"La camorra potrebbe essere definita l’estorsione organizzata: essa è una società segreta popolare, cui è fine il male". È così che Marco Monnier, da acuto storico e scrupoloso osservatore, nel 1863 all’indomani del processo unitario definì la "triste genia conosciuta dal volgo sotto il nome di camorra". Gli farà eco Pasquale Villari definendola "piaga sociale" nelle Lettere Meridionali del 1875, che segnano l’inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno all’interno dello Stato italiano e la data di nascita del meridionalismo liberale.
Sintonizzarsi su queste profonde e autorevoli intuizioni è interessante per avere le prime coordinate di una ipertrofia criminale che, nel corso dei secoli, ha incancrenito una città e una regione considerata felix in età classica e divenuta infelix ai giorni nostri. L’uso privato della violenza come mezzo di controllo sociale è il tratto peculiare dei camorristi che da un lato non rispettano la legge e l’apparato governativo, dall’altro agiscono in connivenza con l’autorità ufficiale e rafforzano il proprio controllo attraverso rapporti occulti con i funzionari di governo. È noto che nell’interregno del 1861 Liborio Romano, il prefetto di polizia del tentativo costituzionale borbonico, per garantire l’ordine pubblico nella capitale inserì nella neonata Guardia cittadina un buon numero di camorristi, i quali fecero della "onorata divisa" l’arma di una vera e propria escalation al contrabbando e di una inedita audacia nel commettere reati. Una misura giudiziaria che don Liborio difese come provvida, consigliata dall’esperienza borbonica in materia di ordine pubblico, e dalla memoria del 1799 sanfedista.
Intermediari di comodo
Possiamo scorgere, di conseguenza, la sua ragion d’essere nel
porsi come una sorta di intermediario o mediatore del potere, un vero e
proprio imprenditore che manipola e mobilita risorse ai fini del potere
e del profitto personale. Una "scomoda" figura sociale, paragonabile a
quella che l’on. Saredo, nell’inchiesta parlamentare sui
mali di Napoli e sulla degenerazione della sua vita pubblica del 1901,
definì "l’interposta persona (...) dall’industriale
ricco, che voglia aprirsi la strada nel campo politico o
amministrativo, al piccolo commerciante che debba richiedere una
riduzione di imposta; dall’uomo di affari che aspiri a una
concessione, all’operaio che cerchi il posto in
un’officina; dal professionista desideroso di una clientela
d’un istituto o d’un corpo morale, a colui che cerchi un
piccolo impiego; dal provinciale che viene in Napoli per fare acquisti,
a quello che deve emigrare per l’America; tutti trovano davanti a
loro un’interposta persona, e quasi tutti se ne servono, sia per
naturale indolenza, sia per quella perplessità che i meridionali
hanno nel trattare da sé i propri affari".
Un'arguta conclusione, questa dell’on. Saredo, dolorosa icona del
gap di integrazione del Sud con il centro del paese (inteso come luogo
di formazione e organizzazione delle istituzioni legali dello Stato). E
fu proprio questo gap a determinare le condizioni per l’emergere
di un ceto di mediatori specializzato a colmare questa distanza.
Una realtà meridionale che fa da sfondo a una realtà
napoletana, o meglio a una "questione di Napoli", così come
emerge, soprattutto, dai lavori di F.S. Nitti. Ciò che, infatti,
poteva e doveva osservarsi verso la fine del secolo scorso, era proprio
il fenomeno dell’irrevocabile distaccarsi della "testa" dal suo
"corpo" o, per essere più precisi, del "corpo" dalla sua sempre
più superflua e ingombrante "testa". "La città di Napoli
- scriveva Nitti - rappresenta ormai uno dei fenomeni caratteristici
della vita italiana. I suoi abitanti, come nella parabola del
grammatico Sophus, crescono di numero e si contentano di cibo sempre
più scarso. Ogni giorno il consumo si assottiglia: il popolo
porta sul volto le stigmate dolorose della povertà; la borghesia
le porta nell’anima. Mai forse al tempo nostro una città
ha rappresentato un dramma umano così spaventoso. Sotto tanta
bellezza di cielo, fra tanta bellezza di vegetazione e in tanta
rivalità di genti, Napoli decade ogni giorno".
Dal lontano 1735…
A Napoli, dunque, negli interstizi di un tessuto urbano dove la mancata
corrispondenza tra la crescita demografica e quella economica, oltre
alla formazione di una sacca ingente di sottoproletariato, segnò
la distorsione dello sviluppo della borghesia cittadina e
l’affacciarsi, tra la plebe, di una forma di mediazione
delittuosa che prese il nome di camorra.
Questo termine in spagnolo significa lite, rissa (hacer camorra: cercar
lite) e molti studiosi hanno indicato gli antenati dei camorristi nelle
numerose bande spagnole di criminali: i gamurri, la Guardugna, la
confraternita di Monopodio, così come viene ricordata dalle
opere del Cervantes. Ma pare possa derivare anche dalla corruzione di
gamurra, indicante un rozzo vestiario assai simile alla chamarra degli
spagnoli. Queste spiegazioni sono caratterizzate tuttavia da una
valutazione storico-politica: quella di individuare nella dominazione
spagnola e nella tracotanza banditesca della soldataglia spagnola
l’origine di tutti i mali napoletani. Invece il termine sembra
più legarsi a una attività. La parola camorra compare per
la prima volta in un atto ufficiale nel 1735. Si tratta di una
prammatica nella quale si autorizzavano a Napoli solo otto case da
gioco. "Camorra avanti palazzo" era una di queste, aperte fin dal
Seicento di fronte a palazzo reale. Mastriani fa riferimento a una
origine araba, gamara, luogo dove si fanno "giochi di sorte e di
rischio" e Monnier richiama la parola kumar, gioco aleatorio proibito
dal Corano, produttivo di lucri fraudolenti. Arturo Labriola fa
derivare camorra dalla voce mediterranea morra, nel senso di "capo
della morra, colui che dirige il gioco e prende i soldi su di esso". La
morra o come la chiamano a Napoli il tocco, era un gioco molto popolare
in città e nelle carceri della Gran Corte della Vicaria dove,
come si legge da una prammatica del 1573: "si fanno molte estorsioni
dai carcerati, creandosi l’un l’altro priori in dette
carceri, facendosi pagare l’olio per lampade e facendosi dare
altri illeciti pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri".
Ma pagato l’olio per il lume della Madonna, la cui sacra immagine
era ed è venerata in tutti i quartieri di Napoli, il detenuto
non poteva dirsi libero dai camorristi, ai quali pagava per tutta la
sua permanenza in carcere un "contributo" per ogni sua piccola e
più indifferente attività. La richiesta di tangente, la
richiesta di "camorra" veniva estorta anche fuori dalle anguste mura
della Vicaria. I camorristi e i loro adepti la imponevano in mezzo alla
strada, nelle pubbliche piazze. Pagavano la camorra il carrozziere, il
barcaiolo, il facchino, il venditore ambulante, il giocatore,
l’accattone.
La lunga trafila del provetto camorrista
Diventare camorristi non era così semplice. A questo ruolo si
arrivava dopo un lungo apprendistato, una spietata selezione e numerose
prove. Le pene per chi "sgarra" sono severissime, per chi infrange il
Frieno ossia i ventisei articoli della "onorata società" della
camorra. Perché la camorra prese le sembianze di un tassa? Il
pagamento di gabelle, spesso richiesto dai funzionari governativi con
la violenza, era ben radicato nella popolazione napoletana, anzi era al
centro di ogni sommossa popolare. Il potere dello Stato non era
avvertito come un bene comune, super partes, come ordinatore della vita
collettiva. L’utilità pubblica della tassa non era
percepita, non era evidente in una città carente di tutto e dove
le opere pubbliche si facevano per adornare e rendere confortevole la
vita dei nobili e dei prelati. La camorra, dunque, come associazione
delittuosa di "stampo popolare" ben strutturata nelle carceri,
adoperò gli stessi sistemi e le stesse forme del potere
ufficiale e occupò gli stessi spazi lasciati liberi o tollerati
dal potere legittimo, dando a questa scellerata forma di mediazione una
caratterizzazione criminale.
Il nesso inestricabile tra camorra, realtà estorsiva e uso della
violenza come mezzo di controllo che trova nel grande avvilimento
d’una parte della plebe napoletana la sua ragion d’essere,
è utile per comprendere appieno il percorso temporale e le
caratteristiche peculiari di questa proteiforme "piaga sociale".
Bisogna però distinguere tra la perversa concezione
dell’onore e del rispetto partorita da menti criminali, e quella
che trae origine dalle viscere della cultura popolare partenopea
rappresentata dalla figura del guappo di quartiere così come ci
viene tramandata dalla produzione teatrale di Raffaele Viviani e di
Edoardo De Filippo.
Dall’esperienza fatta da Liborio Romano all’indomani della
caduta del regno borbonico, all’inchiesta Saredo, passando
attraverso il secondo dopoguerra , il periodo laurino fino al terremoto
del 1980, i camorristi, a fasi alterne, hanno scandito il tempo di una
grande città del Mezzogiorno, le cui uniche risorse erano e sono
garantite da un intervento costante della spesa pubblica. Per
comprendere il successo della camorra bisogna considerare la genesi
storica del Sud d’Italia, e in particolare della Campania, dove i
rapporti tra denaro pubblico e blocchi di potere locali hanno inciso
una società per la quale lo sviluppo ha di frequente avuto una
veste assistenziale, consolidatasi in un sistema parassitario dei
sussidi all’insegna del clientelismo. In più considerando
che le élite delinquenziali campane hanno compiuto, specialmente
negli ultimi vent’anni, un salto di qualità notevole,
entrando così a pieno titolo nel Gotha della malavita
organizzata mondiale. Nata in ambito urbano tra la bassa plebe, la
camorra ha conosciuto una lenta, inesorabile e progressiva
legittimazione. Operando tra le carceri e i mercati, il camorrista si
è, nel corso dei decenni, gradualmente imborghesito, vedendo
riconosciute quelle qualità peculiari caratteristiche del suo
agire criminoso. Il rapporto sporadico, non stabile, quasi "mercenario"
con il potere politico e il ceto dominante, convinto che nel rispetto
delle leggi non si governa una realtà urbana complessa come
quella napoletana, ha generato purtroppo un alibi politico, e una certa
tolleranza di massa all’illegalità, spesso proliferata a
Napoli sotto il segno dell’arrangiarsi.
Lo spostamento in Campania della centrale del contrabbando nazionale ed
internazionale, all’indomani della chiusura del porto franco di
Tangeri nel 1959, l’invio al soggiorno obbligato nella regione di
pericolosi e importanti uomini di Cosa Nostra, creano le condizioni di
un’inesorabile "mafizzazione" della camorra. L’abbandono
della piazza di Napoli da parte dei marsigliesi, la supremazia dei
mafiosi siciliani, l’esplosione del mercato degli stupefacenti, a
metà degli anni Ottanta, hanno l’effetto di produrre una
radicale trasformazione nell’universo criminale campano.
Nasce e prospera la febbre dell’oro sporco e mortale, comincia
l’era della camorra impresa, dell’epopea cutoliana, della
Nuova camorra organizzata e dell’altra associazione criminale, la
Nuova famiglia. È questo un periodo tetro, sanguinante,
caratterizzato dai poliedrici legami della camorra col terrorismo, i
servizi segreti, la P2, il sistema politico di governo. Non potremmo
oggi comprendere la potenza pervasiva della camorra, senza tenere nel
giusto conto la legittimazione che le è venuta dalla trattativa
del sequestro Cirillo, e il peso che l’affarismo
interpartitico-illegale ha avuto a Napoli e in Campania in questi
ultimi decenni e in modo particolare durante la stagione della
ricostruzione postsismica.
Vecchie amicizie e nuove alleanze
Una rapida carrellata sul panorama criminale campano degli ultimi tempi
ci porta a sottolineare una certa sclerotizzazione: gli interventi
delle forze dell’ordine e della magistratura inquirente, il
pentitismo e l’arresto di pericolosi latitanti hanno determinato
la fine dei grossi clan camorristici e l’esplosione del sistema
delinquenziale locale, producendo schegge criminali impazzite marcate
da una spiccata efferatezza e dall’uso di un quantitativo di armi
notevole — bazooka, uzi, kalashnikov, ordigni a tempo —
provenienti da zone in cui ha regnato una profonda confusione politica
(Balcani, ex Jugoslavia, Albania). Le stesse faide di camorra per il
controllo del territorio, non si sviluppano oggi fra schieramenti
camorristici tra i quali emerge un clan egemone — mi riferisco
agli anni Ottanta che videro schierati su fronti contrapposti la Nuova
camorra organizzata cutoliana e le famiglie napoletane a carattere
mafioso riunite nella Nuova famiglia — ma tra "cartelli",
aggregazioni di più clan, all’interno dei quali ognuno
mantiene la propria autonomia, come l’attuale confederazione
criminale denominata Alleanza di Secondigliano.
In un continuo farsi e disfarsi di riunioni e separazioni tra clan, la
lotta mira al riconoscimento e alla supremazia, per raggiungere i
livelli più alti della scala criminale. Al consueto modus
vivendi si affianca, quindi, un modus operandi nuovo della camorra
napoletana, nata sulle ceneri dei vecchi clan, pronta a digrignare i
denti contro chiunque tenti di opporsi al suo nefasto progetto di
controllo globale del territorio. La conditio sine qua non per
fronteggiare una così "generale situazione di non diritto"
risiede nell’attuazione di una politica di sensibilizzazione
capillare delle coscienze, mirata ad un recupero del sentimento di
legalità: è necessario innescare un processo di profondo
cambiamento della realtà sociale e urbana, alimentata dalla
diffusa incapacità di riconoscere e rispettare le regole.
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