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https://www.narcomafie.it/

29.10.2001 - Criminalità organizzata

Camorra, alle radici del male

di Simone Accetta

"La camorra potrebbe essere definita l’estorsione organizzata: essa è una società segreta popolare, cui è fine il male". È così che Marco Monnier, da acuto storico e scrupoloso osservatore, nel 1863 all’indomani del processo unitario definì la "triste genia conosciuta dal volgo sotto il nome di camorra". Gli farà eco Pasquale Villari definendola "piaga sociale" nelle Lettere Meridionali del 1875, che segnano l’inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno all’interno dello Stato italiano e la data di nascita del meridionalismo liberale.

Sintonizzarsi su queste profonde e autorevoli intuizioni è interessante per avere le prime coordinate di una ipertrofia criminale che, nel corso dei secoli, ha incancrenito una città e una regione considerata felix in età classica e divenuta infelix ai giorni nostri. L’uso privato della violenza come mezzo di controllo sociale è il tratto peculiare dei camorristi che da un lato non rispettano la legge e l’apparato governativo, dall’altro agiscono in connivenza con l’autorità ufficiale e rafforzano il proprio controllo attraverso rapporti occulti con i funzionari di governo. È noto che nell’interregno del 1861 Liborio Romano, il prefetto di polizia del tentativo costituzionale borbonico, per garantire l’ordine pubblico nella capitale inserì nella neonata Guardia cittadina un buon numero di camorristi, i quali fecero della "onorata divisa" l’arma di una vera e propria escalation al contrabbando e di una inedita audacia nel commettere reati. Una misura giudiziaria che don Liborio difese come provvida, consigliata dall’esperienza borbonica in materia di ordine pubblico, e dalla memoria del 1799 sanfedista.


Intermediari di comodo


Possiamo scorgere, di conseguenza, la sua ragion d’essere nel porsi come una sorta di intermediario o mediatore del potere, un vero e proprio imprenditore che manipola e mobilita risorse ai fini del potere e del profitto personale. Una "scomoda" figura sociale, paragonabile a quella che l’on. Saredo, nell’inchiesta parlamentare sui mali di Napoli e sulla degenerazione della sua vita pubblica del 1901, definì "l’interposta persona (...) dall’industriale ricco, che voglia aprirsi la strada nel campo politico o amministrativo, al piccolo commerciante che debba richiedere una riduzione di imposta; dall’uomo di affari che aspiri a una concessione, all’operaio che cerchi il posto in un’officina; dal professionista desideroso di una clientela d’un istituto o d’un corpo morale, a colui che cerchi un piccolo impiego; dal provinciale che viene in Napoli per fare acquisti, a quello che deve emigrare per l’America; tutti trovano davanti a loro un’interposta persona, e quasi tutti se ne servono, sia per naturale indolenza, sia per quella perplessità che i meridionali hanno nel trattare da sé i propri affari".


Un'arguta conclusione, questa dell’on. Saredo, dolorosa icona del gap di integrazione del Sud con il centro del paese (inteso come luogo di formazione e organizzazione delle istituzioni legali dello Stato). E fu proprio questo gap a determinare le condizioni per l’emergere di un ceto di mediatori specializzato a colmare questa distanza.


Una realtà meridionale che fa da sfondo a una realtà napoletana, o meglio a una "questione di Napoli", così come emerge, soprattutto, dai lavori di F.S. Nitti. Ciò che, infatti, poteva e doveva osservarsi verso la fine del secolo scorso, era proprio il fenomeno dell’irrevocabile distaccarsi della "testa" dal suo "corpo" o, per essere più precisi, del "corpo" dalla sua sempre più superflua e ingombrante "testa". "La città di Napoli - scriveva Nitti - rappresenta ormai uno dei fenomeni caratteristici della vita italiana. I suoi abitanti, come nella parabola del grammatico Sophus, crescono di numero e si contentano di cibo sempre più scarso. Ogni giorno il consumo si assottiglia: il popolo porta sul volto le stigmate dolorose della povertà; la borghesia le porta nell’anima. Mai forse al tempo nostro una città ha rappresentato un dramma umano così spaventoso. Sotto tanta bellezza di cielo, fra tanta bellezza di vegetazione e in tanta rivalità di genti, Napoli decade ogni giorno".


Dal lontano 1735…


A Napoli, dunque, negli interstizi di un tessuto urbano dove la mancata corrispondenza tra la crescita demografica e quella economica, oltre alla formazione di una sacca ingente di sottoproletariato, segnò la distorsione dello sviluppo della borghesia cittadina e l’affacciarsi, tra la plebe, di una forma di mediazione delittuosa che prese il nome di camorra.


Questo termine in spagnolo significa lite, rissa (hacer camorra: cercar lite) e molti studiosi hanno indicato gli antenati dei camorristi nelle numerose bande spagnole di criminali: i gamurri, la Guardugna, la confraternita di Monopodio, così come viene ricordata dalle opere del Cervantes. Ma pare possa derivare anche dalla corruzione di gamurra, indicante un rozzo vestiario assai simile alla chamarra degli spagnoli. Queste spiegazioni sono caratterizzate tuttavia da una valutazione storico-politica: quella di individuare nella dominazione spagnola e nella tracotanza banditesca della soldataglia spagnola l’origine di tutti i mali napoletani. Invece il termine sembra più legarsi a una attività. La parola camorra compare per la prima volta in un atto ufficiale nel 1735. Si tratta di una prammatica nella quale si autorizzavano a Napoli solo otto case da gioco. "Camorra avanti palazzo" era una di queste, aperte fin dal Seicento di fronte a palazzo reale. Mastriani fa riferimento a una origine araba, gamara, luogo dove si fanno "giochi di sorte e di rischio" e Monnier richiama la parola kumar, gioco aleatorio proibito dal Corano, produttivo di lucri fraudolenti. Arturo Labriola fa derivare camorra dalla voce mediterranea morra, nel senso di "capo della morra, colui che dirige il gioco e prende i soldi su di esso". La morra o come la chiamano a Napoli il tocco, era un gioco molto popolare in città e nelle carceri della Gran Corte della Vicaria dove, come si legge da una prammatica del 1573: "si fanno molte estorsioni dai carcerati, creandosi l’un l’altro priori in dette carceri, facendosi pagare l’olio per lampade e facendosi dare altri illeciti pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri".


Ma pagato l’olio per il lume della Madonna, la cui sacra immagine era ed è venerata in tutti i quartieri di Napoli, il detenuto non poteva dirsi libero dai camorristi, ai quali pagava per tutta la sua permanenza in carcere un "contributo" per ogni sua piccola e più indifferente attività. La richiesta di tangente, la richiesta di "camorra" veniva estorta anche fuori dalle anguste mura della Vicaria. I camorristi e i loro adepti la imponevano in mezzo alla strada, nelle pubbliche piazze. Pagavano la camorra il carrozziere, il barcaiolo, il facchino, il venditore ambulante, il giocatore, l’accattone.


La lunga trafila del provetto camorrista


Diventare camorristi non era così semplice. A questo ruolo si arrivava dopo un lungo apprendistato, una spietata selezione e numerose prove. Le pene per chi "sgarra" sono severissime, per chi infrange il Frieno ossia i ventisei articoli della "onorata società" della camorra. Perché la camorra prese le sembianze di un tassa? Il pagamento di gabelle, spesso richiesto dai funzionari governativi con la violenza, era ben radicato nella popolazione napoletana, anzi era al centro di ogni sommossa popolare. Il potere dello Stato non era avvertito come un bene comune, super partes, come ordinatore della vita collettiva. L’utilità pubblica della tassa non era percepita, non era evidente in una città carente di tutto e dove le opere pubbliche si facevano per adornare e rendere confortevole la vita dei nobili e dei prelati. La camorra, dunque, come associazione delittuosa di "stampo popolare" ben strutturata nelle carceri, adoperò gli stessi sistemi e le stesse forme del potere ufficiale e occupò gli stessi spazi lasciati liberi o tollerati dal potere legittimo, dando a questa scellerata forma di mediazione una caratterizzazione criminale.


Il nesso inestricabile tra camorra, realtà estorsiva e uso della violenza come mezzo di controllo che trova nel grande avvilimento d’una parte della plebe napoletana la sua ragion d’essere, è utile per comprendere appieno il percorso temporale e le caratteristiche peculiari di questa proteiforme "piaga sociale". Bisogna però distinguere tra la perversa concezione dell’onore e del rispetto partorita da menti criminali, e quella che trae origine dalle viscere della cultura popolare partenopea rappresentata dalla figura del guappo di quartiere così come ci viene tramandata dalla produzione teatrale di Raffaele Viviani e di Edoardo De Filippo.


Dall’esperienza fatta da Liborio Romano all’indomani della caduta del regno borbonico, all’inchiesta Saredo, passando attraverso il secondo dopoguerra , il periodo laurino fino al terremoto del 1980, i camorristi, a fasi alterne, hanno scandito il tempo di una grande città del Mezzogiorno, le cui uniche risorse erano e sono garantite da un intervento costante della spesa pubblica. Per comprendere il successo della camorra bisogna considerare la genesi storica del Sud d’Italia, e in particolare della Campania, dove i rapporti tra denaro pubblico e blocchi di potere locali hanno inciso una società per la quale lo sviluppo ha di frequente avuto una veste assistenziale, consolidatasi in un sistema parassitario dei sussidi all’insegna del clientelismo. In più considerando che le élite delinquenziali campane hanno compiuto, specialmente negli ultimi vent’anni, un salto di qualità notevole, entrando così a pieno titolo nel Gotha della malavita organizzata mondiale. Nata in ambito urbano tra la bassa plebe, la camorra ha conosciuto una lenta, inesorabile e progressiva legittimazione. Operando tra le carceri e i mercati, il camorrista si è, nel corso dei decenni, gradualmente imborghesito, vedendo riconosciute quelle qualità peculiari caratteristiche del suo agire criminoso. Il rapporto sporadico, non stabile, quasi "mercenario" con il potere politico e il ceto dominante, convinto che nel rispetto delle leggi non si governa una realtà urbana complessa come quella napoletana, ha generato purtroppo un alibi politico, e una certa tolleranza di massa all’illegalità, spesso proliferata a Napoli sotto il segno dell’arrangiarsi.


Lo spostamento in Campania della centrale del contrabbando nazionale ed internazionale, all’indomani della chiusura del porto franco di Tangeri nel 1959, l’invio al soggiorno obbligato nella regione di pericolosi e importanti uomini di Cosa Nostra, creano le condizioni di un’inesorabile "mafizzazione" della camorra. L’abbandono della piazza di Napoli da parte dei marsigliesi, la supremazia dei mafiosi siciliani, l’esplosione del mercato degli stupefacenti, a metà degli anni Ottanta, hanno l’effetto di produrre una radicale trasformazione nell’universo criminale campano.


Nasce e prospera la febbre dell’oro sporco e mortale, comincia l’era della camorra impresa, dell’epopea cutoliana, della Nuova camorra organizzata e dell’altra associazione criminale, la Nuova famiglia. È questo un periodo tetro, sanguinante, caratterizzato dai poliedrici legami della camorra col terrorismo, i servizi segreti, la P2, il sistema politico di governo. Non potremmo oggi comprendere la potenza pervasiva della camorra, senza tenere nel giusto conto la legittimazione che le è venuta dalla trattativa del sequestro Cirillo, e il peso che l’affarismo interpartitico-illegale ha avuto a Napoli e in Campania in questi ultimi decenni e in modo particolare durante la stagione della ricostruzione postsismica.


Vecchie amicizie e nuove alleanze


Una rapida carrellata sul panorama criminale campano degli ultimi tempi ci porta a sottolineare una certa sclerotizzazione: gli interventi delle forze dell’ordine e della magistratura inquirente, il pentitismo e l’arresto di pericolosi latitanti hanno determinato la fine dei grossi clan camorristici e l’esplosione del sistema delinquenziale locale, producendo schegge criminali impazzite marcate da una spiccata efferatezza e dall’uso di un quantitativo di armi notevole — bazooka, uzi, kalashnikov, ordigni a tempo — provenienti da zone in cui ha regnato una profonda confusione politica (Balcani, ex Jugoslavia, Albania). Le stesse faide di camorra per il controllo del territorio, non si sviluppano oggi fra schieramenti camorristici tra i quali emerge un clan egemone — mi riferisco agli anni Ottanta che videro schierati su fronti contrapposti la Nuova camorra organizzata cutoliana e le famiglie napoletane a carattere mafioso riunite nella Nuova famiglia — ma tra "cartelli", aggregazioni di più clan, all’interno dei quali ognuno mantiene la propria autonomia, come l’attuale confederazione criminale denominata Alleanza di Secondigliano.


In un continuo farsi e disfarsi di riunioni e separazioni tra clan, la lotta mira al riconoscimento e alla supremazia, per raggiungere i livelli più alti della scala criminale. Al consueto modus vivendi si affianca, quindi, un modus operandi nuovo della camorra napoletana, nata sulle ceneri dei vecchi clan, pronta a digrignare i denti contro chiunque tenti di opporsi al suo nefasto progetto di controllo globale del territorio. La conditio sine qua non per fronteggiare una così "generale situazione di non diritto" risiede nell’attuazione di una politica di sensibilizzazione capillare delle coscienze, mirata ad un recupero del sentimento di legalità: è necessario innescare un processo di profondo cambiamento della realtà sociale e urbana, alimentata dalla diffusa incapacità di riconoscere e rispettare le regole.

 



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