un prolungo di venti giorni al suo congedo.

(È accordato.)

Il deputato Liborio Romano (Movimento di attenzione) annunzia per dispaccio di esser giunto a Genova, e che non può recarsi al Parlamento per essere trattenuto da malattia all'albergo della Lega Italiana. '

I signori deputati Amicarelli, Caso, Cardente, Tari, Leopardi, Moffa e Pallotta, hanno presentalo un progetto di legge, il quale sarà mandato agli uffici perché ne sia autorizzata la lettura.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLE INTERPELLANZE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLITANE E SICILIANE.

Presidente. L'ordine del giorno è il seguito della discussione intorno alle interpellanze dei deputati Massari e Paternostro sulle condizioni delle provincie meridionali.

La parola è, al deputato Amari per compiere il suo discorso di ieri.

Amari. Signori, nel momento in cui ieri la Camera volle avere la bontà di rimandare a questo giorno la continuazione del mio discorso, io avevo incominciato a presentare alcune

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Io non parlo già dell'agitazione che si mostra alla superficie, emù a dire nei giornali, negli opuscoli, nei libelli, poiché quelli che siedono qui fin dall'antica Legislatura sono vecchi al godimento della libertà della stampa, e sanno che tutto il fracasso che spesso fanno i giornali spesso non è l'eco dell'opinione pubblica, e che ben sovente quella voce, la quale si fa passare per essere la voce di tutto un popolo, non è che la voce di una piccola frazione, e sovente ancora non è che la voce di un individuo. Io parlo delle cause generali che possono produrre un certo malessere, una certa inquietudine negli spiriti di Sicilia, e che pur troppo esistono. La prima e più potente causa generale è la stessa rivoluzione.

Chi dice rivoluzione, dice un cumulo di mutamenti straordinari, violenti, uno scatenamento di passioni le più accese, la guerra con tutti i furori anche della guerra civile. Quindi non è meraviglia che una rivoluzione, molto più quando sia da tanti anni maturata e così accanitamente combattuta come fu in Sicilia, abbia prodotta una grande agitazione negli spiriti che ancora non si è potuta del tutto calmare.

Chi dice rivoluzione, dice l'interruzione delle ordinarie occupazioni degli uomini, quindi l'interruzione delle carriere, e di quelle oneste industrie da cui in generale si ritrae il sostentamento della vita.

E da ciò quella smania di pane e di lavoro che si manifesta dopo una rivoluzione, e di cui avete tanto inteso a parlare, e che, non potendo essere soddisfatta, genera e prolunga l'agitazione.

Ogni legge, voi sapete, sostiene un gran numero d'interessi; quando quelle leggi sono mutate, sono colpiti gli interessi antichi, radicati da tanti secoli; interessi novelli sono creati; quelli che sono distrutti vorrebbero qualche riparazione; quelli che sono creati vorrebbero ad ogni costo essere conservati; ed ecco l'agitazione e di chi vuol riacquistare e di chi teme di perdere.

La rivoluzione necessariamente porta grandi bisogni nello Stato, quindi grande necessità di ricorrere al credito ed alle contribuzioni ed ai sacrifici del popolo.

Lascio stare le passioni private, le vendette, le recriminazioni e tutti gli altri mali che accompagnano le rivoluzioni.

Da ciò ne viene che le passioni restano dopo che la rivoluzione è finita.

I grandi mali spingono i popoli alle rivoluzioni; sintantoché essi non arrivano alla disperazione, non si muovono, perché conoscono tutti che gravi disastri porla la rivoluzione.

Per la qual cosa, quando c'è il mezzo legale da poter riparare i danni che si soffrono, non solamente fare una rivoluzione, ma il solo tentarla sarebbe il più grave delitto e la più gran follia.

Ma, quando quei mali esistono e la rivoluzione è giusta, quando quella riesce vittoriosa, allora nasce la smania di far scomparire quei inali antichi e schiantarne sul momento della vittoria sin la radice. Quindi le riforme precipitate, un ardore di speranze, ed una pretensione che, fatta la rivoluzione, il mondo sia intieramente cambialo.

Allora progetti, sistemi, riforme, tutti trovano un rimedio a tuttiimali; nasconoi Licurghi in numero infinito, e quando costoro non sono seguiti, non sono intesi, perché è impossibile seguirli ed intenderli, allora dicono che la rivoluzione è fallita, che la rivoluzione non ha fatto nulla; quindi agitazione ed agitazione prolungata.

Ma il Governo, invece di lasciarsi trascinare, o dare l'esempio di precipitate innovazioni, deve mostrare che nulla è durevole che dalla maturità del senno e dalla calma della ragione illuminata non sia fondato.

Ora, se questa è la natura delle cose, fa d'uopo confessare che in Sicilia questi mali, essendo stati in grado eminente, hanno dovuto produrre le loro conseguenze in modo eminente; quindi non mi meraviglio che ci sia colà una certa agitazione. Ma, oltre a ciò, la Sicilia trovasi in una condizione speciale, che nasce da una tale incertezza negli animi, da una certa apprensione riguardo ai sistemi, alle leggi esistenti ed alle leggi avvenire. Tutti gli uomini di buon senso in Sicilia riconoscono la necessità di rimpinguare il pubblico tesoro; ma ognuno va domandando: con quali mezzi, con quali nuove imposte ciò si otterrà? Ed ecco che lo spirito si perde nell'incognita dell'avvenire. Una sola imposta antica, che sia di qualche poco accresciuta, che si conosce e si discute, basta ad agitare una popolazione; e ne sia prova la discussione che abbiamo qui di recente intesa. Che diremo di un paese dove non si sa qual sistema nuovo d'imposte e di finanze si vorrà seguire?

Tutti ammettono essere una grande necessità ed il primo dovere dei cittadini quello di concorrere alla difesa della patria; ma un paese come la Sicilia, che a memoria d'uomini non vi ha contribuito se non con arruolamenti volontari, non è meraviglia che vegga con apprensione una legge assolutamente novella, non disconosca la necessità della legge comune alla nazione. Essa deve ubbidirvi e vi ubbidirà con moltissima alacrità; ma ciò non toglie che, non essendo stata preparata a questo sacrifizio necessario, potrebbe risentirne qualche dolore, un dolore però che non la farà mai mancare al dovere d'accorrere a spargere il proprio sangue per la nazione.

Quando il Re pose per la prima volta il piede in Sicilia e proclamò quelle nobilissime parole: concordia e riparazione, quella popolazione giubilante l'accolse, come accoglie ogni parola che viene dal Principe cui nel plebiscito ha solennemente acclamato. Pur nondimeno (e io qui protesto di non accusare le intenzioni di nessuno) tutti quelli, i quali furono chiamati dal Principe ad eseguire le sue volontà, certamente erano inspirati dagli stessi sentimenti che il Re proclamava; ma, sia per le dure necessità dei tempi, sia per altre cagioni, che è inutile andare investigando, alcuni fatti parvero che non intieramente corrispondessero a quelle promesse.

V'era un esercito che aveva liberata la Sicilia, e fu sciolto. Io non entro di nuovo a guardare i motivi che poterono consigliare questa misura stata presa sotto la responsabilità del ministro, e di cui quindi egli solo è risponsabile alla nazione; ma coloro, i quali furono tolti prematuramente al desìo della gloria e delle battaglie della patria, certamente non poterono restarne contenti, né poterono le masse persuadersi come in un momento in cui si domandavano armi e guerra, costoro che erano stati i primi a gettarsi nel cimento dovevano essere rimandati alle loro case. Sparsi quindi costoro per le città e per le campagne, certamente non vi potevano portare che l'espressione delle loro apprensioni e del loro dolore.

Molte istituzioni erano state dal dittatore e dalle prodittature fondate; parve a qualcuno che molte non fossero state accette; si credette che diventasse un sistema il distruggerle: e torno a dire: questo poteva essere un inganno, o, come ebbe a dire una persona molto elevata in grado, un grandissimo equivoco; ma il fatto esisteva.

419

TORNATA DEL 5 APRILE

Il generale Garibaldi aveva ordinato che si pagassero le indennità a tutti coloro i quali avevano sofferto danni dal bombardamento e dalle stragi dei borbonici. Quest'indennità certamente superava i mezzi del comune e non poté essere pagata per intero.

Io non accuso coloro che non la pagarono, perché i mezzi non c'erano, anzi studiarono in tutti i modi di dare un acconto. Ma ciò non toglie che coloro, ai quali era stata promessa questa indennità, non si agitassero per averla.

C'era una marina militare creata dalla rivoluzione in Sicilia, e che prestò servigi preziosi, con un numero di ufficiali, certamente non le centinaia, né le migliaia, come ho sentito a dire, bensì, per quanto io so, non erano più di una trentina. Questi erano quelli i quali fino dal 1818 avevano combattuto per la patria, avevano guadagnato il loro grado in quell'epoca; erano quelli che in gran parte avevano accompagnato il generale Garibaldi; furon quelli che trasportarono lai e l'esercito con incredibile audacia e fortuna in Calabria, che lo servirono insino all'ultimo; ebbene questa marina fu sciolta.

Signori, il popolo siciliano ha dei grandi difetti, è vero, ma ba pare delle grandi virtù, tra le quali, a creder mio, non ultima sia quella che ama quelli che gli fanno del bene, e li ama con amore indomito, come odia cordialmente coloro che gli han fatto del male: odia coloro che gli han fatto del male, e se Io sa la dinastia borbonica; ama svisceratamente coloro che gli hanno fatto del bene, e se lo sa la dinastia la quale si è scelta. Or questo popolo ama immensamente Garibaldi, per lui Garibaldi vivo è come un eroe di leggenda; non c'è tugurio dove non s'incontri il ritratto di Garibaldi presso a quello del Re; non c'è giorno che non s'intenda il nome di Garibaldi pronunciato dal nostro popolo; ebbene, qualunque cosa paia agli occhi suoi contraria all'onore di Garibaldi, l'affligge e lo commuove.

Ora qual meraviglia che, sopra certi fatti, sopra un equivoco, sopra un inganno qualunque, ne sia nata un'agitazione!

Ora parlerò dell'agitazione che nasce dall'incertezza delle leggi avvenire.

Quante leggi si aspettino in Sicilia, io non lo so; si aspettano leggi che colpiscano od almeno mutino le condizioni fondiarie, perché ho inteso parlare della legge sovra le enfiteusi.

Ora conviene sapere che in Sicilia la proprietà è in gran parte fondata sopra questa istituzione delle enfiteusi; quindi non è meraviglia che una innovazione aspettata su questa istituzione cosi estesa, cosi radicata, così antica, e che tocca a tanti interessi, promuovesse l'agitazione negli animi, sia di quelli che sperano vederla sparire, sia di quelli che la temono.

Ci sono delle leggi economiche, le quali si aspettano, per esempio la distribuzione dei beni, che sono comunali e che dovrebbero essere distribuiti a tutti gl'individui del comune.

Si minacciano delle leggi contro i corpi religiosi. Ora i corpi religiosi in Sicilia non sono odiati, no, ma sono amati. I Siciliani conoscono che i membri di queste corporazioni sono stati sempre con essi, hanno combattuto con essi, hanno sofferto con essi; in tutte le congiure sono sempre stati i primi a dare il loro contributo di vittime. Basti il dire che nel Parlamento del 1848, in quel Parlamento così rivoluzionario e patriottico ad un tempo, non ci erano meno di 40 o 50 tra vescovi, preti o membri di ordini religiosi.

Ora è tale l'agitazione che ha prodotto il solo sospetto che si voglia introdurre in Sicilia una legge, la quale tendesse ad incamerare i beni dei corpi religiosi e ad abolirli, che la prima autorità ecclesiastica dello stato, credo col consenso della luogotenenza, è stata obbligata a fare un manifesto per assicurare il paese che non era intenzione del Governo di fare quella legge. Quest'atto è ufficiale, ed io l'ho sotto gli occhi.

Oltre a queste incertezze, vengono quelle delle leggi che si emanarono.

L'onorevole nostro collega, il deputato Massari, disse che altrove c'erano delle leggi accademiche

MASSARI. Promulgate accademicamente.

AMARI. Ora, in Sicilia, si può dire che vi sono delle leggi in contumacia e delle leggi in pectore. Le leggi in contumacia sono quelle promulgate, e che non si sa se debbano o non debbano eseguirsi. Ne dirò qualcuna.

C'era in Sicilia una Consulta di stato. Questa Consulta aveva doppia attribuzione. Una era di dare il suo voto consultivo al Governo circa tutte quelle leggi che egli voleva sottoporle; l'altra era di supremo tribunale amministrativo, e come supremo tribunale amministrativo aveva un'infinita quantità di attribuzioni, assai più di quelle che ha il Consiglio di Stato qui residente. Aveva principalmente una parte suprema giudiziaria; molte questioni, anche di particolari, andavano finalmente a sciogliersi dinanzi a questa Consulta.

La prodittatura pensò giustamente che la Consulta, nell'antica sua denominazione e forma, non poteva più reggere; pure nondimeno pensò che era impossibile il privare il paese di un supremo tribunale; quindi vi sostituì immediatamente una sezione, come essa la chiamava, del Consiglio di Stato, a cui trasferì tutte le attribuzioni che aveva l'antica Consulta.

Ebbene, signori, la legge esiste, l'ha fatta il prodittatore, l'onorevole Depretis, ma finora non si è potuta eseguire. E intanto moltissimi affari, moltissimi interessi restano lesi, perché non trovano il tribunale superiore da cui dipende la finale decisione che deve tutelarli; e questa è una vera denegazione di giustizia.

Ad una compagnia del paese si era concessa la facoltà di fondare un banco di circolazione. Anticamente nello Stato vi era il banco di corte, il quale era semplicemente banco di deposito; poscia le fu aggiunto una cassa di sconto, con capitali non molto vistosi, in vero, ma pure prestava utili servigi al credito.

Certamente questo non poteva servire a tutti i grandi uffici a cui serve un banco come quello nazionale, quindi si affrettò il Governo della prodittatura a farne una concessione. Io non posso incolpare nessuno, se questa concessione non è stata attuata; ma intanto è venuto un nuovo impedimento, dacché si vuole che non vi esista che una o più succursali della banca nazionale.

Io non dirò quale delle due possa o debba preferirsi; dirò solamente che né l'una né l'altra si è attuata; restò una legge in aria. Altre leggi, che è inutile andar enumerando, sono restate, non dico ineseguite, ma emanate e non riconosciute.

Ora passiamo a quelle leggi che possono dirsi in pectore.

La più essenziale è quella che fu promulgata la vigilia stessa dell'apertura del Parlamento. Pare incredibile, o signori, l'infinità delle leggi che si sono promulgate in Sicilia nel corso di dieci mesi; pare che mai la macchina legislativa abbia funzionato con tanta rapidità; ci arrivavano le leggi col vapore, ed anche col telegrafo.

Noi abbiamo un cumulo di leggi tale, che porta un'incertezza, per cui non si sa più con quale decidere: ci erano le leggi antiche, e non eran poche; il Governo borbonico, sì avaro d'utili riforme, era fecondissimo di leggi,

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

e basti il citare la collezione delle leggi e decreti (passati forse i 50 volumi dal 1819 al 1860); le leggi del Parlamento del 1848 furono in buona parte ripristinate; poscia vennero quelle della dittatura.

Pareva che quando si pubblicò il plebiscito fosse finita interamente questa smania legislativa; ma non fu così; poiché si credette che la luogotenenza avesse anch'essa il potere legislativo, e si pubblicarono ancora delle leggi. Finalmente fu convocato il Parlamento, e parve davvero finita oramai ogni funzione legislativa in qualunque altro potere all'infuori di questo; eppure alla vigilia dell'apertura del Parlamento, tanto tardi che non si ebbe tempo a pubblicare le relazioni che dovean precedere le leggi, che il domani, si pubblicano non già semplici leggi, non già semplici decreti, ma tre interi codici, tre codici che mutano da capo a fondo tutta la legislazione esistente.

Il signor guardasigilli in altra seduta, rispondendo a delle osservazioni fattegli su questo subbietto da un altro deputato, si contentava di fare l'elogio delle leggi pubblicate, ed io non gli contesterò le sue laudi; l'onorevole Scialoia è tornato ieri sull'argomento, e con eloquentissima orazione ha dimostrato tutti i vantaggi delle nuove leggi sulle antiche, ed io non voglio neppure contrastarglieli.

L'onorevole guardasigilli ci ha fatto vedere gl'immensi vantaggi della introduzione del giurì in Sicilia, e ci ha citato l'opinione di Pellegrino Rossi. Io veramente non ho d'uopo del parere di Pellegrino Rossi per essere convinto della grandezza ed utilità di questa istituzione; il giuri è molto antico, esso è una delle glorie italiane; dicano quello che vogliono i forestieri, esso non fu trovatO nelle foreste della Germania, come ebbe a dire qualche grand'uomo, esso è d'invenzione tutta latina; il giurì si deve ai Romani; quindi esso ci viene dall'antichissima italica sapienza. Non ci era d'uopo di farci balenare innanzi agli occhi la luce di quella grande instituzione per abbagliarci. Lo sapevamo che il giurì è il palladio della libertà, è una suprema istituzione politica. Ma come instituzione giudiziaria essa domanda delle molte e grandi condizioni, dei grandi apparecchi, di profonde e lunghe investigazioni; e qui invoco a testimoni due nomi, che valgono certo qualche cosa più di Rossi: Romagnosi e Carmignani.

Chi può assicurarci che la legge del giurì, quale già esiste, possa dare in Sicilia o nelle provincie napoletane quello stesso utile risultato che si ripromette l'onorevole signor ministro? E chi non sa che appunto il giurì, come suprema instituzione politica, potrà, in certi luoghi ed in certe condizioni, cessare di essere una garanzia della libertà, per diventare un pericolo per la giustizia?

Io non dico già per ciò che noi dobbiamo essere privati del giurì, né che la Sicilia, nel suo complesso, non sia adattata ad avere il giurì; mai no! I popoli che tanto hanno fatto per acquistare la libertà sono quelli che vogliono essere i più Liberi, e la Sicilia sapete tutti come la libertà l'ha fortemente voluta e conquistata; ma io dico solo che prima bisognava fare indagini per vedere se quella maniera di formazione dei giurati, se tutte le altre disposizioni che Io riguardano potevano essere con utilità praticate nell'isola; insomma bisognava fare tutti quei grandi studi che si sogliono fare quando una intera legislazione di un paese si trasporta in un altro. Voi sapete che Bentham scrisse apposta un libro sui modi, sugli studi e le precauzioni da usare nel l'applicare le leggi d'un paese in un altro; né quello è il meno profondo dei libri di quel grande intelletto.

Io domando al signor ministro: dove sono questi studi? Io non li vedo; io non veggo altro che una legge improvvisata.

Io mi ricordo che l'egregio signor ministro dell'interno diceva, e con ragione, che non s'improvvisa un gendarme; ma, signori miei, io vi dico che non s'improvvisa neppure un giurato, non s'improvvisa un Codice di procedura e si impianta in un paese, senza nessuna preliminare, profonda e matura inchiesta.

Ma, lasciando stare tutte queste osservazioni, quello che a me preme soprattutto è il sapere se il Governo aveva questa facoltà di pubblicare dei Codici.

Qui, grazie a Dio, la questione esce dalle spine di una questione, come suol dirsi, municipale, e si solleva all'altezza di una questione generale, costituzionale, nazionale.

Aveva il luogotenente il diritto di fare delle leggi, e delle leggi di questa importanza, dei Codici organici, dei Codici fondamentali?

Quando la Sicilia votò il suo plebiscito, votò di unirsi allo Stato italiano sotto Io scettro di Vittorio Emanuele re costituzionale. Dunque votò di unirsi allo Stato, che aveva tutte le guarentigie della Costituzione, e con questa unica condizione, che tutte le altre in sé contiene, della Costituzione.

Ora, chi dice Costituzione, ha già detto in una parola che il potere di far leggi non appartiene se non all'opera collettiva delle due Camere e del Re. Ed il saluto di gioia con cui fu acclamata la convocazione del Parlamento non era che l'espressione di questo pensiero, che una volta ornai era finita, e finita per sempre, l'era della legislazione arbitraria e cominciava quella della legislazione costituzionale.

Come adunque, convocato il Parlamento non solo, ma sin anche quasi quasi aperto, alla vigilia stessa della sua apertura si pubblicano delle leggi, e leggi così importanti, e con tanta precipitazione che neppure ebbe tempo il Governo di pubblicare le relazioni che le precedevano?

Ma credete forse che questa legge avesse semplicemente un'importanza, direi quasi, politica? No, oltre all'immensa importanza politica, ha poi un'immensa importanza amministrativa, mette il disordine ed il dissesto in tutto il sistema giudiziario.

Il foro, il quale avea sofferto sì lungamente e prima della rivoluzione, e durante la rivoluzione, cominciava appena a riprendere un poco i suoi affari, quando tutto ad un tratto si pubblica quella legge, la quale mette sossopra la legislazione ed interamente cambia la condizione del foro.

Quando si cambiano le circoscrizioni, e si fanno dipendere alcune provincie da altri centri da cui prima non dipendevano, questo porta il turbamento e l'agitazione in moltissimi luoghi: l'agitazione nacque in Palermo, in Catania, in Siracusa, in Girgenti; e perché tutto questo? Per aver il piacere di farla da legislatore di una notte.

Ma, certamente, io sono convinto che i nostri ministri conoscono a fondo lo Statuto, e non può passar loro mai per la mente di violarlo neppure in una sillaba; dunque se essi credettero di esser in diritto di far quelle leggi e farle pubblicare, fa d'uopo che ci siano dei grandi argomenti.

Io ho cercato di esaminare con accurato studio quali fossero questi argomenti, e non ho potuto trovarne colla migliore intenzione, quasi scrupolosa, se non quattro. Il primo, se non isbaglio, è l'argomento tratto dalla legge che autorizza il Governo del Re a ricevere l'annessione per decreto reale; il secondo è il decreto stesso che accetta il plebiscito; il terzo è l'articolo 82 dello Statuto, che invoca il decreto, il quale accetta il plebiscito e fonda la luogotenenza di Napoli e di Sicilia; il quarto finalmente è l'argomento supremo, cioè a dire l'urgenza.

421

DEL 5 APRILE

Imperocché anche sotto i Governi più anticamente costituzionali, quando un'urgenza si presenta, i ministri

Quanto a me, non credo che possa da questi vari argomenti dedursi a favore dei consiglieri della Corona il diritto di pubblicare Codici e leggi organiche in Sicilia.

La legge, la quale autorizzava il Governo del Re ad accettare il plebiscito, dice:

Il Governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per decreti l'annessione di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale nelle quali si manifesti questo desiderio.»

Queste parole accettare e stabilire l'annessione significano forse far dei Codici, delle leggi organiche? Un decreto accettava, un decreto stabiliva il potere; la luogotenenza era stabilita; ecco tutto ciò che domandava la legge adottata dal Parlamento. Da questa legge non si può quindi trarre alcun argomento per cui si possa recedere dalle guarentigie costituzionali. Fate quanto volete, tormentate quanto vi piace la parola stabilire, non ne può mai uscire l'investitura del potere assoluto di fare il legislatore.

Il secondo fondamento è il decreto con cui si accettava il plebiscito della Sicilia, e dice così:

«Vista la legge in data del 3 corrente mese:

«Art.1. Le provincie siciliane faranno parte integrante nello Stato italiano, dalla data del presente decreto.

«Art.2. L'art.82 dello Statuto, con cui è stabilito che, fino alla prima riunione delle due Camere, il Governo provvederà al pubblico servizio con sovrane disposizioni, sarà applicabile alle provincie suddette sino alla riunione del Parlamento nazionale.

Per toglier di mezzo questo argomento basta una parola sola: questa non è legge, è un decreto del potere esecutivo; egli non poteva darsi il potere legislativo, se non l'aveva; un decreto non può distruggere lo Statuto: non aveva per legge il Ministero, né per la Costituzione il diritto di emanare leggi, massimamente fondamentali, e non poteva neppure con un decreto attribuirlo. Dunque tutto l'argomento si riduce all'articolo 82 dello Statuto, nello stesso decreto invocato.

Esaminiamo adunque accuratamente questo articolo 82.

«Il presente Statuto avrà il pieno suo effetto dal giorno della prima riunione delle due Camere. Fino a quel punto sarà provveduto al pubblico servizio d'urgenza con sovrane disposizioni.»

Ora, dal testo risulta evidente che quell'articolo 82 dello Statuto non è che un puro articolo transitorio, e tutti i giureconsulti sanno che gli articoli transitorii tanto durano, quanto dura la condizione per la quale erano stabiliti. In questo articolo 82, il Re Carlo Alberto, nella pienezza del suo potere, spogliandosi della potestà di fare le leggi, chiamava il suo popolo con una Costituzione a concorrere a fare le leggi. Mentre egli era ancora arbitro sovrano di farle, e pubblicava lo Statuto, disse: finché non si apre il Parlamento, io mi riservo la facoltà di fare ancora delle leggi.

Era il Re nel suo diritto di prolungare questa facoltà quanto voleva; ma, una volta fatta quella promessa, una volta il Parlamento aperto, da quel momento, per la volontà stessa di chi sé stesso limitava, ogni potere finiva, e finiva per sempre; e come l'autorità riserbata finiva, non aveva più applicazione l'articolo che la riserbava; né è più possibile che riviva un articolo transitorio, la cui condizione è compiuta e consumata.

Come volete che un articolo transitorio, fatto pel solo Piemonte, e che ebbe la sua piena esecuzione, dopo che era per dodici anni estinto, sia ora risuscitato per la Sicilia e per Napoli?

Signori, mi pare che averlo solamente enunciato è lo stesso che averlo dimostrato; articolo transitorio e vita perenne ed immortale è contraddizione nei termini.

Ma, se pare quest'articolo 82 abbia tanta forza vitale di risuscitare dopo dodici anni, veggiamo quali attribuzioni lasciava al potere esecutivo di quel Principe che lo aveva pieno ed intiero, e che lo volle accomunare col suo popolo.

Prima di tutto non riserba che sovrane disposizioni per servizi d'urgenza. Ora, sono servizi d'urgenza tre Codici? e, se lo sono, ditemi che cosa più non è urgente nel mondo?

In secondo luogo, volete sapere s'è vero che in quell'articolo non si riserbava il Re datore dello Statuto facoltà di far Codici? Leggete l'articolo che immediatamente il segue, che lo imita e lo spiega luminosamente, e dice quali leggi solamente intende potere ancora di sua autorità sovrana pubblicare. Eccone il testo:

«Per l'esecuzione del presente Statuto il Re si riserva di fare le leggi sulla stampa, sulle elezioni, sulla milizia nazionale e sul riordinamento del Consiglio di Stato.

Dunque, se pure possa risorgere l'articolo 82, esso non dà al potere esecutivo che la facoltà di fare le leggi sulla stampa, sulla milizia nazionale, sulle elezioni e sul riordinamento del Consiglio di Stato; tutte le altre leggi lo Statuto vi proibisce di farle, ed io, in nome dello Statuto, vi domando che sia mantenuta intatta la facoltà che appartiene al Parlamento italiano.

Signori, torno a dirlo, questa non è questione di poco momento; è la più grande questione che possa sorgere in un Parlamento, perché è la quistione de' suoi poteri sovrani; guai, se noi non manteniamo tutta la gelosia necessaria per mantenerci questo diritto!

Io spesso vo' leggendo, pubblicate alla giornata, delle disposizioni legislative, le quali, all'occhio mio, hanno tutta la potenza, tutta l'estensione, tutta l'importanza di una legge; e queste disposizioni sono semplicemente ordini ministeriali. Veggo mutare interamente gli ordinamenti organici; per esempio quello organico dell'amministrazione postale e l'organico dell'amministrazione doganale; questo altro non è che un decreto. Ma, io domando, quali saranno le leggi, se si chiamano decreti quelli i quali mutano interamente l'organizzazione di un"servizio,pubblico? Quali sono le leggi, se si chiamano decreti quelli i quali mutano e stipendi, e mezzi, e modi?

Epperciò, in questa parte, io non posso fare le mie congratulazioni al ministro dei lavori pubblici, il quale si è compiaciuto di chiamarsi il battistrada del Ministero in questa via; via che io temo che, invece di essere comoda e piana, potrebbe riuscire piena di triboli e di spine pei ministri e per il popolo. (Bene! a sinistra)

Questa è la questione sovranamente politica, perché, come magnificamente diceva l'onorevole presidente del Consiglio in una delle ultime tornate, l'Italia è impossibile che si governi altrimenti che coll'autorità del Parlamento; quindi quest'autorità dev'essere sollevata a quel più alto punto a cui possa da noi portarsi,

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Tutte le mutazioni, tutti i sacrifici, tutti i dolori, che potrebbero soffrire le provincie dell'Italia, saranno sopportati in pace, tutti chineranno la fronte, quando Terranno dal Parlamento; perché tutti diranno: viene dalla volontà sovrana dell'Italia! Ma, quando questo suggello sublime non c'è, allora io non so se possa produrre lo stesso effetto di autorità, di convenienza e di rassegnazione. (Bravo! a sinistra)

lo ho presentato un ordine del giorno in questo senso; affinchè tutte le leggi fondamentali, salvo quelle di pura urgenza, come dissi sin da principio, fossero non già abolite, perché non voglio portare l'ombra d'un inciampo nello Stato, ma solamente sottoposte al Parlamento, perché nelle forme costituzionali possa esaminarle, mettervi la sua impronta sovrana e farle meglio accettare ai popoli. Ma, vedendo che in occasione di queste interpellanze sonosi presentati tanti altri ordini del giorno, e che non potrebbe conseguentemente il mio ottenere tntta quell'attenzione che merita, se mei concede il ministro guardasigilli, io lo ritirerei, riservandomi a ripresentarlo, quando mi sarà concesso di portare di nuovo dinanzi a questa Camera la questione sotto la forma di una petizione, firmata da circa 280 cittadini di Palermo, che domandano la sospensione di queste leggi, sospensione per altro che esiste nella natura stessa delle leggi fatte; perché, vedete, o signori, era una cosa che avevo dimenticata, ma che servirà a mettere maggiormente in luce la ragione delle cose: questa legge cosi urgente, per la quale non c'era un momento da perdere, che si stampò la notte stessa dell'apertura del Parlamento, questa legge, o signori, deve avere la sua esecuzione il 1° di novembre 1861. Ecco l'urgenza. Non si poteva aspettare sino al primo di novembre, ed attendere la discussione del Parlamento?

Finalmente mi sia lecito di dire due parole intorno ai rimedi! che si sono proposti ai mali moltiplici della Sicilia. Io non parlerò degli amministrativi, solamente vorrei fare un'osservazione al signor ministro dell'interno. Egli ieri parlò di 700 e più che sono in Sicilia; erami arrivata una notizia (notizia però di cui non assumo su di me la fede d'esattezza e che non oso affermare come sicura), era arrivata una notizia che quel corpo era stato disciolto; ora le parole del ministro mi fanno capire tutto il contrario; ed io sarò lietissimo se effettivamente lo scioglimento di quel corpo non sia vero; perché posso io far fede, almeno per quanto ne so sino al momento che io fui in Sicilia, che quel corpo ha prestato degli importanti servizi all'ordine pubblico, massimamente nelle provincie.

Quanto alla promiscuità, o signori, chi siede in questa Camera non può mettere in dubbio il diritto che ha il Governo d'usare della promiscuità; pur nondimeno non ogni diritto può essere sempre opportunamente e nella medesima estensione usato. L'onorevole signor ministro diceva: le circostanze della Sicilia; la sua lontananza, la sua condizione insulare, meritavano sempre dei particolari riguardi. Io non domando dei particolari riguardi per essa, ma domando dei riguardi per il buon servizio dello Stato. Ora, e il clima, e la lontananza, e la mancanza delle comunicazioni fan sì che io desidererei che questo diritto, che non posso contendere al Governo, fosse esercitato colla massima riserva, affinché non potesse cagionare mancanza alcuna nel servizio. Quando le comunicazioni saranno tanto frequenti fra la Sicilia ed il continente, quando noi potremo avere lo stesso piacere che hanno tutti gli Italiani, cioè che in meno di dodici ore si possono portare alla capitale, allora, o signori, mandate quanti vi piace impiegati in Sicilia, e quanti ve ne piace richiamatene sul continente.

Anzi io dico che ogni viaggio di vapore diretto fra la Sicilia e il continente che si aumenterà, farà assai più del bene allo Stato

che non tutta la promiscuità e tutti i mutamenti che si potrebbero fare.

Debbo qui fare [un'osservazione, se me la permette l'onorevole ministro pei lavori pubblici. Io aveva reclamato intorno a certe concessioni di servigi postali per la Sicilia, da cui vidi scomparire i viaggi diretti tra Genova e la Sicilia; egli ebbe la bontà e la cortesia estrema di dirmi che quella era stata una semplice dimenticanza, e che fu nel foglio successivo pubblicato che bisognava aggiungere altri due viaggi. Ora però ho letto il capitolato di concessione, pubblicato in un giornale di Sicilia, dove assolutamente di questi viaggi diretti tra il continente e quell'isola non vi è parola. Se questa è ancora un'inavvertenza

Peruzzi, ministro dei lavori pubblici. È una inavvertenza, e nel capitolato ufficiale vi sono.

Amari. Anche nel capitolato pubblicato in Sicilia?

Peruzzi, ministro dei lavori pubblici. Io non so in quello, e può darsi che non vi sia; ma posso assicurarlo che nel contratto si è tenuto conto di questo giusto desiderio della Sicilia.

Amari. Io lo ringrazio e ne sono contentissimo. Finalmente vengo al rimedio eroico, all'abolizione della luogotenenza.

Fortunatamente il ministro non ha accettato questo consiglio, ed io ne lo ringrazio, perché non posso mai convincermi come dopo di ciò che dissero l'onorevole signor Scialoia e il signor ministro, tutti i peccati del mondo non siano attribuiti che a quella istituzione; forse saranno gli uomini, forse le circostanze, che hanno fallito, ma non l'istituzione; e nei momenti in cui aspettiamo, e quel paese con ansia direi febbrile aspetta la discussione in Parlamento sulla legge che il ministro dell'interno ha presentato intorno alle regioni e provincie; nei momenti in cui (non dirò quali siano le maggioranze, quali le minoranze) le opinioni, come qui nel Parlamento, così colà in mezzo alle popolazioni si combattono intorno all'ordinamento stabile futuro dello Stato, in questi momenti è inutile l'accennare ad un sistema piuttosto che ad un altro, e, per tutta risorsa di governar bene un paese, togliersi quell'autorità centrale, a cui si potrebbe il Governo rivolgere. Io, confesso ingenuamente, non so comprenderlo.

L'isola ha versato in certe circostanze, in cui, se non ci fosse stato una autorità centrale in Sicilia, non si avrebbero potuto eseguire molte e molte leggi, e mi basti il dirvi che, se non era per l'autorità centrale in Sicilia, forse noi non avremmo potuto neppure aver l'onore di sedere in Parlamento.

Il decreto che convocava il Parlamento fu pubblicato il 1° gennaio. Sapete quando arrivò in Sicilia? L'undici; e dall'undici al ventisette si dovettero fare tutte le operazioni per le elezioni. Ora voi ben vedete che di siffatte circostanze, molte possono avvenire; e là dove vi ha un potere centrale, si può sempre trovare rimedio; rimedio, dico, a quello che non è colpa di nessuno, ma è solo colpa di essere lontani dalla sede del governo generale.

Finalmente io mi permetto non già di mettere in mora, non già di accusare nessuno, non di accusare il Ministero, il che, pare sia convenuto, non appartiene a questi banchi, poiché noi siamo la minoranza, e siamo dichiarati di essere la minoranza, senza troppo saperne il perché (Ilarità), io mi permetterò solo di farvi una preghiera; vi hanno detto: signori ministri, siate forti; io vi dico pure: siate forti, più forti, ma più che forti; ma nelle vostre buone intenzioni, in quelle vostre intenzioni che voi, signor ministro

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DEL 5 APRILE

Presidente. La parola è al deputato Del Drago.

Paternostro. Domando la parola per un fatto personale.

Io debbo giustificarmi in faccia alla Camera ed al paese di una accusa che mi è stata lanciata dall'onorevole deputato Amari.

Egli ha sostenuto ch'io dicessi, il giorno delle mie interpellanze, che in Sicilia non ci fosse governo. Io me ne appello alla Camera tutta, me ne appello al resoconto ufficiale, se abbia detto mai questo. Mi accusò di aver detto che deve sottrarsi il governo di Sicilia dalle influenze della popolazione di Palermo. Io questo non dissi; dissi bensì: togliete il governo di Sicilia dalle influenze della piazza, togliete il governo di Palermo dalle influenze della piazza di Palermo. Queste, e non altre, furono le mie parole. Pare a me corra una grande differenza tra lo accusare una popolazione in massa, tra lo accusare una nobile città che ha fatto tanti sacrifizi perla causa della libertà, la città di Palermo, e lo accusare, come io feci, una minoranza sparuta, ardita, sfrenata, che, non avendo altra bandiera, come dissi, che l'agitazione, scende in piazza, e s'impone o cerca d'imporsi ai poteri costituiti.

L'onorevole deputato Amari diceva che io mi sono riparato dietro un artificio di esclusioni. Signori, il mio carattere è una sventura per me in certe occasioni, ma questo mio carattere non mi permette di usare artifici; è impossibile che senza calma, ed io non ne ho molta, un uomo possa usare artifici nel dire. Io dissi la verità; e (non dirò artificiosamente, ma forse per errore) le mie parole, le esclusioni da me fatte, le mie espressioni sono state svisate. Quando io diceva che, nell'attaccare la piazza di Palermo, non intendeva attaccare i buoni patrioti, non intendeva attaccare il Governo e quelli che lo componevano, non intendeva attaccare in massa la guardia nazionale che aveva prestalo numerosi servigi al paese, queste esclusioni non erano un assurdo, come diceva l'onorevole Amari, perché, quando togliete i buoni, togliete i patrioti, resta ancora qualche cosa; e sapete che resta? Restano i tristi e forse anche coloro che li fanno muovere.

Ecco chi resta; e sono questi tristi che io accuso, e non la nobile popolazione di Palermo.

Il deputato Amari disse che, quando si accusa un paese ed anche una piazza, ci vogliono fatti.

Io non dirò i fatti, sarebbe lungo; ma il deputato Amari consulti colla sua solita calma i suoi amici, consulti i suoi avversari politici, consulti la sua propria coscienza, e gli diranno che su quasi tutti i 10 o 12 governi che si sono succeduti in Sicilia, la piazza, o signori, la piazza ha esercitata una grande influenza.

Signori, io dichiaro solennemente che il deputato Amari ha combattuto un'ombra, perché ha combattuto il mio attacco alla nobile città di Palermo, ed io non ho mai attaccato quella nobile città, non ho mai attaccato quel nobile popolo; ed io sono d'accordo con lui nel rendere omaggio ai sensi patriottici di quella egregia popolazione; ma insisto presso il Governo e presso il ministro dell'interno particolarmente, perché là dove trova turbolenta la piazza, perché là dove trova la pressione della piazza,

perché là dove trova la minoranza ardita, sfrenata, anarchica, che si impone al potere costituito, fosse anche in Palermo, metta in esecuzione ogni mezzo per frenarla e reprimerla.

Amari. Signori, non dirò che poche parole, perché non voglio disturbare la calma della Camera, né consumare un tempo prezioso.

Io accetto le dichiarazioni dell'onorevole deputato in quanto alla città di Palermo; non accetto in nessun modo la parola svisare. Io non sono avvezzo a svisare le parole di nessuno. Questa è l'impressione che fece il suo discorso nell'animo mio in quel giorno, questa io credo sia stata l'impressione prodotta in generale su tutta la Camera. (Interruzione)

Voci generali. No.' no!

Paternostro. Chiedo che s'inserisca nel rendiconto ufficiale questa manifestazione della Camera.

Presidente. Gli stenografi sanno quello che debbono fare; non è necessario interrompere per questo.

Amari. Questa almeno fu l'impressione prodotta nell'animo mio, e ciò forse per una speciale mia suscettibilità pel mio paese; ma è ben certo ch'io non credetti menomamente di svisare quelle parole.

Quanto poi ai molti mutamenti di governo avvenuti, ove noi volessimo andare esaminando ministro per ministro, uomo per uomo; se chi scendeva dal potere e chi vi saliva in quei momenti fosse condotto a discendere od a salire per opera di questo o di quel partito, ne deriverebbe uno scandalo ed una discussione interminabile. Quello che è certo si è che, non solo a Palermo, ma in tutti i paesi che furono agitati dalla rivoluzione l'opinione pubblica si mostra ora in un modo, ora in un altro. Abbiamo avuto un dittatore, due prodittatori e un luogotenente, il quale, se non fosse stata una sventura domestica che lo colpi, sarebbe forse continuato a rimanere a Palermo, e tutti accetti alla piazza ed alla popolazione di quella città e rispettali.

Presidente. Il ministro di grazia e giustizia ha facoltà di parlare.

Cassinis, ministro di grazia e giustizia. La seconda parte del discorso dell'onorevole Amari mi costringe d'imprendere improvviso a parlare e di rispondere ai vari argomenti ch'egli ha posto in campo nel suo elaborato discorso, portando innanzi una questione gravissima, la questione della costituzionalità degli atti legislativi che si sono pubblicati in Napoli, in Sicilia, nell'Umbria, nelle Marche dai luogotenenti generali, e dai commissari del Re, anteriormente alla riunione del Parlamento. (Movimento d'attenzione)

Noi sortiamo qui, signori, dalla mobile ragione dei fatti, i quali costituirono, direi, il complesso principale della discussione seguita nei giorni scorsi, ed entriamo in una questione di diritto. Siffatta questione, se vuol essere trattata con quella serena calma con cui l'espose l'onorevole Amari, e ch'è propria d'una questione giuridica di cotanta altezza, vuol pure essere esaminata non soltanto sotto la rigida impressione d'una ferrea disposizione di legge, ma in relazione alle affatto speciali, affatto straordinarie circostanze, sotto il cui impero furono fatti gli atti, date le disposizioni a cui accenna l'onorevole Amari.

Signori, quando una nazione si costituisce ad unità politica, ella mira anzitutto all'opposizione esteriore cui può incontrare, e procura di difendersi, di tutelarsi, di farsi forte contr'essa. Poi guarda al suo diritto interno, mira all'organamento interno, e fa di aggiungere a quell'unità politica este

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

non solo dall'identità del Governo e dalle sue condizioni politiche, ma dalla comunanza degli elementi sociali, dalla somiglianza delle instituzioni, dei costumi, delle idee, dei sentimenti, delle leggi; l'unità morale insomma tanto importante quanto l'unità politica, e che può solo stabilmente consolidarla.

Il Governo dunque, sì tosto che fu la nazione costituita, mirò anzitutto al diritto pubblico fondamentale della nazione; mirò allo Statuto, e si adoperò di uniformare i suoi atti, la sua condotta, alle sue disposizioni, allo spirito che lo informa, a stabilire insomma il suo diritto interno..

Fiorenti. Domando la parola.

Cassinis, ministro di grazia e giustizia. Questo diritto, altro è pubblico, e risguarda le relazioni del cittadino collo Stato; altro è privato, e risguarda soli interessi privati. Delle leggi d'ordine puramente civile non era il caso occuparsi; imperocché, non risguardando esse che interessi d'ordine secondario, e, come diceva, privato, non n'è l'importanza sì grave, e possono bene governarsi colle leggi, colle norme esistenti, le quali, e sotto l'uno e sotto l'altro impero, e sotto l'una e sotto l'altra forma, non possono essere gran fatto discordi, gran fatto dissimili.

Non cosi è del diritto pubblico interno e di quelle leggi le quali sono Io svolgimento, la esplicazione, l'attuazione del diritto fondamentale della nazione, vale a dire dello Statuto. A queste appartengono, fra le altre, ed eminentemente, come l'onorevole Amari ben sa, il Codice penale, la procedura penale che attua il Codice stesso; l'organizzazione giudiziaria, la quale è l'istrumento, direi, per cui le disposizioni di quei Codici funzionano e servono al loro ufficio, al compito loro.

Or bene adunque il Governo doveva anzitutto provvedere a che cotesti Codici, cotesta essenzialissima legge, fossero poste in armonia colle disposizioni dello Statuto fondamentale del regno; imperocché lo Statuto sarebbe stato lettera morta, ove del pari non si fossero pubblicate le leggi sovraccennate, ed altre di simil guisa, le quali ne formano un indispensabile complemento.

Signori, il Codice penale è la misura, diremmo, del senso morale d'un popolo, del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto; è il criterio estimatore del merito o del demerito delle sue azioni, della di lui civiltà.

Quindi, ove siavi un diritto penale il quale sia il portato d'un governo assoluto, un diritto penale il quale non rispetti l'individuale libertà, non rispetti le guarentigie solenni d'un popolo libero, come vorrebbesi siffatto diritto si lasciasse tuttavia sussistere? O chi, lungi dal farne accusa, non darà anzi merito ad un Governo che immediatamente ne lo uniformi al diritto fondamentale della nazione?

Io non entrerò, o signori, a svolgere maggiormente co» testo tema; voi ben sapete, insomma, come il Codice penale, la procedura penale, l'organizzazione giudiziaria, leggi queste le quali attuano lo Statuto, non potessero esistere quali esistevano sotto il governo assoluto anteriore.

Ma qui ci si dice: avevate voi il diritto di pubblicare queste leggi? Pure supponendo che esse non solo fossero migliori, ma l'attuazione pratica, diremmo, dello Statuto, potevate voi applicarle? Avevate voi il potere legislativo a ciò necessario?

Signori, io vi ho osservato fin da principio come l'azione del Governo non dovesse venir giudicata secondo la rigida ragione del diritto, ma ad un tempo in relazione alle circostanze.

Or quali erano le circostanze in cui si versava dall'epoca gloriosa della rivoluzione siciliana, sino alla riunione del Parlamento, in Sicilia, nelle provincie napoletane, nell'Umbria, nelle Marche?

Voi lo sapete; rette quelle provincie da leggi, da norme dissimili bensì tra loro, ma conformi tutte alle condizioni di Governi assoluti, avevan pur diritto a che, rivendicate alle libertà ed alle guarentigie costituzionali, fossero al pari delle provincie sorelle chiamate al benefizio di leggi analoghe; avevan pur diritto che le antiche loro leggi fossero immantinenti mutate: e il Governo ne aveva il dovere, tuttavolta che una disposizione dello Statuto formalmente, recisamente non vi si opponesse.

Ma appunto egli é ciò che l'onorevole Amari qui ci appone. Lo Statuto, egli dice, si opponeva a che voi poteste pubblicare queste leggi.

Io potrei qui anzitutto rispondere: e si opporrebbe ancora ove da ciò ne risultasse grandissima utilità e politica e civile nel governo dello Stato? Ove quest'unificazione a cui avvisiamo avesse per effetto di queste disposizioni raggiunto meglio il proprio scopo? Ove da quest'accomunazione di leggi degne e saggie già votate dal Parlamento di un popolo che precorse gli altri popoli d'Italia nella via della libertà ne fosse per derivare più immediato il benefizio di che sono esse feconde? Ove fosse ciò risultato, ebbene, o signori, direste ancora che si opponeva lo Statuto a che tanto vantaggio arrecassimo a coteste provincie? Io credo che no; tenuto conto delle cose sovraesposte, e delle condizioni straordinarie in cui si versava, io mi confido che, per quanto severo fosse il vostro giudizio nell'apprezzare le nostre facoltà e l'opera nostra, voi direste: la ferrea ragion della legge poteva per avventura farvi contrasto; ma, sia che vuoisi, avete secondato i! dettame dello Statuto, non possiamo profferire condanna contro di voi.

Potrei qui invocare un'espressione dell'onorevole Ferrari; egli diceva: guai a quel Governo che non avesse il coraggio di commettere un errore. Ebbene, o signori, fosse un errore, noi ne abbiamo avuto il coraggio.

Ferrari. Lo Stato, non il Governo.

Presidente. Non interrompa.

Cassinis, ministrò di grazia e giustizia. Lo Stato; va bene.

Ma, o signori, io credo che quest'errore non l'abbiamo commesso; ed io mi farò a dimostrarvi ciò, confutando gli argomenti dell'onorevole deputato Amari.

Colla legge del 3 dicembre 1860 era fatta facoltà al Governo del Re di accettare e stabilire per decreti l'annessione allo Stato di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si fosse manifestata liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di fare parte della nostra monarchia costituzionale.

Era dunque fatta facoltà al Governo non pure di accettare quelle annessioni, ma sì veramente di stabilirle. Che cosa era stabilire queste annessioni? È ampia, è vasta parola codesta; ciascuno può dare a questa parola quell'interpretazione che egli sente nell'animo; abbenchè questa parola esista, ci si potrà dire, voi l'avete apprezzata troppo ampiamente, la parola stabilire non attribuiva cotanta facoltà. Ma la questione è in allora di puro apprezzamento circa la più o meno ampia significazione d'una parola; ma v'ha pur sempre una parola, che dava al Governo una facoltà ben più ampia che non fosse puramente l'accettare le annessioni; una parola che, come aveva una portata maggioro, così doveva aver pure un effetto, e questo effetto poteva pure il Governo apprezzarlo secondo quel criterio che egli sentia più consentaneo all'indole delle cose ed alle circostanze.

425 - TORNATA DEL 5 APRILE

Or bene, accettate le annessioni, poiché assai tempo doveva ancora necessariamente trascorrere prima che il Parlamento si riunisse ed il potere legislativo potesse adempiere all'opera sua, conveniva pare di far quei provvedimenti, pe' quali l'annessione non rimanesse un semplice fatto, senza sequela, senza nessun benefico effetto, ma tale bensì che quelle popolazioni conseguissero quei vantaggi che erano natural conseguenza della medesima; per cui, insomma, parificate alle antiche Provincie sorelle nella libertà, il fossero ancora nelle altre condizioni, negli altri vantaggi che ne dipendono.

Era quindi il Governo, a creder nostro, autorizzato a fare non solo quegli atti, i quali sono propri del potere esecutivo (imperocché a tal fine non era necessario che per legge si desse al Governo questa speciale facoltà), non solo quegli atti che per proprio instituto esso era in diritto di fare, ma necessariamente colla mentovata espressione gli si dava la facoltà di eseguire tutti quegli atti che non avrebbe potuto compiere da sè e dei quali soltanto il Parlamento poteva dargli il potere.

Dunque, dacché la parola stabilire non poteva nella specie avere una significazione ristretta ai soli atti, ai puri atti di esecuzione, ma necessariamente si estende agli alti legislativi, la questione si riduce al vedere quali alti più o meno potesse o dovesse fare il Governo, e qui di bel nuovo versiamo in una questione di apprezzamento.

Tuttavolta pertanto il Governo, facendo e pubblicando gli atti in discorso, ha per sè la legge del 5 dicembre, e la parola stabilire, una parola, cioè, che necessariamente significa poteri maggiori di quelli che il Governo aveva da sè; la questione di diritto è salva; esso non può più temere l'accusa d'incostituzionalità.

Fatte le annessioni, il che avvenne pei decreti del 17 dicembre, ove il Governo, in dipendenza dell'autorità che ne aveva e per ragione propria e per l'autorità speciale datagli dal Parlamento colla citata legge, non avesse fatta nessuna disposizione, la quale gli lasciasse libero il campo di provvedere alle pubbliche esigenze sino alla riunione del Parlamento, forse le disposizioni legislative che si fossero pubblicate in quel frattempo avrebbero potuto essere giustamente accagionate; dico forse, imperocché, avendo il Parlamento colla citata legge dato al Governo la facoltà di accettare e di stabilire le annessioni, questa si doveva estendere sino al tempo in cui il Parlamento si fosse riunito. Ma il Governo, mentre avvisava a questa utilità che risultava dalla pubblicazione di quelle leggi, le quali coordinavano il diritto pubblico interno della nazione collo Statuto; mentre dava quei provvedimenti, che riputava conformi al pubblico bene, nel tempo stesso, e così nell'emanare i mentovati decreti del 17 dicembre, si riservava quelle facoltà, le quali erano attribuite dall'articolo 82 dello Statuto.

Voi sapete, o signori, come lo Statuto fosse pubblicato in questa regione subalpina il 4 marzo 1848, come pel tempo intermedio a quel giorno, ed al 7 maggio, giorno in cui si riunì il Parlamento, fossesi appunto provveduto al bisogno di emanare tuttavia quegli atti, pei quali il paese fosse governato.

Il magnanimo Carlo Alberto nel pubblicare lo Statuto non riputò di togliere a sè stesso ed al suo Governo la facoltà di dare quei provvedimenti necessari al Governo del paese sino alla riunione delle Camere.

Didatti un popolo non può rimanersi senzachè il Governo possa provvedere a tutti quei bisogni, a quelle emergenze che ponno nascere; nulla vi debbe rimanere di sospeso; se in un Governo costituzionale non solo, ma normalmente Costituito in ogni sua parte, l'esercizio del potere esecutivo è assolutamente distinto da quello del potere legislativo,

Camera Dei Deputati - Discussioni del 1861

egli è pur vero ad un tempo clic in altre circostanze meno normali, quali erano appunto quelle in cui si versava prima della riunione del Parlamento, sta sopra ogni cosa la condizione del bisogno, della pubblica utilità.

Così il magnanimo Carlo Alberto nel dar lo Statuto, coll'articolo 82 dello Statuto medesimo si riservava, tra il giorno della sua pubblicazione e quello della riunione delle due Camere, quelle facoltà, ove il pubblico servizio lo richiedesse, ch'egli aveva dapprima.

Eccone il tenore:

«Il presente Statuto avrà il pieno suo effetto dal giorno della prima riunione delle due Camere, la quale avrà luogo appena compiute le elezioni. Fino a quel punto sarà provveduto al pubblico servizio d'urgenza con sovrane disposizioni, secondo i modi e le forme sin qui seguite, omesse tuttavia le interinazioni e registrazioni dei magistrati che sono fin d'ora abolite.»

Ora è qui a ritenersi un fatto, e sopra esso richiamo tutta l'attenzione dell'onorevole Amari e della Camera.

L'illustre Garibaldi, nel pubblicare lo Statuto, non lo attuò immediatamente, ma decretò che sarebbe entrato in osservanza all'epoca in cui l'avrebbe il Governo ulteriormente stabilito. Perciò al 17 dicembre lo Statuto nell'Italia meridionale era pubblicato bensì, ma non era per anco attuato; avvegnaché il Governo non aveva ancora emessa la dichiarazione predetta.

Or bene, nei decreti del 17 dicembre si richiamò il surriferito articolo 82 dello Statuto; e, siccome siffatto articolo aveva avuta la sua applicazione in Piemonte nell'intervallo Ira il giorno in cui Carlo Alberto pubblicò lo Statuto, ed il giorno della riunione del Parlamento, così l'ebbe pure nelle Provincie siciliane, nelle napolitane, nelle Marche, nell'Umbria.

S'egli è vero pertanto, come non può negarsi, che lo Statuto in Napoli ed in Sicilia non ebbe il suo effetto che alla riunione, delle Camere, egli è evidente che il Governo, pubblicando prima della riunione delle Camere, e così prima che lo Statuto andasse in osservanza, le leggi in discorso, non poté violar lo Statuto.

Mi pare dunque che per nessuna guisa il Governo, indipendentemente dalle maggiori considerazioni che dirò in appresso, può essere accagionato di incostituzionalità; perché non può aver violata quella legge, la quale non era ancora obbligatoria, non era ancora esecutoria.

Ma entriamo in un'ipotesi, o signori, in un'ipotesi la più sfavorevole al nostro assunto, quale è quella di supporre ciò che veramente non è, vale a dire che lo Statuto già fosse in vigore nei paesi suddetti.

Ebbene, anche sotto quest'aspetto, non crediamo di avere in alcuna guisa offeso lo Statuto.

Vi accennai poc'anzi, o signori, come un popolo non possa in verun modo rimanersi privo di quei mezzi di governo, di azione, i quali sono indispensabili all'ordinario còmpito della sua vita politica e civile.

Mentre le Camere non erano ancora riunite, forsechè poteva esistere un Governo, il quale non avesse facoltà di fare nessuno di questi atti, i quali, sebbene d'ordine legislativo, possono essere utili e necessari nell'interesse del paese? No, o signori, la legge del 5 dicembre era forse una positiva conferma di questa verità.

Che più! il mentovato articolo 82 dello Statuto, espressamente richiamato nei mentovati decreti del 17 dicembre, ne attribuiva al Governo espressa facoltà.

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

«Sarà provveduto, così in esso, al pubblico servizio d'urgenza con sovrane disposizioni, secondo i modi e le forme sin qui seguite, omesse tuttavia le interinazioni e registrazioni dei magistrati che sono fin d'ora abolite.»

Ma qui due obbiezioni mi oppone l'onorevole Amari.

Egli dice che anzi tutto l'articolo 83 vuol essere posto jn armonia col successivo articolo 83. Per esso Carlo Alberto erasi riservata la facoltà di fare sino alla riunione delle due Camere la legge sulla stampa, sulle elezioni, sulla milizia comunale, e sull'ordinamento del Consiglio di Stato; dunque, esso conchiude, queste sole erano propriamente le leggi, che il Governo avrebbe potuto all'appoggio dei mentovati articoli pubblicare in quell'intervallo.

Mi consenta l'onorevole Amari ch'io non m'acconci a quest'interpretazione sua dell'articolo 82 dello Statuto.

Didatti, o signori, come potremmo noi ammettere quest'opinione a fronte delle letterali disposizioni dell'articolo 82, dove si parla indistintamente di quei provvedimenti, i quali fossero necessarii al pubblico servizio?

Ma qui, in secondo luogo, obbietta il signor Amari: si conceda che il Governo, all'appoggio dell'articolo 82, potesse pubblicare altre leggi che quelle indicate nell'articolo 83, ma esso poteva pubblicare quelle sole leggi ch'erano di urgenza.

Ora i provvedimenti che voi avete fatti sono essi d'urgenza! Che non siano d'urgenza ve lo provano le disposizioni dei decreti del 17 febbraio, coi quali si sono pubblicati i Codici summentovati e la legge dell'organizzazione giudiziaria, e per le quali è stabilito che nelle Provincie napolitane que' Codici e quella legge sarebbero entrati in osservanza al 1° di luglio, e nelle Provincie siciliane al 1° di novembre. Ora, quale necessità, qual urgenza di pubblicare queste leggi, se tanto intervallo doveva essere ancora tra il giorno della pubblicazione e quello dell'attuazione?

Signori, quest'argomento, il quale certamente a primo aspetto colpisce, il quale potrebbe farne inferire che veramente non vi fosse quest'urgenza, panni essere argomento che non fia troppo difficile il risolvere. Voi sapete, signori, come queste leggi non possono altrimenti essere eseguite, se non mediante molte pratiche disposizioni, le quali richieggono lunghi ed accurati studi, quali le sedi delle autorità giudiziarie, le circoscrizioni, il numero delle sedi stesse, degli uffiziali, e simili.

Or voi ben vedete che non troppo lungo era l'intervallo, se parliamo prima di tutto di Napoli, tra il 17 febbraio ed il 1° luglio per compiere queste varie disposizioni necessarie all'attuazione della legge. Se parliamo della Sicilia, voi sapete quanto difficili siano, e ce lo dicevano gli onorevoli deputati della Sicilia, le comunicazioni dall'una all'altra località; voi sapete quanto sia difficile lo avere cognizioni bastantemente esatte, perché le circoscrizioni giudiziarie dall'un canto corrispondano ai bisogni e d'altro canto non si abbandoni una certa uniformità di sistema colle rimanenti parti del regno.

Ove a tutte queste cose si badi, voi vedrete ben di leggieri come vi fosse urgenza che queste leggi si pubblicassero.

Ma, qui dice l'onorevole Amari, l'avrebbe fatto il Parlamento; esso doveva riunirsi il giorno dopo, cioè il 18 febbraio; perché non attendere che queste leggi fossero discusse e volate nel suo seno?

Ma, signori, chi non comprende, chi non è persuaso che il Parlamento sarebbe stato da altre gravissime occupazioni impedito di por mano a codeste codificazioni? Credete voi che si sarebbero potuti discutere un Codice penale,

un Codice di procedura penale, una organizzazione giudiziaria nella presente Sessione, per averli il 1° di luglio quanto alle provincie napolitane, ed il 1° novembre per la Sicilia?

Voi vedete, signori, che sarebbe stata cosa impossibile. Convien pure tener conto delle pratiche difficoltà che di mano in mano s'incontrano nella discussione delle leggi. Orbene dunque voi vedete che, se si pubblicavano queste leggi il 17 febbraio, ciò non tanto era perché il Governo ambisse, per cosi dire, il piacere di pubblicare delle leggi, ma bensì per adempiere ad un dovere che gli era imposto, e dalla legge del 3 dicembre e da tutte le sovra esposte considerazioni.

Parmi adunque, da quanto ho detto, che si possa fin qui riassumere il mio sistema in questi tre principali argomenti: prima di tutto, che nelle provincie di Napoli e di Sicilia non era attuato lo Statuto prima della riunione del Parlamento; che quindi non abbiamo potuto violare uno Statuto che ancora non aveva la sua obbligatorietà. In secondo luogo, che dalla legge del 3 dicembre il Governo aveva facoltà di accettare non solo, ma di stabilire le annessioni; per modo che queste parole stabilire le annessioni importavano il diritto di fare quelle pubblicazioni, di dare quelle disposizioni le quali erano necessarie nello scopo dell'utilità del paese. In terzo luogo, che, quando pure si supponesse ancora che lo Statuto fosse attuato, il che non è, l'articolo 82 dello Statuto dava facoltà di fare quegli atti che il Governo avesse creduto opportuni nello scopo predetto.

Ma qui occorre un'altra obbiezione dell'onorevole deputato Amari.

L'articolo 82 dello Statuto, egli disse, era una disposizione transitoria del 1848, applicabile solo al regno subalpino. Come mai voi andaste a raccogliere le disposizioni transitorie di quell'epoca per pubblicarle in Napoli, in Sicilia, nell'Umbria e nelle Marche?

Ma, o signori, lo Statuto si doveva pubblicare in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua integrità. Distinguiamo pure se vuolsi, le disposizioni permanenti dello Statuto dalle disposizioni transitorie; ma allora è a vedersi se fosse utile o non utile di applicare alle provincie napoletane, alle provincie siciliane, all'Umbria ed alle Marche, nel 1860, quelle stesse e medesime disposizioni transitorie che Carlo Alberto credette di applicare nel 1848.

Ora, dunque, non istà l'accusa che siasi applicato in Napoli ed in Sicilia un articolo transitorio dettato per quel tempo e per quel regno; fatto già per circostanze identiche, fu pubblicato per reggere condizioni e circostanze identiche. Credo adunque che né per l'uno, né per l'altro rispetto il Governo abbia violata la legge; e qui di nuovo dirò.: può essere quistione di apprezzamento il vedere sino a qual punto fosse più o meno utile o necessario di dare disposizioni atte al governo non solo di quei paesi, ma ad accelerare l'unificazione delle leggi in discorso. Potrà altri portarne diverso giudizio, ma non potrà dirsi mai che siasi fatta cosa che non si fosse in diritto di fare.

Ma non crediate infine, o signori, che la pubblicazione di quelle leggi possa essere stata, o sia per essere causa di agitazione in quei paesi. Anzitutto una legge non può propriamente commuovere, agitare le popolazioni, finché essa non è attuata; ben chi non ravvisa questa legge buona e consentanea agl'interessi del paese, ed abbia capacità di portarne giudizio, può quella increscergli, può, come che sia, censurarla; ma le popolazioni, o signori, giudicano le leggi dagli effetti, non dalla loro intrinseca razionalità. Pur nondimeno scendiamo a quest'argomento; supponiamo un'agitazione possibile anche prima che la legge sia attuata: ma invero, o signori, non solo io non credo che quelle popolazioni

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lo non voglio qui istituire un confronto, che sarebbe tedioso troppo, tra il Codice nostro penale e quello del regno delle Due Sicilie; ho già accennato a ciò in principio del mio ragionamento; non vi ritornerò.

Ben mi basta, o signori, di notare come esistessero in Napoli e nelle provincie napolitano quelle quindici Corti criminali, che io non so se abbiano lasciala troppo cara e bella memoria, e se di là forse non sortissero quelle Commissioni che noi lamentiamo, ed a cui accennava, se non isbaglio, nel suo discorso di ieri l'onorevole Scialoia. Cinque di queste Corti stanno nella Sicilia, oltre alle due gran Corti miste di Catania e di Messina, e si attaglia ad esse l'osservazione medesima.

Parlo, o signori, dell'istituzione; ricordo quelle Corti dalla loro passala istoria; non intendo per nulla fare ingiuria alla presente magistratura di. quelle provincie, a cui anzi mi è caro dar merito di tutta lode.

A queste Corti, quale sistema, qual ordine di giudizi sottentrerà per le nuove leggi? Sottentrerà il sistema dei giurati. Voi sapete come quell'istituzione sia riputata un'indispensabile conseguenza ed applicazione del sistema costituzionale. Un paese che si regge a popolare reggimento, non può riconoscere miglior giudizio della coscienza pubblica, del voto del popolo. Che se un istante si fosse potuto dubitare, non dirò della bontà dell'instituzione per sé, ma della sua opportunità, l'esperienza ne ha tolto ogni dubbio. Imperocché io passo assicurare la Camera che, dacché furono attuati i (indi presso di noi, fu generale la testimonianza della utilità che da codesta istituzione risulta; quei giudizi furono apprezzati per ogni parte e rispettati dalla pubblica opinione; quei giudizi furono ammaestramento di virtù. La Sardegna stessa, che per l'indole ardita ed immaginosa de' suoi abitalori poteva far dubitare un istante, non fu da meno delle settentrionali nostre provincie, e i giudizi che vi si diedero furono altamente e per ogni parte commendati per assennatezza e giustizia.

Dunque all'opinione degli scrittori e dei giureconsulti si aggiunge l'esperienza, ed io non dubito che, quando questa istituzione sarà attuata nelle provincie napoletane e siciliane, noi la vedremo giustamente apprezzata e lodata.

Finalmente la maggior guarentigia della vita, delle sostanze e della libertà dei cittadini, è la collegialità dei giudici. Or bene, voi sapete, o signori, e lo accennava ieri l'onorevole Scialoia, come, secondo la presente legislazione penale dell'ex-reame di Napoli, un giudice di circondario possa profferire condanna di ben cinque ed anzi di dieci anni di carcere!

Or come supporre che i giureconsulti £ i molti dottissimi uomini delle provincie napoletane e siciliane, soli che possono competentemente giudicare del merito d'una legislazione, si possano commuovere delle nuove leggi?

L'onorevole Amari mi scuserà, ma io non posso crederebbe si commovano né i giureconsulti, né le popolazioni in vedere ad una legge meno buona sostituita una legge buona; e nelle cose penali appunto cosi avviene, che ogni nuova legge si trova sempre migliorata dai progressi della scienza; anche sotto i Governi assoluti la scienza e la pubblica opinione fanno i lor passi, producono i lor frutti; ed anche sotto i Governi assoluti un Codice penale che viene di poi è sempre migliore del precedente; cosicché il Codice delle Due Sicilie del 1819 ha migliorato il Codice Napoleone del 1810; mi appello allo stesso deputato Amari, egli non contesterà questa verità.

Vi dissi, o signori, come la scienza e l'opinione non possano a meno di portare dei miglioramenti nella legislazione penale coll'andare del tempo, anche in un assoluto reggimento; che diremo poi se questo Codice sia emanato sotto un libero reggimento?

Il Codice penale, introdotto nelle provincie napolitane e siciliane, pubblicato da noi il 20 novembre 1859, fu il dettame non solo della scienza, della civiltà, ma l'attuazione dei principii di libertà, da cui ogni atto del Parlamento subalpino era informato. Molte di quelle disposizioni appunto già erano state votate dalla Camera, e, se non erano tradotte in legge, non aspettavano, per così dire, che l'opportunità; questa opportunità venne, e il Codice nostro penale racchiude tutti codesti miglioramenti, e racchiude pure quelli che il Codice delle Due Sicilie aveva introdotto rispetto alle leggi napoleoniche del 1810.

Che vi dirò poi, o signori, quanto all'organizzazione giudiziaria, la quale non vuole essere considerata solamente come una necessità per l'attuazione dei giurati, ma essa medesima ha in sé stessa disposizioni di singolare vantaggio, massime rispetto alla preesistente? Tale è la maggior guarentigia che risulta nei giudizi correzionali, sia per la prima istanza che per l'appello; tale è la promiscuità delle attribuzioni dei giudici in materia civile e penale; tale è l'abolizione dei privilegi del foro per i giudici che si rendessero complici di reati; tale è l'ordinamento di una rigorosa disciplina giudiziaria.

Da queste disposizioni, non meno che da quelle del Codice penale e di procedura penale, sorgono elementi pei quali si viene a riorganizzare tutta la disciplina giudiziaria, fondamento di moralità non solo, ma di efficacia sull'autorità morale dei giudicati e delle sentenze.

Ora, a fronte di questi benefìzi che risultano dalla pubblicazione di queste leggi, io non saprei persuadermi come il Governo possa in ciò essere accagionato di avere turbate quelle popolazioni, di avere recato loro alcunché di meno voluto, di meno desiderato.

Ancora un'ultima osservazione faceva l'onorevole Amari. Per effetto, egli diceva, di questa organizzazione della nuova circoscrizione territoriale ne avverrà che debbano qui sorgere ed altrove cessare dei tribunali.

Qui ben facile è la risposta.

Ora stanno quindici tribunali civili, e come accennava di sopra, quindici Corti criminali nella provincia napolitana.

Si sopprimeranno le quindici Corti criminali; ma ad esse sottentrano i circoli delle assisie; i tribunali civili, ben lungi di essere diminuiti, saranno anzi, come è agevole il presumere, aumentati.

Stanno in Sicilia sette tribunali civili; or bene la nuova legge ne stabilisce ben quindici; e qui pure alle Corti criminali sottentreranno i circoli delle assisie.

Ai tribunali civili poi sono aggiunte le sezioni correzionali.

Vi stanno infine, e nelle provincie napolitane e nelle siciliane, le Corti d'appello; a Napoli ed a Palermo una Corte suprema.

Ora qual danno, qual ragione, lo ripeto, di commoversi per quelle popolazioni? Chi non vede anzi come, localizzata meglio cosi la giustizia, ne avranno esse vantaggio grandissimo?

Io credo dunque che, se noi attendiamo al concetto, che dobbiamo sopra ogni altro prefiggerci, di unificare ormai questa Italia non solo nella sua condizione politica esteriore visibile, ma nella sua interna condizione; che se noi pensiamo come un solo debba essere il carattere moralizzatore di tutte le azioni dei cittadini; come non possa in veruna guisa riconoscersi un Codice penale, un Codice di procedura penale che

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forza è il dire che, pubblicandole noi, non solo non abbiamo fatto cosa di che ci si possa portare accusa, ma anzi cosa di cui ci si sarebbe giustamente potuto domandar conto se non l'avessimo fatta; ci avreste detto: noi avevamo fatto la legge del 3 dicembre, lo Statuto non era per anco attuato, l'art.82 ve ne riservava espressa facoltà, voi non provvedeste, non avete adempiuto al vostro dovere.

Mossi da queste considerazioni, noi pubblicammo quelle leggi, e crediamo aver fatto cosa non meno doverosa per noi, che vantaggiosa alla patria. Ci ingannammo? La Camera pronunzierà. (Bene! Bravo!)

Natoli, ministro di agricoltura e commercio. Signori, non prenderei la parola in questa grave questione, se non fossi convinto che, se per avventura il sistema dell'onorevole deputato Amari prevalesse, dannose conseguenze potrebbero tornarne alla Sicilia.

L'onorevole guardasigilli vi ha discorso intorno alla legalità degli atti ché finora la luogotenenza ha pubblicati in quell'isola,; io ora farò opera di dimostrarvi come tornasse alla Sicilia opportuna ed utile la loro pubblicazione.

Ma anzitutto permettete ch'io vi presenti un'osservazione generale. Altra volta si disse in questa Camera che la legge non deve aver cuore. Sta bene; laonde la legge non si può interpretare in due modi; i principii del vero non possono subire diverse maniere di decisioni; essi deggiono applicarsi sempre, qualunque sieno le conseguenze loro. Or bene, signori, se per avventura quanto finora di legislativo si è pubblicato in Sicilia dovesse cadere, quale ne sarebbe la conseguenza? Lo dirò francamente; nessun deputato siciliano potrebbe sedere in questo luogo, perciocché non debbe nascondersi che i deputati qui riuniti non furono tutti eletti colla stessa legge.

Quella che qui fece convenire i deputati della Sicilia è più larga di quella che qui adunò i rappresentanti del resto d'Italia. Due mutamenti radicali si fecero in Sicilia alla legge elettorale: l'uno riguarda il censo, l'altro riguarda l'età degli elettori. Ben diceva l'onorevole Amari: in Sicilia giunse con tanto ritardo il decreto per la convocazione dei collegi elettorali, che era impossibile adempiere i termini in esso stabiliti. Ciò è vero, o signori; ma, se si dovesse stare ai principii dell'onorevole rappresentante, il luogotenente nulla avrebbe potuto fare; a lui sarebbe solo toccato lo sterile conforto di dire al governo centrale: è impossibile che la Sicilia mandi i suoi rappresentati al Parlamento, perciocché la legge che proclama la riunione dei collegi elettorali è d'impossibile esecuzione. Ma egli agì altrimenti, e ben s'appose; egli stabilì che le liste elettorali già pubblicale per le elezioni comunali e provinciali servissero di base per le politiche; ora, poiché per quelle il censo si aggira da 25 a 8 franchi, ed il minimo dell'età degli elettori può scendere fino a 21 anno, ognun vede quanto sia stata profonda l'alterazione che in Sicilia subì la legge elettorale politica.

Or dunque, se il principio che i poteri della luogotenenza non erano che semplicemente amministrativi fosse vero, nessuno dei deputati siciliani potrebbe in questo momento sedere in questo recinto.

Ma quando la Camera, verificando i poteri, li ammise in questo Consesso, assai chiaramente addimostrò che la luogotenenza siciliana poteva emanare disposizioni legislative.

Mi si permetta pure, o signori, un'altra idea generale, questa, cioè, che durante il periodo della luogotenenza, tre Ministeri si sono succeduti; io vidi in essi uomini, della cui amicizia altamente mi onoro.

Se mai il potere della luogotenenza avesse infranti i suoi limiti, se esso avesse voluto valicare il confine che la legge gli imponeva, come mai questa triplice famiglia di ministri si sarebbe fatta complice del luogotenente, non avvertendolo in nessuna maniera della falsa via in cui erasi addentrato?

Darò ora un rapido sguardo sulle principali disposizioni pubblicatesi in Sicilia, onde il pubblico sappia di che si trattava, e vegga se, annullandole, alla Sicilia verrebbe vantaggio o danno.

Il primo decreto che vedemmo pubblicato fu un'alta riparazione nazionale. Ricordate la rivoluzione del 1848; la Sicilia, lottando 17 mesi contro il Borbone, fu obbligata a contrarre debiti cogli stessi Siciliani. Avvenuta la ristorazione, tali debiti non si vollero riconoscere. Or bene, o signori, il primo atto che fece la luogotenenza appena giunta in Sicilia, fu quello di riconoscerli; ne andò lieta l'isola, non per il vantaggio materiale, avvegnaché dopo 12 anni niuno più pensava a quell'antico credito; bensì con questo riconoscimento essa fu convinta che il Governo del Re non rompeva col passato, anzi visi legava, e la legittimità della rivoluzione del 1848 riconosceva.

Tutti i comuni lamentavano la mancanza di un'amministrazione comunale bene stabilita; non già che la legge sulla riorganizzazione amministrativa non esistesse, ma essa non era stata messa in esecuzione. Ora, per mandarla ad effetto, fu in alcune parti modificata, lo convengo che la legge fu leggermente innovata, ma la conseguenza si fu che i commi e le provincie furono organizzate immediatamente, e che quella mancanza d'organizzazione provinciale e comunale, cotanto lamentata da' deputati delle provincie napolitane, non fu sperimentata in Sicilia. In Sicilia fin dal gennaio sorsero i Consigli comunali ed i provinciali.

In seguito si estese alla Sicilia la tariffa doganale che era in vigore in questa parte d'Italia, e niuno vorrà negare che, se mai si dovesse ammettere il principio che la luogotenenza non poteva pubblicar leggi, questa tariffa dovrebbe cadere. Chi ignora però quanta differenza passi fra essa e la tariffa doganale antecedentemente in vigore per la Sicilia, e quanto danno ne verrebbe all'isola se all'antica tariffa si tornasse? Si è pubblicato, o signori, il Codice penale. L'onorevole guardasigilli vi ha detto in generale come il medesimo è migliore assai del precedente; ed io, o signori, non imprenderò a farvi il confronto fra essi; ma vi dirò solo che, mentre nell'antico Codice quegli impiegati che tradivano il segreto delle lettere trovavano scampo e salvezza nella scusa di aver obbedito ad un ordine superiore, nel Codice che si è pubblicato adesso a codesto rifugio non possono ricorrere, espressamente dicendosi, che qualunque disposizione di funzionario superiore non salva l'inferiore, se nel reato in discorso ebbe a cadere.,

Si è parlato, o signori, di circoscrizione territoriale. Bisogna sapere, per conoscere l'opportunità di questa legge, che in Sicilia, paese di due milioni e mezzo di abitatori, vi erano solo sette tribunali di prima cognizione. Se ciò, o signori, corrisponda agli interessi del paese, lascio a voi il deciderlo.

Da oggi in poi vi saranno quindici tribunali di prima cognizione.

Invero io non esito a dire che questo numero forse è minore di quello richiesto dai bisogni del paese. Ma comunque possa andare la faccenda, certa cosa ella è che per essa il giudicante è avvicinato a' giudicabili, e lo svolgimento della giustizia ne è reso più rapido ed imminente.

Io non ignoro, o signori, che questa nuova circoscrizione territoriale ha toccato alcuni interessi particolari; ma non vi e riforma che non turbi alcuni interessi, e che per conseguenza non faccia sorgere lamentazioni.

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Ma i governi deggioao sempre intendere al meglio dello universale ed alla giustizia, anziché agl'interessi individuali.

Io non entro, o signori, in più minuti particolari, ma ciò che sono venuto esponendovi vi convincerà, che quanto si è fatto in Sicilia, oltre all'essere severamente legale, è pure grandemente opportuno ed utile a quel paese. (Segni di approvazione.)

Presidente. La parola spetta al deputato Del Drago, il quale però la cede al signor Ugdulena.

Amari. Se mi fosse permesso, vorrei dare qualche schiarimento di fatto, e qualche breve risposta

Presidente. Le osserverò che, se ella intende rientrare nel merito della discussione, non si può interrompere l'ordine degli oratori inscritti. Di fatto personale parmi non sia il caso, non essendosi detto nulla che possa darvi luogo.

Il deputato Ugdulena ha facoltà di parlare.

Ugdulena . Signori, mi ero proposto di non pigliar parte alcuna alla discussione che da tre o quattro giorni occupa questa Camera, neppure dopoché con un abile colpo di mano, e quasi di soppiatto, in mezzo alla questione delle provincie napoletane, sollevata dall'onorevole Massari, fu da un altro deputato insinuata quella delle provincie siciliane. Non voleva prendervi parte per due ragioni: primieramente, perché si trattava di fatti e di persone che ci toccano troppo da vicino e difficile sarebbe stato il moderarsi in modo da non entrare nelle personalità, o in guisa almeno che non si fosse veduto nelle parole, per innocenti ch'esse fossero, qualche allusione a persone.

Mi sarei voluto astenere, in secondo luogo, perché ritengo che il bucato deve farsi in famiglia, e che i mali che travagliano il paese, le piaghe che affliggono l'Italia, non cosi gravi come poi si son volute dipingere, non di si enorme mole di spaventarci e disperare del rimedio, miglior consiglio sarebbe forse stato di trattarle in privato. Io avrei amato meglio ragionarne quasi all'orecchio, richiamar seriamente l'attenzione dei ministri su' bisogni del paese, manifestar loro il mio avviso, e, se mi avessero voluto ascoltare, indicare eziandio i rimedi che, secondo me, si potrebbero apportare; anziché annunziarle qui al cospetto di questo Consesso, e per conseguenza farne risuonare ii grido in tutta l'Europa. Ma adesso che, sotto la forma di un'interpellanza al ministro dell'interno sugli affari delle provincie meridionali, si è venuto propriamente a portare innanzi al Parlamento un atto d'accusa contro il Governo della dittatura in Sicilia, si è voluto quasi provocare un voto di censura dalla Camera; qualunque sieno stati gli artifizi oratorii coi quali dal deputato Bruno la questione si metteva in campo, qualunque gli argomenti coi quali si fingeva di voler attenuare le colpe di quel Governo, di volerlo scusare in faccia al Parlamento; adesso che da un altro onorevole deputato, con intenzioni forse non del tutto ostili, e quasi inconsideratamente, s'è pur lasciato andare la parola che la rivoluzione in Sicilia abbia fallito, per colpa dei governi che la ressero, abbia completamente fallito il suo scopo; adesso, o signori, per me, che feci parte del primo Gabinetto del dittatore Garibaldi in Sicilia, e poi di quello dell'ultimo prodittatore, anzi seggo solo a poter rendere ragione dell'amministrazione di esso in questa Camera; adesso per me il silenzio sarebbe colpa: io non posso non raccogliere il guanto che dagli onorevoli oppositori mi è stato gittato ai piedi.

Egli è mio dovere di scolpare quel Governo, al quale tengo che sia in gran parte dovuta l'unità italiana e la riunione di tutti noi deputati d'Italia in questo Consesso.

Ma pure schiverò di entrare nelle personalità: il che spero che mi venga tanto meglio fatto, quanto le persone delle quali dovrò ricordare i nomi, od alle quali mi converrà comechessia far allusione, per quanto rappresentino un'opinione diversa dalla mia, sono però personalmente i miei amici; e nonostante le piccole differenze d'opinione che sono tra noi (perocché, più presto che un'opposizione assoluta e diretta, è una divergenza d'opinioni), non ho mai smessa per essi quella stima che loro è dovuta. Procurerò di recare nelle questioni che si son messe avanti al Parlamento tutta la calma e il maggior sangue freddo possibile (Segni d'impazienza), e discolpando il Governo del dittatore e la successiva prodittatura dalle accuse che loro furono apposte, forse sosterrò ancora in certo modo la causa della luogotenenza che a quella succedette; poiché molte colpe si addussero come comuni a entrambi i governi, e d'ambedue si disse che fossero prodighi nel creare impieghi, nel concedere pensioni e ritiri. Senz'altro più lungo preambolo, entrerò dunque a trattar la questione. (Ahi ahi)

Presidente. Prego di non interrompere.

Ugdulena. L'accusa principale, che venne mossa, fu lo spreco, la profusione del pubblico danaro, cagionata dalla mala amministrazione, dal gran numero d'impieghi creati, dalle pensioni larghissime accordate, e da altre cose siffatte. E in primo luogo ho inteso a parlare di impiegati della vecchia polizia borbonica. Veramente questa prima accusa io non la seppi ben comprendere; e forse che mi sfuggirono in parte le parole dell'onorevole deputato di Nicosia, allora che egli il primo la poneva innanzi.

Io non so che relazione potessero avere con la dittatura gli impiegati della polizia borbonica; poiché è notissimo a quanti siamo qui deputati della Sicilia, che colla rivoluzione sparirono interamente gli sgherri borbonici, che insieme con quel Governo fuggirono via, dinanzi alle popolazioni insorte, tutti i principali sostenitori del dispotismo e della tirannide; e niuno di loro sarebbe stato ardito di lasciarcisi par vedere, perocché quegli uomini ch'erano stati imprigionati c martoriali da loro, que' popolani ai quali sanguinavano ancora i polsi segati dalle manette e le tempie trafitte dalle punture delle cuffie e delle corone di tormento, que' bravi popolani si sarebbero sentiti ribollire il sangue nelle vene; avrebbero, anche lor malgrado, dato in eccessi, pei quali la vita di quei manigoldi non saria punto stata sicura.

Di quegli sgherri adunque della vecchia polizia, sotto al Governo della dittatura, non ce n'era più in Sicilia; né essi hanno nulla che fare con quello.

Si è parlalo, per secondo, degl'impiegati del dazio sul macinato, ai quali, dopo che quello fu abolito dal dittatore Garibaldi, si continuarono a pagare gli stipendi; s'è detto esser quelli un esercito d'impiegati, e che il corrispondere loro quelle retribuzioni è stato una vera dilapidazione del danaro pubblico.

Ma, o signori, agli alti funzionari che soprastavano alla riscossione di quel dazio veramente esoso, perché gravava sulla classe più misera del popolo, non si diede più nulla del loro stipendio, e fu solo agl'impiegati dell'ordine inferiore che si faceva pagare. Erano miserabili i quali vivevano di questo assegnamento; e non potevano essi colle loro famiglie essere gettati sulla via; oltreché v'erano taluni fra loro che, privi de' mezzi di lor sussistenza, potevano diventar cagione di gravi disordini, e turbar la pubblica sicurezza. E conviene anche riflettere che quegli stipendi, per malintesa economia, erano così tenui, che essi per vivere erano ordinariamente costretti sotto il Governo borbonico a rubare (mormorio e ilarità); e quell'istituzione era una sorgente inesausta di furti.

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CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Or quel profitto illegale per opera della rivoluzione venne loro del tutto meno, e null'altro a quei disgraziati fu concesso, se non quella miseria di stipendio per tenerli quieti, e fare che non morissero affatto di fame. né il loro numero è così straordinario come si sarebbe voluto far credere.

Ha, più che di questi, si è parlato degl'impiegati nominati dal Governo della dittatura; si è detto che in Sicilia c'è un numero sterminato d'impiegati che consumano il denaro pubblico, che vivono da inerti parassiti a spese dello Stato; si è parlalo principalmente dei funzionari dei dicasteri di Sicilia. Signori, quegl' impiegati sono un po' più numerosi che non sarebbe forse richiesto dallo stretto bisogno; ma non credo punto che possa loro convenire il titolo di esercito, col quale sono stati chiamati sempre dalla stampa ed ora anche in questa Camera. No, non è un esercito. Ne' dicasteri che io ressi, quello degli affari ecclesiastici e quello dell'istruzione pubblica, non erano che diciannove per ciascuno, e così in proporzione negli altri dicasteri, de' quali non potrei in questo momento dar con precisione il numero.

Signori, mi convien confessare che a colali nomine contribuì in parte quella specie di necessità che nasceva dalla smania d'impieghi, della quale, in una delle precedenti tornate, per iscusare il soverchio numero d'impiegati introdotto ne' dicasteri qui di Torino, vi parlò anche il presidente del Consiglio; di quella smania che si sviluppò non solo in Sicilia, ma nelle altre provincie ancora. (Rumori)

Presidente. Prego la Camera di far silenzio, affinché l'oratore possa esporre le sue idee.

Ugdulena. Fu una conseguenza altresì della moltiplicità de' Ministeri che si succedettero in quell'isola; ogni nuovo ministro voleva naturalmente avere sotto ai suoi ordini qualche impiegato di sua confidenza. (Movimenti diversi)

Ma ad un tempo egli non aveva il coraggio, gli saria stato sensibile di rimandare a casa qualcuno di quegli che si trovavano già in ufficio (tumori); aggiungeva perciò qualche altro impiegato. Ed è in tal guisa che il numero si accrebbe, lo confesso, ma non però in modo così straordinario, strabocchevole da levarne tanti clamori.

Si è detto che si crearono degl'impiegati al Ministero degli esteri, dopo che il voto solenne del plebiscito era stato reso, quando quel dicastero non doveva, non poteva esistere più in Sicilia. A. parer mio ciò non è rigorosamente esatto; io penso che questi impiegati fossero nominati non dopo, ma prima del plebiscito. Anzi essi erano stati chiamati a quel posto durante il primo Ministero che si era creato in Sicilia sotto il dittatore Garibaldi; furono per la maggior parte chiamati a servire da un onorevole deputato che qui siede alla destra, dal barone Pisani, il primo ministro degli esteri; ed egli ragionevolmente insistette, ed a lungo, perché questi impiegati si avessero una nomina legale e non potè allora ottenerla. Solo sul fine della prodittatura Mordini si volle ad essi rilasciare colai nomina, quando si prevedeva che il loro ufficio andava a cessare; non perché l'impiego loro dovesse continuare, ma perché quel brevetto fosse un attestato di ben servito che lor si rilasciava, acciocché di poi il Governo del Re non li trascurasse, né li lasciasse privi interamente della sua considerazione.

E adesso il Governo del Re farà di loro quello che nella sua equità crederà più convenevole. Potrà anzi di tutti questi impiegati andarsi scemando lentamente il numero; potranno alcuni esser chiamati a prestar servizio (anche dopo aver subito un esame) nel Ministero centrale.

Dappoiché io non veggo la ragione, perché nessuno degli impiegati di Sicilia debba essere ammesso qui, con gl'impiegati delle altre provincie, a servire nei vari dicastèri del Ministero di Stato. Così, senza alcun grave disordine, sarà provveduto agli interessi dei particolari, ed a quelli, che più di tutto ci debbono essere a cuore, della finanza dello Stato.

Ma io debbo per contrario respingere una ragione per la quale si domandava ieri in questa Camera la diminuzione degli impiegati chela dittatura creò in Sicilia. Il Ministero, si diceva, rimandi tutti coloro che troverà inetti o che non gli piacciono, perché si lasci luogo finalmente anche a quelli che non servirono ai capricci della dittatura.

Signori, io respingo in primo luogo la parola capricci, come si potrebbe, come si dovrebbe respingere un insulto.

Io dico in secondo luogo che coloro i quali non si prestarono ai voleri della dittatura furono ben impiegati, non è necessario che si cerchi di impiegarli adesso.

La prodittatura in Sicilia proclamò il principio che il Governo non deve essere un partito, e si tenne sempre fedele a questo programma. Quindi gli impiegati, non dico tanto del Ministero, ma dell'ordine amministrativo, i magistrati e tutti gli altri pubblici funzionari si sceglievano fra tutti i partiti, senza guardare al colore dell'opinione, e purché un cittadino fosse onesto, l'opera sua riuscisse utile allo Stato ed egli potesse con dignità servire il paese, era senz'altro chiamato a servirlo. Potrei citarvi una lista di nomi, e di nomi conosciuti ed onorevoli, che appartenevano a partiti contrarli al. Governo della dittatura, e che ciò non ostante furono collocati da quel Governo ne' posti più cospicui. Recitarli tutti sarebbe opera lunga ed inutile; ma posso additarne alcuni; tanto più che trattasi d'uomini i quali io stimo come amici personali e della cui amicizia anzi mi onoro. L'onorevole Natoli che disimpegna ora degnamente le funzioni di ministro per l'agricoltura e pel commercio...

Natoli, ministro. Chiedo di parlare.

Ugdulena....... e l'onorevole deputato Raeli furono chiamati a posti molto elevati della magistratura. Ricordo tanto più volentieri questi nomi, che le cariche non vennero da loro accettate; ma, sebbene fossero rifiutate, il fatto dell'essere state offerte, e i decreti di loro nomina, mi bastano perché l'apologia della prodittatura sia compiuta.

Non vorrei che il signor ministro dell'agricoltura e del commercio credesse ch'io abbia ricordato il suo nome per recare offesa alla sua persona. Io invocava anzi tanto più volentieri quest'esempio, quanto veggo la sua persona esser qui in maggiore stima. Potrei indicare tanti altri che furono capi dell'opposizione, come si diceva in Palermo; tanti altri che erano affigliati alla Società Nazionale, la quale osteggiava la dittatura, e tutti ottennero dei posti, che forse non ebbero il coraggio o la generosità di rifiutare (Ilarità), come li rifiutarono l'onorevole ministro Natoli e l'onorevole deputato Raeli.

Taluno, cosa mollo strana, inseriva nei giornali un articolo nel quale diceva tutto il male possibile della dittatura; e contemporaneamente compariva nel giornale ufficiale il decreto che lo nominava ad un posto ragguardevole; ed egli non si sentiva punto voglia né forza di rifiutare. (Si ride)

Signori, riguardo al dicastero, che ressi particolarmente, dell'istruzione pubblica, potrei dirvi che le mie nomine, a preferenza, io le faceva nelle file dei miei avversari politici, non nell'intento di disarmarli, perché saria stata opera inutile, ma per essere generoso con loro, e ricambiarli delle

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TORNATA DEL 5 APRILE

Non dico di alcuni ch'erano stati miei personali amici, ma allora avevano opinioni diverse dalle mie. Ebbene, essi erano miei avversari in politica, ed io li chiamava a sedere nel Consiglio sapremo dell'istruzione pubblica, io li nominava professori all'Università.. E ve n'ebbe di quelli che, impiegati da me nei miei dicasteri, continuarono» declamare, a scrivere contro di me nei giornali. Diversi amici mi suggerivano che li destituissi, perché infine nn Governo non deve farsi servire da suoi nemici; ma io continuai a lasciarli al loro posto; e quel che feci io, lo fecero tutti gli altri ministri della dittatura.

Era questa la massima di quel Governo, il programma col quale noi reggevamo.

Non penso dunque che si possa ascrivere al Governo della dittatura la colpa di essere stato esclusivo, di essere stato un governo di partito. Che se di quegli che mi stanno incontro v'è alcuno il quale creda d'essere stato da me trascurato, io gli dichiaro pubblicamente, e spero che la mia voce possa, come che sia, giungere a' suoi orecchi, che ciò fu perché io non conosceva le sue pretensioni, i suoi desiderii (Ilarità prolungala); perché, ripeto, se li avessi conosciuti, l'avrei, dopo essermi certificato della sua capacità, nominato a preferenza de' miei amici. Quello era Io spirito, quella la politica del Governo al quale io appartenni.

Così operando, non ci facevamo degli amici, si sa pur troppo; non ne abbiamo nemmeno adesso, se non pochi: ma con quella nostra politica, io il dico a viso aperto, noi salvammo il paese da molti e gravi disordini.

La finanza non fu da noi rovinata; esistono ancora i conti resi e fatti di pubblica ragione, dai quali apparisce con quanta fedeltà e solerzia fu il denaro pubblico amministrato; né contro all'evidenza delle cifre credo che si possa nulla replicare.

Signori, udiste ieri dall'onorevole Amari come due dei principali cespiti dello Stato erano venuti meno perché era stato necessità l'abolirli: il dazio del macinato e quello della carta bollata, che formavano più che il terzo di tutte le rendite dello Stato. Ebbene, o signori, eccovi in breve i conti della cassa della tesoreria pubblica sotto il Governo della dittatura.

I fondi che noi trovammo dopo il 27 maggio, giorno in cui il generale Garibaldi entrò vincitore in Palermo, non ascendevano ad altro, atteso i furti commessi dal Governo borbonico, che a 113,286 ducati. Il 20 novembre dello stesso anno 1860, dopo i sei mesi che durò il Governo della dittatura, noi lasciavamo in fondi esistenti nella cassa della tesoreria 93,147 ducati, e di più in denari esistenti nel fondo del prestito nazionale, in effettivo di oro ed in titoli commerciali da realizzarsi nell'interesse della tesoreria tanto da sommare insieme con quei fondi o resto di cassa a 1,348,816 ducati, che vogliono dire meglio che 5 milioni di lire.

Ed intanto, per la guerra, che si portò nel continente napolitano, si erano impiegati 3,612,362 ducati; per soddisfare i due semestri dalla rendita pubblica sul gran libro ed altri pesi dello Stato 433,119; e per tutte le spese ordinarie e straordinarie, per quelle appunto per le quali si dice che il danaro pubblico fu largamente profuso, non si erano erogati se non 1,317,187 ducati. Tutte le somme complessive delle spese erano di 5,364,669 ducati.

Ecco in qual modo fu amministrato da noi il danaro pubblico; ecco quali sono le spese alle quali soggiacemmo; ecco il fondo che noi lasciammo nelle casse pubbliche, maggiore di quello che vi avevamo trovato.

Dopo questo, io sfido qualunque amministrazione, che abbia retto lo stato in tempi di rivoluzione, a rendere un conto egualmente ragionevole e soddisfacente.

Si parlò, o s'intende parlare, per quanto mi è giunto agli orecchi, da alcuni deputati, di pensioni e di sussidi, oltre gli stipendi che si davano agli impiegati. Forse in qualche pensione si sarà potuto eccedere, perché ogni Governo può commettere i suoi sbagli; ma quali sono le pensioni che furono date in Sicilia? Sono, o pensioni di giustizia, o di rimunerazione dovuta per servigi resi alla nazione: e vieppiù che altro, quelle delle quali suol quivi disporre il Governo, e non può altrimenti disporne che in forma di sussidi all'indigenza; sono le pensioni che si ricavano dal terzo pensionabile dei vescovadi, delle abbadie e di tutti gli altri beneficii di patronato regio e dello Stato. E la dittatura operò in modo che dove l'indigenza si trovasse congiunta coi servigi resi alla causa nazionale, o con altro laudevole titolo, fosse più largamente sovvenuta.

Ma, per aggravare viemaggiormente la mala amministrazione pretesa e l'ingiustizia del Governo della prodittatura, si aggiunse, ed in quel punto (lasciate, o signori, ch'io francamente lo dica) io sentii fremere ogni fibra del mio cuore, si aggiunse che la prodittatura, operando sempre a capriccio, non curava neppur gli ordini del generale Garibaldi, e ne stracciava i decreti.

Signori, qual valore avesse quell'accusa, e che dovesse, per conseguente, pensarsi delle altre, voi il vedeste da ciò che poscia avvenne nella discussione di ieri. Ma doveva quell'accusa farsi a noi? e da chi? a noi, Governo della prodittatura? al quale, se colpa si può apporre, si è quella di aver fatto quasi l'apoteosi di Garibaldi; quella di averne riverito il nome, come se fosse quello di un nume; di aver consacrato, come un monumento, che fia venerato dai posteri, la camera, nella quale il generale Garibaldi aveva dormito ed abitato, nel palazzo reale di Palermo; quella di avere insinuato ai Siciliani che adottassero l'uso di scoprirsi il capo al nome di Garibaldi (Ohi ohi), come usano i liberi cittadini degli Stati Uniti d'America pronunziando quello di Washington!

Signori, io non mi associai allora a quella insinuazione: ma appunto dalla impressione che le mie parole hanno fatto in questa Camera, appunto da ciò argomento che la riverenza pel generale Garibaldi in coloro che lo rappresentavano in Sicilia poteva tacciarsi piuttosto di eccesso che di difetto. Ebbene, i decreti di Garibaldi non furono mai stracciati. E poi sanno tutti che Garibaldi, quando passò nel continente, non si riservò il potere di far decreti se non per cose di norma generale e per la nomina di alcuni funzionari ai posti più alti; tutto il resto fu commesso ai suoi rappresentanti, e quando egli mandava alcuna carta dal continente, aveva lasciato istruzioni ai prodittatori che lo rappresentavano, perché esaminassero i fatti, e non rispettassero la stessa sua firma, se non quando riconoscevano la ragionevolezza delle domande: tanto quell'uomo anteponeva alla sua stessa autorità la retta amministrazione della giustizia e'1 pubblico bene.

Ma io procederò alla confutazione d'un'accusa più generale, ed annunziata in modo più enfatico e più solenne. Perocché fu detto ieri che la rivoluzione in Sicilia fallì compiutamente il suo scopo, e ciò per colpa de' governi locali che si succedettero, forse fino al governo della luogotenenza.

Io dirò all'onorevole deputato che mi moveva quest'accusa: ma che cosa doveva fare il governo della rivoluzione in Sicilia? Che cosa si pretendeva da esso?

Bertolami. Domando la parola. (Rumori)

Ugdulena. Quale era lo scopo della rivoluzione in Sicilia

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- SESSIONE DEL 1861

Vi dimando io: tutto questo non fu egli fatto dalla prodittatura? Che cosa si poteva pretendere di più? Poteva forse pretendersi che la rivoluzione in Sicilia divenisse una rivoluzione sociale? Che, ne' nochi mesi ch'essa durò, si fosse fatto tutto quello che in parecchi anni si fece colla rivoluzione di Francia?

Signori, io non l'avrei fatto, neppure se l'avessi potuto. Quel che si fece dai governi rivoluzionari in Sicilia lo sanno tutti: si mantenne e si tutelò l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza, meglio di quello che si poteva sperare in tempo di rivoluzione; si pubblicò in Sicilia non solo la legge di pubblica sicurezza, ma si istituirono eziandio gli ordini destinati a conseguirla; e così, oltre a un corpo di si crearono altresì le guardie più specialmente intese a mantenerla nelle città, ed i militi a cavallo per le campagne; si giunse a tale che, cosa quasi incredibile, in Palermo, città di 200000 abitanti, passavano molti giorni in cui non commettevasi nemmeno un delitto, e non erano infrequenti i giorni in cui il telegrafo da tutti i punti dell'isola ci annunziava non essere succeduto neppure il più lieve disordine.

Questi, o signori, sono fatti.

Ed io ebbi a stupire che l'ordine pubblico fosse così poco turbato, e che le persone destinate a tutelarlo divenissero in breve così accette alle popolazioni, che le guardie di sicurezza, le quali può credersi che corrispondano agli antichi birri...

Voci. No! no!

Ugdulena. Scusino; gli antichi birri dovevano per loro scopo principale tutelare l'ordine pubblico; quel nome divenne odioso, perché Governi meritamente odiati se ne servirono per altri fini.

Or bene, le guardie di pubblica sicurezza, le quali all'occhio del volgo non potevano in Sicilia non richiamare per associazioni di idee gli antichi birri, in una pubblica rassegna che si fece della guardia nazionale, della truppa e di tutte le forze sulla piazza del palazzo reale in Palermo, giunsero ad essere applaudite dal popolo. Questo quanto alla pubblica sicurezza.

L'amministrazione civile fu condotta nel miglior modo possibile. Fu pubblicata la legge provinciale e comunale, e i municipii, parte secondo questa legge, parte secondo le antiche istituzioni del 1812, funzionarono regolarmente. Si decretarono delle opere pubbliche ingenti, opere che certamente in quel breve tempo non si potevano eseguire; alcune altre, come quelle delle strade ferrale, che non si sarebbero potute eseguire senza l'approvazione del Parlamento; ma però il governo della dittatura mostrò quanto più poteva il suo buon volere.

Delle finanze vi ho parlato; ma aggiungerò particolarmente delle dogane, che in tempi di disordine e di rivoluzione non avrebbero dovuto rendere nulla, eppure davano una rendita, non uguale all'antica, ma sufficiente. L'imposta fondiaria, la sola che possa dirsi rimasta alla Sicilia, era quasi per tutto regolarmente pagata.

Si è parlato sovente dell'accumulazione di una grande estensione di territorio nelle manimorte, dei molti beni, dei latifondi che esse posseggono, delle mense vescovili, dei corpi regolari, dei beneficii, delle opere pie, anche laicali. Or bene, il governo della dittatura, che non era un governo rivoluzionario alla francese, non volle spogliare quelle manimorte della loro proprietà; perché stimava che la proprietà, in qualunque mano si trovi, è sempre sacra,.e che grave scandalo sarà sempre in uno Stato e sotto un governo civile la violazione della proprietà, sotto qualunque titolo essa venga. (Rumori di dissenso)

Il governo della dittatura vide non pertanto che poteva nuocere alle condizioni economiche, e nuoceva forse di fatto nell'isola, l'accumulamento di tante proprietà in poche mani, dalle quali non potevano passare in altre, non potevano mettersi in commercio, in circolazione.

Ebbene, esso non ispogliò quei corpi morali, quelle manimorte della loro proprietà, ma ordinò il censimento dei loro beni: era tutto quello che poteva fare senza violare la proprietà; ordinò, dico, il censimento con condizioni da rendere più agevole e più generale la circolazione di quei beni, ed io credo che il Governo del Re procurerà che sia eseguilo, e se non istima che i regolamenti allora fatti siano i migliori, secondo i veri principii della più sana economia, potrà proporne al Parlamento le modificazioni. Così quelle grandi proprietà potranno dividersi, esser migliorate ed entrare in commercio, e le classi basse, le quali hanno poco da vivere in Sicilia, e che pure sono le classi più attive ed industriose, troveranno di che vantaggiare la loro condizione; e quelle proprietà poi potranno, in processo di tempo e per successive disposizioni, andarsi mano mano svincolando dai canoni o livelli ed altri pesi che li gravano. Insomma, si farà quello che dagli altri Stati civili è stato fatto, ma senza portare ona violenti scossa nella società; perché, o signori, io odio tutte le scosse violente, tutte le misure repentine, poiché credo che sieno cagione più di male che di bene; che, almeno per la generazione che le mette in atto, non producano altroché tristi effetti, e solo quegli che verranno dappoi ne possano risentire il beneficio; laddove, quando si procede per gradi, quando si opera insensibilmente, si fugge la taccia d'ingiustizia, si scansa l'odiosità e si producono più durevolmente quei buoni effetti, ai quali si.debbe mirare da un savio Governo in uno Stato civile.

Or questa era appunto la politica, queste le massime del Governo della dittatura in Sicilia.

Alla pubblica istruzione fu provveduto forse più largamente che negli altri rami. Si pubblicò la legge piemontese del 15 novembre 1859, come tante altre leggi che si dicevano piemontesi. Così quel Governo, del quale si credeva che non volesse nulla dal Piemonte, che non volesse piemontesizzare l'isola, si è quello che introdusse in Sicilia la maggior parte delle leggi piemontesi che ora vi sono in vigore. La legge dunque sull'istruzione pubblica del 13 novembre 1859 fu applicata alla Sicilia; fu ordinato e promulgato che fosse legge dell'isola, per decreto del 17 ottobre 1860. Quella legge, tutti lo sappiamo, ha dei difetti. Ebbene, il Governo della dittatura credette avere il diritto di modificarla in guisa, da correggerne in parte i difetti. E qui non reciterò tutti gli articoli del decreto dittatoriale, col quale quella legge fu modificata; ma annuncierò solo qualche principio che vi fu sanzionato.

La massima della libertà d'insegnamento in tutta la sua più ampia estensione è quivi proclamata; per la Sicilia non bavvi più monopolio d'insegnamento qualsiasi; l'insegnamento privato è assolutamente libero; soltanto quando vuoisi che produca un effetto legale, che dia un titolo al conseguimento dei gradi accademici, come si dice, solo allora è soggetto ad alcune norme legali; ma per tutto il resto è libero assolutamente.

Non vi parlo dei licei, dei ginnasi che si crearono apposta in Palermo; di quello che si creò in Modica, dell'applicazione dei beni dei gesuiti e dei liguorini alla pubblica istruzione, né d'altri provvedimenti che si adottarono, perché la istruzione,

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TORNATA DEL 5 APRILE

troppo trascurata per addietro, prendesse un ampio sviluppo e fosse diffusa a beneficio e miglioramento di tutte le classi di cittadini.

Non vi parlo della marina, che si creò come per incanto, comechè gli avversari vorranno forse dirmi che quella era una marina poco ordinata; ma era certo il meglio che in quelle circostanze ed in si breve spazio di tempo si poteva avere. Noi potemmo mirar con compiacimento il nostro piccolo navilio di ben quindici legni a vapore. Ne m'importa che altri pretenda alcuni di essi essersi potuti comperare a miglior mercato; ma in si breve tempo, nell'urgenza che stringeva di condurre la guerra nel continente, chi poteva pensare a risparmi? Conveniva affidarsi talvolta a mani delle quali non poteva essersi sicuri che fossero scrupolosamente fedeli.

Si creò soprattutto un esercito, un esercito che il ministro della guerra ha creduto conveniente di sciogliere. Se fossi stato io (mi si perdoni l'espressione, perché un prete non può esser ministro della guerra), se fossi stato io al suo posto, io l'avrei purgato dei cattivi elementi che vi si potevano esser introdotti; perché, quando si arruolò, non si aveva tempo di fare troppo sottile esame; il bisogno stringeva.

Io li avrei esortati a rimanere sotto le insegne quei valorosi giovani, invece di mandarli via e discioglierli, invece d'incitarli a ritirarsi alle loro case, adescandoli con l'oro che, con sì grave dispendio della finanza, si è loro offerto, mentre la guerra ci minaccia cosi da vicino e tanto bisogno abbiamo d'armarci. Ed ora quei volenterosi anelano d'essere chiamali al servizio per combattere le battaglie della patria, ed attendono che una coscrizione si faccia anche in Sicilia.

Dunque, una marina, un esercito; e la guerra si portò nel continente, si riversò la rivoluzione nelle provincie napoletane, le quali fremevano, si agitavano sotto il giogo, nelle catene alle quali le aveva avvinte il Borbone, troppo gravi perché se ne potessero da sè sole sprigionare. Quei generosi di là dallo stretto attendevano la mano soccorrevole dei loro fratelli; e la Sicilia, redenta col sangue dei prodi ch'erano accorsi al suo aiuto dal continente, doveva anch'essa pagare

Il suo tributo di sangue per la causa nazionale nel continente. Fu questa, o signori, la ragione per la quale il Governo

del dittatore non volle la subita annessione dell'isola all'antico regno della monarchia sabauda nel giugno 1860; fu questa la colpa fatale del dittatore e degli uomini che sedevano allora al Governo, colpa che ha suscitato tanti udii, tante animosità, che ha fallo riguardare come nemici quelli ai quali prima si stringeva amichevolmente la mano, e mettere quasi al bando della proscrizione gli uomini che sacrificarono tutto alla causa nazionale e servirono più generosamente il paese. Se l'annessione si fosse fatta nel giugno 1860, come alcuni pretendevano, contro a noi che fummo la maggioranza nel Consiglio del generale Garibaldi; allora, secondochè da noi fu dimostrato, ne sarebbe avvenuta l'una delle due; chè l'alternativa, il dilemma non si poteva sfuggire. 0 il Governo del Re indugiava ascoltando i consigli della diplomazia, non volendo incontrare le suscettibilità dei Gabinetti d'Europa, e differiva di accettare quell'annessione, facendo lo svogliato, come dovette fare per l'annessione della Toscana e dell'Italia centrale (Si ride); ed in questo caso che vantaggio avrebbe avuto la Sicilia da quell'annessione?

Camera Dei Deputati - Discussioni del 1861.

Nessuno; anzi, attesa l'indole calda ed impetuosa dei meridionali, specialmente del basso popolo, quell'indugiare, quella tergiversazione sarebbe stata presa per una ripulsa; e non so che conseguenza ne sarebbe potuta seguire. Ovvero il Governo del Re accettava l'annessione immediata; e ne sarebbe venuta la conseguenza che noi non avremmo adesso l'Italia. (Foci: E vero!) Il Governo del Re, accettando l'annessione nel giugno 1860, doveva impedire, benché contro sua voglia e sol per secondare i voleri della diplomazia, che qualunque armamento si facesse in Sicilia.

Noi sappiamo che, quando la spedizione del generale Garibaldi doveva partire da Genova, il Governo da un lato fingeva di chiudere un occhio, dall'altro fingeva di aprirlo; il generale Garibaldi doveva partire come di furto, dopo essersi a grande stento e nascosamente armato: e i mille prodi che vennero a liberare la Sicilia, e quindi a fare l'Italia, dovevano, come banditi, come pirati, come filibustieri...

Voci. No!

Ugdulena. Adopero a studio il vocabolo usato allora dalla polizia borbonica, e ripetuto in alcuni dispacci della diplomazia.

Dovevano, dico, andarsi ad imbarcare alla spicciolata e di soppiatto. Così finalmente partivano, così giungeva la spedizione in Marsala.

Ma si potrebbe dire: ebbene, lo stesso si sarebbe potuto fare per Napoli.

No, signori, no; a liberare le provincie napoletane in mille non si poteva andare. Conveniva avere un esercito, conveniva avere artiglierie, conveniva una flotta che valicasse lo stretto e riversasse le nostre schiere sul continente: perché, signori, ben altrimenti erano ordinale le cose del continente. E qui non incolpo punto gli uomini di quelle provincie: so che essi erano ardenti, al pari di noi Siciliani, di scuotere quel giogo e di vendicarsi a libertà; ma le catene sopra loro s'aggravavano a mille doppi; ma là sul continente

Il Borbone aveva i suoi centomila armati, le sue formidabili artiglierie. Ben altrimenti avrebbe egli difeso, come di fatti difese, lo sbarco sulle coste del continente. Nel continente quel Governo avrebbe fatto l'estremo de' suoi sforzi, perché sapeva che, vinto in Napoli, per lui non c'era più speranza né scampo di sorta; laddove della Sicilia, quand'era sicuro di mantenersi sul continente, esso si curava ben poco. Imperocché per pruova ed esperienza sappiamo come il Governo borbonico fosse facile, quando si vedeva attaccato seriamente, a ritirarsi dalla Sicilia, ed a fortificarsi in quei suoi maggiori dominii, perché di là, quando vedeva il bello, e ad un punto preso, poteva agevolmente ritornare a conquistare l'isola da capo. Epperò in Sicilia esso non fece, né pure allora, tutta quella resistenza che avrebbe potuto; ma nel continente sarebbe stato altrimenti. Quivi egli doveva resistere insino all'estremo; quivi accampar tutte le sue forze; quivi doveva battersi insino all'ultimo sangue. Ci voleva ben altro che mille a tanta guerra! testimone la battaglia del 1° ottobre al Volturno. E se Garibaldi si fosse rischiato a scender nel continente allo stesso modo come egli era smontato a Marsala, vi avrebbe incontrato la triste fine di Pisacane e dei fratelli Bandiera.

Plotino, (Vivamente) No!

Ugdulena. lo non parlo delle popolazioni, parlo delle condizioni militari del paese.

Voci. Bravo!

Ugdulena. Conveniva dunque portare la guerra sul continente, e portarla nella miglior guisa e col più grande svolgimento di forze che si poteva, dando al nostro esercito la forma di un esercito regolare, allestendo una flotta che ser

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CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Io credo, dopo tutto questo, che non occorrano altre discolpe né altre apologie; sbagli ce ne poterono essere sotto quell'amministrazione, ce ne possono essere stati sotto il governo della luogotenenza, potrebbe commetterne, e forse ne ha commessi, anche l'attuale Gabinetto. Quale è il Governo del mondo che non commetta alcun fallo? Colpa è solo il mancare scientemente al proprio dovere. Ma, quando si va diritto allo scopo, e ad uno scopo santo e lodevole; quando si propugna la causa della libertà e dell'indipendenza di una grande nazione; i piccoli falli, inseparabili dalla natura delle umane cose, che montano! Vel disse l'altro dì il presidente del Consiglio, quando si volle comparare ad un generale che mira solo allo scopo ultimo dell'impresa, alla distruzione delle forze nemiche, e non si cura se per via i suoi soldati si stracciano gli abiti, se lasciane pur le scarpe, se le file de' suoi battaglioni si diradano, purché lo scopo sia raggiunto, purché la vittoria sia riportata.

Signori, questo che il presidente del Consiglio diceva della sua politica, io lo dico della politica e dell'amministrazione del Governo del dittatore Garibaldi. Lo scopo fu raggiunto, una grande vittoria fu riportata, quella grande vittoria alla quale si deve la libertà e l'indipendenza della nazione italiana. I pochi errori, se mai senza volerli o per necessità di circostanze ne furono commessi, io credo che non debbano e non possano tenersi in conto (Applausi dalle gallerie pubbliche. Bravo! dagli stalli dei deputati)

Presidente. Il deputato Crispi ha facoltà di parlare.

Crispi. La discussione sull'interpellanza può dirsi esaurita. Dopo il discorso dell'onorevole signor Ugdulena, io temo che la Camera sia stanca e che non desideri di continuare questa discussione

Voci. Parli! parli! Basta!

Crispi credo almeno che la maggioranza non abbia più la forza di ascoltare. D'altronde una gran parte delle mie idee già fu esposta (Bravo!)

Voci. La chiusura! la chiusura!

Presidente. Poiché vi ha chi chiede la chiusura, domanderò se è appoggiata. (È appoggiata.)

Essendo appoggiata, la metto ai voti.

(La discussione generale è chiusa.)

Debbo partecipare alla Camera che fu trasmesso al banco della Presidenza un nuovo ordine del giorno, e che due di quelli già stati presentati vennero modificati.

Il nuovo ordine del giorno trasmesso è del deputato Ranieri, e sarebbe cosi formulato:

«La Camera, persuasa che le nobili popolazioni napolitane e siciliane non la cedono a nessun'altra italiana nel loro ardente e irremovibile amore all'unità d'Italia sotto lo scettro del Re Galantuomo, e che i momentanei mali che ora le affliggono, derivano in massima parte, piuttosto dalle necessità storiche del laborioso passaggio dall'infermità della separazione alla salute dell'unità (Mormorio) che dalla volontà degli uomini, governati e governanti, invita il Ministero a condurre quel passaggio con sapienza, prudenza ed umanità, provvedendo ad un tempo alacremente ai lavori ed alla sicurezza pubblica, e passa all'ordine del giorno.» (Rumori)

Li prego di non far rumori, altrimenti la Camera non può sentire ciò che si legge.

Gli ordini del giorno modificali, come dissi, sono due.

Primieramente quello presentato dai deputati Fabrizj, Alfieri, Bertolami, Caracciolo, Tommasi, Oldofredi, Massari, BonCompagni, Raeli, Paternostro e Baldacchini. Il cambiamento consisterebbe nella seguente formola:

«La Camera prende atto delle dichiarazioni del Ministero, e però, confidando che esso piglierà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa delle Provincie napolitane e siciliane, ed insistendo sulla pronta ed efficace pubblicazione delle misure dal Governo promesse circa la sicurezza pubblica e l'esatta osservanza della legge ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno.»

Questa proposta è sottoscritta non solo dai deputati di cui diedi lettura, ma anche da altri ventisette, e sono:

Napoleone Scrugli, Ruggiero Bonghi, Pietro Compagna, Salvator Tommasi, Giuseppe Del Drago, generale Assanti, Nicola Urbani, Terenzio Mamiani, Carlo Poerio, Vincenzo Spinelli, Raffaele Conforti, Devincenzi, A. Piria, A. Ciccone, Serra Pasquale, Giovanni Barracco, Francesco De Blasiis, Enrico Falconcini, Francesco Bubani, Francesco Mezzacapo, Oronzio De Donno, B. Mazzarella, V. Cepolla, P. Mazza, Francesco Mavr, Saverio Rendina, Edoardo Grella.

L'altra proposta modificata è del deputato Ricciardi, e sarebbe così concepita:

«La Camera invita il Ministero a provvedere al più presto ed energicamente alle cose dell'Italia meridionale, dando norme precise di governo alle luogotenenze di Napoli e di Palermo, massime in ordine alla giustizia ed alla pubblica sicurezza, e mirando in ispecie:

«1° A garantire la moralità nell'amministrazione;

«2° Ad attivare, al possibile, le opere pubbliche d'ogni maniera,

Passa all'ordine del giorno.»

In questo mentre mi viene trasmessa un'altra proposta del deputato Brofferio. (Movimenti d'attenzione)

«La Camera invita il Ministero a secondare lo slancio nazionale, adottando una politica che, colle armi, colle leggi, e colla unificazione del partito liberale, svolga e promuova il movimento italiano, e passa all'ordine dei giorno.

Di Torre Arsa. Domando la parola per proporre un ordine del giorno.

Presidente. Ora toccherebbe a parlare al ministro per l'interno, per dichiarare se accetta qualcuno di questi ordini del giorno.

Petruccelli. Io debbo avvertire che ho fatto una proposta per l'unificazione completa del governo di quelle Provincie e per l'abolizione della luogotenenza.

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Presidente. Formoli la sua proposta, affinché la Presidenza possa metterla in deliberazione. Avendola solo esposta nel suo discorso, non posso metterla ai voti con precisione.

Castellano. Domando di parlare.

Presidente Ha facoltà di parlare.

Castellano. Quando proponeva il mio ordine del giorno non intendeva di sollevare una questione com'è quella la quale ha poscia assunte così vaste proporzioni. Credo importantissima una tale quistione, siccome l'ha giudicata lo stesso Governo, poiché da un suo oratore ha fatto oppugnare il suddetto ordine del giorno, nel senso di trasportare sovra altro terreno la quistione, cioè da quello della legalità e dell'opportunità, al giudizio della bontà degli atti su cui ho chiamato l'attenzione della Camera; giudizio che sarebbe esclusivamente riservato ai poteri costituiti dello Stato; ed è per questo che, non volendo avventurare una quistione così grave, facendola dipendere dalla sorte di un ordine del giorno, il quale potrebbe andar travolto fra gli altri proposti nel corso della discussione, io ritiro il mio, sotto l'espressa riserva di farne oggetto di un'apposita proposta di legge.

Amari. Domando la parola.

Il mio ordine del giorno, sebbene non avessi avuto nessuna comunicazione col signor Castellano, s'incontra nelle idee essenziali con quello da lui proposto; io quindi lo ritiro per gli stessi motivi, e inoltre per un altro mio particolare e importantissimo, perché cioè non mi fu dato luogo a rispondere alla lunga ed abile orazione colla quale il signor ministro cercò di distruggere tutte le mie osservazioni; io avrei dovuto ottenere la facoltà di replicare tanto al ministro guardasigilli, quanto a quello d'agricoltura e commercio; ma, non avendola potata ottenere, ritiro il mio ordine del giorno, e mi riservo di riprodurlo a tempo più opportuno, quando verrà in discussione il progetto di legge testé annunziato dal signor Castellano, o quando verrà discussa dalla Camera la petizione di circa 250 cittadini di Palermo che domandano presso a poco quello che io nel mio ordine del giorno ho domandato.

Bertolami. Poiché un deputato della sinistra dice di non aver potuto rispondere al ministro, io dirò di non aver potuto rispondere alla domanda mossami dal suo collega signor Ugdulena, che ci ha fatto il panegirico del suo governo nell'epoca prodittatoriale.

Presidente. Dal momento che la Camera ha deliberala la chiusura, le repliche che si potevano fare, sia in un senso come nell'altro, non possono più aver luogo.

Di Torre Arsa. Io, riferendomi al discorso del signor ministro, le conclusioni del quale appoggio, faccio una proposta semplicissima ed è questa:

«La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero e confidando sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napolitane e siciliane, passa all'ordine del giorno. (Movimenti in diverso senso)

Ricciardi. Domando di parlare.

Presidente. Il signor ministro ha facoltà di parlare per dichiarare qual è l'ordine del giorno che accetta.

Minghetti, ministro per l'interno. Io non rientrerò in questa discussione, la quale ebbe già così largo svolgimento; dirò soltanto poche parole per ovviare alla interpretazione che, forse per mia colpa, alcuni oratori hanno dato alle mie parole.

Io non ho mai negato i mali egli inconvenienti delle Provincie meridionali; ma ho detto che quei mali erano stati esagerati, che di essi molti mi parevano inevitabile effetto dei cambiamenti colà succeduti; che, infine, una parte notevole di essi mi pareva riparabile.

A quelli che mi hanno rimproverato di aver consigliato la dimenticanza del passato, dirò che la dimenticanza del passato per me si fonda sulla ricognizione degli sforzi per conseguire il bene che tutti hanno fatto; ma questa dimenticanza del passato non implica che non si cerchi di reprimere gli abosi, e che il Governo non abbia il dovere di farlo! (Movimenti in senso diverso)

A quelli che mi hanno accusato di avere risposto con frasi un po' vaghe e con promesse un po' elastiche, io dirò che non saprei darne di più precise; che un Governo, il quale rispetta se stesso e rispetta la dignità del Parlamento, deve essere molto parco nel promettere, deve piuttosto studiarsi di mantenere più di quello che ha promesso. (Bene!).

A questo proposito io mi sento in debito di rettificare un fatto intorno al quale feci errore l'altro giorno, e ne provo rammarico. Esso nacque da un telegramma male interpretato. Io annunziava che pel giorno 15 aprile si sarebbero fatte nelle provincie napolitane le elezioni comunali; ora debbo dire che da lettere posteriori, che mi danno spiegazione di quel telegramma, riconosco che il giorno 15 è fissato per la prima affissione delle liste elettorali.

Dopo molte osservazioni venute da tutte le parti delle provincie napolitane, apparve che le liste fatte antecedentemente contenevano tante inesattezze da non potersi procedere immediatamente all'operazione delle elezioni. Il Governo si trovò nei limiti più ristretti della legge elettorale per compierete rimanenti operazioni; ma era necessario che la legge venisse eseguita colla massima regolarità: questo ip doveva dire per debito di coscienza.

Crispi. (A mezza voce) La discussione è chiusa.

Minghetti, ministro dell'interno. A quelli che mi hanno rimproverato di aver detto che si doveva procedere gradatamente, risponderò che l'andar per gradi non si debbe confondere colla debolezza; si può procedere a passo lento, ma sempre con mano ferma e sicura. (Bravo! Bene!)

A chi poi disse che l'invio di truppe sia un segno di voler governare col terrore e non coll'amore, rispondo che le provincie napolitane c siciliane riguarderanno come la maggiore prova di affetto che il Governo possa loro dare, quello di vedere in mezzo a loro le nostre truppe, di cui ammirano il valore congiunto a disciplina ed a mirabile contegno. (Bravo! Benissimo!)

Dopo ciò io sarei in forse per iscegliere fra i molti ordini del giorno, i quali, in sostanza, prendono atto di quanto il Ministero ha dichiarato e lo esortano e gl'inculcano di attuare i provvedimenti ai quali egli stesso ha accennato.

Io non ricordo bene quali siano le varianti che l'onorevole Ricciardi ora propone al suo ordine del giorno....

Presidente. Vuole che lo legga?

Minghetti, ministro dell'interno. Non occorre, poiché tanto ne accetto un altro. (Si ride)

Ricciardi. Chieggo facoltà di parlare.

Minghetti, ministro dell'interno. Io voglio dire che non dissento menomamente dalle idee che egli ha espresse; se in altre questioni posso trovarmi da lui discorde, questa volta però mi parve che fossimo concordi. Solo gli dirò che, se il mettere la moralità all'ordine del giorno valesse ad introdurla, io preferirei il suo ordine del giorno a tutti gli altri. (Benissimo! Ilarità)

436

Non potrei assolutamente accettare l'ordine del giorno proposto dall'onorevole Miceli, perché non risponde alle viste

Egli vi propone un'inchiesta parlamentare. Ma, o signori, l'inchiesta parlamentare l'abbiamo fatta noi ora; abbiamo qui i deputati, i quali vengono dalle provincie meridionali; udimmo una discussione che durò quattro giorni; ecco l'inchiesta. Che se l'onorevole Ferrari dicesse che, prima di prendere provvedimenti, vuol verificarci fatti singolari per mezzo di una deputazione, la quale si rechi sul luogo, allora gli risponderò che non posso accettare la sua proposta, perché essa paralizzerebbe l'azione governativa; d'innanzi ad un'inchiesta parlamentare che si iniziasse in quelle provincie, evidentemente l'azione governativa verrebbe non solo menomata, ma sospesa. E se pure dicesse che non vuol impedire a rigor di termine tutti i provvedimenti necessarii, osserverò che nondimeno durante l'inchiesta gli atti governativi sarebbero improntati di tale una diffidenza, che il Governo mancherebbe di quella forza che mi sembra invocata come il massimo dei rimedii da tutte le parti della Camera; se il Governo deve procedere con franchezza e con risolutezza, uopo è che la Camera non lo lasci sotto il peso di una inchiesta che dimostrerebbe la sua sfiducia.

Quanto agli altri ordini del giorno, il Governo li accoglie tutti con riconoscenza, ed è inclinato ad accettare, come il più semplice, a preferenza quello dell'onorevole di Torre Arsa, dichiarando però che tutte le idee, le quali sono espresse negli altri ordini del giorno dei deputati della maggioranza, sono dal Governo accettate come se fossero precisamente formulate nell'ordine del giorno Torre Arsa.

Pantaleoni. Siccome la mia proposta è presso a poco eguale a quella dal signor ministro accettata, io son ben contento di poterla ritirare.

Ricciardi. Si ricordi, signor presidente, della mia proposta che è stata la prima. (Ilarità generale)

Presidente. Osservo al signor deputato Ricciardi che non posso mettere ai voti le proposte in ragione della loro anteriorità di tempo, ma sibbene in ragione delle materie che esse contengono.

Ricciardi. La Camera mi permetta di esporre le mie idee. (Movimento)

Presidente. Mi par che fra tutte le proposte merita la precedenza quella del deputato Ferrari, contenendo essa una sospensione di ogni deliberazione, e chiedendo che sia stabilita un'inchiesta parlamentare; io quindi, dopo averla letta, darò facoltà di parlare al deputato Alfieri, il quale s'è fatto inscrivere per parlare contro.

La proposta del deputato Ferrari è questa:

«La Camera, desiderando di vedere al più presto compiuto l'ordinamento delle provincie meridionali, nomina una Commissione, scelta nel suo seno, onde studiare la condizione di quelle terre e proporre un provvedimento.»

Domando se questa proposta è appoggiata.

(È appoggiata.)

Il deputato Alfieri ha facoltà di parlare.

Alfieri. Siccome, a quanto parmi, la Camera vuole assolutamente terminare oggi questa discussione, non l'intratterrò, se non si accorda ad altri la facoltà di parlare in favore della proposta del deputato Ferrari.

Essendo questa stata svolta nel discorso dell'onorevole proponente, io l'avrei combattuta; ma, dal momento che la Camera passa ai voti, non sono io che chiederò di prolungare la discussione.

Presidente. Ve n'ha un altro inscritto contro.

Alfieri. Dichiaro poi che, se la Camera passa alla votazione, io mi associo ben volentieri alla proposta dell'onorevole Torre Arsa, ritirando quella da me con altri presentata.

Mellana. Mi spiace di non poter seguire l'esempio che viene di darci l'onorevole Alfieri; ma, rispettando la stanchezza della Camera, sarò breve, e farò forza a me stesso respingendo le molte idee che mi fanno tumulto nella mente. Si vuole dar fine in questa seduta alla presente discussione; ebbene, lo si faccia, ma si stia qui in permanenza il tempo che occorre per prendere una ponderata deliberazione. Alcuni giorni or sono, in occasione di altre interpellanze, quelle su di Roma, si spesero parecchie sedute a fare discorsi accademici, e poi, quando si venne alla parte veramente utile e pratica, quella cioè di discutere sui vari ordini del giorno, ci si concessero pochi minuti. Non vorrei che oggi si rinnovasse quel pericoloso precedente.

E bensì vero che sono quattro giorni che noi sentiamo dei buoni discorsi, che valsero ad illuminarci sulle condizioni nelle quali versano le provincie del sud; ma è appunto dietro questi lumi che ora dovremmo pacatamente discutere per avvisare ai rimedi; ciò parmi non si voglia dalla maggioranza; quindi io mi limiterò ad alcune brevi considerazioni in appoggio della proposta dell'onorevole mio amico Ferrari, ed a ciò vieppiù sono spinto, perché, fino dal giorno che il deputato Massari annunziava la sua interpellanza, io mi era fatto una profonda convinzione che il mezzo unico ed efficace di giovare ai nostri fratelli del mezzodì era quello di una inchiesta parlamentare.

E contro la proposta dell'onorevole Ferrari, svolta con tanta potenza d'ingegno e con tanta copia di dottrina, il signor ministro dell'interno si limitò a dire, con poca cognizione del sistema rappresentativo, che l'inchiesta era già fatta essendosi ascoltati tanti deputati di quelle provincie; ed a soggiungere inoltre che, essendo stato consigliato nei discorsi de' suoi amici della maggioranza a spiegare della forza, ed a fare con tal modo rispettata l'azione governativa, ove ora si votasse per la inchiesta, noi scemeremmo invece quella forza della quale abbisogna.

Io non dissimulo a me stesso...

Minghetti, ministro dell'interno. Esautorato il Governo.

Mellana. In ogni caso, esautorato il Ministero, ma non il Governo. (Ilarità) Colla proposta Ferrari non è certo esautorato il Governo, ma neppure il presente Ministero. Non sarebbe punto esautorato, dal momento che l'accettasse con riconoscenza, anzi che opporsi; non sarebbe esautorato, dal momento che si prendesse questa deliberazione, non in odio del Ministero, ma bensì in appoggio di esso.

Riprendendo il filo delle mie idee osservo che male a proposito alcuni si sono preoccupati dei discorsi di questa e delle precedenti sedute, quasiché si fossero propalati all'Europa dolori e dissidi che, per carità di patria, era meglio fossero ignorati dagli stranieri, che, con così diversi affetti, ci stanno adocchiando nell'ardua prova nella quale versiamo. Io, invece, sono lieto, e ringrazio i miei colleghi, della pienezza della presente discussione. L'Europa si farà edotta, il paese si farà convinto da questa discussione che nelle provincie napolitane e siciliane non vi è stato, né avvi alcun pencolo da scongiurare. (Bene! Bravo'.)

437

DEL 5 APRILE

In tutti i discorsi, da qualsiasi lato della Camera sian stati pronunciati, non si accennò che ad inconvenienti più naturali

L'unica conseguenza che apertamente si desume da tutti quei discorsi, e che oramai è una dolorosa verità, si è che il Gabinetto non ha ancora, o per sua colpa, o per forza delle circostanze, potuto trovar modo di far nascere la fiducia in quelle popolazioni, quella fiducia gravemente scossa da alcuni atti del Ministero.

A fronte di ciò, io lo dico francamente, ho sentito con vivo dolore invocarsi da taluni il supremo argomento della forza: e con maggiore dolore ho sentito il ministro dell'interno quasi con compiacenza far pompa di questo doloroso spedente, ed anche inteso più nel senso assolutista che in quello d'un libero governo. E la forza, o signori, può essere adoperata e nell'uno e nell'altro sistema di governo. La diversità stà in ciò, che negli assoluti, quando il Governo si è gittato in una via, sia essa buona o triste, sia essa consona o non alla pubblica opinione od ai giusti desiderii delle popolazioni, per essa si cammina, e la forza c le baionette prendono il luogo della giustizia. Nei Governi liberi non è mica che la forza non debba sussidiare l'impero della legge e della volontà nazionale, anzi la forza prenderà maggiore efficacia; ma la diversità sta in ciò, che in un Governo libero, prima di venire a questo estremo, si esamina se non vi sono altri mezzi e sopratutto se la via seguita sia la migliore.

Lo ripeto, nelle provincie del mezzodì, nessun dissenso sul principio dell'unità, nessun disordine sociale; solamente malintesi e poca fiducia nei governanti: mali gravi sì; ma, prima d'imporre colla forza, vediamo da qual lato sia la colpa; vediamo se non vi sieno mezzi più efficaci a far scomparire i dissensi, a far sorgere la fiducia, sola base di un libero governo. Senz'ira di parte, e col solo scopo del bene, portiamo l'occhio sul passato.

Parte la spedizione per la Sicilia, ed il Governo è obbligato a fare le viste di osteggiarla. In Sicilia si combatte contro il Borbone, ed il Governo accoglie i di lui rappresentanti, e sta con essi trattando d'un'alleanza. Liberata la Sicilia, Garibaldi pensa a passare lo stretto per liberare i fratelli del continente napoletano, ed il Governo s'interpone per frustrare quelle speranze; Garibaldi è sulla via di Napoli, ed il Governo tenta altre vie per far insorgere Napoli; Garibaldi depone la dittatura, e si mandano a prendere le redini di quelle provincie uomini poco accetti all'illustre generale; Garibaldi parte per la sua diletta isola, e si scioglie bruscamente l'esercito dei volontari che tanto aveva della patria meritato. Io non giudico questi fatti; io voglio ascriverli a necessità di governo: ma potete voi accagionare quelle popolazioni, se in esse si sia ingenerata una qualche diffidenza verso degli uomini che stanno al potere? (Segni d'approvazione dalla sinistra) Io non accuso il Ministero; ma chi potrebbe farsi qui accusatore delle popolazioni sicule o napoletane?

Ma, domando io, non vi sarà un mezzo per far nascere questa fiducia? Se da tutti i discorsi emerge la dolorosa convinzione di questa mancanza di fiducia verso il Gabinetto, la Dio mercé da tutti i discorsi di tutti gli oratori, su qualunque banco essi seggano, chiaramente appare che intiera e piena è la fiducia di quei popoli nel loro nazionale Parlamento.

Avete sentito molti oratori rimpiangere le leggi fatte dalle luogotenenze; ma tutti vi dichiaravano che quelle stesse leggi sarebbero le bene accolte, ove venissero dall'autorità del Parlamento.

Ora, giacché la fiducia è cosi viva verso i rappresentanti della nazione, perché non ci varremo noi di questa forza, anziché di quella delle baionette, nell'interesse della nazione, nell'interesse stesso del Governo? Quelle popolazioni hanno sperato nel Parlamento, e voi per tutta risposta gli direte: vi affidiamo al Governo? Per tal modo voi non giovereste a quelle popolazioni, non al Governo, non alla vostra dignità. Il mezzo unico e costituzionale si è quello di una inchiesta. parlamentare. E giacché questa parola suona grave all'orecchio di taluno, mi sia permesso di brevemente intrattenere la Camera su questa opportuna misura.

Il signor presidente del Consiglio, il quale, come tutti noi ben sappiamo, è ammiratore e quant'altri istruito nella storia dell'Inghilterra, non mi negherà come la fiducia nel Parlamento costituisce la principale forza di un Governo costituzionale.

Ora vi domando, o signori, se vi sia atto alcuno grande in Inghilterra che non sia stato compiuto col mezzo delle inchieste parlamentari.

Tutte le grandi riforme colà operate ebbero 'origine e fondamento dalle inchieste; anche oggidì se ne sta compiendo una importantissima per l'imposta sulla rendita.

Io non vi ricorderò tutti i grandi atti in Inghilterra compiutisi per mezzo d'inchieste; ve ne accennerò uno solo, il quale potrebbe bastare a togliere i timori che inducevano il signor ministro dell'interno a respingere la proposta dell'onorevole mio amico Ferrari.

Tutti ricordiamo la guerra di Crimea, alla quale erano rivolti gli occhi di tutta Europa, e, più di tutti, di noi che avevamo mandali i nostri fratelli colà a combattere; ebbene, la pubblica opinione in Inghilterra e fuori si manifestò contro gli ordinamenti governativi a rispetto del suo esercito; in quel paese si parlò allora d'inchiesta; sedi ciò si fosse parlato presso di noi, ci avrebbero detto: mentre siamo a fronte del nemico, mentre combattiamo, venite a parlarci d'inchieste parlamentari, venite ad esautorarci! Ma no, anzi, dateci i pieni poteri, è coi pieni poteri che tutto si opera; a che cosa servono queste ciarle della Camera! In questi momenti supremi è con questo mezzo che si governa. Ma in Inghilterra fu altrimenti: ed il Ministero, presieduto non da un liberale, ma da lord Aberdeen, accettava l'inchiesta, e la Commissione incaricata di farla era composta di uomini dell'opposizione. Se fosse qui presente l'illustre generale La Marmora, il quale guidava le nostre schiere in Crimea, esso vi direbbe che, se vi furono disordini dapprima nell'esercito inglese, dopo l'inchiesta questo stesso esercito fu l'ammirazione di tutto il mondo. (Segni d'approvazione)

Io non conosco che le nazioni poco mature al sistema parlamentare che si siano rifiutate costantemente alle inchieste. Invece le veggo accolte con favore da tutti i partiti e negli Stati Uniti d'America e nell'Inghilterra, compresi gli uomini del potere, e le ho viste con ostinazione respinte in Francia.

Infatti due sole ne ricordo in quello Stato, ed entrambe gli recarono dei grandi benefizi. Una fu per la questione della flotta; e la marina francese, la quale era caduta al disotto di quello che fosse sotto Luigi XVI, divenne, dopo i salutari effetti di quella inchiesta, tale da rendere pensierosa la potentissima Inghilterra, perché l'inchiesta parlamentare pose rimedio ai mali principalissimi clic su di essa si aggravavano.

438

CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

L'altra inchiesta fu fatta per la questione dei tabacchi; ed anche di questa ne avvennerosensibili vantaggi; ma quel Governo parlamentare, il quale si oppose sempre a quella inchiesta, che produsse? che ne avvenne? Ne avvenne che un giorno per un banchetto si addivenne ad una rivoluzione. Se si fossero lasciate fare le inchieste, allora domandate per estendere il censo elettorale, da quelle inchieste ne sarebbe scaturita la perdurarla della libertà in Francia, e forse il Parlamento in quella nobile nazione avrebbe ancora libera la parola, come l'ebbe in tempi più propizi.

Ammessa, e non può contestarsi, l'utilità delle inchieste, alla proposta dell'onorevole Ferrari, secondo me, non si possono opporre che tre considerazioni, se, cioè, possa fare cattiva impressione all'estero, se possa fare cattiva impressione all'interno, se possa considerarsi come un voto di sfiducia al Gabinetto. Davanti all'interesse della nazione si deve badare assai più agl'interessi delle provincie napolitane che ad un Gabinetto qualunque; eppure ben vede ognuno che non è qui il caso della benché menoma opposizione contro il Ministero; diffatti in quattro giorni di discussione, mentre questa era più ardente, non una sola parola accennò a diffidenza verso il Ministero, e davanti a quest'atto generoso...

Voci a destra. Giusto!

Mellana. Giusto per la destra, ma generoso da parte dei membri dell'opposizione io non mi aspettava che quell'inchiesta fosse respinta e respinta colle ragioni addotte. Se il signor ministro mi fosse venuto a dire: quest'inchiesta la crediamo utile, ma però essa può produrre un pessimo effetto all'estero, può essere male accolta all'interno; avesse insomma addotta una ragione politica d'alta convenienza per la reiezione, noi l'avremmo discussa; ma la ragione da esso addotta io non la so comprendere in un Governo costituzionale; e prima di tutto io debbo dire all'onorevole ministro che, qualunque sia l'inchiesta parlamentare di cui si tratta, quando un Ministero ha la piena convinzione di operare il bene, esso non deve temere nel libero e costituzionale esercizio delle sue attribuzioni di sette membri che procederanno ad un'inchiesta, quando questa non è stata dettata da diffidenza verso di lui.

A coloro che potrebbero temere che un'inchiesta parlamentare potesse per avventura far credere all'Europa che vi sieno gravi dissensi in Italia, io credo che l'inchiesta sia un mezzo per far iscomparire questi timori. Infatti, quando il potere esecutivo, forte della sua posizione, forte delle sue convinzioni, stende la mano al Parlamento,e dice: venite con noi, studiamo il mezzo di provvedere al benessere di una gran parte dei cittadini d'Italia da poco a noi aggregali, di cui non conosciamo ancora bene ed a fondo i bisogni ed i sentimenti; quando ciò facesse, dico, farebbe comprendere all'Europa che qui vi è unità di pensiero in tutte le provincie, nel Governo, unità di pensiero nel Parlamento, in tutti i partiti, laddove si traila di gettare salde radici e sicure all'unità ed alla gloria del regno italiano. (Bravo! Bene! dalla sinistra) D'altronde questa inchiesta potrebbe far ragione di (ante calunnie che in Europa si spargono da coloro che temono o veggono con diffidenza la costituzione di questo nostro regno.

Mi si dirà: se ciò all'estero non farebbe buona impressione, la farebbe cattivissima nelle popolazioni; sarebbe lo stesso che dire che sinora quelle provincie furono male amministrate.

Signori, ciò non può essere. Ha già detto il ministro che finora fu un'epoca di transizione; che, ricevuto il potere dal glorioso dittatore,

esso non poté all'istante applicare lo Statuto, né le conseguenze che da quello derivavano, ma dovette passare per un ordine intermedio; che esso non è moralmente risponsabile, non avendo avuto ingerenza diretta.

Ora, io domando qual impressione invece farebbe in quelle popolazioni il dir loro: vedete, appena che il Parlamento fu preoccupato dei nostri bisogni, esso non solo fece sentire la sua voce in nostro giovamento, ma si uni al Governo per trovare i modi di portare efficace rimedio a questi bisogni.

Qui, o signori, sono obbligato a dire una ragione che avrei amato che fosse stata compresa dal Governo, anziché dirla; ma sono astretto a presentarla alla Camera, perché la più efficace per indurla ad assentire a questa nostra proposta.

Ragione, che, dico sinceramente,, è più nell'interesse del Gabinetto che in quella di una opposizione. È impossibile che repentinamente il Governo possa far ritornare la confidenza e l'affetto là dove ora vi è la diffidenza e il dissidio; vi vorrà tempo, ed i desiderii ed i bisogni di quelle ardenti popolazioni correranno più spediti e rapidi della volontà e dell'attività deL Governo, anche ammesso, come spero, che questi voglia tenere altra via da quella fin qui battuta. Invece colla inchiesta parlamentare voi guadagnate un tempo prezioso, il tempo necessario a studiare i bisogni di quelle provincie, e intanto ottenete la calma e la tranquillità di quelle popolazioni. Chi sarebbe l'audace che in Napoli o in Sicilia, quando il Parlamento d'accordo col Governo avesse ordinato un'inchiesta, volesse con grida di piazza o altro mezzo qualsiasi imporre al Governo, mentre sa che questo studia i suoi bisogni e i mezzi di portar rimedio ai suoi mali? E quando in questo frattempo vi fossero delle minoranze che volessero imporne al Governo, allora non la gran maggioranza delle altre provincie d'Italia, ma l'immensa maggioranza di Napoli stessa e di Sicilia insorgerebbero contro questi individui, e non farebbe d'uopo né del conforto, né del piacere, come dice il signor ministro dell'interno, delle nostre baionette, il buon senso di quelle popolazioni li avrebbe ben presto richiamati al dovere.

Prima di por fine, mi permetta la Camera di fare una sola osservazione in merito al lavoro ed alla polizia, di cui tanto si è parlato in questa discussione. Quanto ai lavori per opere da farsi dal Governo, sebbene io sia propenso alle opere di viabilità, sia rotabili che di ferrovie, massime in provincie cosi diseredate, pure io non ho molto credito nell'efficacia di questi soli lavori. Io sono convinto che il vero lavoro e l'unico pane che si ha da dare alle popolazioni, il più efficace lavoro che si ha da promuovere è quello che nasce dal concorso di tutti i privali; e questo non si avrà finché voi non avrete messo la fiducia nelle popolazioni napoletane; quando voi aveste detto a Napoli: voi temete per la vostra capitale? Questo è vano timore; col regime delle libere istituzioni voi avrete nella vostra bellissima città un maggior concorso di nazionali e forestieri, e voi avrete una massa di affari c di lavoro più di quello che vi dava la capitale di un re dispotico; allora non si sarebbero fermati gli utili lavori delle fabbricazioni; voi avreste dato conforto e sicurezza, e la prosperità pubblica non sarebbe scomparsa. Ma questo linguaggio si poteva solo tenere da uomini di fiducia ad uomini fidenti.

Questo è che deve fare il Governo; il Governo si debbe preoccupare specialmente di un mezzo, quello cioè di procacciare lavoro e pane a quelle disgraziate provincie, col cercare ogni mezzo possibile per attirare colà i capitali; debbe far rinascere la fiducia, affinché, per tal modo, per mezzo del credito, i capitali, discendendo nelle mani di tolti, si possano sviluppare su tutta la superficie del paese i lavori agri

439

DEL 5 APRILE

Presidente. Debbo avvertire l'oratore che cosi rientra nella discussione generale, che è già stata chiusa... (di voti! ai rati!)

Voci a sinistra. A dimani! a dimani! (No! no! - Rumori Bastai)

Mellana. Dirò solo una parola sulla polizia... Presidente. La prego di attenersi agli ordini del giorno.

Mellana. ... Per la necessità appunto che vi ha di portare rimedio alla mancanza del lavoro e di ristabilire la polizia, non si presenta miglior mezzo che un'inchiesta...

Voci. A domani!

Mellana. Mi pare che la Camera mi dovrebbe perdonare io grazia dei nostri sforzi a stare nella moderazione e di tutte le idee che sono obbligato a far retrocedere nel mio cervello (Ilarità), e non sarà che una frase, ancorché non stia totalmente nell'ordine del giorno ch'è in discussione, che vorrà concedermi il nostro presidente di esternare.

Quanto alla polizia, io dirò soltanto al ministro dell'interno, che nessuno vi ha qui che voglia negargli di spiegare tutta la forza e l'attività per la repressione dei ma mi permetta che io gli dica che non vorrei che un principio, il quale fece triste prova presso di noi, avesse egualmente tristi e funeste conseguenze in Napoli ed in Sicilia. Io penso non sia colla lunga scuola dei che si faccia la potenza della polizia; essa si fa rialzando questa magistratura, sicché ogni cittadino trovi in essa conforto ed aiuto. Io non vorrei che il ministro dell'interno lasciasse mai che i suoi subalterni facessero, come nelle trascorse elezioni, che la polizia s'immischiasse di elezioni.

Minghetti, ministro dell'interno. Questo non è vero.

Mellana. Ne appello alle popolazioni. Così facendo, la polizia perderebbe il suo prestigio e l'affetto di molti, e perciò solo diverrebbe debole, come era sotto il dispotismo. (Rumori; segni d'impazienza)

Mi riassumo pregando la Camera a voler accettare l'inchiesta parlamentare, perché, cosi facendo, noi imitiamo i grandi esempi dei popoli liberi; perché, cosi facendo, si dà un giusto couforto ad aspettare ai nostri fratelli di Napoli e di Sicilia, e si spinge, anche suo malgrado, il Governo ad agire; ed ancora perché questa misura farà un ottimo effetto ed all'interno ed all'estero, e noi potremo a mente tranquilla e posata un giorno confortarci di aver rese contente quelle popolazioni che tanto hanno sofferto e fatti tanti sacrifici. (Bene! a sinistra)

Voci. Ai voti! ai voti!

Presidente. Pongo dunque ai voti la proposta del deputato Ferrari, cosi concepita:

«La Camera, desiderando di vedere al più presto compiuto l'ordinamento delle provincie meridionali, nomina una Commissione scelta nel suo seno, onde studiare la condizione di quelle terre, e proporre un provvedimento.»

(Non è approvata.)

Ora, prima di mettere a partito le altre proposte, darò facoltà di parlare al deputato Massari, come interpellante. Voci. A domani! a domani!

Massari. Non tema la Camera che io voglia prolungare la discussione.

Presidente. Siccome si è chiesto di rimandare la discussione a domani, interrogherei la Camera, se intenda continuare la discussione. (Segni d'impazienza)

Brofferio. Chiedo di parlare.

Presidente. Parli.

Brofferio. Il signor ministro non ha detto che due parole per rigettare il mio ordine del giorno, le quali mi hanno dimostrato che non lo ha compreso. né io gliene do carico, perché cosi doveva essere.

Il mio ordine del giorno io l'avea preparato per presentarlo alla Camera, dopoché avessi esposto qualche generale considerazione che doveva esserne il fondamento e l'esplicazione.

La questione napoletana e siciliana io non la fo consistere soltanto in alcuni fatti amministrativi e locali; essa è per me una questione politica e italiana; è sotto quest'aspetto che io intendo di ragionare, e spero di provare alla Camera che, se le cose di Napoli e di Palermo non procedono bene, è perché procedono poco meglio quelle di Milano, di Genova e di Torino...

Spero che la Camera non vorrà respingere un ordine del giorno prima di averne ascoltato lo svolgimento.

Prego pertanto i signori deputati a differire sino a domani; io li convincerò, spero, che il mio ordine del giorno è dettato da coscienza politica e da sentimento italiano.

Plotino. Io pregherei il signor ministro della giustizia di sentire alcune domande che intendo fargli, e darmi alcune dilucidazioni sulla posizione della magistratura a Napoli. Essendo stata chiusa la discussione, prego il signor ministro di dirmi, su sarebbe disposto a rispondere domani su questo proposito.

Ricciardi. Anch'io avrei una specie di interpellanza. (Ilarità generale)

Presidente. Prego la Camera di far silenzio.

Ricciardi. Vorrei fare due quesiti all'onorevole ministro dell'interno sopra alcuni fatti gravissimi, onde sapere se sono veri.

Minghetti, ministro dell'interno. Faccia un'interpellanza speciale; in questo caso io l'accetterò per un altro giorno.

Ricciardi. Non è questa una questione di poco rilievo; si tratta di fatti gravissimi, sui quali vorrei interpellare il signor ministro.

Presidente. Faccio osservare all'onorevole Ricciardi che, se questi fatti non si connettono strettamente cogli ordini del giorno che sono in deliberazione, e se le sue interpellanze non hanno altro scopo salvo quello di chiarire la verità di questi fatti, potrà, quando sarà terminata questa discussione, domandare gli schiarimenti che desidera.

Ricciardi. Scusi il signor presidente; noi siamo qui per rappresentare il paese, per parlare quando nella nostra coscienza crediamo necessario sia fatta la luce su cose importanti.

Presidente. Non trattasi d'impedire ch'ella faccia queste interpellanze; è solo questione di differirle dopo questa discussione.

Brofferio. Domando che questa discussione sia differita a domani.

Ricciardi. A domani!

Presidente. Allora consulterò la Camera su questa proposta.

Minghetti, ministro dell'interno. Domando di parlare.

L'onorevole Brofferio, dai fatti che si riferiscono alle Provincie napolitane e siciliane, passa, a quanto mi pare, alla politica generale, e trova che i mali di quelle provincie derivano non da mancanza di locali provvedimenti, ma in generale dal sistema politico seguito dal Governo. In questo senso quell'ordine d'idee può avere la sua opportunità dovunque, perché tutto si connette a tutto; e per conseguenza mi pare che, quando anche oggi si votino altri ordini del giorno, il discorso dell'onorevole Brofferio verrà a proposito in qualche altra questione, perché la politica generale del Governo influisce su tutte le questioni.

440

CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Brofferio. Tutto si attacca a tutto, mi ha detto il signor ministro.

Non accetto né il complimento, né la frecciata.

Le considerazioni mie che associano la questione di Sicilia e di Napoli a quella d'Italia tutta sono opportune io questa discussione e non in alcun'altra.

I ministri hanno parlato tutti e lungamente; i deputati della maggioranza ebbero largo campo per dar isfogo alle loro opinioni; voglio quindi sperare che non sarà soffocata in gola la parola ad una piccola minoranza che rappresenta pur essa l'Italia e ha diritto ad essere ascoltata. (Rumori al centro)

Bertolami. Chiedo di parlare. (No! no!)

Presidente. Mi pare che la Camera è già abbastanza illuminata per sapere se debba terminare quest'oggi o continuare domani la discussione.

Bertolami. Io voleva appunto avvertire

Presidente. Non do più la parola ad alcuno.

Chi è d'avviso che si debba aggiornare la discussione a domani, è pregato d'alzarsi.

(Segue la prima votazione.)

Presidente. Si farà la controprova.

Crispi. La Camera non è più in numero!

Presidente. Fra la prova e controprova non si può parlare.

(La Camera delibera che non si debba aggiornare la discussione a domani.)

(Vari deputati della sinistra s'alzano dai loro stalli ed escono.)

Se alcuni deputati se ne vanno, non resteremo più in numero.

Castellano. Poiché la Camera è in numero, ed ha deliberato di chiudere questa sera la discussione, domando che nell'atto della votazione si proceda all'appello nominale, perché rimanga accertato quali siano i membri che se ne assentano. (Movimenti diversi)

Presidente. Io credo che, essendosi deliberato dalla Camera di procedere alla votazione, nessuno dei deputati sarà per abbandonare il suo posto.

Plotino. Io parlo contro l'appello nominale; se si fa, non saremo certo più in numero, perché nel frattempo molti deputati usciranno.

Presidente. Prego di pazientare qualche istante; si verifica se la Camera è ancora in numero.

(Segue la verificazione.)

La Camera si trova in numero; darò lettura dell'ordine del giorno che mi pare il più largo, quello che escluderebbe la votazione sugli altri, se venisse adottato. E quello del deputato Torre Arsa, cosi concepito:

«La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, e confidando sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napoletane e siciliane, passa all'ordine del giorno.»

Questo essendo, secondo me, il più largo, lo metto...

Crispi. È quello accettato dal Ministero.

Minghetti, ministro dell'interno. Perdoni, il Ministero ha detto che accettava gli altri in parte, e questo per intiero.

Crispi. Perché gli conviene. (Si ride a sinistra)

Brofferio. È naturale.

Voce. Certamente!

Massari. Io domando di dichiarare, a nome mio e dei miei amici politici che hanno firmato un altro ordine del giorno, che io non accetto, con rincrescimento, quello proposto dal mio onorevole amico il marchese di Torre Arsa, perché in questo ordine del giorno non è enunciato né formulalo un concetto, a cui io ed i miei onorevoli amici teniamo moltissimo, vale a dire il concetto dell'unificazione (Bravo! Bene!)

Di Torre Arsa. Chiedo di parlare sul mio ordine del giorno.

Presidente. Ha facoltà di parlare.

Di Torre Arsa. Signori, il mio ordine del giorno è stato accettato dal Ministero appunto perché, io credo, è il più indeterminato; ed io non voleva far altro che questo, perché credo che non si debba né giudicare le questioni incidentali, né stabilire massime in una questione speciale.

Noi qui non abbiamo trattato che la questione degli inconvenienti che si sono sperimentati in Sicilia ed in Napoli durante la dittatura ed i governi delle luogotenenze. Io preferiva non prendere la parola in questa questione, avendo fatto parte di un Consiglio di luogotenenza, é mi proponeva di portare la mia parola in quest'adunanza, solamente nel caso che fosse stata formulata un'accusa parziale contro quel Consiglio. Ma, signori, come membro di questo Parlamento, come deputato di un collegio italiano, io non consentirei mai che, sia esplicitamente, sia in modo indiretto, siano dati poteri al Ministero che non risultino dalle leggi. Ed è per questo che io ho proposto il mio ordine del giorno. Che cosa dice esso?

La Camera, ritenute le manifestazioni del ministro dell'interno e confidando sull'esatto adempimento delle leggi, passa all'ordine del giorno.

Che cosa disse l'onorevole signor ministro dell'interno alla Camera? Egli disse, e disse bene, secondo me, che in Napoli e Sicilia era successa una grande rivoluzione. Ora, chi dice rivoluzione, dice disordine; perdoni la Camera se io ritorno sulla questione; ma debbo sviluppare chiaramente

Il mio ordine del giorno; lo farò di volo, ma dovrò accennare dei fatti.

Lo ripeto, chi dice rivoluzione, dice disordine, cioè passioni, diritti conculcati, trionfo in massa di persone meritevoli ed immeritevoli. Questo è l'effetto della rivoluzione. (Rumori a sinistra)

Voci. SI! sì!

Crispi. Domando la parola.

Di Torre Arsa. Il risultato, lo scopo vero della rivoluzione, invece, è di conseguire uno scopo santo. Quale fu questo scopo santo nella rivoluzione nostra, o signorini plebiscito. I mezzi sono quelli che le circostanze impongono; la forza contro la forza; da noi era la legittima forza del popolo contro la forza del tiranno. In questi supremi momenti ognuno porta l'opera sua, ma non tutti vi portano eguale virtù. Ecco quello che io intendo dire.

Necessariamente nelle rivoluzioni tali inconvenienti debbono accadere; non vale il negarlo, me ne appello allo stesso signor Ferrari, che conosce la storia da quel profondo uomo ch'egli è; tali fatti si ripetono costantemente. Volere o non volere, i Governi debbono subire l'impressione delle opinioni che hanno il sopravvento in quei dati momenti.

Signori, che cos'è un Governo libero? È l'espressione spontanea dell'opinione; il nostro è l'espressione della libera opinione dell'Italia, perché ha il suffragio della maggioranza. Che cosa vuol dire maggioranza? Vuol dire quella parte intelligente d'una nazione, quella parte operante di una nazione

441 -

DEL 5 APRILE

Presidente. Pregherei l'onorevole deputato Di Torre Arsa a voler andare un po' più direttamente all'ordine del giorno.

Di Torre Arsa. Ha ragione il signor presidente; ma io devo spiegare il mio ordine del giorno.

Ora, restringendo per quanto è possibile la quistione, dirò che il ministro per l'interno aveva messo il dito sulla piaga, ed aveva pure accennato gli opportuni rimedi. Quali sono i giusti rimedi? Sono quei temperamenti che egli proponeva; fuori di quelli io non ne vedo altri.

Io non intendo di dare al ministro né consigli, né mezzi straordinari; quindi non poteva dirgli: adottate questo o quell'espediente. Io, del resto, non conosco alcun espediente, e credo che il Ministero farebbe male se usasse di espedienti fuori della legge: il Ministero è venuto davanti a voi e vi ha detto: io credo di essere in grado di eseguire la legge, ed io ho fiducia che egli l'eseguirà.

Questo è lo spirito del mio ordine del giorno, né più né meno.

Io l'ho presentato, e, perché sono convinto della utilità della mia proposta, dichiaro di votare contro tutte le altre.

Minghetti, ministro per l'interno. Io accetto formalmente il principio espresso dall'onorevole Torre Arsa, cioè a dire che il Governo deve governare colla legge, e niente altro che con la legge.

Quanto al mio onorevole amico Massari, lo prego di considerare che l'esecuzione stretta della legge, quale il Governo assume di mantenere, è la via più diretta e più efficace per affrettare l'unificazione che egli desidera. (Si! sì! Bene! dalla destra e dal centro)

In questo modo mi sembra che i pensieri dell'onorevole Siciliano e dell'onorevole Napoletano siano insieme conciliati.

Crispi. Io non posso votare l'ordine del giorno dell'onorevole Torre Arsa, appunto perché, essendo già quattro giorni che noi discutiamo sopra questa materia di grande importanza, egli è necessario di dare al Governo una norma per regolarsi, per isciogliere una questione cosi intricata.

L'onorevole Torre Arsa diceva che durante la rivoluzione di Sicilia persone immeritevoli abbiano trionfato. (Rumori)

Mi permettano di parlare, altrimenti cedo la parola e lascio la Camera.

Voci. Parli! parli!

CRISPI. Il marchese Torre Arsa diceva che la rivoluzione è una lotta della forza contro la forza, e che dalla rivoluzione siciliana ne è risultato che persone immeritevoli ne abbiano approfittato.

Se mettiamo questa premessa, e andiamo di conseguenza in conseguenza, noi possiamo cominciare a credere che anche la rivoluzione ha portato effetti, dei quali non si può esser contenti.

La rivoluzione, quando avviene in un paese, e vi produce effetti, porta con sè la presunzione che sia la conseguenza della volontà di tutti; quando la rivoluzione si fa dalla minoranza, non riesce, e in tal caso non è più rivoluzione, è ribellione.

Quindi io non posso accettare le parole dette dal marchese Torre Arsa, né il suo ordine del giorno; perché, ripeto, è indeterminato, mentre bisogna invece dare delle norme al Governo, il quale, per quanto ho ieri potuto ricavare dalle parole del signor ministro dell'interno, conosce pochissimo le condizioni del paese. Egli stesso vi disse che non conosce le condizioni della Sicilia.

E infatti si scorge dal suo discorso che non sa precisamente se vi è o non vi è sicurezza. Non sa quello che si è fatto, non quello che si può fare. Egli è andato sino al punto da ingannarsi sul tempo che in Napoli si fossero fatte o non fatte le elezioni. E quando il Ministero non conosce le condizioni dell'Italia meridionale, volete votare un ordine del giorno che non gli dà nessuna norma? Cosi sarebbero perduti quattro giorni di discussione, perché non se ne trarrebbe il frutto che pur se ne dovrebbe ritrarre.

Brofferio. Domando la parola

Di Torre Arsa. Domando la parola per un fatto personale.

Foci al centro. No! no!

Presidente. Le darò la parola, ma lo prego di tenersi strettamente al solo fatto personale.

Di Torre Arsa. Mi vi terrò cosi strettamente, che mi limito a protestare di non aver per niuna guisa inteso di offendere nessuno, né tanto meno di aver voluto calunniare un fatto al quale ho partecipato nella maniera più larga e più sincera. (Segni di generale approvazione)

Presidente. La parola è al deputato Brofferio.

Brofferio. Io respingeva già prima l'ordine del giorno del deputato Torre Arsa, perché mi pareva che non contenesse nessun grande principio, né provvido, nè fecondo, che riassumesse in poche parole le molte cose che sgorgarono da questa gravissima discussione. À che tante parole, si direbbe, per ispremerne così poco sugo? E credete voi che Napoli e Palermo ci saran grate di mandar loro, per consolazione di tante sofferenze, quattro pallide e insignificanti parole?

Da quello che ha detto il signor Torre Arsa mi venne spiegata sempre più la vacuità del suo ordine del giorno; e questa vacuità mi apparve ognor più manifesta dalle parole del signor ministro dell'interno. Il Governo, diss'egli, non vuole altro che governare colla legge; ed a questa sentenza si è fatto plauso. Ebbene, io dico che questa è una frase, per un uomo di stato, che non ha politica significazione. (Rumori) Se un magistrato di cassazione mi dicesse che egli giudica secondo la legge, direi che va benissimo; nelle questioni civili, nelle controversie legali non havvi da consultare che la legge; ma nei provvedimenti dello Stato, unitamente alla legalità, ci vuole il desiderio del bene, l'amore della libertà, l'affetto della patria, le quali cose si manifestano con provvedimenti di governo, i quali possono essere legali e non giusti, e non liberali, e non generosi.

Questa stessa legalità, di cui si vanta il signor ministro, è poi sempre rispettata? Domani, con apposito fatto seguito in Genova, gli proverò il contrario.

Ci ha detto il signor Torre Arsa che la rivoluzione è la forza contro la forza, e che per conseguenza egli fa plauso al Ministero, che ha voluto chiuder l'era della rivoluzione.

Io rigetto questa definizione. La rivoluzione non è la forza contro la forza: è il diritto che sorge in armi contro l'oppressione armata; e questo diritto militante contro la forza è permanente in Italia. Non è quindi sapienza del Governo reprimere l'italiana rivoluzione; sapienza invece sarebbe stato dirigerla, promuoverla in modo patriottico e intelligente. Soffocare una rivoluzione che ci ha dato la metà dell'Italia, questo, o signori, è un errore politico ed un atto di patria sconoscenza.

Per ultimo, quando il signor Torre Arsa, per glorificare la politica repressiva del Ministero, ci dice che è la politica della maggioranza, egli (Con calore), sotto l'aspetto della ragione del numero che impera, ha ragione; ma del numero che soffoca, ha cento volte torto.

442

CAMERA DEI DEPUTATI

Si subisca la pressione della maggioranza, lo vuole la legge; ma, se la maggioranza ha i suoidiritti, ba anche i suoi doveri, il primo dei quali è quello di rispettare la minorità. Anche noi rappresentiamo l'Italia, anche noi siamo qui custodi delle sue leggi, difensori della sua libertà, e mal si provvede a soffocarci la libera espressione delle opinioni con un maggior numero di voti, che si contano e non si pesano. (Oh! oh! Rumori di disapprovazione e vivi richiami al centro ed alla destra)

E che? Si pesano forse i voti?... Si contano...

Presidente. Non posso permettere che si dica parola la quale possa censurare in qualsiasi modo i voti della Camera od offendere la maggioranza.

Brofferio. La maggioranza deve comprendere che l'animo nostro è esulcerato, abbiamo tutte le ragioni...

Molte voci dal centro e dalla destra. E perché? (Viva agitazione)

Brofferio. Perché ci opprimono, perché ci violentano. (Vivi rumori di diniego)

Una voce a sinistra. Se la maggioranza non ci ascolta, abbandoniamo la Camera.

Molti deputati, e tra questi il deputato Mazza. Uh! uh! (Richiami, rumori a destra ed al centro, e segni di assenso a sinistra)

Brofferio. Se il deputato Mazza, invece di urlare, dicesse delle buone ragioni, farebbe molto meglio. (Molti deputati si alzano. Rumori; movimenti diversi)

Mazza. Chieggo la parola.

Domando alla Camera se, quando si dicono parole come quelle che s'intesero or ora e si minaccia di uscir dalla Camera, sia possibile di non protestare. (Movimenti continuati in senso diverso)

Presidente. Metto ai voti l'ordine del giorno del deputato Di Torre Arsa. Lo rileggo:

«La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, e confidando sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napoletane e siciliane, passa all'ordine del giorno.»

(Segue la votazione per alzata.)

(deputati Brofferio e Crispi escono dalla sala.)

Si farà la controprova.

Massari. Non so se siamo in numero.

Presidente. Prego i signori deputati di sedere, poiché, essendo usciti altri due deputati, non posso sapere se siamo o no in numero.

(Segue la verificazione.)

La Camera non è in numero, ne mancano due.

Castellano. Signor presidente, domando l'appello nominale.

Voci. No! no! Sono le 6 3|4!

Presidente. La votazione sarà ripetuta domani.

La seduta è sciolta alle ore 6 3|4.

Ordine del giorno per la tornata di domani:

1° Seguito della discussione sulla interpellanza relativa alle condizioni delle provincie napolitane;

2° Interpellanza del deputato Rasponi al ministro dei lavori pubblici circa le ferrovie delle Romagne e delle Marche;

3° Discussione del progetto di legge che proroga i termini fissati per l'affrancamento delle enfiteusi nell'Emilia;

Svolgimento della proposta di legge del deputato Ricciardi per l'incameramento dei beni di manomorta e dei luoghi pii.

443

TORNATA DEL 6 APRILE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE RATTAZZI.

SOMMARIO. Omaggi e congedi. - Annunzio d'interpellanza dei deputati Mellana e Brofferio. ~ Seguito della discussione sulle interpellanze intorno all'amministrazione delle Provincie napolitane e siciliane - Lettera del deputato Ranieri, e sua proposizione modificata - Domanda del deputato Crispi sulla nomina del nuovo luogotenente in Sicilia, e spiegazione del presidente del Consiglio - Critica dell'interpellante; dichiarazione del ministro per l'interno - Avvertenza dei deputato La Farina - Spiegazione del ministro Natoli - Considerazioni del deputato Mamiani in appoggio della risoluzione proposta da lui e da 38 deputati - Spiegazioni del deputato Di Torre Arsa - Dichiarazione dell'interpellante Massari - Sono approvate le proposte dei deputati Di Torre Arsa e Mamiani. ~ Presentazione di tre disegni di legge del ministro per le finanze: maggiori spese e spese nuove sul bilancio 1859 e 1860; maggiore spesa sul bilancio 1860; bilanci 1861. = Votazione ed approvazione dei disegni di legge per proroga dei termini per le enfiteusi nell'Emilia, e per applicazione agl'impiegati dell'amministrazione militare della legge sulle pensioni per l'armata di mare.

La sedata è aperta all'una e mezzo pomeridiane.

Massari, segretario, legge il processo verbale della tornata precedente, che è approvato.

Mischi, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

6916. La vedova Rachele del nobile Francesco DePsalidi, da Milano, commissario delle provincie illiriche sotto il primo Impero, posto a riposo e pensionato dal Governo austriaco, chiede un assegno vitalizio per i lunghi servizi del marito, che le venne finora negato per un'accusa sulla quale richiese replicatamente un'inchiesta.

6947. Il municipio di Tricarico, in provincia di Basilicata, il capitolo, il clero e varii cittadini domandano che sia constato il monastero di Santa Chiara, sito in quel comune.

6948. Gambescia professore Innocenzo, tenente della guarii nazionale di Lanciano, invita la Camera a provvedere di competente sussidio le vedove e le famiglie di quei militi, i pali, facienti parte della colonna che, combattendo e fugando le orde borboniche il 6 gennaio scorso, rimasero vittima del loro valore.

6949. Savio Angelo e Paolo, e Gabanino Occlerio, da Vercelli, allegando di essere creditori di un capitale da persone che nominano, domandano di essere soddisfatti del loro avere.

6950. I patrocinanti ed avvocati esercenti presso il tribunale di Camerino, provincia di Macerata, chiedono la rivocazione del decreto che ordinò l'attuazione del Codice di procedura civile; o quanto meno venga solo applicato d'ora in a vanti, tenuto conto del pregiudizio derivante ai patrocinanti dalla diminuita giurisdizione in materia criminale dei tribunali di circondario.

6951. Cavagnari avvocato Alfonso, di Parma, premesso che U legge intorno al reclutamento militare pubblicata nelle nuove provincie, siccome qualunque altra disposizione legislativa, non deve aver effetto retroattivo, svolge alcune considerazioni dirette a stabilire che i chiamati alla leva della classe 1840 hanno diritto di godere delle esenzioni delle quali fruivano, a termini dell'articolo 107 del regolamento ducale 17 agosto 1881.

6952. Guidi Napoleone, di Bologna, implora il pagamento di un suo credito per trasporti militari eseguiti nelle Legazioni dal novembre 1848 al giugno 1849, riconosciuto ed ammesso dallo stesso Governo pontificio.

Atti diversi.

Presidente. Sono stati fatti alla Camera i seguenti omaggi:

300 esemplari del rapporto della Commissione municipale della città di Milano per la ferrovia attraverso le Alpi elvetiche.

Alcuni esemplari di due rapporti sui bagni di Napoli, indirizzati al dicastero dei lavori pubblici dalla Commissione instituita per l'immeglioramento dei luoghi penali.

420 esemplari d'una memoria dell'ingegnere Motti: Le tre Pievi superiori del Lario e Gravedona a capoluogo di un circondario giudiziario ed amministrativo, a preferenza di Menaggio.

250 esemplari di uno scritto del sacerdote De Rinaldi Bartolommeo Sulla giustizia e necessità della più ampia attuazione dei decreti intorno alla soppressione degli ordini religiosi.

Il deputato Zambelli scrive che, essendo astretto da malattia a non uscir di casa, si fa dovere di darne avviso alla Camera, onde non venga attribuito a negligenza un fatto causato da forza maggiore.

Essendo presente il deputato Matina, Io invito a prestare il giuramento.

(Il deputato Matina presta il giuramento).

ANNUNZI D'INTERPELLANZE SOPRA LO SCIOGLIMENTO DEL MUNICIPIO DI CASALE, E PER UNA PERQUISIZIONE FATTA IN GENOVA AL COMITATO CENTRALE DI PROVVEDIMENTO PER ROMA E VENEZIA, PRESIEDUTO DAL GENERALE GARIBALDI.

Mellana. Io prego la Camera a volere, udito il signor ministro dell'interno, assegnarmi un'ora nella prossima settimana per muovere un'interpellanza allo stesso onorevole ministro.

Non si sgomenti la Camera della parola interpellanza; la mia non sarà forse che una breve domanda, susseguita da una forse più breve risposta.

L'interpellanza si riferisce ad un alto del Governo in riguardo del municipio di Casale; ed ancorché io parli di un

Minghetti, ministro per gl'interni. Se l'onorevole Mellana vuol fare subito questa interpellanza, e se la Camera è disposta ad ascoltarla, io non ho alcuna difficoltà ad acconsentirvi.

444

Mellana. Ieri ho annunciato, com'è mio costume, questa interpellanza al signor ministro, e mi disse che non aveva in pronto i documenti, e che perciò aveva bisogno di tempo; io quindi non ho quest'oggi portato meco le carte necessarie; ciò non ostante, non mi rifiuterei di parlare anche subito

Minghetti, ministro per l'interno. Io sono indifferente

Mellana. Ma mi concederà il signor ministro di osservargli che sono un po' vecchio nelle usanze parlamentari per non sapere che, in mezzo al calore di un'interpellanza di maggior importanza, non sarebbe troppo facile per me l'ottenere l'attenzione della Camera; e, siccome io desidero di avere la sua attenzione, cosi la prego di rimandare l'interpellanza alla prossima seduta.

Minghetti, ministro per l'interno. Fissi pure il giorno che le piace. Siccome ieri, quando ella ebbe la bontà di annunciarmi questa interpellanza, mi disse che forse l'avrebbe fatta subilo, le risposi che mi occorrevano alcune informazioni. Oggi le avrei, e sarei prontissimo a rispondere; ma, se l'onorevole Mellana lo desidera, si differiscano pure; io sono ben lungi dal voler in nessun modo menomare l'importanza della sua interpellanza, inframettendola a quella che è all'ordine del giorno.

Mellana Se la Camera lo crede, io fisserei il giorno di martedì.

Minghetti, ministro per l'interno. Io non ho nessuna difficoltà che si fissi martedì.

Brofferio. Sono anch'io nella necessità di fare lo stesso invito al signor ministro dell'interno. Debbo muovergli interpellanza intorno alla illegale perquisizione stata fatta al Comitato centrale di Genova, del quale è presidente il generale Garibaldi. Quando mi sarà dalla Camera assegnato apposito giorno sarò lieto di ricevere le spiegazioni del signor ministro.

Minghetti, ministro per l'interno. Se credono di fissarlo subito, sono pronto a rispondere, altrimenti si potrebbe stabilire martedì.

Poiché martedì saranno all'ordine del giorno le interpellanze del deputato Mellana, così si potrebbero fissare per tal giorno anche quelle del deputato Brofferio; per tal modo martedì sarà per me il giorno delle interpellanze.

Brofferio E per noi quello delle spiegazioni. (Si ride)

Pepoli G. Chiedo di parlare.

Siccome siamo in due rappresentanti collo stesso cognome Pepoli, desidererei che, quando si mette il nome di uno di noi, e sotto un ordine del giorno, o negli stampali interni, o nel rendiconto, o in qualunque altro luogo, si mettesse anche, accanto il casato, il nome di battesimo; così sarebbe evitato ogni equivoco. Uno degli ordini del giorno stati proposti sulla questione napolitana porla puramente la firma Pepoli; siccome io non ho firmato quell'ordine del giorno, desidererei che si sapesse da tutti da chi fu proposto.

Presidente. Veramente all'originale di quell'ordine del giorno eravi la iniziale C. (Carlo), e poi il cognome Pepoli; non si fu che per isbaglio che fu omesso nella stampa per l'uso interno.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE SULLE INTERPELLANZE INTORNO ALL'AMMINISTRAZIONE DELLE PROVINCIE NAPOLETANE E SICILIANE.

Presidente. L'ordine del giorno chiama il seguilo della discussione sulle interpellanze Massari e Paternostro sulla amministrazione delle provincie meridionali.

Prima di tutto darò lettura di una lettera del deputato Ranieri, in data d'oggi, relativa a questa discussione. Essa è così concepita:

«Pregiatissimo signor presidente!

«Trovandomi infermo, né potendo partecipare, se non col solo pensiero, alle discussioni della Camera sulle infelici Provincie ove nacqui, avrei un ardente desiderio che una voce amica movesse dalla rappresentanza nazionale a temperare i loro dolori. So che mi sarà impossibile di ottenerlo, massime nella impossibilità di giovarmi della parola viva. Nondimeno, per rimanere senza scrupolo veruno, ho ridotto a pochissime parole il mio ordine del giorno di ieri, trovato giustamente troppo lungo. Lo raccomando al suo alto ed intelligente patrocinio, dove mai potesse trovar luogo ad esser posto ai voti come una conciliazione.

«Mi creda,» ecc.

Ora, per compiere a quest'incarico, darò lettura dell'ordine del giorno modificato dal deputato Ranieri:

«La Camera, persuasa che i mali che affliggono momentaneamente le nobili popolazioni napolitane e sicule sono una fase storica, piuttostochè l'effetto della volontà degli uomini, invita il Ministero a vigilare e condurre quella fase con sapienza,prudenza ed umanità, e passa all'ordine del giorno.» (Movimenti)

La Camera ricorderà che ieri si procedeva alla votazione dell'ordine del giorno del deputato Di Torre Arsa, quando, per eccitamento stato fatto dal deputato Massari, si procedette a riconoscere se eravamo in numero, e si riconobbe che mancava il numero legale.

La proposta del deputato Di Torre Arsa è nei seguenti termini:

«La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, e confidando sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napolitane e siciliane, passa all'ordine del giorno.

Crispi. Prima di votare quest'ordine del giorno, chiederò uno schiarimento al ministro dell'interno, giacché, dietro le risposte che mi saranno date, io sarò nel caso di potermi decidere a votare in favore o contro.

Ho letto nei giornali che il Governo del Re si è deciso di inviare in Sicilia un ufficiale generale a vece del marchese di Montezemolo.

Domando quindi al ministro: 1° se dobbiamo prestar fede alla notizia; 2° se quest'ufficiale generale, che vuolsi inviare, dovrà accumulare i due poteri, militare e civile.

Alle risposte che sarò per ottenere, mi riserberò fare le mie osservazioni.

Di Cavour, presidente del Consiglio. Il marchese di Montezemolo, colpito da tutto domestico ed angustiato da grave malattia, avendo con insistenza chiesto il suo ritiro, il Ministero venne nella determinazione di proporre a S. M. di nominare, in sua vece, a luogotenente del Re in Sicilia il generale Della Rovere.

Io credo di poter assicurare la Camera che il distinto personaggio, proposto alla scelta di S. M., riunisce nel più alto grado i pregi di militare valoroso e d'abilissimo amministratore.

Il generale Della Rovere ebbe il raro merito di dirigere l'amministrazione militare in Crimea, in modo da riscuotere le più alte approvazioni, non solo del nostro esercito,

445 - TORNATA DEL 6 APRILE

ma dell'esercito francese e dell'esercito inglese. Questi eserciti indicarono a modello di una buona amministrazione l'amministrazione diretta da questo egregio generale.

Del pari il generale Della Rovere fu a capo dell'amministrazione militare nella guerra del 1859, e quali fossero le difficoltà di quell'amministrazione, tutti voi potete di leggieri immaginarle. Ebbene, esse furono superate in modo straordinario, e l'esercito tutto glie ne rese omaggio. Finalmente diresse con eguale prospero successo l'amministrazione nell'ultima campagna dell'Umbria e delle Marche.

Il generale Della Rovere avrà le stesse facoltà di cui è rivestito il marchese di Montezemolo, il quale, come luogotenente generale del Re, ha, del pari che il principe di Carignano, delle forze di terra e di mare a sua disposizione.

Inoltre il generale Della Rovere, essendo più anziano del generale che comanda a Palermo, una ragione di convenienza fa sì ch'egli debba ritenere la prima autorità, anche per ciò che riguarda le cose militari. Tuttavia, per tutto ciò che s'appartiene all'amministrazione militare, le truppe rimangono sotto il comando diretto del generale Cadorna e del Ministero della guerra.

Con queste spiegazioni credo aver risposto pienamente all'interpellanza dell'onorevole Crispi.

Crispi. Sì, signore.

Il marchese di Montezemolo non aveva che i poteri civili, ed il generale Della Rovere avrà i poteri civili e militari. Quindi ci è differenza nelle attribuzioni dei due rappresentanti del Re.

Da molti giorni, anzi da alquanti mesi, i giornali ministeriali in Palermo parlano di un governo militare che andrebbe ad istituirsi in Sicilia. Soggiungono ancora essere necessaria la dittatura per far ritornare al dovere quel paese.

Il signor ministro dell'interno, in altra tornata della Camera, si diceva ignaro dei fatti speciali dell'isola; ma soggiungeva, al tempo stesso, che a governarla la forza sia essenziale. (( ministro fa segni di assentimento.)

Così trovo scritto nella stenografia.

Parlando di forza, il signor ministro dell'interno non intendeva certamente. parlare di forza morale, perché quest'ultima voglio credere non mancasse neanche al signor Di Montezemolo. Ei dunque parlava di forza materiale; e, poiché si manda in Sicilia un ufficiale generale, è a credere che tale scelta siasi fatta per avere chi sapesse usare la forza materiale.

Non so se all'onorevole ministro han narrata la storia di questi ultimi mesi; se gliel'hanno narrata, lo prego a ricordarsi che fu dovuto alla divisione dei poteri, fu dovuto alla preveggente moderazione del generale Brignone, se il 2 gennaio io Palermo non si venne ad una catastrofe.

L'accumulazione di tanti poteri nello stesso individuo credo che possa riescire cosa mal accetta ad un paese sensibile e di calda immaginazione. Invece di cominciare la nuova era del Governo con quei principii d'amore che sono necessari in un regime di libertà, essa va a cominciare con principii affatto opposti.

Io non posso dimenticare, e credo che il ministro non abbia dimenticato, che dalla discussione seguita in questi ultimi giorni risulta chiarissimo che in questi quattro mesi il Ministero non ha saputo organizzare quelle provincie, non ha saputo nemmeno procacciarsi quell'amore ch'è necessario si procacci un Governo.

Oggi, dopo che la Camera ha preso cognizione di questi fatti e sta per votare un ordine del giorno in cui si raccomanda, è vero, l'esecuzione della legge, ma, per la vaga indeterminazione colla quale gli si raccomanda....

Mamiani. Domando la parola.

Crispi........ è dato al Governo pieno uso della forza materiale, la Camera può comprendere in qual condizione si va a mettere l'isola di Sicilia. Io mi permetto di far sapere al ministro dell'interno che l'indole dei Siciliani è tutta differente da quella degli abitanti delle altre provincie della Penisola. Quello è un paese che, preso colle buone maniere, se ne fa quello che se ne vuole; non è lo stesso quando è preso col rigore.

Sotto la dittatura di Garibaldi noi fummo in tempi più difficili di quelli in cui si trova oggi il Ministero. Sotto la dittatura di Garibaldi non ebbimo bisogno di forza militare; anzi ei furono momenti che in Palermo non vi fu alcuna forza, giacché tutte le truppe erano state portate a Milazzo, e di là poi nel continente. Non ostante ciò, noi abbiamo saputo farci rispettare.

E qui cade in acconcio ricordare un fatto il quale fa proprio al nostro caso. Si parlò l'altra volta di governo di piazza in Sicilia. Saprà il ministro dell'interno che governo di piazza non ne esistè mai nel mio paese. Ne' due periodi nei quali io presi parte agli affari, la piazza non influì mai su me, né sugli uomini che erano con me. Il primo periodo del mio Ministero andò fino al 27 giugno; l'altro dal 2 agosto al S settembre 1860; né ci fu mai governo di piazza, fuor quello del 28 giugno.

Presidente. Prego l'onorevole deputato Crispi di non entrare di nuovo nella discussione generale, e di attenersi nei limiti dell'eccitamento che intendeva fare.

Crispi. Non entrerò nella discussione generale; ma mi permetterà il signor presidente eh' io compia brevemente il mio concetto. Dico adunque che governo di piazza non ce ne fu in Sicilia. Laddove ce ne sia stato che possa dirsi tale, non fu certamente il mio, ma quello che venne dopo.

Il Ministero che mi successe, può dirsi francamente, apparteneva ad una classe d'individui che non sono miei amici politici; sono amici politici del conte Di Cavour e del Governo attuale.

Conchiudo quindi ripetendo che noi pure ebbimo bisogno di forza, ma governammo sempre coll'amore. Coll'amore suscitammo l'entusiasmo delle popolazioni, e n'ebbimo i quattordici mila soldati che andarono sul continente, n'ebbimo tutti quei generosi sacrifizi che la Sicilia va superba d'aver fatti per la libertà e per l'unità d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele.

Minghetti, ministro per l'interno. Io credeva, dopo le spiegazioni e le dichiarazioni che ho fatto alla Camera in questa lunga discussione, che non potesse sorger in alcuno il dubbio che si voglia governare la Sicilia con mezzi dittatoriali.

Io ho dichiarato ieri e ripeto ora che il Governo non intende né di chiedere, né di usare mezzi extralegali, ma che vuol far osservare intieramente e pienamente la legge; ma nello stesso tempo ho dichiarato e ripetuto che, se vi fosse chi volesse contraddire alla legge e opporsi alla sua esecuzione, sarebbe represso colla forza. (Segni d'adesione al centro)

Questi sono i miei principii, e da questi non intendo menomamente rimuovermi. (Bravo! Bene!)

La Farina. Chiedo di parlare per un fatto personale; non dirò che una parola sola.

Natoli, ministro di agricoltura e commercio. Anch'io vorrei dire una sola parola per un fatto personale.

446

CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

Presidente. (Al ministro) Cede la parola al deputato La Farina?

Natoli, ministro per l'agricoltura e commercio. Parlerò dopo di lui.

Presidente. Il deputato La Farina ha facoltà di parlare.

La Farina. Io mi sono proposto di non prendere parte a questa discussione; qualunque siano le allusioni, io terrò ciò che ho promesso a me stesso. Io non intratterrò la Camera delle nostre discussioni personali; io non rispondo, ma non posso lasciar passare una parola, la quale offenderebbe profondamente l'onore di un distinto nostro generale, il generale Brignone.

Si è detto, ch'è dovuto alla moderazione del generale Brignone, se il giorno 2 gennaio non seguirono fatti sanguinosi a Palermo. Io dichiaro sul mio onore, e spero che la Camera mi crederà, che nessun ordine fu dato al generale Brignone, e ch'egli è tal militare che, se un ordine avesse avuto, lo avrebbe fatto eseguire.

Il generale Brignone non ebbe nessun ordine di usare la forza; e nessuno potrà smentire la mia affermazione.

Crispi. Domando la parola per un fatto personale.

Presidente. Il ministro per l'agricoltura e commercio ha facoltà di parlare.

Natoli, ministro per l'agricoltura e commercio, lo risponderò brevemente su quanto diceva il deputato Crispi intorno al Ministero del 28 giugno.

Diceva egli: piuttosto il Ministero del 28 giugno potrebbe dirsi un Ministero sorto per opera della piazza. Io ebbi l'onore di far parte di tal Ministero, e, se in questo momento prendo la parola, adempio un dovere non solo verso di me, ma pure verso l'illustre generale Garibaldi, perché finalmente, se il Ministero che sorse il 28 giugno fosse stato opera della piazza, se ne dovrebbe conchiudere che la piazza influiva in Sicilia sulle risoluzioni del generale Garibaldi.

Ma nulla di tutto questo.

Quando fui chiamato dal dittatore ad assumere il Ministero degli esteri, non tralasciai di avvertire il generale della posizione delle cose, delle mie convinzioni personali e del mio abborrimento a tutto ciò che era di disordine.

Ricordo, o signori, ciò che mi rispose il generale Garibaldi.

Credete voi, egli mi diceva, che io mi lasci influenzare dalle grida della piazza? Io muto Ministero, perché sono convinto che, alle condizioni attuali del paese, questo passo è necessario.

Non si dica dunque che la piazza fece sorgere in Sicilia il Ministero del 28 giugno; la moltitudine tutt'al più ha potuto far cadere il 27 giugno quel Ministero di cui faceva parte il deputato Crispi, ma non far sorgere l'altro. Questo sorse, perché il generale Garibaldi andò convinto che le condizioni del paese eran giunte a tal punto che, per reggere la cosa pubblica, voleanvi altri uomini. Di quanto poi sto dicendo, ne sia splendida prova la lettera che scrissemi il dittatore, allorché mi dimisi dal potere; lettera che conservo come un bel documento per la mia famiglia, si per l'illustre mano che la scriveva, quanto perché in essa a' miei servigi si rendeva non dubbio attestato. né questa lettera mi sarebbe stata di certo scritta, se la mia salila al potere avesse avuto impura origine; e, se la Camera il permettesse, io non esiterei a presentare a' miei onorevoli colleghi codesto per me importante documenta. Voci. No! no! Non occorre. (Segni d'approvazione) Presidente. Il deputato Crispi ha facoltà di parlare.

Crispi. Io non dissi che il generale Brignone abbia avuto ordini; dissi che si deve alla divisione dei poteri ed alla preveggente moderazione del generale Brignone se non avvenne in Palermo una catastrofe il 2 gennaio di quest'anno. Quindi la risposta dell'onorevole La Farina non calza.

Per quanto riguarda l'altro appunto fattomi dal ministro Natoli, risponderò aver io annunziato che, se in Sicilia ci fa Ministero che possa dirsi sorto dalla piazza, fu quello del 28 giugno. N'è prova la dimostrazione alla quale si è accennato, la quale, bisogna altresì che si sappia, fu una dimostrazione dei ladri falli uscire dalle prigioni. Sì, lo ripeto, se ci fu un Ministero che sorse dalla piazza, fu quello sorto il 28 giugno.

Mariani. Signori, è buona cosa che noi cessiamo di passeggiare sopra una cenere dove si nascondono troppo ardenti carboni. Torniamo al proposito di ieri, pel quale conviene al contrario che quest'insigne Assemblea riesca la più riposata e la più concorde possibile.

Io e parecchi altri deputati qui sedenti non demmo ieri il nostro suffragio all'ordine del giorno dell'onorevole deputato Di Torre Arsa; non lo daremo neanche oggi, se quell'ordine del giorno non venga modificalo. Nessuna persona mi vince nel rispettare ed amare il marchese di Torre Arsa; ma nel Parlamento taciono i privati sentimenti.

Io credo il suo ordine del giorno troppo insufficiente; dirò in breve le ragioni.

Ventisette deputati, tra i quali io medesimo, deponemmo ieri sul tavolo del presidente l'ordine del giorno che ho l'onore di leggere all'Assemblea:

«La Camera prende atto delle dichiarazioni del Ministero; e però, confidando ohe esso piglierà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa delle Provincie napolitane e siciliane, ed insistendo sulla pronta ed efficace applicazione delle misure dal Governo promesse circa la sicurezza pubblica, l'esatta osservanza delle leggi ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno.»

Perché fu egli concepito questo ordine del giorno e da me segnato e da altri molti onorevoli deputati? Il perché fu un gran desiderio che questa disputazione, la quale dura già da cinque giorni, se non erro, porti il maggior frutto possibile, cioè calmi e fors'anche consoli quelle popolazioni meridionali d'Italia, le quali aspettano con qualche giusta ansietà il giudizio del Parlamento.

Se tale ampio frutto si vuol ricavare, conviene, o signori, che il voto della Camera sia grandemente concorde, se non unanime, sia intero, almeno, dalla parte della cosiddetta maggioranza. Ciò crescerà forza al Ministero, se pur ne abbisogna, e ciò, ripeto, darà quiete e conforto a popolazioni che insino ad ora, per voglia più del fato che degli uomini, non hanno gustato i frutti di quella indipendenza e di quella libertà che pure hanno in cima della mente e dell'animo.

Per giungere alla concordia dei voti che cosa occorreva? Secondo me, e secondo gli amici miei, occorreva presentare un ordine del giorno, il quale raccogliesse, come a dire, la sostanza delle varie opinioni dalla maggioranza del Parlamento espresse, e nei diversi ordini del giorno già conosciuti, e in tutto il corso della lunga discussione.

Secondo noi, ecco le opinioni più rilevanti e più generali che la Camera, così negli ordini del giorno, come nel vario tenore della discussione, ha manifestato: desiderio di maggiore unificazione in Napoli ed in Sicilia; e questo desiderio è tanto giusto e giovevole, quanto disinteressato; molte opinioni pregiudicate, molte abitudini locali e anche molti locali interessi vi si oppongono.

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Quindi questo desiderio replicatamente e caldamente espresso, non che dalle altre frazioni del

Non perché io desideri e cerchi l'accentramento ministratiro; nulla di ciò; ma io desidero e cerco il discentramento, non moltiplicando i governi, sibbene moltiplicando le libertà. (Bravo! Benissimo!)

Quelli adunque che si offuscano delle parole unificazione amministrativa, bramandole migliori e più larghe franchigie municipali e forse anche regionali, si assicurino pienamente. Noi intendiamo discorrere di quella parte dell'amministrazione che tocca per sua natura e toccherà sempre al Governo. Quella che verrà data alle provincie e ai comuni, certamente verrà data in egual misura, così alla nordica Italia, come alla meridionale.

Un'altra opinione assai generale nella Camera si è manifestata circa le spiegazioni del Ministero.

Nelle spiegazioni del Ministero, mi si permetta di dirlo, vi furono due parti molto distinte, e, a mio avviso, il Parlamento le ha distinte egli pure. Altro è ciò che il Ministero pronunziava intorno al passato, ed altro il largo promettere che faceva sull'avvenire.

Intorno al passato forse tutti non avranno raccolto con interissima soddisfazione le spiegazioni date dal Ministero. Le cose messe in esame erano tante e cosi complicate, e quindi così difficili ad analizzare ed a raccogliere in pochi e chiari giudizi, che forse non tutti i dubbi si dileguarono, non tutte le censure rimasero spente.

Ma, in genere, il sentimento che ha dominato in questi giorni nel Parlamento è stato che su quel passato è meglio tirare un velo.

La fortuna o il destino vi ha avuto molto più parte che gli nomini. Le necessità sono state più gagliarde che le individue volontà.

Io ho goduto, o signori, di vedere ad una ad una dissiparsi tante accuse che a primo aspetto parevano fondatissime e gigantesche. Noi da questa discussione abbiamo raccolto un nobile effetto. Noi ne siamo usciti con questo prezioso risultamento, che ci vogliamo più bene di prima, e professiamo l'uno inverso dell'altro molta maggiore stima. (Bravo Bene!)

Invece l'altra parte delle spiegazioni ministeriali è stata accolta con subito assenso e con viva soddisfazione da tutti. Voglio dire le promesse paratamente specificate dal ministro dell'interno.

Ora il nostro ordine del giorno nota e significa per appunto tutti questi pareri e sentimenti della Camera.

Prima, piglia atto delle spiegazioni ministeriali in genere, e con ciò vuole che quelle spiegazioni siano piene d'importanza e di autorità; vuole che siano un solenne compromesso tra il Ministero e il Parlamento; vuole che se ne ritragga una garanzia soda e sempre ricordata.

Poi l'ordine del giorno viene a particolareggiare il desiderio di unificazione; quindi si menzionano specificamente le promesse fatte dal ministro degl'interni, e dico le più sostanziali quelle che raccolgono in sè virtualmente tutte le altre.

Ecco date brevemente le ragioni del nostro ordine del giorno, rispetto al quale l'altro presentato dall'onorevole Di Torre Arsa riesce troppo scarso, e non mi sembra soddisfare a tutte queste degne intenzioni, né a tutti questi legittimi fini.

A mio avviso, era meglio che nell'ordine del giorno del marchese Di Torre Arsa non fosse nulla specificato; ma, venendoci ricordata la sola esatta osservanza delle leggi, mi sembra che la mente non ne scorge la cagione e non ne resta punto appagata. Sia un difetto di quel Governo meridionale il non avere esattamente osservate le leggi, siasi pure promesso che per l'avvenire saranno osservale tutte, e sempre; ma l'onorevole Di Torre Arsa m'insegna che si possono fino all'ultimo apice osservare le leggi, e tuttavolta l'azione del Governo trovarsi poco provvida e inefficace.

Il ministro dei lavori pubblici può molto bene osservare anche insino allo scrupolo le sue proprie leggi, senza fare eseguire nemmeno un migliori strade ferrate. Può benissimo il ministro dell'interno osservare le leggi intorno alla sicurezza pubblica; ma, se queste leggi fossero mal'insufficienti, avrebbe un bello eseguirle capo per capo, articolo per articolo, qual frutto da ultimo ne ricaverebbe?

Quando noi domandiamo che sieno adempiute tutte le promesse del Ministero, domandiamo molto di più. Prima di tutto è richiesto che all'osservanza delle leggi si aggiunga tutta l'abilità e l'energia possibile; perché, se nuove leggi abbisognano, il Ministero le venga a chiedere al Parlamento, e, ad ogni modo, i regolamenti, i decreti, le interpretazioni, gli usi che sia per farne, vengano tutti rivolti e confermati a quelle specificate promesse, le quali, con tanto piacere, abbiamo raccolte dalla bocca del Ministero.

Non pertanto, pel profondo desiderio che abbiamo di vedere concorde il Parlamento in un voto che non può non assumere grande importanza, né produrre grande effetto laggiù nell'Italia meridionale, noi modificammo le espressioni del nostro ordine del giorno, ma non le modificammo in guisa dà ridurle insufficienti, come giudichiamo essere quello proposto dal marchese di Torre Arsa.

Qui non si tratta, o signori, di un ordine del giorno fatto unicamente per questa Camera; in questa Camera potrebbero bastare forse le note e i commenti che vi faceva il ministro dell'interno. Il ministro dell'interno ci assicurava che egli intendeva come implicita nell'ordine del giorno del signor Di Torre Arsa tutta la sostanza degli altri emanati dai componenti la maggioranza

Prima d'ogni cosa, a me non sembra che il Parlamento debba parlare per sigle e per anagrammi: è meglio esprimere con precise parole ciò che è importante di esprimere; poiché noi qui, ripeto, non parliamo unicamente per le orecchie nostre ed il nostro spirito, parliamo per farci intendere dai popoli del mezzogiorno d'Italia; parliamo per moltitudini, le quali forse non hanno né il tempo, né il modo, né la voglia di tenere dietro a tutte le lunghe, per non chiamarle interminabili, nostre discussioni.

Abbiano dunque quei popoli innanzi agli occhi almeno un ordine del giorno che in poche righe raccolga la vera sostanza delle opinioni più fondate e più generali del Parlamento. (Bene! Bene!)

Dopo tali dichiarazioni, o signori, i sottoscrittori dell'ordine del giorno, di cui discorro, sonosi per alto di conciliazione accordati a così comporlo.

Si accetta l'ordine del giorno del marchese Di Torre Arsa, al quale per altro si fa l'infrascritta aggiunta:

«E confidando che esso, cioè il Ministero, piglierà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa delle provincie napoletane e siciliane,

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non che insistendo

Come vedono, fu cancellata la frase: e l'esatta osservanza delle leggi, la quale è la sola specificazione contenuta nell'ordine del giorno dell'onorevole Torre Arsa.

Non so se io e gli amici miei ci siamo apposti o ingannati nella scelta del mezzo di conciliare le opinioni della Camera; ma, certo, n'è stato in noi vivissimo il desiderio.

Esca dal Parlamento, o signori, esca un voto il più concorde che sia possibile, perché rechi, volontieri lo replico, calma, serenità e conforto alle popolazioni meridionali, le quali, se debbo argomentare dal cuor mio, l'Italia ama c predilige sopra tutte, perché state sopra tutte oppresse e sfortunate quasi in ogni tempo, e perché, mentre la natura ha loro impartito magnifiche doti, pur troppo la sorte ha sempre vietato ch'elle recassero alla gran madre comune quel portentoso tributo di civiltà, di scienza, di ricchezza, di gloria, che le recheranno certissimamente e in più breve tempo ch'uomo non crede. (Applausi)

Minghetti, ministro per l'interno. Dopo le spiegazioni da me date ieri in occasione dell'ordine del giorno del marchese Di Torre Arsa, ne viene di conseguenza che il Ministero è contento di accettare anche l'aggiunta che l'onorevole Mamiani vi propone. Solo mi prendo licenza di chiarire un dubbio che potrebbe per avventura sorgere, e credo che questa mia spiegazione sarà tale da accelerare quell'accordo che l'onorevole Mamiani desidera.

Quando si parla di unificazione amministrativa, credo che s'intenda un'azione maggiore e più efficace del governo centrale nelle provincie meridionali, senza che però si voglia in alcuna guisa pregiudicare la discussione e le deliberazioni che il Parlamento sarà per prendere sopra le leggi ch'ebbi l'onore di sottoporre alla Camera. (Segni di assenso)

In questo senso accetto completamente le parole: «l'unificazione dell'amministrazione.»

Di Cavour, ministro. Il deputato Mamiani l'intende cosi?

Mamiani. Oh certamente! Il voto che darebbe oggi la Camera non vincola punto la deliberazione che può prendere poi il Parlamento in una legge.

Di Torre Arsa. Chiedo di parlare.

Presidente. Ha facoltà di parlare il deputato Di Torre Arsa.

Di Torre Arsa. Signori, la profonda commozione che io provo in questo momento a dover levare la mia voce, e sommettere qualche osservazione non del tutto conforme alle nobili parole dell'onorevole deputato Mamiani, di cui accetto le parole benigne e gentili che mi diresse come un effetto dell'animo benevolo e cortese di lui, che sommamente rispetto e venero come uomo altamente benemerito della scienza, della libertà e della patria, questa profonda commozione, dico, non lascierà forse libero il corso alle mie parole; laonde a voi, o signori, mi raccomando, acciò i miei sentimenti interpretiate più dalla commozione mia visibile, che dalle parole che mi escono dal labbro.

Debbo trattenervi un momento per ispiegarvi preciso e netto il concetto del mio ordine del giorno, e di ciò ch'io intenda per osservanza della legge.

Nell'osservanza della legge io veggo precisamente l'opposto di quanto diceva l'onorevole deputato Mamiani.

Non osserva la legge chi, essendo ministro, per esempio, dei lavori pubblici, eseguisce il testo della legge e non spende utilmente il denaro; non segue la legge chi bada

alla sicurezza pubblica, e non si serve di tutti i mezzi perché si venga a conseguirne gli effetti; e via dicendo.

Si disse che il mio ordine del giorno non comprendeva menomamente tutto quanto è spiegato in quello dell'onorevole Mamiani. Viceversa, la mia idea era comprensiva, non escludeva niente; e nel mio sistema, nella mia convinzione intendevo rammentare questo fatto, che un Parlamento, quando dice: osservinsi le leggi, implicitamente prescrive ai ministri di osservarle nel miglior modo possibile e nell'interesse maggiore dello stato.

Si fece pure volo per l'unificazione. Questa parola, in verità, io non vorrei sentirla più ripetere. Chi dubita dell'unità d'Italia? Perché siamo noi qui? Per questo fatto solo; la sola presenza nostra in quest'aula rende vana ogni questione in proposito. Tutti gareggiamo a conseguire, a consolidare questo scopo. Quindi io dico al ministro dell'interno: io accetto intero il programma del Ministero; partecipo intieramente all'intendimento della Camera. A che dunque dire che il mio ordine del giorno era incompleto, era monco, quasiché ci fosse una parte degli ordini del giorno che io rifiutassi? La questione è puramente e semplicemente di forma, perché io credo che la Camera non debba sancir espressioni che possano portare il ministro a un esercizio di potere che non abbia. Che cosa si dice al ministro? Tutelate la pubblica sicurezza. Ma chi può supporre che il ministro non voglia, non debba, o non possa tutelare la pubblica sicurezza? Esso deve tutelarla, e il giorno che la trascurasse, mancherebbe al suo dovere.

Quindi, o signori, per non dilungarmi in una questione già abbastanza protratta, mi limito a pregare la Camera a permettermi di non modificare le parole del mio ordine del giorno, che, nel fondo, non differisce dagli altri, e per la sua forma parmi più conveniente ad un Parlamento.

Presidente. Non è questione di modificare le parole del suo ordine del giorno.

Secondo la proposta del deputato Mamiani, firmata da 38 deputati, del nome dei quali fu dato lettura nella seduta di ieri, si tratterebbe solo della trasposizione di qualche parola e dell'unione delle due proposte.

Converrà dunque procedere alla votazione per divisione; così ognuno potrà liberamente pronunciarsi in merito delle due distinte proposte, le quali potranno poi congiungersi, se saranno approvale.

Di Torre Arsa. Allora il senso non vi sarebbe più

Presidente. Permetta, leggerò l'intiero ordine del giorno, cioè la sua proposta e quella del signor Mamiani:

La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, conia sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napoletane c siciliane:» fin qui l'ordine del giorno Di Torre Arsa. Viene quindi la parte Mamiani che lo completa così:

«E però, confidando che esso prenderà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa di quelle Provincie, ed insistendo sulla pronta ed efficace applicazione delle misure dal Governo promesse circa la sicurezza pubblica ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno.

Lo metterò ai voti cosi diviso.

Di Torre Arsa. Secondo me, la seconda parte è un pleonasmo....

Minghetti, ministro per l'interno. Allora non vi può essere alcun inconveniente a votarlo.

Di Torre Arsa dunque insisto per la votazione del mio ordine del giorno.

Presidente. Si voterà separatamente; in tal modo ella potrà respingere la seconda parte, se così crede.

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Mughetti, ministro per l'interno. Io dichiaro, a nome del Governo, che esso accetta l'ordine del giorno del deputato Di Torre Arsa, e dopo voterà pure li seconda parte proposta dall'onorevole Mamiani, perché essa non è che un'esplicazione della prima. Quand'anche la seconda parte non fosse che un pleonasmo, siccome esprime i nostri pensieri, cosi noi siamo disposti ad accettarla.

Presidente. Il deputato Massari ha facoltà di parlare.

Massari. Siccome siamo tutti d'accordo, rinunziò alla parola.

Presidente. Allora metterò ai voti la prima parte

Mellana. Chiedo di parlare per motivare il mio voto.

Massari. Se la discussione continua, reclamo la parola.

Mellana. Domando di motivare il mio voto e quello di alcuni miei amici. Io non entro nella discussione.

Dacché fu respinta la proposta dell'inchiesta parlamentare, che noi credevamo più acconcia e più utile di qualsiasi ordine del giorno, al punto in cui è giunta la discussione, per mio conto dichiaro che voterò l'ordine del giorno dell'onorevole Di Torre Arsa, in quanto che, dietro le spiegazioni date dall'onorevole Mamiani, risulta che coll'ordine del giorno proposto da alcuni membri della maggioranza si accenna puramente che si vuol dare una dittatura...

Molte voci. No! no!

Mellana. Lo ha detto chiaramente...

Voci. No, non lo ha detto nessuno!

Mellana. Il Ministero potrà fare strade ferrate, potrà pubblicare la legge sulla polizia; sono le parole dell'onorevole Mamiani, ed io domando una spiegazione a questo riguardo.

Presidente. Io credo veramente che questo non sia il senso delle parole dell'onorevole Mamiani. Egli ha detto che, oltre all'esecuzione delle leggi, vi era una parte che il Ministero poteva fare, come potere esecutivo, e che questa era appunto quella che si raccomandava coll'ordine del giorno; cioè che si spiegasse energia, e che la forza si aggiungesse alle leggi...

Mamiani. Ed il Governo venisse alla Camera a domandare le leggi nuove che gli fossero necessarie.

M

ellana. Questa facoltà di chieder leggi alla Camera, si sa che la possiede il Governo.

Io, per mio conto, dichiaro che, per evitare ogni equivoco, voto puramente e semplicemente l'ordine del giorno del deputato Torre Arsa.

Massari. (Con impeto) Ed io, perché non voglio la dittatura, e perché voglio sinceramente e lealmente l'unificazione dell'Italia, approvo, appoggio e voto l'ordine del giorno proposto dall'onorevole mio amico il deputato Mamiani.

Presidente. Metterò ai voti la prima parte dell'ordine del giorno proposto dal deputato Di Torre Arsa. Ne darò lettura:

«La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, conta sull'esatta osservanza delle leggi nelle provincie napolitane e siciliane.»

Chi approva questa prima parte dell'ordine del giorno, è pregato di alzarsi.

(È approvata a grande maggioranza.)

Darò ora lettura dell'aggiunta proposta:

«E però, confidando che esso piglierà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa di quelle Provincie, ed insistendo sulla pronta ed efficace applicazione delle misure dal Governo promesse circa la sicurezza pubblica ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno.»

Pongo ai voti questa seconda parte.

(È approvata.)

Cosi rimane intieramente approvata la risoluzione proposta dai deputati Di Torre Arsa e Mamiani.

L'ordine del giorno porterebbe ora le interpellanze del deputato Rasponi al ministro dei lavori pubblici; ma, siccome il ministro non è presente, e dietro anche i concerti che il medesimo prese coll'interpellante, saranno esse rimandate ad un altro giorno.

Prima di passare alla materia che è all'ordine del giorno, debbo avvertire la Camera che un'altra proposta era pure all'ordine del giorno, quella cioè del deputato Ricciardi, lo svolgimento della quale non può aver luogo perché il deputato Ricciardi oggi non può intervenire alla Camera. Se quindi non si fanno opposizioni, si potrebbe, dopo la prima legge che è in discussione, passare a quella di un altro schema di legge, la cui relazione è già stata distribuita da parecchi giorni, quello cioè relativo all'applicazione da farsi agl'impiegati dell'amministrazione militare marittima di alcune disposizioni della legge sulle pensioni dell'armata di mare, 20 giugno 1851.

Quindi si procederebbe a questo modo: ora si passerebbe alla discussione del progetto di legge che proroga i termini fissati per l'affrancamento delle enfiteusi nell'Emilia, e poscia verrebbe quella del progetto di legge che ho testé accennato.




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