Ringraziamo l'amico FDV per aver ripescato questo pezzo della nostra storia. Le battaglie di Cronache Meridionali a favore del Sud finirono con la chiusura della rivista da parte di Togliatti.
Buona lettura e tornate a trovarci.
Carlo Scarfoglio conferma in questo libro, da lui pensato «come una storia morale dei rapporti del Mezzogiorno d'Italia col resto del mondo e colle altre stirpi italiane» le sue doti eccezionali di giornalista, anzi di un «giornalista nato» il quale, come pochi altri oggi in Italia, sa in ogni occasione raccogliere intorno ad uno spunto iniziale «simpatico» e facilmente comprensibile al suo pubblico, il tessuto rapido e brillante di un ragionamento, arricchirlo di riferimenti culturali gustosi (seppure spesso approssimativi) e portarlo ad una conclusione epigrammatica, che lascia il lettore incuriosito anche quando non riesca del tutto a persuadérlo.
Naturalmente, in questo impianto e taglio giornalistici del libro
è anche da ricercarsi la fonte principale dei suoi difetti
come opera di storiografia o almeno come introduzione ad un'opera
storiografica seria sul Mezzogiorno d'Italia.
Per lo Scarfoglio, infatti, tutto è buono ai suoi scopi,
tutto è buono a servire il suo assunto polemico: il furbesco
arbitrio filologico con cui, scavalcando allegramente i millenni, si
interpreta, con apparente convinzione, la nota canzone quattrocentesca
dedicata ai casi dolorosi di «donna Sabella» (vale
a dire Isabella di Lorena, moglie dell'ultimo re angioino di Napoli,
Renato) come un lamento dell'antica gente sannitica
(«riuscito a salvarsi anche nel passaggio da una lingua
all'altra»!) quando la sua indipendenza crollava sotto i
colpi degli eserciti romani; i richiami, di natura esoterica, ai culti
religiosi e ai costumi popolari, per cui fra l'altro anche nella
rivoluzione di Masaniello si vuoi ritrovare la traccia delle
più antiche «tradizioni ctonie» delle
genti meridionali, traendone argomento dal suo iniziale accendersi
durante l'assalto degli «alarbi» al castello di
legno costruito per celebrare la festa della «Madonna
nera» di Piazza Mercato; le più meditate
considerazioni sulle vicende finanziarie del Regno durante il periodo
della dominazione spagnola, e in particolare sugli
«arrendamenti» dei dazi e delle gabelle ; le
divagazioni romanzesche sul mito della «corona di
ferro» presso le classi dirigenti dell'Italia settentrionale;
e così via.
Sbagliato tuttavia sarebbe, detto ciò, sbarazzarsi del libro
dello Scarfoglio considerandolo una gratuita manifestazione di
dilettantismo politico e ideologico, non degna di meritare altra
considerazione che quella da rivolgere ad un tentativo, più
o meno bene riuscito, da parte di un grande giornalista, di costruire
un pamphlet mordente e acuto sì, e di piacevole lettura, ma
basato sopra uno spunto buono tutt'al più a scrivere un
brillante articolo di varietà storico-letteraria.
Infatti la tesi sviluppata dallo Scarfoglio nel suo libro
(«II Mezzogiorno non ha conosciuto storicamente la
prosperità e anche la grandezza che quando ha volto
risolutamente le spalle al blocco continentale europeo, e ha vissuto
col viso cacciato nel Mediterraneo, nelle tre direzioni di sud, est,
ovest.
Non appena, attraverso il tramite peninsulare, è stato unito
al blocco continentale europeo, la sua vis economica, la sua stessa
forza vitale è stata aspirata, ed esso ha vissuto una vita
sempre più povera e languida, come un membro escluso dalla
circolazione sanguigna, fino a giungere assai vicino alla morte vera e
propria») potrà essere debole scientificamente, ma
da un lato torna a ripropone, seppure arrivando ad una conclusione
inaccettabile, un problema sempre aperto come è quello della
posizione del Mezzogiorno nell'interno dello Stato italiano, dall'altro
si articola in una serie di considerazioni storiche e politiche alcune
delle quali non sono, come si vedrà, né
arbitrarie né volgari.
Ma prima di tutto è interessante notare come lo Scarfoglio,
nell’elaborare la sua tesi attuale, abbia largamente
rimaneggiata e in gran parte rivista la tesi che, tra il 1919 e il
1925, fu sostenuta da lui e dagli altri Scarfoglio sul Mattino e che
Granisci non mancò di ricordare in una delle sue note del
carcere.
La tesi di quegli anni era infatti «che il Mezzogiorno
è entrato a fare parte dello Stato italiano su una base
contrattuale, lo Statuto albertino, ma che (implicitamente) continua a
conservare una sua personalità reale, di fatto, e ha il
diritto di uscire dal nesso statale unitario se la base contrattuale
viene in qualsiasi modo menomata, se cioè viene mutata la
Costituzione del '48».
Questa tesi — ricorda ancora Gramsci —
«fu svolta nel '19-'2O contro un mutamento costituzionale in
un certo senso e fu ripresa nel '24-'25 contro un mutamento in altro
senso». Orbene, di questa tesi famigliare tradizionale fermo
è rimasto nello Scarfoglio il punto di partenza, vale a dire
che il Mezzogiorno ha una sua personalità reale, di fatto,
rispetto alle altre «personalità» di cui
è costituito lo Stato unitario italiano, ed anzi tutta la
storia del Mezzogiorno è da lui vista come una lotta
millenaria (lo Scarfoglio risale all'epoca omerica!) fra le forze
«autoctone» e poi «nazionali»
meridionali, e le iniziative «unificatrici» della
penisola che, quando non partano dal Mezzogiorno, gli appaiono sempre
intese a soffocarne l'intima ragione di vita; ma abbandonata
è invece la rivendicazione
«separatista», e dunque la tesi del carattere
«legittimo» di tale separatismo, che allora se ne
traeva.
Non si può dire tuttavia che dall'abbandono di quella
posizione utopistica (nella quale non mancava l'elemento di
«ricatto politico» — nei confronti dei
gruppi dirigenti del Nord — che, come Gramsci osservava,
è stato sempre insito in tutti i movimenti e le correnti
d'opinione di tipo separatista sviluppatesi nel Mezzogiorno e in
Sicilia) lo Scarfoglio sia arrivato a proporre per il problema dei
rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato unitario una soluzione politica,
reale.
La giusta sfiducia in tutte le soluzioni
«dall'alto», di tipo paternallstico, ma insieme
l'incapacità di vedere il problema nel quadro di un
rinnovamento della struttura dello Stato unitario (come l'ha visto
Gramsci, ma come l'ha visto, p. es., anche un democratico non
socialista come Guido Dorso) portano invece lo Scarfoglio ad una
visione fatalistica e catastrofica della «questione
meridionale»: avendo perdute tutte le sue
«occasioni storiche» (l'ultima, quella della
mancata convocazione d'una Costituente meridionale nel '60-'61 per
«patteggiare» l'unità) al Mezzogiorno
non resterebbe oggi che rinchiudersi nella contemplazione dei propri
morti, di tutti i testimoni e i martiri di queste «occasioni
perdute».
Com'è evidente, qui lo Scarfoglio cade vittima della sua
debole preparazione ideologica e politica, che lo porta a raffigurarsi
in modo astratto la personalità storica del Mezzogiorno (da
lui ora caratterizzata in termini geo-politici, ora in termini morali,
anzi psicologici) e non gli fa vedere nelle classi moderne che si sono
sviluppate all'interno della penisola — la borghesia, la
classe operaia — le forze «unificatrici»
protagoniste di una lotta dalla cui soluzione dipende oramai la
soluzione dei problemi meridionali e del problema dello Stato unitario
qual'è uscito da quell'altra lotta che nel secolo XIX si
sviluppò, in tutta la penisola, fra la borghesia e i vecchi
ceti dominanti raccolti intorno alle vecchie dinastie locali.
E cade vittima, forse, anche di una infatuazione intellettualistica,
che lo ha indotto a sacrificare ad uno spunto letterario suggestivo
perfino il frutto delle esperienze positive da lui compiute, negli
ultimi anni, nelle file del Movimento della Rinascita e del Movimento
dei Partigiani della Pace, alle cui battaglie pratiche lo Scarfoglio ha
partecipato con un entusiasmo ed uno slancio davvero contraddittori con
il suo pessimismo libresco.
Fortunatamente, però, come s'è già
detto, molte considerazioni storiche e politiche particolari dello
Scarfoglio appaiano meritevoli di un giudizio diverso da questo
negativo complessivo, almeno ad un lettore che abbia la pazienza di
scernere il grano dal loglio.
Si veda, per esempio, nonostante le già accennate
fantasticherie «ctonie» la rivalutazione (in
polemica con il Croce — che del resto lo Scarfoglio
giustamente accusa di aver «svuotato» la storia del
Mezzogiorno del suo contenuto drammatico e originale — e
anche con il maggior storico moderno del Regno, lo Schipa) della
rivoluzione del 1647-48, detta di Masaniello; e l'abile ricostruzione
delle vicende della rivoluzione siciliana del 1848, e della crisi
decisiva degli anni '60-'61.
Ma si veda soprattutto la critica alla politica militaresca ed
imperialista dello Stato savoiardo-fascista (dov'è evidente
il superamento autocritico delle vecchie posizioni
«crispine» e colonialiste del Mattino) ; la critica
al carattere paternalistico del programma di politica meridionale della
Democrazia Cristiana e del suo principale strumento, la Cassa del
Mezzogiorno; la critica all'opposizione meridionale di destra la quale
non ha che uno scopo: «riportare il Governo di Roma
all'osservanza dei patti del '60», in modo da assicurare
«in maniera assoluta e completa la repressione delle istanze
popolari»; la critica, partendo dagli interessi specifici del
Mezzogiorno, alla politica della «guerra fredda»;
infine, ed è osservazione di originale intelligenza, la
denuncia dell'«irreparabile danno per l'avvenire del
Mezzogiorno che racchiude la politica della cosiddetta unità
europea».
Denuncia penetrante, che fa vedere sotto una luce diversa anche la tesi
generale dello Scarfoglio sui rapporti tra il Mezzogiorno e il
continente europeo, almeno nel senso che egli suggerisce un filone di
indagine che, spogliato degli aspetti mitici e mistici insieme nei
quali egli lo avvolge, e ridotto nei termini reali d'un approfondimento
concreto di certi momenti della storia dello sviluppo economico delle
regioni meridionali in rapporto con le altre regioni italiane e con gli
altri stati europei, potrebbe essere fecondo di risultati per una
compiuta storia del Regno di Napoli e delle origini della
«Questione meridionale».
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