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Persona colta ed intelligente, Enrico Cenni ben rappresenta quella schiera minoritaria di liberali (egli era un cattolico liberale) che non si allinearono con le posizioni filo-sabaude della consorteria napoletana.

Una schiera di illusi che sognarono di modificare il destino della provincie napolitane con la forza delle idee. Era quello il tempo in cui, dopo l'ubriacatura insurrezionalista pro-garibaldina, la parola era passata alle armi, si fronteggiavano due eserciti:

  • uno regolare, agguerritissimo, bene armato, che si attestava nelle principali città dove godeva del favore della maggior parte degli appartenenti alle classi abbienti;

  • uno irregolare, composto di soldati sbandati, disertori, contadini, pastori, che godeva dell'appoggio della popolazione dei centri minori, quella popolazione che si era vista scippata dei diritti d'uso delle terre comuni da vecchi e nuovi ricchi.

Cenni, in questa sua opera si propone di dimostrare le qualità dei napoletani e della città di Napoli, per giustificare la richiesta di farne la capitale (magari temporanea) del novello stato.

"Noi siam di credere, che tra le città italiche Napoli eminentemente possegga questa prerogativa, e che perciò secondo le presenti condizioni essa sia la capitale nata del nuovo stato.”

Veramente impressionante la sterminata lista di personalità che hanno contribuito allo sviluppo della civiltà occidentale che egli elenca nelle sue pagine.

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NAPOLI

E

L'ITALIA

CONSIDERAZIONI

DI

ENRICO CENNI


Necesse est igitur, quod quicquid natura ordinavit, de Jure servari debeat.

Dante, Monarchia, II §VII.


IN NAPOLI,

DALLA STAMPERIA DEL VAGLIO.

1861

AVVERTENZA.

Presento con fiducia queste considerazioni agl’italiani. Mi sono avvisato di adempiere ufficio d'italiano e di cittadino, col non tacere sopra una gravissima quistione d'interno ordinamento, tanto più che mi pareva necessario combattere certi errori che potrebbero riuscire funesti. Rivendicando i diritti del nobilissimo popolo napoletano, ho creduto rendere omaggio alla verità; ed a cansare ogni sinistra interpretazione, dichiaro, che non intendo per questo sminuire gl'innumerevoli e grandissimi meriti delle altre provincie, i quali messi insieme fanno la gloria unica della nazione principe del genere umano. Solo ho voluto provare, che Napoli avanza le sue congeneri nelle prerogative necessarie a farne il centro della nazione italiana. L'argomento, se avessi voluto internarmi ne' particolari, sarebbe stato assai vasto:


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il trattare anche brevemente della teologia, della filosofia e della giurisprudenza napoletana avrebbe richiesto volumi. Ho dovuto contentarmi di sfiorare appena le grandezze di questo popolo, non citando altri nomi che i sommi, tacendo affatto de' moltissimi, anche assai chiari. Mi sono studiato non di colorire un quadro, ma! di profilarle i soli contorni. Però se è Vero che; la filosofia sia la cima dell'ingegno umano, che ministra alle altre scienze i loro principii, massime alle politiche; se è vero che il giure sia il fondamento ed il vincolo della società civile, la napoletana famiglia, genitrice della filosofia e della giurisprudenza, è il natural centro della nazione italiana; e Napoli, sia pure a tempo, è per naturale disposizione la capitale del regno italico.


A' miei concittadini poi chiedo scusa delle mende del lavoro dettato in poco spazio, stringendo il tempo, pregandoli ad accoglierne benignamente l'intenzione.

Novembre 1861.

I.

Gravi sono le condizioni in cui si travagliano oggi le popolazioni italiane: teste erano divise in molti stati, ora trascinate da uno slancio irresistibile verso l'unità, han fatto volentieri il sacrificio delle loro singolari autonomie, per costituirsi in unica nazione. Ma quale ne sarà la capitale? Ecco l'urgentissima quistione che vuolsi risolvere. Gli sguardi di tutti sono volli a Roma, centro del mondo antico e centro del nuovo; una gran parte degl'italiani fremono d'impazienza: ma i destini de popoli non si compiono in un giorno, ed i giorni nella vita delle nazioni sono anni. Bisogna avere pazienza: col tempo si accomodano assai cose a primo aspetto giudicate impossibili, o almeno difficilissime. «I passaggi da un epoca ad un altra disparatissima sono lunghi e difficili (1)»: la storia non ha mai contraddetto a questa verità (2). Intanto è necessario usufruttare il tempo,

1.Gioberti, Rinnovamento civile, Tom. 2, p. 696. Parigi, 1851.


2.I recenti partiti presi dal governo, come l'ampliatone disposta del palazzo de ministeri in Torino, provano con evidenza che non credesi troppo vicino il conseguimento di Roma.

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col proseguire l'opera, allontanare gli ostacoli che s'infrappongono, e spianarsi la via al conseguimento dello scopo comune l'Unità, senza cui l'Italia non sarà mai quel, la che è chiamata per natura ad essere. Ma come si potrà fare tutto questo senza stabilire il centro di vita della nuova società italiana che sorge, cioè la capitale? Dire che non bisogna porvi l'animo, essendo imminente ottenere Roma, non è savio partito, perché si fonda sopra congetture senza base certa; e nessun uomo prudente può commettere ad incerti eventi la salute della patria: la soluzione della quistione romana può essere ritardala per cause diverse anche per anni. Dire che durante questo tempo si possono lasciare le cose come si trovano, è non meno pericoloso; perché l'avere l'Italia d'oggi per capitale anche temporanea Torino, è una posizione anormale, come fra poco toccheremo, che mena a male l'andamento governativo; ed oggi più che mai l'Italia ha d'uopo di un assetto più naturale, sia pure provvisorio, per organarsi e raccogliere le sue forze vive, onde sia tranquilla in casa, ed apparecchiata a far testa al di fuori al perseverante e formidabile suo nemico. La quistione della scelta della capitale è urgentissima; e può risoluta in un' modo o in un altro influire grandemente su' sacri destini della patria. Il d'Azeglio ha additata Firenze (1): sia a me permesso, libero cittadino di libera patria, senza spirito di parte, ma per quanto a me sembra rebus ipsis dictantibus,

(1) Sieno qualunque le opinioni di questo egregio uomo, egli ha un lato ammirabile: la indipendenza del pensiero e la virtù civile di palesarlo. Fo voti che l'Italia possa avere molti, i quali le giovino coll'opera e col senno come l'Azeglio; e che abbiano il civile coraggio, di cui tutti si vantano, ma che rarissimi in effetti posseggono, di dirla come li pensano.


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esporre la mia opinione agl'italiani, senza timore e senza umani rispetti.

Le capitali, dice acutamente il d'Azeglio, non le fanno i decreti. Non è certamente per decreti che Parigi è la capitale della Francia, Londra dell'Inghilterra, Madrid de' la Spagna, e così via; ne per decreto Roma fu la capitale del mondo. La centralità del sito senza dubbio non è ragione perché una città sorga ad essere capitale di uno stato: a questo rispetto non lo sarebbero ne Parigi, né Londra, ne Lisbona, ne Pietroborgo, né Napoli lo sarebbe stato del regno. Ma per quale necessità le capitali de sette regni della vecchia Inghilterra cedettero a Londra; per quale quelle de diversi reami, in cui fu divisa la Francia sotto la razza de' Carlovingi, s inchinarono a Parigi; perché quelle de' regni di Spagna soggiacquero a Madrid; ed appo noi perché Benevento, sotto la lunga dominazione longobarda capitale di uno stato che abbracciava la più parte delle regioni dell'antico nostro reame, e Palermo rimasero posposte a Napoli? Se si dirà da taluni, questo essere avvenuto in grazia di guerre e di rivolture, ma non per altra necessità, fuori il capriccio della fortuna e dell'umano arbitrio; ad opinanti di lai fatta non faremo risposta, perché con ciò solo mostrano di credere, che la storia sia un vano trastullo dell'arbitrio umano, ripudiando l'intima connessione delle cagioni e degli effetti, che ne costituiscono la continuità nel mondo, e nelle singole nazioni. Con questi tali inetti a cogliere il midollo, ma solo capaci a sfiorare imperfettamente la buccia, non abbiamo a discutere, sendo un fuordopera parlare al cieco della luce che non vede.

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La capitale, come suona la sua etimologica origine, è veramente il capo della società umana civile e politica che chiamasi nazione; ognuna ha la sua, ne più ne meno che ogni uomo singolo ha il capo proprio; or come il capo è la sede della mente nella sua duplice irradiazione dell'intelletto e della volontà, così la capitate di ogni nazione è quella in cui risiede veramente l'intelletto e la volontà di essa. Ogni nazione è un essere complesso, il quale ha proprie origini, propria religione, proprie tradizioni. arti, leggi, costumi, politica, armi; cose a tutte comuni, ma che da ogni singola nazione sono esercitate in guisa particolare secondo la propria indole, per la quale se tutte partecipano alla natura umana, si distinguono però tra loro pel modo della partecipazione. Così a cagion di esempio, non si dubita che il Francese, il Tedesoo, l'Inglese, lo Spagnuolo etc. non abbiano questo di comune, cioè che tutti sono uomini, vai dire partecipanti all'idea uomo, o al genere umano come dire si voglia, che tanto suona genere quanto idea in buona metafisica;ma non si negherà, che l'indole dell'uno non differisca da quella dell'altro, in modo che ognuno possegga una natura propria, la quale è la partecipazione a modo suo al genere umano, li che costituisce l'idea, il principio vitale organico, il genio di ciascuno. Che anzi questa verità è tanto generalmente accettata, in quanto che in essa si fonda quello che vi ha di reale nella dottrina politica delle nazionalità, fondamento del nuovo diritto pubblico internazionale che sorge,

Ogni nazione essendo up tutto organico, somiglia ad o gai altro organismo, nel quale i naturalisti distinguono gli

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organi dominanti da servienti; non sarebbe corpo organico se la varietà degli organi non fosse ridotta ad unità, cioè se tutti non soggiacessero al principato di uno, il quale nell'umano corpo è la testa. Questo organo dominante, questa lesta della nazione, in quanto è corpo organico, è appunto la capitale; ma come l'organo dominante non è tale per capriccio, bensì per naturatosi la capitale di uno stato non può determinarsi dall'umano arbitrio, ma dalla necessità delle cose, come esso non può fare che il piede o il braccio divenga l'Organo dominante del corpo. Ed appunto perché la nazione è un essere organico, essa nel suo insieme considerala, dee riguardarsi come un solo individuo, che ha là sua mente, cioè il suo genio, il quale naturalmente s'incentra nel capo del corpo suo. Sarebbe veramente alto soggetto l'investigare come il genio francese si personifichi in Parigi, l' inglese in Londra, lo spagnuolo in Madrid e cosi via discorrendo; ma tale inchiesta richiederebbe un lungo discorso, alieno o almeno superfluo al nostro tema. A noi basta l'avere accennato alle ragioni profonde, insidenli nella stessa umana natura, e manifestate dalla storia, per le quali si esclude decisamente il caso o il capriccio dalla scelta delle capitali; e si dimostra, che veramente per natura la capitale di una nazione è quella in cui si personifica il suo intelletto e la sua volontà.

Facciamoci ora più da vicino al nostro subbietto. L'Italia dopo la caduta del romano impero fu scissa in molte famiglie: senza entrare nella epoca della sua vita municipale, di cui più giuso toccheremo, siamo contenti di notare

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che la formazione di queste varie propaggini fu falla nel tempo, e lentamente venne fuori tra le lotte de' diversi abitanti dell'Italia tra loro; onde il periodo municipale può considerarsi come il momento d individuazione delle famiglie italiane, il cui processo non sarebbe a descrivere ne breve ne agevole: ma in risultato di questo movimento vediamo nella Italia superiore generarsi lo Stato Veneziano, il Milanese, il Subalpino, il Genovese; nella centrale il Toscano, il Pontificio; nella inferiore il Regno Napolitano, il quale fio. dal secolo duodecimo#si trova stabilito con confini certi, quali presso a poco ha finora avuti. Da quel movimento di organazione confuso, come apparentemente sono confusi tutti i movimenti di organazione 'de corpi, i cui elementi si agitano ricercando il loro sito naturale, per quetarsi dopo di averlo trovato, sursero le famiglie diverse componenti la nazione italiana; ognuna con fisionomia propria, e costituente, diciam così, una nazione nella nazione, onde ognuna ebbe la sua città capitale: Venezia, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, delle quali ciascuna rappresentò il genio della propria gente, determinato specialmente dall'essere nati in essa uomini singolari, in cui fu idoleggiato tutto il genio di quella. Chi per esempio, nel Dandolo, nel Morosino, nel Sarpi, in Tiziano non ravviserà il genio marittimo, politico e la natura sensuale de' Veneziani? chi non vedrà rappresentalo il genio rigido, disciplinato e militare de Subalpini negli eroi della casa di Savoia, e negl'illustri guerrieri e matematici di cui fu culla il Piemonte?chi negherà che Dante, Michelangelo, il Machiavelli, il Galilei non ritraggano il genio artistico da un lato, e dall'altro osservativo tanto de' fatti morali


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quanto de' fisici, quale è quello che privilegia i Toscani? chi dubiterà che Tommaso d'Aquino, il Bruno, il Vico, Pier delle Vigne, Andrea d'Isernia, non esprimano al vivo il genio teologico, filosofico e civile de' Napo!etani?E bene, questi uomini insigni o nacquero la più parte nelle città capitali de' vari stati italiani, o fiorirono in esse abitando, come la pianta, la quale perché frutti ha bisogno di un terreno adattato; cosicché nelle capitali appunto trovarono quelle condizioni difficili a definire, ma che volgarmente diconsi amdiente, proprie a sviluppare la loro intellettuale attività, onde poi divennero essi stessi centri di moto della vita del popolo in cui nacquero. Il che, come è chiaro, non accadde solo per la vita fisica, la quale poteano condurre altrove egualmente commoda ed agevole; ma sì principalmente perché essi respirarono l'ambiente delle capitali, le quali riassumendo con movimento centripeto le forze vive degli stati, con movimento periferico o d'irradiazione le riversano sulle particolari associazioni, e singoli individui di cui sono composti; in che sta propriamente la vita del civile convitto.

Or bene a' nostri tempi si tenta un' Italia politicamente una: le sue tante famiglie vogliono legarsi insieme per formare un corpo solo: si tratta di trovare, anche provvisoriamente, la testa di questo corpo, la città capitale, la quale sia l'incarnazione più verace della mente e della volontà nazionale; e che perciò raccolga dialetticamente quanto vi ha di buono nelle altre, in guisa che appunto per questo porga alle famiglie già riunite, ed a quelle che sperano l'unione, un elemento reale della loro vita propria, al quale esse si


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possano organicamente connettere; sicché tutte insieme riconoscano per la natura delle cose, essere quella determinata città la capitale nata del nuovo stato, di cui esse sono le membra.

Requisito essenziale della città che densi scegliere per capitale d'Italia, e che i suoi abitatori abbiano predominante la dote intellettuale di universalità, in guisa che essa città possa in modo conveniente rappresentare la vastità e complessività del genio della nazione, e porgere nel tempo stesso i punti di contatto, mercé i quali le svariale genti italiane possano collegarsi naturalmente con essa. Questa dote di universalità consiste nella rimozione di ogni tinta locale, la quale è sempre una limitazione, e quindi una negatività; e nella affermazione di ogni lalo reale del genio italiano, secondo le sue più particolari manifestazioni nelle diverse famiglie; cosicchè essa possa essere il centro dialettico che tutte le armonizzi, e perciò sia pure il centro naturale della vita comune. Noi siam di credere, che tra le città italiche Napoli eminentemente possegga questa prerogativa, e che perciò secondo le presenti condizioni essa sia la capitale nata del nuovo stato. Per bene intendere che importi una città in quanto ha ragione di capitale, non basta considerarla individualmente, o meglio di per se sola. Questo modo di riguardarla sarebbe una vana astrazione, non rispondente alla realtà, perché la capitale forma realmente un sol tutto colla nazione cui presiede, sendo indissolubilmente congiunta con essa pe' vincoli del sangue, del genio nazionale, e perché foco della vita comune. Dunque per comprendere Napoli,

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deesi considerarla come capitale del popolo napoletano, e perciò vuolsi prima dare uno sguardo a questo, per farsi chiaro di quella. Noi diciamo: il popolo napoletano possedere la nota di universalità sopra ogni altro suo consanguineo.

Cominciamo dalle origini. La catastrofe della irruzione de' barbari, evento provvidenziale per preparare la futura unificazione del genere umano, produsse tra tanti questo bene supremo, di avere cioè fatto perdere a poco a poco colla mescolanza de sangui tanto alle nazioni conquistatrici che alle conquistate, quella precisione e durezza di lineamenti della complessione così fisica come morale di esse. Quelle, aspre fattezze, che distinguevano le diverse nazioni, frutto dell'isolamento quasi completo in cui aveano lunga pezza reciprocamente vissuto, se non del tutto sparirono, come noi potevano, sensibilmente si ottusero e raddolcirono. I Germani di Tacito, i Callidi Cesare erano bene altra cosa che i Francesi e i Tedeschi moderni; e ciò non per la civiltà cresciuta, ma perché la miscela de' semi, ed una vita meno segregata hanno profondamente modificata la natura celtica e la teutonica. Traballi i Germani ed i Romani correva a quei tempi una differenza fuormisura più profonda di quella che non corra a' nostri giorni; e ciò ripetiamo non dipendere dalla sola coltura: perché se questo fosse, avendo le dette nazioni proporzionalmente in quella progredito, la differenza relativa dovrebbe rimanere la stessa in proporzione, il che non è. Però questa permischianza di sangui sminuì ma non distrasse il carattere proprio di ciascuna, perché il principio

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innestato non vinse il nativo, altrimenti esse avrebbero cessalo di esistere come singole e distinte nazioni: il principio proprio che abbraccia il genio, la realtà ideale, il movimento vitale di ogni nazione prevalse in ciascuna, e le serbò sempre il suo carattere particolare. Ora nelle provincie del napoletano, massime nelle orientali e meridionali, il sangue greco principava: è noto a tutti che esse aveano nome di Magna Grecia. Napoli poi certamente fu tra le città più antiche, si pure non primeggiò per l'antichità: le origini di Cuma, la quale ne pare un precedente, si perdono nella notte de tempi; cosicché Napoli, che probabilmente da quella derivò, benché per se stessa antichissima, fu delta città nuova, come suona il suo nome. Sangue greco scorre nelle vene a' calabresi, agli abitanti della Campania, della Lucania, ed anche a quelli delle Puglie, benché men puro, attesa la lunga dominazione longobarda, e più per l'innesto del sangue saraceno. Or non ha d'uopo di dimostrazione, che i greci per lo lato intellettuale furono il popolo più universale dell'antichità, come ne fan fede indubitata l'arte, la letteratura e la filosofia greca; le quali benché nate in Grecia propriamente o nella Magna Grecia, sono uno specchio in cui si riflette tutto l'uman genere, appunto per la idealità loro, essendo la universalità dote propria della idealità. La vena universale de greci si esercitò tanto nell'arte, quanto nella filosofia, e nella politica, che ne dipende; nella Magna Grecia però si determinò soprattutto come filosofia e politica: l'arte non uscì fuori della Grecia; e comunque i monumenti sopravvissuti alle ingiurie degli uomini e del tempo, ci attestino non

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avere scarseggiata la vena artistica anche tra gl'italo-greci, non pertanto non e questo il lato predominante della loro coltura. La scuola italica, come la chiamano, primeggia pel triplice lato teologico, morale e civile; i cui più illustri rappresentanti furono Pitagora ed i pitagorici; i quali toccarono nelle civili discipline tanta eccellenza, che i Romani per dare una origine venerabile alle loro leggi, inventarono la favola di averle Numa apparate da Pitagora. Tale ragionamento fondalo sulle origini, dovrebbe per lo meno soddisfare tutti coloro che prendono sul serio la dottrina politica delle nazionalità. Questa universalità redata da' greci, la quale sposala alla natura italica, divenne principalmente teologica, morale e civile, smettendo in gran parte il lato artistico, è la noia del popolo napoletano: nota essenziale, incancellabile, che si è perpetuata a traverso de secoli, e delle fortunose vicende politiche, che il regno ha subite più di qualunque italiana provincia; ed è la chiave per ispiegare il movimento intellettuale e civile di questa parte della penisola.

La connaturata universalità della indole del popolo napoletano trovò nella sua storia favorevolissime condizione per venire in fiore. I caratteri locali e nazionali divengono più aspri e taglienti a misura che un popolo ha vissuto appartalo, e però meno in comunicazione con gli altri popoli; quando i suoi costumi, le sue leggi, il suo modo di vivere si svolgono per un movimento interiore della sua propria natura, con nessuna o poche perturbazioni nascenti dall'azione degli altri popoli sovra esso, sieno queste violente come le guerre, o parifiche come il commercio.

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È risaputo come i Romani, benché tenacissimi di carattere, rimisero gran parte della romanità primitiva dopo le guerre puniche e di Pirro, e dopo i commerci esercitati con Cartagine e colla Grecia. Delle famiglie della nazione italiana una vita svolta organicamente al didentro l'hanno avuta quasi tutte, mercé una certa stabilità di governo, o almeno stabilità di elementi governativi indigeni. Venezia mantenne il suo stato di repubblica oligarchica fino alla sua disgraziata cessione all’Austria: il Piemonte ebbe, e giustamente sen vanta, una unica dinastia di principi valenti, sotto i quali crebbe il suo genio militare: Genova corse una vita interna costante, benché alquanto meno durevole: la Toscana fu e vero agiatissima, ma gli elementi che in essa si moveano erano del tutto indigeni, e paesana fu pure la malaugurata dominazione medicea: molto più varie fortune patì il Milanese, il quale soggiacque più di una volta al dominio straniero, ed in questo ha maggiore somiglianza con Napoli. Questa estrinsecazione dinamica di vita in ciascun popolo diede ad ognuno contorni più o meno saglienti ed esclusivi; d'onde quello spirito di esclusione, che chiamano municipalismo, la cui intensità si può determinare in ragione diretta dell'isolamento di ciascuno, e del suo sviluppo organico meno perturbato da cause esterne. Laonde il carattere più esclusivo, e vogliam dire municipale, è quello de' piemontesi; e qui facciamo appello al giudizio profferitone dal Gioberti, che non può essere certamente tassato di poco amore, o di poca notizia del suo paese; dopo viene il veneziano, indi il toscano, ultimo il milanese.

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Ma chi volge uno sguardo alla storia del regno non può non maravigliare delle gravissime vicissitudini di mutabile fortuna, che sostenne, tutte dipendenti da cause estrinseche. Le dominazioni si succedettero le une alle al Ire, come i fiotti di un mare tempestoso: goti, longobardi, greci, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnuoli, tedeschi, spagnuoli di nuovo, e poi francesi, e finalmente spagnuoli naturalizzati napoletani: non vi ha che inglesi e russi i quali non abbiano alla loro volta dominate queste regioni: anche gli ungheri ci entrano alcun poco. Notisi che nessuno tra tanti principati fu nativo, ma tutti esterni, portatici dagli eventi delle guerre o delle conquiste, salvo lo svevo. Queste profonde rivolture e subitanei mutamenti di governi esterni, ne quali ogni nuova signoria portava usi, leggi, armi proprie, lavorarono sì che il popolo napoletano non ebbe mai fattezze rigide ed esclusive: il nuovo s'innestava sempre sul vecchio, il quale se lo tirava nella sua sostanza, per servirmi di una frase dantesca; perché giova avvertire, che la novella potestà non avea il vezzo di distruggere l'antico, essendo solo contenta di aggiungervi qualcosa del suo. Così queste violente mutazioni, generale sempre da cause estrinseche, nocquero in questo, che il popolo napoletano passando a traverso di esse, per le quali era in certo modo obbligato se non a mutare vita e costumi, almeno ad incalmare a' suoi i costumi e le leggi altrui, non ebbe una fisionomia propria e singolare. Ma in ricambio per quanto perdette dal lato della particolarità, altrettanto guadagnò da quello della universalità del carattere; perocchè questo essere continuamente aperto agli esterni, questo

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passare frequente da una in altra mano, questi ripetuti sperimenti di fortune e di nazioni diverse, divennero condizioni sommamente favorevoli a che la sua vita intellettuale non si fosse ristretta nelle angustie de confini materiali dello stato, ma si fosse allargata ad abbracciare la università degli uomini viventi al di fuori di esso; e col cogliere il fondo comune delle umane cose sotto la differenza degl'involucri esteriori, perfezionasse la prerogativa del proprio intelletto, nato ad universaleggiare. Cosi per questo attendere più alla sostanza delle cose che ad altro, i napoletani han curato assai poco di chi li governava, ciò subivano come necessità: solo voleano essere retti bene, fosse stato qualunque il governante. In tal guisa il loro carattere si spogliava di qualunque Unta locale; onde essi furono sempre nella vita civile il popolo meno municipale; ed il concetto nazionale prima si sviluppava in lui, ed in più ampie proporzioni che negli altri popoli della penisola (1).

L'indole propria derivante dal sangue, favorita a maraviglia dagli eventi, spiega a perfezione il movimento intellettuale di questo popolo, ed i prodigiosi incrementi da lui porti alla civiltà universale. Certo di tutte le discipline si concederà facilmente che le più universali sieno la teologia, la filosofia, la giurisprudenza: la prima, che ha per obbietto la verità infinita in quanto ci è nota per rivelazione, come principio e fine sovraintelligibile del mondo; dalla quale rampolla dirittamente la scienza morale, che comprende tutte le umane azioni nell'intima loro essenza,

(1) Il Gioberti ha più volte notato questo fatto: di ciò altrove.

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cioè in quanto hanno per obbietto il Bene assoluto, che è Dio, o se ne dipartono; la seconda, che considera Dio, T uomo, il mondo in quanto sono obbietto della razionai cognizione, e che perciò appresta i principii supremi a tutte le altre scienze; l'ultima finalmente, che abbraccia la società umana considerata come comunanza civile delle utilità materiali, e che perciò concerne le azioni umane esteriori in quanto a questo consorzio civile si riferiscono; e ministra i loro principii al diritto pubblico nazionale ed internazionale, al diritto privato, ed al diritto criminale. In tutte tre queste somme discipline il popolo napoletano fu principe tra suoi congeneri; ne qui mentoveremo se non quei pochissimi, che veramente sursero a tanta altezza da non temer paragone.

Nelle teologiche discipline nomineremo solo Tommaso d'Aquino, come quegli il cui potentissimo anzi maraviglioso intelletto, trasfuso nelle sue opere, dominò il profondo e moltiforme movimento intellettuale del medio evo, non solo' in Italia, ma in tutto il mondo civile dove era penetrata la luce dell'Evangelio. La Somma Teologica, per non parlare delle altre sue opere, diventò il codice teologico, metafisico, politico, morale, giuridico di quella età. è notorio non essere infrequente negli scrittori del tempo il riportarsi afta opinione di S. Tommaso, anche nella risoluzione di quistioni di diritto privato, segnatamente di quelle che avevano attinenza più vicina alla morale. Chi dunque misurerà gli influssi dell'Aquinate negli acquisti della civiltà universale? E qui pure nasceva il più dotto de' suoi cementatori, il cardinal de Dio, più noto sotto il nome del Caietano, il quale teologo e filosofo insigne, imprese a dichiarare la mente del suo sommo concittadino,


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con comenti per la loro inestimabile eccellenza resi universali, e che salirono in grande autorità. E quando l'umano intelletto, stanco del giogo della scolastica, la quale, per l'abuso fatto del metodo del suo gran fondatore, si corruppe in un labirinto di definizioni, di suddivisioni ed altri sottigliumi, che lo inaridivano ed opprimevano, volle liberarsene, sorgeano tra noi a brevi intervalli tre sommi: Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, acri combattenti contro lo scolasticismo ancora in fiore appo i teologanti; e che per sete di vero non temettero di affrontare con magnanima fortezza ogni specie di persecuzione. Telesio obbligato a nascondersi; Bruno affrontando intrepidamente la morte; e Campanella con incredibile costanza 27 anni di prigione, dal fondo di cui non mancò di scrivere in difesa del grande Galileo, tradotto innanzi al tribunale della inquisizione: tanto poteva in quel cuore ardente l'amore della verità! Merita più ampia considerazione il Bruno, il quale dimostrò quanta sia la grandezza dell'ingegno napoletano anche nella via dell'errore; perocchè egli colla dottrina sulla sostanza fu il precursore dello Spinoza (l);e preluse con quella dell'armonia de' contrarii alle ultime filosofie germaniche, come i tedeschi stessi riconoscono (2). Ne tenghiamo conto di Ambrogio di Lione, di Simon Porzio, del Paleario e di Giulio Cesare Vanini, de' quali i due ultimi patirono per la stessa cagione la tragica fine del Bruno.


Finalmente quando la filosofia subbiettiva,

1.Vagner, Introd. Alle op. del Bruno. Lipsia, 1830.


2.Lo Schelling intitolò dal Bruno il suo dialogo sulla filosofia della natura. Sulle attinenze del Bruno con lo Spinoza, lo Schelling e l'Hegel vedi il Bartholmess, Giordano Bruno, tomo 2, p. 402 e se. Paris, 1847.

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figliuola del Cartesio invadeva tutte quasi le menti de pensatori europei, Napoli unicamente offeriva tre uomini insigni, che si opponevano soli alla piena irrompente: Paolo Mattia Doria, Tommaso Rossi(1), ed il massimo tra tutti Giambattista Vico (2). Che dire di quest'uomo immenso? la sua immensità rifulge da ciò, che sono ormai 130 anni circa dacchè le maravigliose sue opere sono divulgate; i più potenti ingegni di tutte le nazioni hanno intraveduta la importanza di esse, ma le sue idee scientifiche sono lungi dall'essere gustate da molti, come i suoi principii giuridici e politici sono tuttavia lontani dal rinsanguinare le vita de' popoli; segno evidente che l'umanità è ancora impreparata a quella scienza ed a quella politica il Vico, il quale per alcuni rispetti può dirsi il Colombo ed il Cuvier delle scienze sociali, come il Platone per altro verso, contiene in se il germe di una civiltà, di cui forse appena spuntano gli albori. Chi lo vuole filosofo, chi giurista, chi erudito etc.; ma questo è a vederlo solo da un lato particolare, perché il Vico veramente raccoglie in sè, e nelle più vaste proporzioni,

(1) Le molteplici opere del Doria, tutte gravissime, sono quale più quale meno conosciute. Assai meno note quelle del Rossi, intelletto stupendo, il più grande tra platonici moderni dopo il Vico. Alla carità patria del benemerito Angelo Beatrice si deve l'avere dissepolto dall'oblio in cui erano, le opere di uno de' più alti intelletti dell'umanità.


(2) La memoria del Vico è giaciuta finora inonorata. Testè gli si rizzava una statua. Ma le sue ceneri gloriose riposano ancora in un oscuro angolo della chiesa de' Girolamini. Sarebbe tempo che i napoletani pensassero ad innalzare un monumento al più grande de' loro concittadini, e rimediare con questo atto di patria carità al rango oblio. I forestieri chiamano Napoli la patria del Vico; la loro voce è un accusa immanente ad una trascuranza, che senza somma vergogna nostra, non può protrarsi di vantaggio.

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il teologo, il metafisico, il filosofo della natura, della storia, del diritto, l'erudito ed il giureconsulto; e sotto questo ultimo aspetto meriterebbe, assai meglio del Grozio, il nome di giureconsulto del genere umano. Non contiamo per nulla ne il Pontano, né Matteo Acquaviva, ne Agostino Nifo, né il Capasso, né il Cornei io, né il Longano, né il Genovesi, né Io Spinelli, né il Colecchi, né il venerando Galluppi, nomi per altro assai rispettabili nelle fìlosofiche e morali discipline. In ordine poi alle scienze civili e politiche il popolo napolitano si presenta come gigante fin da' primi tempi dell'epoca moderna. Entra innanzi a tutti l'Aquinate pel celeberrimo trattato de Regimine principis, che primo porse l'idea de' governi misti di libertà e di principato; e forse trovi in esso concetti più pellegrini e profondi che nella più parte degli scrittori politici posteriori; e più sugo di sapienza politica, che in tre quarti dei legislatori moderni. Pier delle Vigne, Roffredo Beneventano, Bartolomco da Gapua, Taddeo da Sessa, Luca di Penna (1), e queir Andrea d'Isernia, trionfatore di Baldo, soprannominato princeps omnium feudislarum, e più gloriosamente ancora, utriuusque iuris monarcha, sono veramente lumi splendidissimi della giurisprudenza, di cui promossero lo studio con gli scritti e con gl'insegnamenti. Nostro è il dottissimo Alessandro d'Alessandro (2),

1.Questo giureconsulto fu singolarmente riverito dal principe de' giuristi francesi Carlo Molineo, che lo chiama Doctor partienopeus.


2.L'opera Genialium dierum del d'Alessandro sali in tanta riputazione, che ottenne due edizioni in Olanda cwn notis variorum, tra cui Dionigi Gotofredo ed il Tiraqueu. La sua eruditone era tanta, che a' suoi tempi, in cui la giureprudenza non guardavasi generalmente sotto un aspetto sì ampio, fu noto più come erudito che come giureconsulto.

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il quale primo imprese ad illustrare il diritto romano co' sussidii della filologia e della storia; aprendo innanzi tutti quella via nella quale si segnalò l'Alciati, e per cui fu fatto immortale il nome del Cuiacio. Da questi sommi fino adì nostri quasi, vi ha una seguela non interrotta di egregi giuristi, che riesce impossibile il noverare (1). Ma non deesi lasciare indietro il famoso Matteo degli Afflitti, e Francesco d'Andrea (2), incomparabile per varia e ricca erudizione, e per irresistibile eloquenza, Né voglionsi trasandare i nostri innumeri forensi, tra' quali alcuni celebri per fama europea, e di universale autorità nelle decisioni delle controversie, come il presidente de Franchis, il reggente de Marinis, e il cardinal de Luca; le opere de quali, soprattutto dell'ultimo, comechè oltremodo voluminose, hanno più volle meritalo la ristampa, non solo appo noi, ma presso gli esteri, atteso il grande credito in cui erano. Né solamente i nostri giureconsulti e i forensi, ma gli stessi nostri tribunali asseguirono fama universale.

Il Capone, nel suo Discorso sulla storia delle leggi patrie, rivendicò all’uomo illustre il grado che gli è dovuto come giurista.


1.Il Giustiniani ha tessuto un catalogo de' nostri giurisperiti e delle loro opere, che occupa 3 volumi in 4. °


2.I meriti di questi due luminari della scienza delle leggi, e l'influenza generale che ottennero sono ampiamente fatti aperti dal Giannone, Si or. tir. toni. 5, p. 489 e tom. 4, p. 434, Aia 1753. Del primo basta dire, che lo stesso d'Andrea non dubitava di chiamarlo il più dotto de' giureconsulti che erano stati prima di lui, e di quelli che furono dopo. Del d'Andrea poi il Giannone accetta l'opinione, che la Francia non sarebbe così altera del Cuiacio, se egli avesse potuto condurre a perfezione le sue opere già pubblicate, e pubblicare quelle che meditava. Il giudice era certo competente. La sua fama in Europa era straordinaria: sono noti a tutti i versi del Redi. Il Burnet ed il Mabillon, tra gli altri, parlano di lui con lode singolarissima.

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È nota la gloria di cui rifulse il nostro Sacro Regio Consiglio, specie di areopago napoletano, le cui decisioni erano ricevute in Europa come oracoli di giurisprudenza (1), e nella cui maestà il Vico trovava un gran vestigio degli antichi senati eroici (2); composto da' più spettabili giureconsulti, e per lo più preseduto da uomini dottissimi, come Francesco Merlino e Gaetano Argento (3). E qui occorre toccare di una nostra unica gloria. L'idea di considerare tutti gli uomini come concittadini di una sola città, il mondo, nacque tra noi. Quando in tutti gli stati d'Europa gli stranieri avean ragione quasi di nemici, secondo l'antico significato del vocabolo hostis, ed il diritto d'Albinaggio (4) era parte integrale d'ogni legislazione, solo la nostra lo ripudiava, pareggiando la loro condizione a quella de regnicoli. Così noi possedevamo già da molti secoli quello che parve una grande conquista della legislazione civile, nata dalla francese rivoluzione; la quale non giunse nemmeno all'ampiezza della nostra, più generosa e più universale.

(1) Esse erano tenute come le più eccellenti sovra quelle di tutti i tribunali d'Europa. Giannone op. cfl. tom, 3 p, 491. È volgare il detto del Fabro: Auctoriias S, B. Constiti me terrei,


2.Scienza Nuova ìib. V. p. 508. Napoli 1744,


3.Chi volesse procacciarsi un'adeguata notizia della continuità tra noi della giurisprudenza, de' sommi ingegni che la coltivarono, della influenza che i loro ammaestramenti e i loro scritti esercitarono nell'universale, può largamente provvedere al suo desiderio mercé la grande opera del Giannone, in cui questa materia è svolta con acume ed erudizione veramente maravigliosa.


4.Per chi noi sa, questo diritto odioso consisteva principalmente in questo, che gli stranieri dimoranti in altro stato erano incapaci a ricevere ed a trasmettere per successione. Onde il principio dell'antico dritto francese: l'ètranger vit libre e tneurt serfen France. In altri paesi era accompagnato da restrizioni anche peggiori.

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E quando presso quasi che tutte le nazioni la giurisprudenza era uno studio piuttosto di particolari, anziché una scienza acconciamente organata, il Gravina pubblicava il suo insigne lavoro, Della origine e progresso del diritto; Giambattista Vico le inarrivabili opere dell'Unico principio e fine del diritto universale, e della Costanza del giurisprudente; ed il Filangieri la Scienza della legislazione, opera che, sia quanto si voglia inferiore a queste ultime, è però ammirabile perché dettata da un giovine morto a 37 anni, e perché piena di vedute nuove, pellegrine, indipendenti, svariatissime, e foriere de' progressi civili che prossimamente seguirono.


E non è questo il solo lato in cui risplende il genio civile de' napoletani. L'onore di avere dato un organismo alla scienza del dritto canonico, ci appartiene (1). E di più vuolsi segnatamente attendere ad un altro lato importantissimo ed arduo, che risalta nella vita della napoletana giurisprudenza, quello cioè che versa sulla diffinizione de' confini, cosi difficili a disegnare nettamente, delle due potestà laicale ed ecclesiastica, o come comunemente dicesi del Sacerdozio e dell'Imperio. 0 la consideri nelle opere degli scrittori, cominciando da Roffredo beneventano che scrisse un trattato in ius pontificium, e da Pier delle Vigne che ne dello un altro De potestate imperatori et papae, proseguendo fino a tempi poco rimoti da noi, olà guardi nelle decisioni del foro, la giureprudenza nostra, salvo rare eccezioni, attese costantemente ad investigare e distinguere la natura e le attribuzioni de due poteri,

(1) «Deesi il beneficio, o dell'avere ridotto la scienza canonica in un corpo regolare di dottrina principalmente a' giureconsulti del regno» di Napoli. Botta Stor. d'Ital, contin, dal Guicc. Lib. XXXVIII

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propugnando acremente l'integrità delle regalie; onde per mezzo de' giureconsulti, della Magna curia, del Consiglio Collaterale ( l') e del Sacro Regio Consiglio vieii fuori la lunga lotta civile, che i principi di Napoli sostennero con Roma, la quale, come tutti sanno, ebbe pretensione che il Regno fosse un feudo di S. Pietro; e da noi appresero le altre genti italiane questo punto capitale della dottrina civile (2). Recentemente quel vasto e potente ingegno del Giannone concepiva ed attuava l'idea di una Storia civile del regno; concetto pellegrino e fecondo, e pel quale il grande difensore del diritto regio e civile, ed il precursore delle susseguenti riforme nella polizia ecclesiastica, le quali con ammirazione de popoli civili prima vennero a luce tra noi, soffrì il duplice martirio della prigionia e dell'esiglio. né il diritto pubblico interno, o come Tuoi dire amministrativo, ebbe cultori meno eccellenti; e lieti frutti se ne colsero: i nostri ordinamenti amministrativi erano assai buoni in comparazione di quelli delle altre nazioni, come ne fan fede le nostre prammatiche, ed i numerosi e pregevoli scrittori su queste materie, che illustrarono il nome napoletano. Anche il diritto criminale non veniva trascurato, benché avuto in minor pregio del civile: e senza mentovare il Gara vita, l'Alfano (3)

(1) Sui lavori in questa materia del Consiglio Collaterale, vedi il Giannone, Stor. eh. t. A. p. 393. Questo collegio non era propriamente un tribunale, ma una specie di consiglio di stato.


2.«Informandosi ad esempio di Napoli le altre università d'Itaci lia, presero a trattare col medesimo metodo il medesimo argomento. Botta op. cit. Lib. XXXVIII.


3.Il Renazzi lo cita come il migliore scrittore di diritto penale del suo tempo.

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e nessuno degli antichi, basta il nome del Briganti, e sovra tutti quelli del Filangieri e di Mario Pagano, che chiamerai con ragione i difensori della umanità; i quali precorrendo a' tempi, preludevano alle riforme profonde, che poi furono messe in atto dagli uomini della rivoluzione francese, su quali esercitarono non poca influenza. né faremo ricordo di altri nomi più recenti e meno noti, salvo però del Niccolini, le cui opere continuamente ristampate in altre provincie, provano abbastanza il credilo in cui sono salite.


Nelle economiche abbiamo la gloria di avere fondata la scienza (1); e la più parte de" nostri scrittori hanno preceduto anche i maggiori economisti stranieri in molte capitali dottrine. Così quel robusto ingegno di Antonio Serra, che può chiamarsi il creatore della scienza (2), per la sua teorica della moneta entrò tanto innanzi alla più parte de susseguenti scrittori, che solo dopo lunghi errori ed amare sperienze, si è tornalo a quello che il valente napoletano avea gran pezza innanzi insegnato. Il Broggia fu il primo a dettare con chiarità e sodezza i principii sui tributi (3). Il Galiani allargò la teoria del valore.

(1) ci Le opere di Scarnili e di Davanzali non furono che i crepuscoli di una scienza, che doveva avere la sua aurora in una parte d'Italia, dove era già apparsa quella della filosofia moderna.»


Pecchio. Stor. dell'econom. pubb. in ltal. pag. 57. Lugano 1829.


2.«Questo stesso regno adunque, che ebbe la gloria di dare il«natale a tanti illustri filosofi, ebbe pure la fortuna di produrre il fon datore della scienza economica. Questi è Antonio Serra.» Pecchio op. cit. p. 59.


3.«Quello de' tributi specialmente, se si considerano i tempi in cui fu scritto, è un libro che contiene la maggior parte de' principii, che vennero poscia confermati dal consenso di tutti quelli che scrissero su questo ramo di economia pubblica.» Pecchio op. cit. p. 81,

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Il Genovesi diede corpo ed organismo alla scienza; e fu il primo in Europa ad insegnarla pubblicamente, perché nella università di Napoli ne fu fondata la prima cattedra (1). Il Briganti surse contro gli errori del Rousseau e del Mably, e purgò le dottrine economiche. Il Caracciolo, il Palmieri, lo Scorfani, il Cantalupo gravemente scrissero in molti rami di economia e di amministrazione. Il Filangieri primo, e poi più ampiamente il Delfico, levandosi contro il comune pregiudizio, furono i banditori ed i promotori della libertà del commercio, quando in tutta Europa il sistema protezionista, avvalorato dall'autorità de' più grandi economisti inglesi e francesi, trionfava. Così anche la invenzione di questa dottrina, che non potea nascere se non in menti capaci d'innalzarsi al concepimento dell'unità del genere umano e della naturale universal società di tutti gli uomini, sta testimonio della grandezza ed universalità dell'ingegno napoletano (2). E il nostro Jorio concepì l'idea di una storia generale del commercio tra le antiche nazioni e tra le moderne, precorrendo in massima parie, e vincendo per la vastità del tema, la grande opera dell'Heeren.

Raccapitoliamo. Era nostro intendimento di provare la nota di universalità della tempra intellettuale del popolo napoletano, soprattutto nelle scienze ideali e ci vili, ed abbiamo

1.Pecchio op. cit. p. 125.


2.II Pecchio op. cit. p. 223 narra con singolare compiacenza di avere udito nello sessioni del parlamento inglese del 1824, 25, e 26 i signori Hnskisson e Robinson impugnare le tariffe protezioniste con gli stessi argomenti del Filangieri. E ciò cinquanta anni dopo quel sommo!

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mostrato in teologia dominare sull'universo cristiano le opere dell'Aquinate; in filosofia segnare i passi progressivi dell'intelletto umano, ed aprirgli vie nuove ed intentate mercé il Telesio, il Campanella, il Bruno, il Vico; nelle scienze sociali agevolare il cammino della civiltà con le opere del Filangieri e del Pagano; nella giurisprudenza civile, ridurla ad organismo, descriverne la storia, cogliere il concetto della universalità giuridica di tutti gli uomini, lavorare attesamente a determinare ì contini e Io relazioni tra loro delle potestà civile ed ecclesiastica f nelle economi che aprire il cammina della scienza e stampar vi splendide ed immortali vestigio.

Ecco il carattere di universalità per coi primeggia la famiglia napoletana tra le altre consorelle. Con ciò non voglie mo punta derogare a' meriti insigni, che anche in coltivare tali somme discipline esse giustamente si acquistarono. Certo son negheremo i grandi meriti loro nelle teologiche: chi non sa le ammirande fatiche di un Bellarmino, di un Pallavicino e de altri molti? Solo. vogliamo dire: che anche le opere di Pietro Lombardo, e quelle di Anselmo e di Bonaventura, miracoli pure essi dell'ingegno umano, non esercitarono quella universale influenza delle opere dell'Aquinate, le quali con quelle del grande Africano, furono gli oracoli su cui fondarono i padri tridentini le loro decisioni. né contrasteremo la gloria che nelle filosofiche discipline ottennero il milanese Cardano, il mantovano Pomponazzi, l'aretino Cesalpini, il Pico mirandolano, il fiorentino Marsilio, e la illustre accademia platonica da lui fondala, ed altri molti.

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Bensì vogliamo notare, che questi egregi furono piuttosto dotti ed ingegnosi il lustratori de' sistemi altrui, massime de filosofi greci, anzichè innovatori originali, che abbiano fatto progredire la scienza, e che rappresentino i punti culminanti nella via percorsa dall'umana mente; onde per questo rispetto sottostanno di gran lunga a filosofi napoletani. né ignoriamo i grandi servigi resi allo studio della giurisprudenza da molli illustri giureconsulti italiani, principalmente dal fiorentino Accursio e dalle accademie celeberrime di Bologna, di Pisa, di Milano; ma solo vogliamo significare, che la più parie di que'valenti non fondarono scuole durevoli, che si fossero perpetuale ne' sècoli vegnenti mercè non interrotta tradizione, vanlo unico di Napoli; né ebbero, comunque eccellenti in sommo grado, quella generale autorità ed influenza de giuristi nostrani, come ne fan fede le numerose impressioni delle costoro opere, non pure in Ilalia ma fuori ancora; e come accuratamente narra il Giannone in tutto il corso della stupenda sua storia. Oltrechè la più parte di que' sommi fu principalmente contenta al solo diritto privato, senza entrare di proposito nel diritto pubblico, o particolarmente travagliarsi a determinare le provincie delle due potestà. Ci si obbietterà forse il Sarpi? ma questi, come ognun sa, fu di credenze cattoliche assai dubbiose, e fu acceso da un odio cordiale verso tutto ciò che sentiva di curia romana (1); dove che la lunga e costante opposizione fatta al potere ecclesiastico da' giuristi e

(1) Vedi l'imparziale giudizio che sul Sarpi ha dato il Ranke, benché luterano e perciò non sospetto, nella sua Storta del Papato, in cui gli consacra appositamente un'appendice; ed anche quello non meno irrecusabile del Botta, op, cit. Lib. XXXVIII

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dal foro nostro fu temperala, prudente, sempre serbando il rispetto alle somme chiavi, come a buoni cattolici conveniva (i).


Ma l'ingegno napoletano non sarebbe universale se non fosse versalo negli altri rami dello scibile; e qui di volo toccherò de nostri meriti.

Dopo le discipline summentovate l'altra che presso noi ha avuto un grande numero di prestantissimi cultori è la filologia, intendendo sotto questo nome non pure la scienza delle lingue dotte, ma benanche 1' antiquaria. A parte quel sole fulgidissimo del Vico, filologo senza pari, il quale aperse la via, innanzi a lui inesplorata, perché la filologia si sollevi a scienza, e cessi dall'essere un'accozzaglia di erudite ricerche senza organismo, senza principii certi, e però spesso tra loro ricalcitranti. Ma volendo discendere a minore altezza, incontri tra noi nomi chiarissimi ed in istima assai grande nell'universale. Tali sono quelli del frate Barlaamo maestro in greche lettere al Peirarca, e di Leonzio Pilato che lo fu al Boccaccio; e dopo quelli i più recenti del Campolongo, del Martorelli, del Tignami, dell'Egizio, del Mattei, del dottissimo Camillo Pellegrino, del Lasena e del sommo Alessio Simmaco Mazzocchi cognominato totius Europae miraculum; e

(1) L'opposizione fatta da' giureconsulti e dal foro napoletano alla cuna romana fu dialettica e senza esagerazione: doveche altrove trasmodò. Il Giannone discorrendo della lotta stessa sostenuta da' giureconsulti di altri paesi, non esita a dire (e la testimonianza non ò da ripulsare) che costoro non seppero tenere né modo né misura, dando in una estremità opposta, fino ad attribuire al re certe giurisdizioni proprie del papa e talora spingendosi tino a menar le mani su' domini. Storia civile, tom. 3, p. 209. Il Botta dice lo stesso. Op. cit. L. XXXVI».

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tacciamo del D'Anna, del Daniello e di altri infiniti. Gli cavi di Pompei £ di Ercolano porsero abbondantissima materia agli eruditi ingegni; ed unicamente nostra è l'arte di leggere ne' papiri; onde vi ha una successione continua di filologi dottissimi fino al Giampitti, al Rosini, al Jannelli, all’Avellino; ed anche oggi Napoli conta forse i più dotti filologi d'Italia. In quanto a ricerche storiche, salvo il Muratori, non vi sono nomi paragonatili al Baronio ed al Troya, le cui opere colossali saranno sempre l'ammirazione della posterità.

In ordine alle lettere, senza pretendere al primato, può il popolo napoletano gloriarsi di nomi sommi, onde nulla ha da invidiare altrui. Napoletano fu il Tasso, uno de' quattro nostri maggiori poeti. E vedi come egli straordinariamente partecipi alla prerogativa della universalità della sua g«n)e; egli tolse a subbietto de' suoi carmi le Crociate, forse il più grande evento politico del medioevo, che dischiude r Oriente all'Europa; e che fu veramente voce della Divisa volontà, che alla vecchia civiltà occidentale additò l'ultimo scopo dei suo cammino, cioè il conquisto morale dell'0rente, onde si compirà l'unificazione del genere umano; così il Tasso fu il vate, nel senso che i latini davano a questa parola, della rintegrazione nell'uman genere e della civiltà del mondo. Né Torquato fu solo grande nell'epica, ma fu lirico eccellentissimo e drammatico; e per dippiù prosatore senza pari, erudito sommo, in geometria valente, in filosofia dottissimo, massime nella morale, dove mirabilmente platonizzò. Ed a questo siamo contenti, senza volere far cenno di altri scrittori di polso ed eleganti che

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nelle varie provincie delle umane lettere non rimasero secondi a' più celebri scrittori de' migliori secoli, come il Sannazzaro, l'Ammirato, il Porzio, il Costanzo, Pandolfo Collenuccio, l'Angelio, Marco Mondo, il Taasillo, il Rota, ii Rosa, Galeazzo dia Tarsia; e quella Vinaria Cotenna che per altezza d'ingegno, copia di dottrina, ed illibatezza di costumi sta principe delle donne italiane; ed ultimamente il Coco, il Colletta, il Montrone; e il venerando Basilio Puoti, che fomentando lo studio del materno idioma, rinfrescò ad un tempo il buon gusto delle lettere, e l'amore della patria nella gioventù, di cui era tenero amico ed amore vole maestro.

Nelle scienze fisiche sottostiamo in verità ad alcune tra le famiglie italiane, e ciò consentaneamente alla tempra dell'ingegno napoletano, fatto più principalmente per le sublimi speculazioni delle scienze ideali, che per le indagini delle scienze osservati ve de fatti naturali. Noi non vantiamo né un Galileo, né un Torricelli, ne un Volta, ne un Redi, ne un Malpighi, glorie del genere umano: non però siamo cosi poveri da non entrare nobilmente per conto nostro in questa parte del movimento intellettuale d Italia. Nostro è Giambattista della Porta, la cui fama suonò quasi unica in Europa; il primo che gittò le fondamenta di quella dottrina ancora in culla, illustrala da' lavori del Lavater e del Gall, autori del capitale trovato della camera oscura, senza cui non sarebbe nfe il dagherrotipo, ne la fotografia (1);

(1) Il Libri, parlando del Porta e della sua fama, dice così: «Quante do il Porta muri a Napoli nel 1615 le sue opere erano state tradotte «in quasi tutte le lingue di Europa, ed anche in arabo» Histoire des scien. math. t. 4. p. 114.


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e foriero del Cartesio, per avere prima osservato le leggi della rifrazione della luce. Nostro e Giannalfonso Borelli, di cui non sai se in lui il matematico vinca il naturalista o questo quello, perocchè la sua dottrina è un felice connubio della una e dell'altra scienza, e che mediò che nell'accademia di Mompellieri si erigesse una cattedra per la dichiarazione della sua opera insigne Del molo degli animali. Possiamo gloriarci di Tiberio Cavallo, i cui lavori nelle fisiche, segnatamente intorno all’deliri cita, destarono l'ammirazione della Società reale di Londra; e cui si deve l'onore di avere iniziata 1' aeronautica, perché egli pubblicamente in Londra innalzò un areostata due anni prima che i fratelli Montgolfier l'avessero fatto in Francia. Sebastiano Bartoli contende al Galilei l'onore della invenzione del termometro. Nostro è quel chiarissimo lume di Fabio Colonna fondatore della geologia, e maestro in quasi tutti i rami delle fisiche: e nostri pure sono il Gioeni, il Donzelli, il Petagna; e il famoso Caolini, al quale si denno le più pellegrine scoverte sulla generazione de pesci; il Poli, il Delle Chiaie, principe in anatomia comparata, il sommo botanico Tenore, ed altri moltissimi. Ed è pure nostra la gloria della scuola medica salernitana, famosa sopra ogni altra a suoi tempi, e tuttora donnissima dell'attenzione degli studiosi delle mediche discipline; de quali non patimmo mai difetto anche ne' tempi posteriori, e che coi loro insegnamenti, la pratica, e gli scritti le avanzarono non poco, tra' quali puoi contare nomi assai lodali, come Luca Tozzi, Lucantonio Porzio, Tommaso Cornelio e quel miracolo di dottrina di Marco Aurelio Severino, ad ascoltare il quale traevano da lungi le genti, disertando le più

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illustri università italiane e straniere (1). Aggiungi il Baglivi, l'Oliva, il Maranta, il Cirillo, il Cotugno, ed altri di minor fama. né andiamo privi di lode nelle matematiche e nell'astronomia. Lasciando da parte Archimede, Filolao, Euri lo, Arisleo, Archila, Timeo egli altri insuperabili antichi nostri, tra' moderni oltre del sopralodato Borelli, di cui non sono piccoli i meriti in queste discipline (2), fu in esse Talentassimo il Pontano (3); ed il Valerio meritò di essere chiamalo dal Galilei grandissimo geometra; sopra tutti si levò Francesco Maurolico messinese, che fu da' coevi e da' posteri salutalo col nome di secondo Archimede (4). Si deve al calabrese Luigi Lilio la riforma del calendario (5); e Geronimo Tallavia ebbe la gloria di avere insegnato prima di Copernico il movimento della terra, rappiccando la dottrina del suo conterraneo Filolao (6). Il Fontana arricchì di nuove scoperte la scienza: ed a questi nomi egregii fanno degna compagnia, tra gli altri, quelli de] Glorioso, del Monforte, di Giacinto Cristoforo, de fratelli Martini; e il Fergola poi nelle menti de' matematici antichi si profondò in guisa, da divinarne, cosa incredibile, i metodi e le vie.

(1) De Renzis, Storia della medicina, tom. 4, p. 26. Chi ne avesse vaghezza, può vedere in questa dulia opera quanto le scienze fisiche e mediche deggiano a' napoletani.


2.Sui meriti matematici del Borelli vedi Monlucia, Histoire des math. tom. 4. p. 235.


3.Libri, op. cit. tom. 3. p. 403.


4.Libri, op. cit. tom. 3 p. 102 e 108.


5.Libri op. cit. tom. 4. p. 39.


6.Tiraboschi. Storia della leti. Hai. tom. 3. p. 369. Thom. Cornel. Proyinas. de Univers. p. 124, Neap. 1688.

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Nella nautica non vantiamo certamente ne il Colombo, né Marco Polo: però nostro è Flavio Gioia, senza cui ne l'onore l'altro sarebbero stati; e nostra è la gloria marittima di Amalfi, fattasi celebre e doviziosa per le navigazioni orientali (1), e istitutrice del diritto marittimo. Ne questo solo, ma una tradizione illustre si è perpetuata fino a' giorni d'oggi nella marina napoletana, non meno per la parte commerciante che per la militare. I nostri marini hanno fama di essere ardili ed intrepidi, ma prudenti nel tempo stesso; e vantiamo anche noi nomi famosi per le armi, cominciando da Ruggero di Loria, a terminare al Caracciolo, al Gravina, tino degli ammiragli combattesti a Trafalgar, ed al Bausan, l'intrepido comandante della Cerere; e leste possedevamo la maggior forza marittima in Italia, o che voglia considerare il numero e la portata de' legni, o la bontà degli equipaggi, o l'alta capacità degli officiali che la comandavano. Alla marina militare napoletana mancò l'occasione di fare grandi cose, l'attitudine non già; nondimeno dal saggio datò novellamente sotto le mura di Gaeta, si può argomentare di che sarebbe capace se l'occasione si porgesse (2),

Per le armi nemmeno entriamo per piccola parte nella civiltà italiana. Abbiam dato i nostri eroi alle crociate, abbiam esibito nelle epoche posteriori il modello delle cavalleresche virtù in Ettore Fieramosca; ed è trita la continua tradizione del valore napolitano ne' singolari abbattimenti. Nelle guerre moltiplici combattute dei nostri

(1) Giannone Storia civile tom. 4. p. 525.


(2) V. il rapporto dell'ammiraglio Persano del 15 febbraio 1861.

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principi abbiamo a gloriarci di parecchi illustri capitani, e di valorosi soldati. Sotto il governo vicereale del Monterey, in cui il regno era assai stremo di popolazione, circa 54. mila napoletani sotto duci napoletani combatterono nello stesso tempo ne' Paesi Bassi, in Lombardia, in Catalogna, in Germania (1). E nelle guerre napoleoniche non fu il nostro nome pronunziato senza grande onore, sui campi d'Italia, di Spagna, di Germania, di Russia. Nel 1848 fu valorosamente combattuto dal 10 di linea, e da' nostri volontari; ne può non ricordarsi, che molti napoletani di quasi tutte le contrade del regno, sotto il comando del calabrese Guglielmo Pepe, furono tra gli ultimi eroici difensori della magnanima e sventurata Venezia. Abbiamo avuto napoletani che han militato onorevolmente nell'Algeria; ed in Oriente sotto il famoso pascià di Egitto (2); ed un napoletano è colui, che piantò la gloriosa bandiera di Francia sulla torre di MalakofF. né dal lato scientifico abbiamo a dolerci; non è né breve, né poco importante il numero degli scrittori nostrali nelle cose di guerra, e segnatamente nell'artiglieria e nel genio militare; il nostro ufficio topografico poi era il migliore istituto di questo genere in Italia (3).

(1) Giannone. Stor. civ, tom. 4, p. 356.


2.Tra gli altri il Poerio in Algeria. Il colonnello Altimari rese importanti servigii ad Ibraim pascià. Egli comandava un reggimento di cavalleria alla battaglia di Nizib, dove singolarmente si segnalò.


3.Se vuoi vedere in succinto i meriti militari de napoletani, e la eccellenza della nostra militare letteratura, puoi leggere nelle opere di Marìano d'Ayala, Napoli Militare, e Vite de' cap. e sold. Napol. Non son forse illustri i nomi di Oronzo Massa, del Federici, del Macdonald, del Manthoné, delPignatelli, del d'Ambrosio, del Pedrinelli, di Florestano e Guglielmo Pepe, del Begani?

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Dove decisamente sottostiamo ad alcune delle provincie italiane è nelle arti belle plastiche; non tanto però che non possegghiamo una scuola propria, ricca di artisti famosi, come il Zingaro, uno de' patriarchi della pittura! e di altri anche celebri, come Salvator Rosa, il Ribera, Massimo Stanzione, Andrea da Salerno, il cavalier d'Arpino, il Giordano, il Vaccaro, il Preti ed altri; pel paesaggio poi andiamo innanzi a tutti in grazia del Rosa. In scultura ed architettura non sono senza molla gloria i nomi del Buono, de' due Masuccio, del Ciccione, del Sammartino, del Bernini, di Giovanni da Noia, e sopra tutti di Pirro Ligorio e del Vanvitelli, tutti autori di lodate opere in patria e fuori; ed osserva sempre ne' portati dell'una e dell'altra arte del napoletano ingegno, come, in modo assonante alla sua natura, il grande ed il maestoso maggioreggi sul delicato, sull’elegante e sulla finitezza. Però siamo principi nella musica, apice e regina delle arti: nacquero tra noi il Iommelli, il Piccinni, il Cimarosa, il Paesiello, il Zingarelli, il Bellini. La scuola musicale napoletana ha vanto, se non di unica, certo di principale in Europa; e se videro la luce potenti intelletti musicali in altre parti della penisola, essi sono da tenere come fatti isolati ed individuali, i quali provanobensì che gl'italiani in generale sono fatti alla musica, ma non già che la metropoli musicale non sia Napoli (1). Ciò che è una conseguenza naturale della idealità dell'ingegno napoletano; tra

(1) Espressione del Gioberti. Primato lom. 2. p. 430. Del conservatorio di musica di Napoli, così favella il Bolla: «Era' quel conservatorio come quasi ii cavallo troiano, da cui uscivano, non già uomini armati per accendere e distruggere le città, ma divini ingegni da eccellenti maestri informati.» Stor. d'Ital. Cont. dal Guicciard. Lib. L.

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la musica e la filosofia corrono attinenze più strette di quello che non creda il volgare: si sa che i pitagorici faceano della musica parte della filosofia, e Platone, pilagoreggiando, non di rado comprende sotto il nome di musica la scienza delle idee (i).


Ecco adunque succintamente tracciata quale e quanta è stata la nostra parte nel movimento della civiltà, non pure italiana, ma europea; è da questi brevissimi cenni si profila abbastanza spiccata l'indole del popolo napoletano. Indole ricca e complessiva sommamente, dialettica in allo grado, e per questo appunto universale, la quale armonizza a maraviglia tutte le facoltà dell'umana natura, in guisa che sovrastino le intellettuali, e sottostieno in proporzione le sensibili; onde spieghi perché esso riesca principe nelle discipline puramente intellettuali, e nella più intellettuale delle arti, senza per questo fallire nelle scienze osservative, le quali più intorno a sensibili s'affaticano. Perciò egli si presenta come un individuo gigantesco, perfettamente ed armonicamente fazionato, nel quale la mente sovrasta al senso, e l'anima al corpo. E quando diciamo, che in lui la mente sormonti al senso, non però intendiamo che il suo lato sensitivo non sia pure eccellente e squisito, dole che tutti gli consentono possedere in sommo grado. Che anzi, poi che è legge della umana natura, che la mente non possa pensare senza l'aiuto de' sensi, quanto più pronto e sopraffino è l'istrumento sensitivo di cui ella si serve, tanto riesce più facile, efficace, spontanea, maravigliosa la sua propria operazione.

(1) Polizia II. p. 409. Ediz. Ast-III. p. 161 e seg.IV p. 20;. De Legib. II. e VII. passim.

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Infatti le pia alte intelligenze speculative Tennero su tragreci, popolo dotato di sottilissima facoltà sensitiva, come ognun sa; e per l'opposto di natura meno ideale, facile, ed atta alle grandi cose sono que' popoli in cui la virtù sensitiva è grossolana e tarda, come ciascuno può vedere da se. Onde quella mobilità di fibra, quella polente facoltà immaginati va, quella caldezza di sentimenti, che felicemente privilegiano il popolo napoletano, sono condizioni necessarie dell'altezza intellettuale cui è salito.

Resta ora a parlare della sua vocazione politica. E qui, come altrove, si ravvisa l'universalità della sua natura. Tre fatti memorabili ci consegna la storia de prischi tempi, che vennero consumati in queste regioni meridionali. Il primo sta negl'insegnamenti morali e politici de pitagorici, che qui fiorirono (1); resi per questo tremendi a' tiranni, da' quali poscia furono condotti ali ultimo esterminio, suggellando col sangue la libertà delle loro civili dottrine (2). Il secondo è quella lega formidabile de popoli italiani, tra noi nata e da noi promossa in tutta la penisola, onde le venne il nome d Italia; per cui, noiati di essere avuti come forestieri da gente dello stesso sangue, quali erano i romani, si levarono contro Roma per ottenere l'eguaglianza civile (3); onde giustissima chiamarono la loro causa

1.Ritter. Histoir. de la phil. anc. l'p. 364 e seg.


2.Krìsche. De societ. a Pyth. conci, scop. polit, p, 94 e seg.


2.Petebant enim eam civilitatem cuius imperium annis tuebantur: per omnes annos, atque omnia bella, duplici munere se militum equitum-que fungi, neque in ejus civitatis jus recipi, quae per eos in id-ipsum pervenisset fastigium per quod homines ejusdem gentis et sanguini, ut externos alienos-que fastidire posset Velleji Pater. Histor, Hom. L. 2. cap. 15.

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gli storici di Roma, che ne tramandarono la memoria (1). Nel che spicca lucidissimo il concetto della unità nazionale, e perché meglio si mostrasse l'idea da cui erano informati, mutarono in Italica il nome dell'antica Corfinio, da loro eletta a sedia del governo (2). E Roma poté appena dopo lunga e sanguinosissima guerra, quale fu la sociale (3), campare dall'imminente mina, non senza prima avere col condiscendere, rallentalo il furore de' popoli collegati, separando gli uni dagli altri (4). 1l terzo è il movimento delle plebi serve per acquistare la cittadinanza, col pareggiamento delle condizioni; il quale proruppe nella eroica sollevazione di Spartaco, che per lo riscatto della plebe in schiavitù sfidò la potenza de romani; e guerreggiò quella guerra di libertà, che gli storici di Roma chiamano servile: loro diede battaglie e sconfitte terribili, e cadde infine gloriosamente nella lotta ineguale, vinto più dalla perizia militare che dalle armi di Grasso (5). Onde i concetti politici più universali, cioè quello della unità nazionale e della redenzione delle plebi, sono nati prima di tutti tra noi (6).

(1) Quorum ut fortuna atrox, ita causa fuit justissima. Veli. Pat. Ibid..... quum jus civitatis, quam viribus auxerant, socii justissime postularent. L. Fiori, Hist. rom. L. 3. G. 48.


(2) Caput imperii sui Corfinium legerant, quod appellarunt Italicam. Vell. Pater. op. cit. L. 2, cap. 46.


Corfinio era posta tra Popoli e Sulmona, nell'Abruzzo Aquilano.


(3) Ncc Hannìbalis, nec Pyrrhi futi tanta vastatio. L. Flor. L. 3. cap. 18.


(4) Pompeio, Sullaque et Mario fluentem procumbentetnque rewp. pop. rom. restiiuentibus. Veli. Pat. op. cit. cap. 16. (ò) Plularcu. Vita di Grasso. (6) 1l Gioberti ci consente volentieri questi vanti, che nessuno può

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Tre fatti politici per idea più universali di questi non credo si trovino nella storia di qualunque altra gente italiana. La stessa gloriosa lega contro il Barbarossa, fu particolare; e insorse per proteggere dalle armi straniere la nobile terra da cui prese il nome. Appo noi la lega contro Roma ebbe un concetto più universale, e fu italica, quasicchè tutti i cittadini delle diverse repubbliche collegale aspirassero ad una patria comune, e a divenire italiani. ne' tempi moderni il moto democratico della plebe scoppiò nella rivoluzione di Masanieilo, su cui tornerò tra poco. E l'esempio sublime de' pitagorici fu rinnovellato da quelle pleiadi di uomini dottissimi e virtuosissimi spenti nell'anno 1799, di scellerata memoria (1). E qual popolo quanto questo può vantarsi di avere tante volle combattuto pe' principii universali del giure umano; e per la liberazione dal dominio forestiero? Quale di avere sofferto più lunghe e più atroci persecuzioni con animo più invitto? Chi può annoverare maggior numero di cittadini, tra' quali i migliori per dottrina e virtù, o caduti combattendo, o

toglierci: «Ivi ( cioè in questi luoghi ) Spartaco protestò colle armi contro la dottrina paganica del servaggio e della inegualità delle stirpi. Ivi cominciò il nome d'Italia, e la lega formidabile che ne prese il nome. Primato tom. 2. p. 431.


«Imperocchè senza parlare dell'eroica lotta di Sannio, il meriggio d'Italia fu il principio e il campo delle guerre servili e delle sociali: quivi lo schiavo per la prima volta volle affrancarsi, e il cittadino essere italiano: sorse colla città Italica il concetto della patria comune innovamento tom. 1. p. 283.


(1) La virtù nella vita, la magnanimità nella morte, l'amore ardente per la patria, il disprezzo profondo pe' loro carnefici degli uomini del 99 è narrato con energica brevi la dal Coco. Ti sembra di vedere rinnovali gli esempi de' Focioni, degli Agidi, de' Demosteni, de' Bruti, degli Attilii, de' Papiniani, e di quegli altri uomini giganteschi del mondo antico.

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spenti di scure, o cacciali in esigli longinqui, o sepolti vivi nelle prigioni, o tolleranti i più urgenti assalti della miseria, per la causa della libertà e della patria? E questo. volendo parlare solo de tempi più freschi. Il loro catalogo e immenso, e prova in che modo in questa meridiana parte d'Italia si è saputo amare la patria, combattere, soffrire, morire per essa. Basta dire, che nel 1799 furono giudicati circa trentamila cittadini imputati di reato di maestà (1): dal 1821 in poi il numero de giudicali sale a parecchie centinaia; gl'imprigionati, gli esiliali, i sospetti o notati vanno oltre molte migliaia: dal 1848 in qua la somma de sentenziali eccede qualche migliaio; quella de' sostenuti in carcere, degli esiliati, de' rilegati, de' sospetti supera l'immaginazione. Cosicché se dirai, il popolo napoletano essere il più benemerito verso la libertà e la patria, quando non vuoi giudicare dalla fortuna, che

Agli animosi fatti mal s'accorda (2), non farai che rendere stretta giustizia a chi si dee (3). È pregio dell'opera il riferire qui le parole del Gioberti, che compendiano in poco le nostre grandezze morali, civili e politiche:

1.Coco. Say. stor. p. 171 in fine.


2.Petrarca.


3.«Da' Vespri Siciliani a Masaniello, e alle ultime guerre delle Calabrie, le più terribili rivolte degl'italiani contro il dominio straniero, succedettero in quelle torride regioni (il regno), dove pare che gl'impeti e i tumulti crudeli degli uomini gareggino co' fuochi sotterranei e co' tremiti rovinosi della terra e del mare. Che se in quella segue la di forti e dolorose vicende corsero spesso fatti biasimevoli e talora detestabili, degna in tutti di ammirazione è la rubesta energia dell'animo, (che bene avviala è fonte di eroiche imprese) in molti l'intenzione e la virtù.» Primato, tom. 2. p. 451.

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e Cosi la filosofia madre delle idee, nudrice del pensiero, cima dell'ingegno, e ispiratrice di virtù civili; e Ira le idee quelle di plebe e di nazione, su cui si aggira il nostro e incivilimento, nacquero crebbero, sortirono per ogni tempo fervidi cultori e difensori intrepidi, benché infelici, in quel paese privilegialo dalla natura e dal cielo di grandezze e de' dolori; a cui gli antichi davano il nome di Magna Grecia, e che gli stranieri de dì nostri chiamano la patria del Vico (1).» Onde non dubitò di apertamente dichiarare, essere questa terra la più nazionale d'Italia, pel predominio appunto della idea nazionale (2).

Veduta così l'indole di questo nobilissimo popolo, resta a considerare per quale necessità di natura Napoli ne divenne la capitale ed il centro di vita. Napoli, come ognuno sa, siede ad anfiteatro sul mare, appiè di colline bellissime, sotto un cielo splendido, di temperatura assai mite: i rigori degl'inverni e gli ardori della state sono lungi dall'attingere quell'eccesso, cui giungono nelle altre parli della penisola: il clima e variabile anziché no, l'aria saluberrima; le bellezze del cratere nel cui centro sta Napoli, sono così sovrabbondanti ed eccellenti, che non solo superano quelle di qualsia altro luogo d'Italia,

(1) Rinnovamento tom. 4. p. 283.


(2) Rinnovamento tom. 4. p. 284.


Cosi ci giudicava è poco tempo quell'uomo insigne, che amò la patria, come rarissimi la sanno amare, e la coperse di gloria con gl'immortali suoi scritti, troppo sventuratamente mancatole al suo più grande uopo. E questo quando gli altrui giudizii pioveano pieni di amare ingiustizie sul nostro conto.

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ma vogliono i viaggiatori, che sieno uniche al mondo. Questo silo dunque era fallo a bella posta per essere abitato da un popolo dotato di tempra squisita tanto dal lato intellettuale che dal sensibile: esso infatti fu occupato da' greci continuamente fino alla irruzione de' goti. Questi, senza fatto i migliori tra barbari, accasando visi, mescolarono il loro sangue con quello degl'inquilini antichi del luogo, ma non sì, come abbiamo osservalo, che l'elemento antico e natio non predominasse sul nuovo innestato. Quel cielo e quella terra eran fatti per quel popolo, quel popolo era fatto per abitare quella terra e sentire gl'influssi di quel cielo; e poiché è risaputo quanto la natura del luogo influisca su quella degli abitanti, e manifesto che le felici condizioni della natura dovettero servire, come mirabilmente servirono; a sviluppare nel popolo le native tendenze del suo originario lignaggio. Così la civiltà vi ebbe rapidi incrementi, come ne fanno buon testimonio le grandezze di Cuma antica, e quelle delle città Ercolanese e Pompejana; le prime consegnateci dalla storia, le altre tuttavia visibili a' nostri giorni, per non parlare di quelle di Pozzuoli, e di altre città adjacenti a Napoli. Napoli è la più greca di tutte le città della Magna Grecia e della Campania, e le vince inoltre per le incomparabili bellezze del luogo. Se dunque tanta è l'armonia che accorda l'eccellenza del popolo e del paese in cui è stanziato, non è da maravigliare se la più parte degl'ingegni, che hanno illustralo il nome napolitano, sieno propriamente nati in Napoli o nelle sue circostanze. Napoletano è Tommaso d'Aquino, perché se nato ivi, il padre era di Napoli e colà solo temporalmente dimorava;

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napoletani sono i più insigni tra letterati, eruditi e scienziati, come il Tasso, il Porta, il Colonna, il Giannone, il Filangieri, il Pagano, il Rosa, il Bernini il Severino, il Broggia, il Genovesi, il Dorrà, il Mazzocchi, e quel portento del genere umano Giambattista Vico; il Bruno è nolano, paese di greca origine vicinissimo a Napoli; Pier delle Vigne e Bartolomeo sono capuani; e finalmente il Campanella, il Telesio ed altri molti, comechè nati altrove, fiorirono in Napoli, come le piante che attecchiscono ove sieno trasportate in più acconcio terreno. Fatta questa considerazione non dei più ammirare, se Napoli sorga a centro naturale della vita de' popoli stanziati in queste regioni australi; i quali, con esempio quasi unico nelle storie, dismessi gli antichi nomi, si cognominarono da quella; con che è chiaro abbastanza avere tutti istintivamente, e perciò infallibilmente sentito, che il loro essere stava appunto in comunicare con la vita, di cui focolare era Napoli, e perciò in quanto ad essa partecipanti, si riconoscevano per napoletani, come i latini finirono per chiamarsi romani.

E qui cado a proposito di considerare un poco più in particolare l'indole del popolo propriamente inquilino di Napoli. Esso è soprattutto non solo naturalmente ingegnose, ma agilissimo nell'ingegno; atto ad afferrare le idee più universali; di fantasia mobile e ricca, di facoltà sensitiva acutissima, di orecchio musicale perfetto; per queste doti è inchinevole al buon umore e brioso; il caldo del suo sangue frutta una grande vivacità ne' suoi affetti, onde è per natura verace, aperto, spontaneo, tenero

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e compassionevole in alto grado; tenacissimo ne vincoli di famiglia; abbraccia volentieri tutti gli altri uomini; non ripudia nessuno; e per questo è più che ammiratore, entusiasta del Garibaldi, in cui ammira il soldato cosmopolita, ama la semplicità de modi, la sublime altezza morale del continuo sacrifizio, e nel cui gran cuore che abbraccia il genere umano, vede il riflesso del suo. Il suo tipo è di una ricchezza così inesauribile ed universale, che comunque tutti i napoletani ne ritraggano, pure ogni individuo è così conformato per le proprie doti, che si differenzia notabilmente da tutti gli altri; onde quella infinita copia d'individualità distinte tra loro, che tutti riconoscono. E per tale sua universalità di natura il napoletano tiene il buono degli altri suoi conterranei, senza averne i lati singolari a ciascuno: così possiede la mobile fantasia e la sottile sensitività del siculo, rimossa la isolana esclusività di quello; è ingegnoso ed impetuoso come il calabrese, senza però quella turgidezza e quel sapere di non so che strano, che generalmente è frammista alla ottima tempera della natura calabra; è acuto e sodo come l'abruzzese, ma senza la tardità e freddezza del carattere di questo; e industre come il pugliese, spogliandone la tinta grossolana. Infine in lui tu trovi il siciliano, il calabro, l'aprulino, il pugliese, svestendone le forme private esclusive. Per questa complessività di natura il napoletano ha un. fondo comune con quelli, e fa sì che con lui si trovi bene qualunque di loro, i quali forse non si metterebbero bene tra sé. Infatti vi ha un certo che di istintivamente repulsivo tra il calabrese ed il siciliano, tra il pugliese e l'abruzzese; ma questi repulsioni cessano Ira loro e i napolitani,

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e se i siculi li hanno talvolta astiato, ciò è dipeso più da gelosia di primato, anziché da ripugnanza di caratteri. Il napoletano e sempre il medio dialettico, che unizza le varietà alquanto tra loro opposte degli abitanti delle varie contrade del regno, ed il centro armonico cui tutte convergono. Dacché scaturisce, che in esso si personifichi al più alto grado ed in tutto il suo complesso, l'indole intellettiva e morale di quelli; e perciò resta spiegata la ragione per cui Napoli, non per capriccio dell'umano arbitrio, ma rebus ipsis dictantibus, divenne la capitale del regno. E queste stesse ragioni dichiarano due altri fatti, altramente inesplicabili: l'uno cioè, la sterminala grandezza della città, affatto sproporzionata alla popolazione dell'antico stato; l'altro, che le capitali delle provincie sue non sieno mai state degl'importanti succentrì della vita nazionale, come il contrario si vede dappertutto essere avvenuto, in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Ispagna, e anche negli altri stati italiani.

Invano si apporrebbe a causa di questi fatti la residenza costante de' principi e del governo in Napoli, e l'incentramento della vita giudiziaria ed amministrativa, giusta gli ordini del nostro antico diritto.


Queste ragioni non calzano: le leggi sono naturale portato delle società in cui nascono, perocchè le società fanno le leggi, e non queste quelle, come credono alcuni novatori a sproposito; e se la violenza può imporre per un momento a' popoli leggi non conformi alla loro natura, sendo che natura violentiam non patitur, come dicevano gli aristotelici, essi finiscono collo scuoterle da loro ad ogni buona occasione, e fanno


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come natura face in foco,


Se mille volte violenza il torza.


Parad. IV.

Onde se gli ordini civili del regno accentrarono in Napoli le forze vive della nazione, e non di meno attecchirono così bene, che organicamente svolgendosi, pervennero fino a' principii di questo secolo, ciò fu appunto perché rispondeano alla natura della società civile de popoli del napoletano. né si opponga, che i francesi recentemente ci imposero le loro leggi, le quali presto misero salde radici. tutti sanno, o almeno dovrebbero sapere, che un movimento notabile era incomincialo nel diritto e nella giureprudenza no strana in su primordii del secolo diciottesimo, che man mano si andava propagando: si voleva una più completa separazione del diritto ecclesiastico dal civile, si anelavano ordini migliori nell'amministrazione della giustizia penale, a che accennavano le opere del Filangieri e del Pagano; i giuristi reclamavano la pubblicità delle ipoteche, l'obbligo della motivazione de' giudicati, ed altri immegliamenti; il popolo presentiva il bisogno della distruzione de' privilegii; i comuni aspiravano ad uscire della soggezione opprimente de' baroni, ed a ristorare le loro rovinale condizioni finanziarie. A soddisfare questi legittimi bisogni già si era posto vigorosamente mano, come sanno coloro che sono versati nella storia del nostro diritto (1); ma la paura, pessimo tra' consiglieri, che si mise nell'animo de' governanti ali apparire della rivoluzione francese,

(1) Le principali riforme a dirla in breve, sono le seguenti: fu abbassala l'autorità de' baronij furono rese certe le imposizioni ordina rie mercé nuovo catasto:

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colpì di paralisi il salutare movimento riformatore; anzi si ebbe il solito torto di voler tornare indietro, e di comprimere con modi crudeli gli animi che vagheggiavano novità. Quando i francesi occuparono il regno, trovarono il terreno apparecchiato, e recandoci le loro leggi, fecero non altro che presentare il compimento degli urgenti bisogni, e delle ardenti aspirazioni del popolo; onde questo avidamente le abbracciò, perché aveano più di un addentellato con le recenti riforme incominciate, e colmavano i vuoti delle antiche istituzioni. Non dico per questo che alcune di esse non aveano qualche ripugnanza alle nostre tradizioni, come per esempio, la distruzione de' parlamenti comunali, e la sostituzione de' decurionati; ma presa la nuova legislazione nel suo complesso, e tutto contrappesalo, essa era grandemente attemperata alla natura ed a bisogni della società napoletana; tanto che quell'importantissimo e radicai mutamento fu consumato senza scosse; e le nuove ordini le si connaturarono così presto,

si abolirono le imposizioni straordinarie, dette donativi: fu riordinata l'amministrazione civile; vennero migliorale le leggi del rito civile, facendole più brevi e ragionevoli; fu prescritta la motivazione delle sentenze, rese pubbliche le ipoteche; tolte le appellazioni a Roma; abolito il tribunale della nunziatura soppressa del tutto l'inquisizione; sanciti molli provvedimenti contro le mani morte; ordinala la formazione di un nuovo codici}, in cui si rifondessero e si riducessero a maggiore upita le leggi del regno, lavoro commesso al dotto Giuseppe Cirillo, che lo compì. Come ognun vede, questi immcgliamenti profondi erano il preludio di quelli, che furono poi compiuti dalla rivoluzione francese. Ved. Coco, Suy. stor. p. 59, 45. Canone, Disc. sul. stor. del. leg. pat. tom. X p. 321. Colletta, Stor. del rcaut. di Nap. Lib il. Vivenzio, Storia di Nay. Lib. XIV.

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che ritornati i Borboni di Sicilia ebbero il buon senso di conservarle, avvegnachè recale da' loro nemici.

Pria di passare innanzi però mi è mestieri rispondere a due obbiezioni, che facilmente si affacceranno a taluni lettori. 1.a Mi si dirà: Tu ti sei fallo del popolo napoletano un ideale che non risponde alla realtà, e de' suoi grandi difetti non hai punto parlalo; come fa chi, avendo una cattiva causa per le mani, tace de' lati che si negano alla difesa. 2.a Hai dimenticato, che precisamente in Napoli nascono i ministri più crudeli della tirannide, anzi mostri della umanità, i quali, per grazia di Dio, non incontra trovare in nessuna altra parte d'Italia. Questa eccellenza adunque del popolo napoletano e una tua favola; e quando anche tu fossi in buona fede ( spero almeno mi si renda questa giustizia), non si può negare che tu non dorma ad occhi aperti.

Alla prima di queste obbiezioni rispondo: che io sono lontano, quanto altro più sfidalo suo avversario, dal negarne i difetti, o dissimularne la grandezza. Prego però i contraddicenti a non voler giudicare con allra legge, diversa da quella che regola l'universo e le società umane che ne fan parte. Nelle umane cose per questa legge sempre a costa del bene vi è il male; e il male stesso non è che il bene insidente in esse non proporzionalo, o distolto dall'ordine in cui furono creale: onde come


Nasce a guisa di rampollo


A pie del vero il dubbio,


Parad. IV.

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si può egualmente dire, che il male rampolla a pie del bene. Noi per natura siamo inclinati a praticare quella virtù o quel vizio; e secondochè il libero arbitrio fa servire la nostra naturale facoltà ali ordine, o ne la distoglie, diventiamo buoni o cattivi. E perché degli uomini nessuno ha tanto valore morale, che la sua stessa virtù, per la incompleta rettitudine dell'arbitrio, non dia nel vizio che le risponde; così accade pure de' popoli, i quali, in quanto sono una civile società organica, voglionsi tenere come individui. Quindi non negherò, che l'acume del napoletano e la sua logica facoltà non tralignino spesso in sofistica; che la sua attitudine alla giurisprudenza non lo tiri sovente a' cavilli, ed alle sottigliezze forensi; che il suo amore per la religione non si volli talora a superstizione; che l'abito ideale della sua mente, per cui coglie agevolmente la sostanza delle cose, non lo renda poco curante, fino all'eccesso talvolta, delle forme esteriori di civiltà, di nettezza e di altri lodevoli abiti; che la facilità alla parola noi renda chiaccherino; che la mobilità della fantasia non lo precipiti qualche fiala ad abbracciare la nube per Giunone; che la fervenza del cuore non lo faccia accensibile talora fuori proposito; che la squisita sensibilità sua non lo inchini più del convenevole a' piaceri del corpo; che la sua perspicacia nello scorgere le ridevo li contraddizioni delle vicende umane, in cui il serio è quasi sempre congiunto al ridicolo, non lo tragga soverchiamente al comico, ancor quando non si dee; che la smisurata ricchezza del suo tipo non produca in ciascuno un carattere individuale così pronunzialo, che generi una varietà di opinioni e di pensari, che divenga difficile l'accordare; finalmente, che la stessa sua natura meditativa non

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si traduca frequentemente in difetto di azione, onde si produce in lui una certa inerzia e passività, che apparentemente contrasta con la formidabile attività mentale di cui e dotato.

Ecco le accuse che continuamente si fanno, sovente esagerandole, al nostro popolo: toltone ciò, sono vere pur troppo. Ma chi vuole giudicare rottamente, dee vedere il diritto e il rovescio della medaglia: e confessare francamente, che tutte le altre egregie genti d Italia pagano in proporzione lo stesso tributo alla inferma umana natura. Quali doti più belle che la gentilezza, la soavità di costumi, il gusto finissimo, la moderazione che rendono amabili i toscani? però non puoi negare, che non caschino talora nel lambiccato, nel frivolo, nello studio piuttosto delle apparenze che della sostanza, e in una certa languidezza di nervi. L'indole soda, nobile, disciplinala del subalpino tira spesso a ruvidezza, causando una soverchia tenacità, rigida, inflessibile, poco atta ad uscire del consueto, onde se riescono modelli di soldati, non sono felicissimi nell'arte di reggere i popoli. L'energica natura de' romagnuoli, colle cento prerogative che li adornano, li rende facilmente corrivi al sangue e ad impeti brutali, e così via Ma Napoli, si dirà, ha più vizii di tutti: sia pure: ma li ha perché si vantaggia di natura più ricca e complessa, e per con seguente ha pure maggiori virtù (1). Quanto la stoffa, o natura di una nazione e più esile e povera, essa ha certamente meno vizii,

(1) Il Gioberti, da quell'uomo acuto e capace che era, appose i difetti del popolo napoletano alla soverchia ricchezza degli spiriti, frimaio. tom. 2. p. 429; ma fu lungi dal recarglielo a carico, soggiungendo: essere invidiabile quel difetto, che nasce da abbondanza, ed 4 tale che Per mettervi rimedio si dee solo moderarlo. Ibid. p. 430.

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ma minori pregi: il nulla, che è la privazione totale dell'essere, non ha ne pregi né difeltt, né male ne bene. Conchiudiamo, che nelle cose umane chi vuole il bene dee anche essere apparecchiato a sopportare il male, che lo accompagna: chi pretendesse stoltamente di volere allontanare tutti i mali, rimuoverebbe anche tutti i beni. La quistione è sempre di compensi: ove il bene gran, deggi, non dei curare del poco male, che in proporzione gli va a fianco.

Più brevemente rispondo alla seconda obbiezione, movendo dagli stessi principii. Da' quali scaturisce, che per quanto maggiore è il bene in quanto è secondo rettitudine ordinato, per altrettanto quel bene diventa male se e distornato dall'ordine. Certo alcuni crudelissimi uomini ne secoli trascorsi, più recentemente i Vanni, i Guidobaldi, i Castelcicala, gli Speciale, i Canosa, ed ultimamente alcuni, de cui nomi è meglio non insozzare queste pagine, nacquero nel regno, ed in Napoli. Ma questo che altro vuoi significare, se non tempere energiche di animi rivolle al male (1)?una straordinaria capacità al bene, ne porta sempre una corrispondente al male; e l'uomo gratificalo di eccellente natura, diventa terribile nell'operare il male, se a questo rivolga la naturale sua bontà: onde l'adagio,

(1) Guarda come del Vanni scrive il Coco: «Egli riuniva un'ambizione ed una crudeltà estrema, e per colmo di sciagura dell'umanità era un entusiasta». Sag. Sior. p. 31. «Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sé stesso, il colore del volto pallido cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci, il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre; tutte le sue azioni tendevano a sbalordire, ad atterrire gli altri: tutti i suoi affetti atterrivano e sbalordivano lui stesso. lbid. p. 32. Si può ideare una più energica, e direi, più vulcanicamente terribile natura?

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corruptio optimi pessima, così bene espressa dall'Alghieri,


Ma tanto più maligno e più silvestro


Si fa il terren col mal seme e non colto,


Quanto egli ha più del buon vigor terrestre


Purgat. XXX.


Il che spiega la fine infelicissima di taluni uomini, i quali pajono trasformarsi completamente da quelli che erano, come la Scrittura narra di Saulle, Tacito di Tiberio, la storia greca di Alessandro. Aggiungi il predominio della logica nel napoletano, la quale, se esso si determina al male, non gli consente di sostare a metà, ma gli fa consumare tutte le forme medie, e non cessa d'incalzarlo, finché non l'abbia tratto all’ultima e peggiore di tutte. Eccola vera ragione perché i tirannelli in guanti gialli e calzari verniciati sono ignoti a Napoli, dove o sono stati terribili, o nulla (1).

(1) A costa di questi fatti e di questi mali, non si dee trasandare di mentovare anche il bene. Puoi vedere nella storia del Coco, come la giunta di stato seppe resistere per amore di giustizia al Vanni, che da quella tenne la sua mina, onde saranno sempre benemeriti i nomi del Mazzocchi, del Ferreri e del Chinigò, chi; lo storico (testimone non ricusabile) chiama, gli uomini fosse più rispettabili che Napoli avesse per dottrina e per integrità. E noto che nel 1821 la condanna de' rei politici non fu vinta che a maggioranza di un voto solo, e ne' processi politici dal 1849 in poi avvenne quasi sempre lo stesso. Che se i governi del tempo s'ingegnarono a comporre i tribunali, giudicanti di reato di maestà, in modo che i cagnotti prevalessero, il torto è de' governanti, non del popolo da cui uscì la magistratura: si sa che di malvagi non vi ha penuria in alcun luogo, e per quanto un popolo sia virtuoso, ti sarà sempre facile trovare nelle sue file non pochi uomini scellerati. E se io non mi fossi prefisso per buone ragioni, di non citare nessun nome di persone viventi, potrei additare parecchi fatti di non comune coraggio civile, che onorano assai la magistratura napoletana.

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Sbarazzatomi da Queste difficoltà, mi resta a toccare di due altre cose gravissime, cioè del carattere religioso 0 politico del napoletano.

Oggi corre il vezzo di credere, che quando si tratta del governo de' popoli, non si debba per nulla guardare alla religione, come cosa del tutto superflua, o per lo meno estranea alla politica, la quale può stare da sé. Al Machiavelli pareva il contrario, contro cui non si può opporre istanza: «Quelli principi, o quelle repubbliche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio di questo si puote avere della t rovina di una provincia, che vedere dispregiato, il culto divino (1).» Il Vico insegnò: «che la religione è la prima fondamental base delle repubbliche (1);» «che nazione di folisti o casisti o di atei non fu al mondo giammai (2);» burlandosi del Bayle, che pretese potersi dare stati senza religione, chiamando le sue pruove, novelle di viaggiatori (3). Oggi vi ha una smania furiosa di tenere sulle labbra i nomi di queste due grandi: de loro insegnamenti però non si fa caso nessuno (4).

1.Discorsi Lib. 1. cap. XII.


2.Scien. Nuov. 3. ediz. Nap. ilte pag. 298.


3.Scien. Nuov. id. pag. 279.


4.Scien. Nuov. id. pag. 115.


5.Il Vico ha dimostrato fino all’ultima evidenza in tutte le sue opere, la imbecillità de' tentativi di voler fondare la società umana sopra altro puntello, che la religione; e scalza perciò dalle fondamentali sistema del Grozio e quelli di altri statisti, che immaginarono di poterne fare a meno. Oggi corre una opinione contraria, e pure tutti gridano: Vico, Vico, segno chiarissimo che se pochi lo leggicchiano, pochissimi lo leggono, e rarissimi l'intendono.

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Tale errore non è meno capitale e funesto dì quello, che confondendo politica e religione, considera questa come una dipendenza di quella, o quella di questa, secondo i principii di ognuno; errori del pari comuni a gran parte de' cattolici, ed a' loro avversarii. I seguaci del primo sequestrando la politica dalla religione, i settatori del secondo permischiandole, guastano ad un tempo entrambe, e finiscono col negare l'una in grazia dell'altra. Il vero è, che la religione e la politica non sono né divise, né confuse tra loro, ma denno stare unite senza permistione, e distinte senza separazione; conciliare in tal modo entrambe è proprio della dialettica della dottrina cattolica. E questa dialettica appunto ha esercitato il popolo napoletano con esempio unico al mondo. Esso è stato ed è essenzialmente cattolico: il negarlo sarebbe inutile, perché ripugna alla sua storia ed alla sua natura. Quale infatti fuorché la religione universale, potea soddisfare un popolo così ricco di universalità intellettuale? quale altra religione poteva attagliarsi ad una conformazione morale così armonica, se non quella che armonizza tutte le virtù; che compone in modo ammirabile gli affetti e la ragione dell'uomo, in guisa che né quelli la turbino, né questa gli schiacci, ma gli uni e l'altra si muovano liberamente per la loro orbita, secondo però l'ordine naturale, che vuole gli affetti non tiranneggiati ma indirizzati dalla ragione? che concilia la libertà con l'autorità, e condanna ad un tempo la licenza popolare e il dispotismo? che distingue quello che è di Pietro, da quel che è di Cesare? che comanda l'amore degli uomini, non esclusi i nemici? Ed a questa religione, che risponde alla sua natura mentale

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e che colma le ardenti aspirazioni del suo cuore, ii napoletano è stato sempre incrollabilmente fermo: esso si preservò immune dal contagio antireligioso del risorgimento, e da quello anticattolico di Lutero: le mene de novatori non pervennero a smuoverlo; e qui né nacquero, né pullularono sette ereticali. Però, vedi indole dialettica di un popolo, noi soli siamo stati salvi dalla inquisizione; che anzi ove i maneggi de' principi o della corte romana tentarono d'introdurre tra noi il tremendo tribunale, il popolo cattolico di Napoli si levò in armi, e valorosamente combatté. Puoi leggere nel Giannone (1) la magnanima sollevazione del 1547, quando regnava su Napoli l'imperatore Carlo V, in cui fu combattuto per venti giorni circa nella città, benché tempestata dalle artiglierie de castelli, ed assalita dalle numerose soldatesche del Toledo: finalmente fu necessità cedere a tanta determinazione di volontà. E attendi a questo: il popolo significò al viceré, che egli non potea essere notato di ribellione, perché non intendeva d'insorgere contro la potestà regia, ma solo non consentire che, contro le consuetudini del regno, s'introducesse l'inquisizione.

(1) Stor. civ. dalla pag. 73 a 124 tom. 4 trovi la narrazione compiuta della opposizione bisecolare fatta dal popolo Napoletano a' tentativi d'introdurre l'inquisizione. La storia della sollevazione del 1564 sotto Filippo 2°, che durò molli mesi, è narrata con maggiori particolari dal Summonte tom. 4. lib. 10. cap. 4. Quel desputa, terribile fautore dell'inquisizione, non riuscì a metterla in Napoli, e dové dare indietro innanzi al coraggio risoluto del popolo. Il quale creò una specie di tribunale, detto de' Deputati dell'Ufficio, perché vegliasse sulla bisogna, e gliene desse, occorrendo, avviso. — Vedi sulle ultime agitazioni occorse per la stessa occasione nel passato secolo, il Colletta, Stor. del reame di Nap. Lib. I. §. 54 e Lib. II. §. 4.

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Tanto dunque era giusto il suo istinto intellettivo in distinguere il campo della religione, da quello della politica e del diritto civile I ne credette uscire da' limiti di buon cittadino e di buon cattolico rifiutando di obbedire in quel caso alla volontà regia ed all'autorità ecclesiastica, che voleano illegalmente per mischiare le loro attribuzioni. E con questa costanza continuò si la sua opposizione per due secoli, che trionfò tanto delle occulte mene, quanto dell'aperta violenza. Non posso a questo proposito astenermi dal riferire le parole del Goco: «Quale altra nazione in Europa si può vantare di non aver mai prodotto una setta di eresia, e di essersi sempre ribellata ogni volta che le si e parlato di santo officio e d'inquisizione? la nazione che ha eretto un tribunale nazionale, indipendente dal re contro questa barbara istituzione, che tutte le altre nazioni di Europa hanno almeno per quale che tempo riconosciuta e tollerata, deve essere la più umana (1).» Certo: appunto la più umana, perché la più universale, e la più cattolica di tutte.

Il suo carattere politico risponde a capello alla universalità della sua indole intellettuale e religiosa: esso è democratico , intendendo per democrazia non la forma, ma la essenza, che consiste nella eguaglianza civile (2).

1.Saggio Star. p. il 3.


2.La forma repubblicana non solo non è di essenza della democrazia, ma talvolta le è stata avversa. Gli spartani si reggeano a repubblica, sotto ordini rigidissimi aristocratici. La polizia de' romani fu aristocratica nella repubblica, democratica sotto gl'imperatori. ne' tempi moderni Venezia, Genova, Lucca furono repubbliche di severissima aristocratica costituzione. Ed oggi il principio pagano della inegualità delle stirpi, e la schiavitù sono in credito presso le repubbliche democratiche della meridionale America.

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Di ciò è testimone il prevalere della plebe, perché ove le plebi fioriscono per numero e per intelligenza, ivi presto s abbarbicano le idee democratiche. Napoli è città dove la plebe maggioreggia sopra qualunque città di Europa, non esclusa Parigi; s' intende in proporzione. Ma più di tutto ne fan fede le nostre istituzioni, e la nostra storia. Di sopra avvertimmo, che appo noi non fu giammai in vigore il diritto di albinaggio, il che importa, come è chiaro, Fide democratica della eguaglianza di diritto in tutti gli uomini, senza distinzione di cives e di peregrini, quasi cittadini tutti di una sola città (1). ne' tempi in cui le plebi, anche nelle più colte città europee, soggiacevano, la napoletana entrava a parte dell'amministrazione della città: essa avea il suo Eletto, il quale sedeva insieme con gli Eletti della nobiltà; onde nulla cosa poteasi fare nell'amministrazione civile senza la informazione al popolo, ed il suo consenso prestato dal suo Eletto, che ne era il rappresentante. Cerio Firenze fu anche essa democratica, ma la democrazia fiorentina fu esclusiva: dopo la rovina de' nobili nel secolo tredicesimo, costoro, come tali, non ebbero più voce in capitolo t onde rimasero sopraffatti da' popolani. In Napoli non così: la democrazia fu più armonica, perché senza negare nessuna delle classi, le compose dialetticamente, sì che entrambe esistessero, senza che l'una l'altra assoggettasse. Nella storia poi vedi il popolo napoletano insorgere costantemente ove si tratti di custodire, o di rivendicare la sua civile eguaglianza.

(1) Gli stranieri non solo presso noi furono esenti da questo diritto odioso, ma talvolta favoriti in preferenza de' regnicoli. Vedi l'elegante trattato sul Diritto d'Albinaggio del Volpicela. Napoli 1848.

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Senza parlare di altri suoi moti di minor conto, cennerò solo quel famigerato che ha nome da Masanielio. L'indole civile di questa sollevazione è narrata dalla storia. I balzelli imposti dall'arbitrio violento di alcuni viceré contro gli statuti, pesavano principalmente sul popolo, che ne era miseramente oppresso. Esso insorse per la revindicazione della civile eguaglianza, e per ristabilire i diritti che dagli ordini civili gli erano conferiti. Che se proruppe in eccessi terribili, fu quando si fu accorto della versuzia del governo, che tutto prometteva e nulla atteneva. E tanto avea chiara la coscienza della legittimità del suo procedere, che non lasciò dall'intitolarsi fedelissimo; e respinse sdegnosamente la profferta del perdono, protestando sè non potere essere accusato di ribellione: per lo contrario essere leale suddito al principe, poichè volea l'osservanza delle leggi del regno, che lo stesso principe avea debito di mantenere (1). Onde il superbo Àrcos fu obbligato a scendere a patti coll'umile pescivendolo, ed a rogare con lui il famoso capitolo del 13 luglio 1647. Che se dipoi i tumulti crebbero, ed il popolo si ribellò alla potestà regia, ergendosi a repubblica, ciò accadde solo perché gli spagnuoli al solito non voleano serbare i patti (1); e questo fece non senza intimare un manifesto a! papa, a principi e popoli europei, esponendo le giuste ragioni del suo insorgere (2). E se non era pel tradimento del Toraldo, che imprese a capitanarlo, per tradirlo nelle mani di Spagna, esso avrebbe fin d'allora purgato Napoli

(1) Gl'interessanti particolari del rivolgimento Masanelliano sono per minuto descritti nel diario, che ne dettò il Giraffa.


(2) Giannone Stor. civ. tom. 4. p. 391.


(3) Il manifesto è del 17 ottobre 1647 esse è per intiero riportato dal Lunig. Cod. diplom. tom. 2, p. 1385.

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ed il regno dall'odiosa signoria forestiera (1). Ed anche tradito non cedette ne alle armi del viceré, né a quelle più temibili di D. Giovanni d'Austria, finché non si venne agli accordi, con cui gli furono resi i suoi diritti.

Questo carattere civile della sollevazione di Masaniello costituisce la grande importanza storica del fatto. Il Vico dice di essa: Regnum neapolitanvm universum concusserat, Italiam exterruerat, Europam-que ferme omnem ad se converterat (5); ed il Denina narra, che «tutta Europa era intenta a vedere lo scioglimento di quella tragedia (2).» Ma come un fatto speziale di una piccola provincia di Europa, e di breve durata, desiò tanta universale commozione? Per la grandezza dell'idea di cui era segno. Fino a quel tempo si erano vedute rivoluzioni assai e più vaste; ma o per mutare la forma del reggimento, o la persona del principe. Ma l'esempio di un popolo che si leva in arme, rispettando il principe e la politica costituzione dello stato, solo per difendere i suoi diritti di civile eguaglianza, era uno spettacolo nuovo, terribile a dominanti, attrattivo pe' popoli. Esso era indizio che la coscienza delle moltitudini cominciava a spuntare; ed era il prenunzio della tremenda rivoluzione francese del secolo susseguente.

1.Giannone, op. cit. tom. 4, p. 379.


2.Epistola a Giambattista Filomarino, premessa al volume delle Note all'opera De unico unto. jur. Napoli 1722.


2.Rivoluz. d'Italia tom. 4. p. 247. Napoli 1788. Dove istituisce un paragone tra Masaniello e Michele di Landò, dando la preferenza sullo scardassiere fiorentino, al pescivendolo napoletano, che chiama: «Quell'uomo singolare e d incomprensibile genio... che seppe sostenere cosi bene il carattere di generale, di principe e padre della patria.


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Il prevalere della plebe nella città napoletana è manifesto da tutta fa sua storia, e la sua azione è ben pii gagliarda di quella della nobiltà. I due più grandi fatti, cioè la sollevazione del 1547 contro l'inquisizione, e quella del 1647 testé discorsa, sono opera del popolo, incominciate dall'uno e dall'altro Masaniello (1), e sotto l'influenza di idee democratiche, difendendo legalmente nella prima la sua libertà N coscienza, e nella seconda la sua eguaglianza civile; senza lasciare di essere verace cattolico, e suddito fedele. Il carattere civile de' moti del nostro popolo è così costante, che ove non si tratti di questo, non si vede aver presa parte nessuna. Cosi fu quasi del tutto straniero alla congiura de' baroni, i quali meditavano di ripristinare l'autorità loro, abbassala da Ferdinando d'Aragona; ed a quella di Macchia, gli autori della quale, anche nobili per la più parte, «i proponevano di cacciare gli spagnuoli, ma di darsi a' tedeschi. Gli uni e gli altri congiurali invano cercarono di sollevare il popolo; esso li abbandonò giustamente, perché la loro causa non era la sua.

Ma si dirà: perché poi fu così avverso alla repubblica del 99, benché quella andasse a democrazia? La rispo sia è chiara: perché quel reggimento era portato da forestieri, macchiati di sangue regio, di che egli avea orrore, e perché notoriamente avversi alla religione, di cui era inerissimo (1); onde tenne per sospetti i loro

(1) L'iniziatore del sollevamento popolare contro l'inquisizione aveva nome anche Masaniello. Giannone, op. cit. tom. 4, p. 90.


(1) Il Coco, nobilissima vittima della rivoluzione del 99, esule a Milano, al quale i dolori del carcere immeritato, del corso pericolo di vita, e dell'esigi io non consentirono di calunniare la propria patria, ecco come giudicò del fatto: «Il popolo non amava più il re, non volea

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fautori, che dal canto loro nulla fecero per guadagnarsene l'animo, il quale non poteva essere contento delle astrattezze ideologiche di cui quelli lo pascevano (1). E perché nelle plebi predomina il sentimento, il quale non suoi serbare ne misura ne modo, esso proruppe in que' fieri eccessi che tutti sanno. Queste e non altre furono le cagioni per cui il popolo napolitano osteggiò la rivoluzione del 99, non il poco amore alla libertà. «Non vi è popolo più cupido di libertà del napoletano», scrisse il Giannone, che ben conosceva i suoi concittadini; ed il Coco parlando di que casi, e della feroce ma magnanima resistenza falla da lui a' francesi, dice che esso: «avea spinto fino al furore l'amore d'indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all'antica schiavitù (2). Ed infatti poco dopo divenne amico al governo francese, che senza urlarlo nelle sue credenze, diede sfogo reale alle sue tendenze democratiche, rovesciando gli ordini feudali, proclamando l'eguaglianza civile, liberando la proprietà dalle mani morte, con tutti gli altri immegliamenti civili noti all'universale.

nemmeno udirlo nominare, ma ripiena la mente delle impressioni di tanti anni amava ancora la sua religione, amava la pan tria, odiava francesi.» Sag. Star. p. 69.


(1) Leggi nel maschio lavoro del Coco, perché ne vale la pena, le molte e gravissime ragioni per cui il popolo napoletano, benché disgustalo del re, dovea lare mal viso alla repubblica, e gli errori de repubblicani che più gliela fecero maledire. La conseguenza era chiara. Tra un re che non amava, ma che per sé avea la tradizione, ed una repubblica che odiava per forti cause, il popolo prescelse il re, e i Boriami tornarono. La colpa dunque del tracollo fu di quelli che a quel tempo ressero con poco senno le pubbliche cose,


(2) Sag. stor. p. 73,

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Da questi falli, spicca la universalità e la idealità religiosa e politica del carattere degli abitanti di Napoli, per le quali ragioni, congiunte a quelle innanzi allegate, Napoli fa assunta a capo della società civile de popoli accasati nel meriggio d Italia.

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II.

Assoluta la dimostrazione delle cause perché Napoli divenne la capitale dell'antico regno napoletano, resta a considerare le ragioni per cui essa è la capitale per natura, sia anche provvisoriamente, dell'Italia riunita in un solo stato. Per potere adeguatamente trattare questa parte del nostro discorso, la quale può essere più breve, avendoci spianala la via con la precedente, è d'uopo tenere lo stesso metodo, e volgere prima uno sguardo generale alla indole italiana presa nel suo insieme.

Antico e perpetuo carattere della natura degl'italiani è quello di essere vasta, complessiva, universale, comprendendo in potenza tutto il genere umano. Questo fu sviluppalo maravigliosamente nel mondo antico da' romani, i quali sottomisero il mondo allora conosciuto, riducendolo alla unità di cui era capace: l'imperio romano divenne un individuo colossale, il cui capo era Roma. Però i romani, politici, legislatori e militari eccellenti, aveano una certa durezza di natura che li rendeva poco atti ad assimilarsi i popoli conquistati, ed a reassumere senza scapito della costoro individualità, i lati reali di essi. D'altra banda sottostavano per alcune parli importanti alle nazioni sottomesse. Dal Iato della idealità dell'ingegno erano di gran lunga inferiori a" greci, come lo provano senza dubbio le arti

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e la filosofia loro, le quali, in quello che hanno di meglio, non sono che una imitazione più o meno felice delle arti e della filosofia greca: per l'acume soggiacevano di molto a cartaginesi, come ne fa fede Livio nelle sue storie; nella tenacità di natura cedevano agli spagnuoli; nell'impeto degli assalti erano superali da' galli; ed in quanto alla costanza, al valor militare ed all'amore di libertà, trovarono emuli degni di loro ne' popoli di Arrainio e d'Inguiomero, ora vincitori ora vinti, ma non mai domi durevolmente. Non pertanto essi soggiogarono tutti, perché li superarono nella giurisprudenza, nella politica, e nell'arte delle armi. Il Vico ha dimostrato senza replica, che queste e non altre furono le cause della dominazione universale de romani, di cui la principale fu la giurisprudenza, autrice di tutte le romane virtù e puntello della loro grandezza (1). Però per le due ragioni delle innanzi la dominazione loro fu più esteriore su corpi, anziché interiore e penetrativa degli animi: i romani sottomisero, signoreggiarono, ma non assimilarono a sé gli altri popoli; ed ottennero quella specie di principato esteriore, spesso non esente da violenza, che era comportabile colla loro natura, e con quella de' popoli signoreggiati. Che anzi quella stessa ferrea durezza della loro morale complessione, che fu un ostacolo principale alla perfetta ed intima assimilazione delle altre nazioni a loro, colle quali non ebbero mai relazione di consanguinità, fu pure causa della loro grandezza e del loro principato. La qualità di cittadino romano era un privilegio incomunicabile: famose città e principi potenti anelarono

(1) Ex hac autem juris Mela omnis romani nomini gloria orla est. De un. univ. jur. e. 174 e seg. De consC jurisp. passim

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invano a questo onore: la cittadinanza romana teneva strettamente alla loro sovranità, ed essi da buoni politici avvertivano che essa era impartecipabile, come lo è la sovranità. La storia in questo fornisce pruove innegabili: il predominio de romani rimette a misura che la qualità di cittadino romano si rende più accessibile altrui; e cessa affatto, quando quasi tutti i popoli dell'impero furono dichiarati, cives romani

Veduto come il carattere di universalità degl'italiani si dispieghi al possibile nel mondo antico per opera de' Romani, vediamo per quali cause si accresca nel mondo moderno. Esse sono due: l'irruzione de' barbari, il cristianesimo E nolo a tutti come nessuna regione fu tanto soggetta quanto ) Italia alle invasioni delle nazioni barbariche: Goti, Ostrogoti, Visigoti, Franchi, Longobardi, Unni, Sarmati, Vandali, Eruli v'irrompono, la corrono da un capo all’altro, per diritto e per traverso; rovesciano gli ordini antichi: vi si accasano più o meno durabilmente; vi fondano stati; si mescolano con le stirpi degli antichi abitanti; si combattono tra loro con varia fortuna. Durante questo periodo che abbraccia parecchi secoli, si tramescola il sangue di tutti, e da questa mistione di varie razze, innestate al vecchio tronco greco-latino, che rimane sempre l'elemento preponderante, si forma la stoffa da cui sorgerà la nazione italiana moderna.


Però questa stoffa o materia che vuoi chiamarla, era piuttosto una immagine del caos primitivo de mitologi, che una nazione: tutto era confusione, sangui, lingue, leggi, costumi; elementi diversi, messi insieme senza misura,

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doveano naturalmente lottare tra loro, ed accrescere per conseguenza il disordine nato dalla loro mistione. Ci volea un principio universale e sovrano, per comporre ad ordine tanta confusione, per rassettare tanti tumulti, per ridurre ad unità una massa così discorde. Questo principio sovrano, universale è la religione cattolica, che tanto suona il suo nome; colla universalità dialettica, che. è propria della verità, il cattolicismo cominciò ad illuminare le menti dirozzandole, ad ingentilire gli affetti penetrandoli, e ad unificare nella unità della credenza i discordi animi. Quella sola religione, innanzi acuì non vi sono ne greci ne giudei, come dicea Paolo: che insegna gli uomini estere

Tutti fatti a sembianza d un solo,


Tutti figli di un solo riscatto (1)

senza distinzione di vincitori e di vinti, di liberi e di servi, di nobili e di plebei, di ricchi e di poveri, che predica l'unità e la concordia come il bene supremo degli uomini in questo mondo, polca solo avere la forza di rappaciare gli animi, di conciliare le dissidenze, di parificare le condizioni sociali; e senza negare il lato reale di ognuno degli elementi preesistenti, organarli in ordine, e così ridurli alla unità. Roma quindi creò, o meglio ricreò per la seconda volta la nazione italiana: da Lei fu spirato il soffio animatore, che diede una vita unica al suo corpo, onde essa acquistò l'unità non rigida ed inflessibile, come quella di Roma pagana, ma pieghevole, feconda, dialettica; non una universalità fondata sulla esclusione

(1) Manzoni.

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e la forza, ma una assai più ampia, perché intellettuale, alla a penetrare negli animi, ed a soggiogare liberamente le volontà; onde fu fatta capace ad esercitare non già l'esterna, violenta, angusta, oppressiva signoria de romani, ma bensì una dominazione intima, persuasiva, liberale e perciò universalissima. Ma alla sua volta il cattolicismo stesso trovò appunto nella permista popolazione d'Italia il terreno più proprio a radicarsi: la religione universale dovea naturalmente aver per seggio un popolo, che realmente comunicasse colla natura di tutti gli altri: la religione fruttificò in Italia, l'Italia fu nazione per Roma. E questa è la ragione profonda, invincibile, per la quale, checche ne possa parere agli spiriti superficiali, e qualunque sieno gli eventi che temporaneamente possano seguire all'andazzo di pregiudicate opinioni, l'Italia e il cattolicismo sono indissolubilmente congiunti. Un'Italia protestante, acattolica è un impossibile, volendo conservare il suo essere di nazione unica: divorziata dal cattolicismo essa e condannata a morire come nazione, nel modo stesso che il corpo separato dall'anima, che è il suo principio vitale. E con ciò vedi quanto sia il senno, l'acume, la carità della patria di coloro che sognano la distruzione del cattolicismo, come mezzo a preparare l'unità nazionale dell'Italia, ripetendo a coro certi vecchi errori, i quali se potettero una volta illudere perché nuovi, sono ora sfatati e d'ogni nervo destituiti. I popoli però istintivamente la intendono altrimenti; e la storia e là per dirci se questo sogno funesto può essere una realtà, ovvero se è una chimera di cervelli ammalati, inetti ad afferrare il midollo delle cose. So che molti impugneranno, e parecchi rideranno, negando del cattolicismo quello che noi fondati

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sulla natura e sulla storia ne affermiamo. A costoro rispondiamo senza cerimonie, che non se ne intendono: che il sistema che combattono, cui prestano quel nome, è una chimera mostruosa della loro mente, ma non è il cattolicismo ne di Pietro, né di Paolo, ne di Agostino, né di Tommaso, né di Bernardo, né in una parola della Chiesa. Guardinsi bene costoro dall'opporci certe stranezze di alcuni improvvidi difensori della Chiesa, ed alcuni nomi poco lodevoli di suoi rettori. Gli uomini con le loro opinioni non possono né aggiungere né togliere alla Verità: e confondere gli uomini con la dottrina è un errore grossolano, che per lo meno è un anacronismo nel civile secolo in cui viviamo. A moderare la Chiesa han messo mano uomini santissimi ed uomini scelleratissimi, uomini miracoli di sapere ed uomini di grande ignoranza, uomini promotori della nazionale indipendenza, ed uomini suoi sfidati nemici; ciò ha permesso la Provvidenza, perché sia manifesto al mondo che è dessa la quale salva la navicella di Pietro, e non già le opere buone, la prudenza, o la dottrina di alcuni; come non la possono perdere le iniquità e la ignoranza di altri.

Ma torniamo al nostro proposito. Questa mistione di razze di quasi tutti i popoli, avvenuta però per l'innesto de nuovi rami sul prisco ceppo greco-latino, fecondata dal cristianesimo, rese veramente universale l'indole e l'ingegno italiano: e tali furono i suoi frutti. Egli è un fatto che anche i meno dotti, o i meno amici all’Italia riconoscono, che le azioni degl'Italiani veramente sommi, e i portati del loro ingegno, non si restringono solamente all'Italia,

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ma interessano il mondo delle nazioni Dante non e solamente il primo poeta italiano, ma in realtà appartiene ali universo. Il Colombo e il Polo non sono navigatori nell'interesse dell'Italia, ma del mondo. Flavio Gioia, Galileo, il Torricelli, il Volta, il Lagrangia sono uomini pili che italiani, universali; che sarebbe la civiltà odierna senza la bussola, il pendolo, il barometro, e la pila? e che degl'incrementi intellettuali della mente umana senza Tommaso d'Aquino, Anselmo d'Aosta, Bonaventura da Bagnoregio, il Bruno, il Telesio e Giambattista Vico? e che della società civile senza i giureconsulti e pubblicisti italiani? E questo osservacene nella storia del diritto e della giurisprudenza in Italia, poca parte hanno le consuetudini e i comentatori di esse; la parte principalissima verte intorno alla giurisprudenza romana, che era appunto la più universale, e per la quale i Romani, come sopra avvertimmo, ottennero l'imperio del mondo. Ne è da trasandare quanto ad accostare la giurisprudenza civile e penale alla giustizia naturale influisse il diritto canonico, come da molti, e segnatamente dal Walter (1), è stato notato, il quale è assolutamente un prodotto dell'ingegno cattolico italiano.

Gl'italiani nel medio evo ripigliano con mano vigorosa e sicura la universale signoria redata da' Romani, ma spiritualizzata ed ampliata all'infinito dal cristianesimo. Parte dall'Italia la luce che vince le tenebre della barbarie, e i principii che incivilirono il mondo: l'Italia racquista per sempre il privilegio conferitole dalla Provvidenza, di essere la nazione madre, e la testa del genere umano. Le a lire nazioni

(1) Diritto ecclesiastico, Lib. VIII.

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sono le membra che lavorano sotto la direzione del capo: l'Italia apre a tutte la via, che poi ciascuna di esse gloriosamente compirà, secondo la propria vocazione, nelle scienze, nelle arti, nel commercio, nelle armi, in una parola nella vita speculativa e nella pratica. Ed osserva quanto questa generale signoria era reale in sommo grado, che comunque l'Italia fosse stata occupata or da questi or da quei forestieri, comunque andò man mano perdendo la sua politica indipendenza, finché divenne serva in tutto nel secolo sedicesimo, non cessò un momento solo di esercitare sugli stessi suoi dominatori e sul mondo quel dominio intellettuale, il quale, perché fondato sulla natura delle cose, non potea venirle meno.


Con questa universalità intellettuale del genio italiano, che costituisce l'unità dell'idea italiana, la quale appunto perché ricchissima e fecondissima non pare che si afferri facilmente da molti, le famiglie del popolo italiano comunicano tutte a proprio modo, secondo la preponderanza degli elementi essenziali di ciascuna, e gl'influssi de' luoghi e del clima dove accasarono e dove ora risiedono. Questa armonica composizione delle nature speciali delle genti italiche formala bellezza estetica della idea o tipo italiano, come vuoi dire, nel quale si unificano tutte le ricche varietà loto. Così pigliando in grosso ciascuna delle diverse provincie, puoi dire, la Romana primeggiare nelle arti del bello plastico; la Toscana tenerle dietro per questo rispetto, ma entrare innanzi a tutte per le lettere, e le scienze osservative; la Venezia contraddistinguersi tra tutte per la politica, e con la Liguria, per la nautica; il Piemonte sovrastare nelle armi; ed il Napoletano nelle scienze

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intellettuali e nella musica; la Lombardia poi avere una gran' de altitudine o molte cose, avvicinandosi più di ogni altra al tipo napoletano. S'intende bene che questo va detto per esprimere i caratteri prominenti di ciascuna; perché nessuna di esse, consentaneamente alla sua partecipazione alla universalità essenziale del tipo italiano, non è stata mai valente solo per un lato, benché tra' tanti pregi che ognuna vanta, i quali più o meno sono comuni a tutte, ne ha sempre taluni più peculiari, che le danno una fisionomia propria, come abbiamo accennato. Questa grande ricchezza di varietà ha fallo credere ad uomini incapaci d'innalzarsi a scoprire il fondo ideale identico in esse insidente, ed i quali, come dice Platone, non credono che a quello che toccano con le mani e vedono con gli occhi, che veramente non esistesse, e non fosse possibile una nazione italiana; onde la proverbiale espressione del suo più acerbo nemico, che la diceva una espressione geografica. E questa inesausta ricchezza del vario è stata la causa delle nostre civili discordie, da cui la perdita della indipendenza politica. Le varietà nel momento del loro sviluppo, cioè quando escono dal fondo dell'identico cui partecipano, sono necessariamente pugnanti tra loro, ed in contraddizione coli uno da cui partono: l'accordo può avvenire solo dopo che ognuna ha dispiegata, attuandola, la propria potenzialità; perché veramente solo dopo che tutte sono venule in alto, ricomparisce il fondo identico di ciascuna; ma nell'epoca del loro dispiegarsi, il vario predomina sull'unità che rimane latente, la quale riapparisce solo dopo che quello si è compiutamente esplicato. E questa legge costante che regola l'universo è appunto

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quello che non intendono nella storia d'Italia novantanove centesimi de' suoi lettori. Si maravigliano delle nostre intime dissenzioni: se a noi benigni, si sdegnano, perché vedono la nostra nazionale indipendenza caduta per esse; se avversi, ne godono, sopraccaricandoci di contumelie, dicendoci indegni di libertà, e servi per natura, come già Aristotile disse degli schiavi. Ma in buona pace loro, ne gli uni ne gli altri capiscono di che si tratta. Finché la ricchezza del tipo italiano partecipata dal Fiorentino, dal Pisano, dal Genovese, dal Veneziano, dal Milanese, dal Romagnolo, dal Napoletano e così via non venne recata all'atto, questi diversi elementi nel momento del loro di piegarsi doveano necessariamente trovarsi in lotta tra loro, e la varietà loro predominare sulla unità della natura comune. Così spieghi le gelosie, le ire fraterne, le interne discordie, le guerre particolari degli stati d Italia grandi e piccoli tra loro, ed internamente seco stessi. Questa epoca è quella che si addimanda del municipalismo, il quale in realtà essendo l'affermazione della varietà delle famiglie italiane, apparentemente contrastava all'unità, ma era una condizione indispensabile del ritorno ad essa: onde ha sembiante di paradosso, ma è una verità storica indubitata, (e il fatto l'ha provato ) che il municipalismo era via e preparazione alla futura unità della patria. Perciò riusciva impotente a quell'epoca la voce di que grandi che predicarono la concordia e l'unità; e il sublime poema dantesco, i forti carmi del Petrarca, e le politiche lucubrnzioni del Segretario fiorentino, ci sono rimaste come divinazioni di un futuro, assai remoto dal tempo in cui vissero que sommi. Se questo considerassero i forestieri che s'intromettono nelle nostre cose,

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sarebbero meno ingiusti con noi; e noi alla nostra volta più equi verso la memoria de nostri padri, se per conoscere che siamo al presente e che saremo in avvenire, ci rivolgessimo a meditare il nostro passalo.

Venghiaino ora al nostro tempo: la varietà del tipo italiano si è ampiamente sviluppala nelle diverse propaggini del ceppo italiano: il fondo identico a tutte riapparisce, ed è maturo il tempo di ricostituire l'unità nazionale. Il bisogno prepotente della quale si fa sentire apertamente nella tendenza generale ed invincibile, che hanno gì' italiani a percorrere un cammino inverso a quella finora battuto. E dove prima ogni stato, anzi ogni città per affermare se stessi, non si peritavano dal negare l'unità, ora sono pronti a negare se stessi in grazia dell'unità, cui tutti aspirano. Movimento che ci colpisce: in sé però ne strano ne maraviglioso, ma naturale, per la legge di cui sopra abbiam parlato. Inopinati e straordinarii eventi affatto provvidenziali, hanno preparala la via. Ora e mestieri di trovare l'organo dominante dell'organismo.

Ma qui mi aspetto ad una obbiezione, che cresce di peso per la rispettabile autorità di Massimo d'Azeglio (1), che in sostanza è questa. Se si ha a cercare una capitale fuori di Roma, chi potrà contrastare a Firenze, madre della nostra lingua, culla della civiltà nostra, patria di Dante, di Galileo, del Machiavelli, del Buonarroti? Se cerchi il carattere di universalità nella tempra del popolo

(1) Quistioni Urgenti, Firenze 1861.

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toscano, questi uomini, per non dire altro, dovrebbero, bastare; e quale è più universale tra le creazioni umane, che l'arte?


La obbiezione a primo aspetto è assai grave, ma in sostanza è più speciosa che reale. Certamente l'arte è il più universale portato dell'ingegno umano, appunto perché è la più sintetica, attingendo più da vicino l'intuizione della creazione, e direttamente le spira il suo afflato

L'Amor che move il sole e le altre stelle

non pertanto questi grandi titoli non bastano a fare del toscano il popolo centrale, e di Firenze la capitale d'Italia. Accade nella generazione delle nazioni lo stesso che in quella dell'animale: nell'epoca embrionale il primo punto ad apparire e il cuore (1), il quale comprende in sè la vita germica, che poi sviluppandosi produrrà tutto l'organismo animale; la testa è di formazione alquanto posteriore al cuore, e non dimeno sorgerà ad organo dominante di esso organismo. Avviene a capello Io slesso nella generazione intellettuale dell'anima, in cui la prima facoltà ad appari re, e predominante fino alla età giovanile, è la fantasia, che può chiamarsi il cuore dell'anima: la ragione, che ne puoi dire la testa, vien dopo, e nondimeno diventa la facoltà principe, che domina le altre. Così nella generazione delle nazioni le prime a sorge re sono la poesia e le arti, quasi cuore di esse; le scienze intellettuali, la filosofia e la giurisprudenza,

(1) Carus, Vita della terra Lettera III. Flourens, Cour d'anat. comp, p. 79.

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vengono dopo, e nonpertanto pigliano il sopravvento nella loro costituzione politica e giuridica;onde è che ogni nazione fatta adulta, ( come l'uomo pervenuto a maturità fa della ragione il centro della sua vita ) finisce col fondarsi sugli ordini civili e politici partoriti dalla scienza sovrana, da cui tolgono i primi principii. E questo un fatto costante, di cui è testimone la storia. Sugli albori di ogni nazione è surto un poeta, il quale per divino istinto ha abbraccialo con vasta sintesi e di un sol colpo, la estensione della civiltà cui perverrà la propria nazione, ne ha espressa l idea, ne ha delineato i confini. Così l'oriente ebbe Valmiehi, la Grecia Omero, la repubblica romana Ennio, la Germania il poema de' Niebelungen, la Spagna quello del Romancero e così via. Che se una nazione sia completamente trasformata per nuovo periodo di civiltà, nasce anche il poeta di questa nuova evoluzione intellettuale e civile; così trasformala la romana repubblica nell'imperio, clic ebbe indole e scopo da quella affatto diversi, venne su Virgilio; e tutti consentono, che il Goethe sia il padre, il preconizzatore, il poeta della recente evoluzione riflessiva e critica della civiltà alemanna. Dante è per noi quello che Valmiehi, Omero, Virgilio e gli altri furono per le loro genti; ma in modo assai più vasto, perché di tanto il concetto dantesco si lascia indietro l'orientale, l'omerico, e il virgiliano, per quanto la civiltà italiana, che è quella del genere umano, supera la civiltà orientale, la greca, la latina; e perché la civiltà italiana vivificata dal cattolicismo, è universale, il poema di Dante abbraccia l'universo. In quanto alla lingua non occorre qui discorrerne le origini: basta notare,


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che la lingua veramente è la espressione spontanea del pensiero di tutta la nazione: Dante la rifece né più ne meno che Omero la greca, come gravemente osserva il Vico (1); e al pari che ne' poemi omerici incontra trovare tutti i dialetti delle famiglie greche, così nel poema dantesco tu trovi tutte le forme de' parlari delle diverse famiglie della gente italiana; sul che si fonda ciò che vi ha di sostanziale nella opinione di coloro, che vogliono doversi la nostra lingua chiamare non toscana, ma italiana. Però ne Smirne, né Colofone, né Chio, né alcuna delle altre città che si contesero la culla d'Omero, fu la capitale della Grecia, più che l'umile Pielola non la fu dell'imperio romano. La civiltà de' popoli comincia dall'arte, ma maturandosene i germi in essa contenuti, perviene a compimento dal lato intellettuale nella filosofia, e dal lato civile nella giurisprudenza; che anzi ogni nazione come società civile, si fonda precipuamente nella giurisprudenza, che guarda alle azioni degli uomini in quanto cittadini; onde lo sviluppo della società civile è misurato da' progressi di quella. Perciò non fu la Grecia il popolo centrale del mondo antico, né Atene la capitale del mondo, ma sì il popolo romano, in cui venne a maturità la coscienza del genere umano di quell'epoca, e ne fu capitale Roma, patria della giurisprudenza universale. Che se nel mondo moderno l'Italia, benché la nudrice delle arti, è la nazione madre ed il capo del genere umano, non lo è già per questo solo rispetto; ma egli e perché, se noi abbiamo redata da' greci la vena artistica, tenghiamo pure da latini la

(1) Scienza Nuova prima edizione, p. 302, Nap. 1811.

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facoltà giuridica; e soprattutto perché tra noi sta Roma, perpetuo seggio della religione cattolica, la quale assimilando l'elemento greco, il latino e il barbarico, ha universaleggiata, cristianeggiandola, l'arte greca e la giurisprudenza romana, ed è perciò la creatrice ed il focolare di tutta la civiltà moderna.

Ma qui si fa innanzi un'altra opinione, la quale ha non pochi aderenti e fautori. Perché il Piemonte non potrebbe egli essere il popolo centrale d'Italia, e Torino la capitale? Non è egli che nel 1848 sostenne la parte principale della guerra contro l'Austriaco? che nella rovina della libertà in Italia, solo conservò il sacro fuoco della libertà? che ospitò generosamente i fuorusciti politici di tutte le regioni della penisola? che in Crimea portò la gloria delle armi italiane? che fu il promotore del l'ultima riscossa nazionale, non perdonando ne a danaro, né a sangue? che è l'iniziatore della politica, che vuole l'unità della patria comune? che finalmente è la culla dell'Alfieri, del Botta, del d Azeglio, del Balbo, e del più grande ingegno italiano moderno, del Gioberti, tutti caldeggiatori della indipendenza della patria, e quest'ultimo anche della sua unità?


Certamente né io, ne nessuno ignoriamo questi meriti e queste glorie di quel popolo egregio, al quale si hanno tanti obblighi capitali da tutta la patria italiana, la qua le attende, lui duce nelle armi, di vedere compiuta l'opera gloriosa del suo riscatto. Non pertanto se vi ha popolo meno atto a far da centro in Italia è il Piemontese; e Torino non può, senza scapito della causa italiana, rimanere più a lungo capitale del nuovo stato, sia pure temporaneamente.

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Egli è un fallo innegabile, consentilo da suoi più valenti scrittori, che il Piemonte è la provincia che meno partecipa all'idea o tipo italiano. Dire il contrario sarebbe un adulare vilmente quel popolo illustre, il quale ha diritto di essere, appunto pe' suoi meriti, trattato con ischietlezza e con cittadina carità. Fino al tramonto dello scorso secolo il Piemonte isoleggia tra le famiglie italiane. La storia ce lo mostra come un paese quasichè chiuso, sottomesso ad ordini feudali rigidissimi, dedito alle armi, poco versalo nelle lettere e nelle scienze (1). Il Piemonte non partecipa quasi per nulla al vasto e fecondo movimento intellettuale d'Italia fino agli ultimi anni del caduto secolo (1). La lingua in voga tra le classi colle era il francese; il dialetto, un gergo aspro e duro, più di ogni altro alieno dalla lingua comune. Ciò dovrebbe bastare per chiarire, che il Piemonte ha la tinta più pallida della italianità. Il Gioberti, che è l'uomo più grande che abbia prodotto, il quale era tenerissimo della patria, cosi definisce l'indole del popolo subalpino: «La nobiltà del Piemonte rappresenta al vivo il genio de' subalpini, intero, saldo, tenace, schiavo della consuetudine,

(i) Il Giordani parlando del Piemonte ad occasione dell'Altieri, dice, essere un paese, che per tante età, si vede non aver mai prodotto all'Italia alcun lodato scrittore». L'Altieri cori la sua consueta energia, tratteggia così lo stato del suo parse: «Lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte, ed in tempi e governi ove niun' altra cosa non si polca né fare, né dire, ed inutilmente appena torse ella si poteva sentire e pensare.» Vita III 7. Al quale fa tenore il Botta: «Nessuna vita nuova, nessuno impulci so, nessuna scintilla di estro fecondatore: un aere grave pesava sul Piemonte, e i liberi respiri impediva.» Storia d'hai. cont. dal Guicciar. Lib. XLYIII. «I subalpini erano quasi esclusi dal novero dei popoli dotti e civili.» Gioberti, Rinnovamento, t. 2. p. 319.

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peritoso al sommo di mettere il piede fuori delle orine consuete, e avvezzo a coonestare la pusillanimità e la lentezza co' nomi di prudenza e di moderazione (1).» E già prima avea notalo che: «Nel moto civile, come nell'intellettuale, l'italianità del Piemonte fu egualmente serotina (2)», di che egli si fa ad esporre le ragioni: «La scarsa italianità nasce dal tardo ingresso alla vita italica; e questo dalla origine alpina del popolo e de' regnanti, dalla postura colligiana ed eccentrica del paese, dalla poca o niuna usanza avuta in addietro colla Italia interiore, dalla feudalità radicata e superstite negli abiti, da che è spenta nelle istituzioni, dal genio e costume marziale de terrazzani, e sovrattutto dalla tarda partecipane della lingua e delle lettere italiche, stante che il pensiero è informatore delle opere, e la nazione s'immedesima colla favella. Laonde l'Alfieri diceva, che il parlare italiano è un vero contrabbando in Torino città anfibia (3).» La storia di un popolo non è che la espressione della sua natura. ideale, la quale con movimento dinamico si estrinseca nell'azione: il popolo è come ogni uomo, che tanto fa per quanto è capace di pensare. Ed infatti il genio del piemontese essendo poco pieghevole, tenace, disciplinato, consuetudinario, non è nato ad universaleggiare né nel pensiero, né nelle opere, ed in questo è il contrapposto più deciso del napoletano (4); onde non dee recar maraviglia, se fornito di una

1.Introduzione allo stud. della filos. tom. 1. p. 166. Losanna 1846.


2.Primato, tom. 2. p. 403. Brusselle 1842.


3.Rinnovamento, tom. 2. p. 295.


4.Questa perfetta contrapposizione de' due popoli fu notata dal Gioberti: «Napoletani sono l'opposto de' Piemontesi e peccano per eccesso,


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tale conformazione morale, e favorito dagli eventi, la pianta municipale vigoreggi più in Piemonte, che in nessuno altro angolo della penisola: sarebbe stato contro natura se il negozio fosse corso ali inversa, ma la natura non è mai in contraddizione con sé stessa. Questo punto è stato più volle avvertilo dal Gioberti: «Quindi è che le strettezze e le miserie del genio provinciale albergano in Piemonte più che altrove, e che una gran parte de' Piemontesi non sanno ancora di essere italiani (1).» E posteriormente scriveva: «Gl'istinti municipali ci hanno radici così profonde che i nazionali mal ci possono pullulare; tanto che invece di seminarli e nutrirli altrove, esso ha piuttosto bisogno di riceverli; né si può sperare che ciò succeda prima che l'unione abbia rifatto le popolazioni, e trasfusa nelle vene subalpine una stilla di sangue italico (2).» Ed altrove: «Tra le sette politiche che ci sono in Piemonte) la più folla di aderenti è quella del municipio e la più scarsa è la nazionale (3).» Per le quali ragioni, non offuscale da soverchiante amore della terra natale, il sommo Torinese, la cui vita fu nobilmente consacrala alla patria ed alla scienza, avvegnacchè, con intuito lucidissimo de' casi che avvennero più di sette anni dopo la sua morte, raccomandasse la egemonia del Piemonte come necessaria alla futura liberazione della

come questi per difetto: negli uni l'immaginazione, l'impeto, l'ardire, la mobilità, il lusso del pensiero, dell'affetto e dello stile o soverchiano e traboccano, negli altri sovente mancano e scarseggiano.» Primato, tom. 2. p. 429.


4.Introduzione, tom. i p. 168.


5.Rinnovamento, tom. 2. p. 295


6.Rinnovamento, tom. 2 p. 301.

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patria, non pretermise di palesare i suoi dubbii: «Primo requisito per un compito qualsivoglia si e l'intenderlo, il volere, e l'essere atto ad esercitarlo. Ora per un fato singolare e per infortunio d'Italia, la provincia più acconcia per molti titoli ad appropriarsi l'egemonia salvatrice, è per altro la men capace di capirla e di corrispondere coll'ingegno e coll'animo a tanto grado (1).» Onde quel valentuomo, vedendo da un lato, che senza il Piemonte non potea farsi l'Italia, e d'altra parte pesando le difficoltà, che ostavano a che ne pigliasse l'iniziativa, dichiarava, che realmente l'unica speranza era da riporsi nel magnanimo Principe che ne guida i destini: «Stando le cose in questi termini il lettore chiederà forse, se io mi affidi che l'egemonia sarda sia un sogno possibile a verificarsi. Rispondo sinceramente recandomi a coscienza di dissimulare il mio pensiero in cosa di tal momento), che appena oso sperarlo. Direi che affatto ne dispero, senza il giovane Principe che regge il Piemonte. Egli protesta di amare l'Italia, e la fama che ha di leale acquista fede alle sue parole. Egli ama la gloria, e qual gloria può darsi maggiore di quella che tornerebbe a chi desse spirito e vita alla prima delle nazioni? Ancorchè i fati conducessero col tempo la monarchia a perire, la casa di Savoia potrebbe darsene pace, perché la sua morte sarebbe un' apoteosi. Fuori di lui, io non veggo in Piemonte chi sia in grado di appare chiare l'impresa, nonché di tentarla e di compierla (2).»

(1) Rinnovamento, tom. 2. p. 249.


(2) Non credo che i più tenori della dignità del trono, abbiano ad

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I fatti han provalo che quel gran cittadino non s'ingannava. L'Italia deve tutto a Vittorio Emmanuele, principe di cui la Provvidenza raramente gratifica gli uomini; nel quale non sai se ammirare più la bontà del cuore, la lealtà dell'animo, o la magnanimità del proposito, per cui non dubitò di porre a ripentaglio la propria corona, e la preziosa sua vita, sulla quale, è inutile dissimularlo, è fondata la speranza del compiuto riscatto della patria. Chi può vantarsi di aver fatto tanto? di avere arrisicato beni maggiori per la comune salvezza? Se egli è il primo soldato d'Italia per la bravura, ne è pure il primo cittadino perle sue virtù (1).

Se dunque tanto scarseggia il popolo subalpino dal lato della idealità e della universalità dell'indole, come potria essere il perno di una nazione che e per eccellenza ideale ed universale? quali sarebbero gli addentellati mercé cui potrebbe connettersi con le varietà ricchissime delle famiglie italiane, senza di che è non pure vano, ma dannoso togliere l'ufficio di centro motore degnazione? come potrebbe essere in grado di unificarne il moltiforme movimento, armonizzandolo senza schiacciarlo, che è proprio del popolo italiano, quando esso è il meno atto a comprenderlo? e come sarebbero potenziati ad ordinare rettamente il nuovo stato, i piemontesi tassati dal Gioberti di anteporre all’Italia la nativa provincia (2), di non possedere il

arricciare il naso, perché chiamo Vittorio Emmanuele il primo cittadino d'Italia, lui che ha la gloria unica di essere salutato Re Galantuomo.


(1) Rinnovamento tom. 2. p. 328.


(2) Rinnovamento, tom. 2. p. 297.

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senso della nazione (1); e de' quali il vizio principale consiste nell'essere pensando, scrivendo, operando più piemontesi che italiani (2)? Il Vico, Ira le leggi che regolano l'umana natura, pose prima questa: «L'uomo per l'indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo (3)»; di cui è naturale conseguenza, che vezzo de politici subalpini si è il misurare tutto il mondo dal loro paese; e deridere e sfatare quelle generalità, che si adattano forse men bene a cotal contrada che alle altre della penisola (4).»

1.Rinnovamento, Ib. p. 296.


2.Primato, tom. 2. p. 404.


3.Scienza Nuova terza edizione pag. 72. Napoli. 1744.


4.Rinnovamento tom. 2. g. 751. E il Cavour? Quest'uomo egregio, che è il più solenne politico che vanti il Piemonte, non fu immane dal vezzo municipale. Il Gioberti suo ammiratore, ( e chi noi sarebbe nelle parti lodevoli della sua amministrazione?) ecco come lo tratteggia. «Il Cavour non è ricco di questa dote (l'italianità), anzi pei sensi, gl'istinti e le cognizioni è quasi estraneo da Italia; anglico nelle idee; gallico nella lingua; per la natura delle sue lucubrazioni, e forse ancora per l'esempio fraterno e il costume della famiglia.» Rinnovamento, tom. 2. p. 514. Gl'imputa di avere nel 1818 nudrite le gelosie e le paure metropolitane di Torino (ibid), che il liberalismo patrizio, che nel Balbo e nell'Azeglio era italico, in lui si rendette subalpino ( ibid. p. 514 ), che il suo merito come municipale, consiste nell'innalzare il municipio a potenza nazionale (ibid). Il Cavour era però un uomo di raro acume, e certamente deviò da quella sua prima politica: i fatti in questa parte son chiari: gl'indussi italici del Principe non dovettero valer poco a correggere i suoi umori municipali. Ma può l'uomo veramente simulare natura? l'arte la modifica, ma non può trasformarla. Oggi la più gran parte de' suoi ammiratori conviene, che se fu felice nella soluzione della quistione esterna, non non si può dire che abbia avuto la stessa ventura per l'indirizzo dato alle cose interne. E dove è il difetto? esso non sta in altro, che nella scarsezza d'italianità, e nella prevalenza del municipalismo.

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Ma si dirà forse che i tempi sono cambiali, e che i fatti provano il contrario? Questa non è risposta sufficiente. I popoli non mutano mai radicalmente l'indole loro: se un popolo fosse capace di questa metamorfosi intellettuale, cesserebbe di esistere come tale. Ben può la natura temperarsi, ed in questo sta il progresso storico, ma non mai smettere la propria essenza. Fa pure progredire gli uomini quanto vuoi, che il tedesco non si trasformerà in francese, più che l'inglese in ispagnuolo: e così accade nelle varie provincie di una stessa nazione, ove abbiano caratteri differenti. Se il popolo piemontese era tale nel 1851, quando il Gioberti dettava l'ultima sua opera, sarebbe ridicolo il credere, che col volgere di qualche stagione, fosse divenuto tutt'altro. Non si nega che avendo raccolto in grembo i profughi di tutta Italia, non se ne sia vantaggiato nell'acquisto di maggiore ampiezza d'idee: ma egli è questo un moto incoativo e parziale; e gli scarsi effetti deggiono logicamente rispondere alla scarsità della causa. Certo il Piemonte coll'entrare nel civile consorzio delle famiglie italiche, ne godrà i benefici influssi: ma questi possono frullare solo dopo diuturna consuetudine. L' avere negli ultimi (empi dato uomini eccellenti, come quelli mentovati innanzi ed anche altri parecchi, non prova, perché essi sono pochi; e pochi individui, ancorché sommi, non giovano a dar fisionomia ad un popolo. Anche la Beozia ne' prischi tempi s'illustrò di Pindaro e di Epaminonda; e ne'

Tanto che da questo lato la sua condotta non è chiara; onde dubiti: se egli volea che il Piemonte diventasse italiano, o l'Italia piemontese. E forse puoi riconoscere che l'illustre estinto governa tuttora le cose interne del regno, come già Bruto, nella divina tragedia dello Shakespeare, riconobbe a Filippi che quel Cesare, ila lui spento. reggeva tuttavia le sorti di Roma. Giulio Cesare Atto 5. scen. 5.

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moderni nacque inglese lo Shakespeare, che è il maggior poeta dopo Dante, ed inglesi furono il Milton, il Moore ed il Byron, che per impelo d'estro, ricchezza di concetti, ed eleganza di forme entrano in lizza co' migliori italiani; ma non per questo la Beozia fu la contrada più ingegnosa della Grecia, né la nebulosa Albione è la terra delle muse.

Il Piemonte vince tutti i suoi conterranei nel pregio delle armi. Questo antico suo privilegio, connaturato alla sua indole, fu avvertito da più tempo dal Machiavelli, perché veramente le qualità del suo carattere sodo e temperato, conferiscono a fare de suoi terrazzani ottimi soldati (1). La storia ha dimostro se questo sia vero. Il Piemonte è dunque fazionato dalla natura ad essere la spada d'Italia, la sentinella della sua indipendenza, il braccio che la difende, lo scudo che la copre; ed è perciò fatto ad assimilarsi e ad indirizzare l'elemento militare, che cova, dove più dove meno, in tutti i suoi connazionali; e certamente può tenersi contento della sublime vocazione datagli dalla Provvidenza. Tale e la parte eccelsa che per natura gli spetta nel consorzio italico; e per questa l'ufficio egemonico gli è stato naturale, perché a riscattare la patria dallo straniero ci vogliono buone armi innanzi tutto; e la provincia più armigera riesce la sola capace a condurre l'impresa; d'onde la legittimità della sua temporanea dittatura,

(1) Il Balbo paragona la sua patria alla Macedonia ed alla Prussia. Il paragone è esatto per la prima, non per la seconda. La Macedonia principe per le armi sulla Grecia, ma la Prussia è realmente il centro de) pensiero e della coscienza del popolo tedesco. A questo ragguaglio il Piemonte non le somiglia, benché le si avvicini dal lato della tardità dell'ingresso nella vita della nazione.

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che il Gioberti notò: «Chiamo iniziale tale dittatura, perché ufficio del Piemonte sarà bensì di operare da se solo la liberazione della patria, ma non mica il suo giuridico ordinamento L'azione subalpina si restringerà dunque a cacciare il barbaro, e a proclamare i principii assiomatici dell'unione, della indipendenza e della libertà e democrazia patria, che non hanno mestieri di deliberazione (1).» Il Piemonte è dunque il centro militare d'Italia; e se le leggi e le armi sono le une il fondamento della civile coltura di una nazione, le altre argomento della sua indipendenza e del suo credito presso gli esterni, è manifesto di che momento sia l'opera sua ne destini della patria, e per cui ha diritto alla infinita riconoscenza ed all’amore degl'italiani. Che se egli volesse anche assumere l'ufficio di fòco civile in Italia, e di moderatore della sua civiltà, ciò per le cose dette saria innaturale, e per conseguente dannoso a se ed alla patria. E si guardi dal farsi trascinare da' proprii istinti, e dalle altrui adulazioni: usi in somma con temperanza della prospera fortuna, dote difficilissima e propria degli eroi; ma che non può ripromettersi da quel popolo illustre? Attenda a questo: che la sua potenza è fondata sull'universale consenso ed amore, assai più che sulle proprie armi. Che l'avere inizialo con le armi la redenzione italica, non gli conferisce altri diritti; perocchè le idee del riscatto della patria e della unità nazionale non nacquero in esso, ma sono frutti de' germi latenti da secoli nella coscienza delle genti italiane, ora maturi; ed egli intanto

(1) Rinnovamento, tom. 2. p, 275.

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ha ottenuto l'opinione universale, perché si e fatto interprete di queste idee, ed esecutore della volontà nazionale.

Dalle cose dette emerge, che se il Piemonte non può giustamente togliersi il carico di ordinare civilmente il regno italico, nemmeno Torino può più a lungo esserne la capitale. Il tempo della totale redenzione nazionale, per sciagura, non pare imminentissimo: quello in cui si avrà Roma sembra ancora più rimoto: in questo intervallo, che può protrarsi per anni, urge la quistione di provvedere agli ordini civili della penisola, senza di che non potrà cementarsi la recente unificazione. Ora nessuna sede è meno propria di quella di Torino, città troppo eccentrica, e perciò poco atta ad essere il punto di appoggio della leva nazionale, perché questo vuoi stare in una certa medianità, quando sia possibile. Ma principalmente perché il suo ambiente morale non e propizio: se il popolo piemontese è pregno di municipalismo, Torino, che ne è la capitale, deve risentirsene anche più, se è vero quanto innanzi abbiam ragionato sulla nozione della capitale: il Gioberti, torinese, non omette di additare un tal fatto: «Laddove in Torino, come per lo più nelle capitali, è maggiore il senso e la pratica del positivo, ma per manco d'idee e di affetti la prudenza traligna in ignavia, la spertezza non vale che ne' piccioli affari, ed il talento conservativo in municipale degenera (1)»

(1) Rinnovamento, tom. 2. p. 305.


«Il Piemonte, e in ispecie la sua capitale, è dopo la Sicilia, il paese più scarso di spiriti italici, avezzo per antico a vita appartata e ristretta, e domo da abitudini feudali e servili. Più anima, generosità e nervo

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né a ciò contrasta, che si possano ivi chiamare i più eccellenti uomini della penisola, perché soccorrano co' loro lumi. L'azione dell'ambiente è indefinibile ed invisibile, e non pertanto è penetrativa ed efficacissima. La storia recente ci ha fatto sapere che grave influenza le aure viennesi esercitarono su' compilatori de' capitoli del 1815, anche su quelli che parea ne dovessero essere più immuni; e da qui nasce la importanza del luogo che si sceglie pe' congressi politici, come riconoscono senza dubbiezza i diplomatici. Gli uomini sono naturalmente condotti a modificare le loro idee secondo l'ambiente morale in cui vivono, come secondo il fisico modificano il tenore di vita. Voler pretendere che gl'italiani, i quali recansi a Torino per metter mano agli affari, cessino di essere uomini, e una stolta pretensione; ed una sperienza freschissima ha mostrato se possa dubitarsi di questo fatto morale.


Torino perciò non porge quell'ambiente sano, che l'Azeglio crede di trovarvi (1), nel quale il governo possa risedere. Il tranquillo vivere e la moderazione degli abitanti è una delle condizioni, ma non la principale. Oltre a che di questa ammisuratezza non si può fare un giudizio esalto, poiché finora le cose sono andate a pelo degl'istinti municipali di Torino; onde non si può per prova sapere quanto la sia per durare, se il governo si arrisicasse a far cosa in senso contrario. Il Gioberti in più luoghi si duole appunto dell'opposto; e certamente la sua sentenza non gli si può recare a parzialità: «Che se l'eccedere virilmente

si trova in alcune provincie, onde se l'Alfieri astigiano «parve un miracolo, torinese sarebbe un mostro.


Rinnovamento, tom. 1 p. 301.


(1) Quistioni urgenti.

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ripugna al Piemonte, non così il trasmodare nelle opinioni e nelle minuzie...... Carlo Alberto nel giro di due anni fu bersaglio di biasimo e di lodi egualmente te superlative (1)». Ed altrove: «Che importa per cagion di esempio l'immunità della stampa, se non puoi bandire il vero ed il giusto, senza incorrere ne' vituperii? Potrei io scrivere queste cose se fossi in Piemonte? (2)» e riferisce un luogo del Carutti, in cui questo egregio uomo espone i tumulti che si faceano contro il ministero e il parlamento, per che si temea non si vincessero partiti avversi alle idee municipali: «Le arti adoperate dagli avversarii furono e prima e dopo il voto indegnissime: libelli inverecondi, urli osceni; scellerate minacce agli uomini, che sostennero onoratamente la propria opinione nell'aula del parlamento (3)». Ed anche nelle penultime ed ultime sessioni parlamentari i deputati, che misero fuori opinioni avverse a quelle in voga, avvertirono sovente che l'aria non era serena intorno ad essi. E se il vento municipale soffii a Torino, si può vedere dal discorso pronunziato dal Chiaves nella tornata del 27 marzo ultimo del parlamento, ad occasione della quistione romana; nel quale l'onorevole deputato, tuttochè avesse protestato della devozione del Piemonte alla causa italiana fino al totale sacrifìcio di sé stesso, in realtà poi s'ingegnò a sfatare tutte le ragioni per cui Roma, diceasi, dovesse essere la capitale d'Italia, mostrando che la pubblica opinione non era poi quella che si credeva; che questa volea, si aspettasse che l'azione civile e politica

1.Rinnovamento, tom. 2. p. 301.


2.Rinnovamento, tom. 2. p. 299.


3.Rivista ital. giugno 1849 presso il Rinnovamento tona. 4, p. 321.

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si fosse svolta anche nella città eterna; e dichiarò: che la grandezza di Roma non ha che fare colla politica; e più appresso: che il credere che un governo italiano in parlamento italiano a Roma potesse influire a far grandi i fatti e le cose, era un concetto che egli si contentava di chiamare inesatto, per non osare di chiamarlo puerile: conchiudendo: «Dunque l'opinione universale (forse la universale a Torino), credetelo, l'opinione universale ci da al trasferimento della sede del governo tutto il tempo che vogliamo,» Questo, come è evidente, era un rimandare la elezione della capitale a Roma alle calende. Quanto sarà il tempo che ci vuole perché a Roma si svolga la vita civile e politica? certo molti anni; e quando Torino continuasse a rimanere capitale per una ventina d'anni, se fosse possibile, (giacche ci vuole almeno una nuova generazione per introdurre le idee di vita civile e politica in un paese che non ne ha) e le cose andassero per bene, non ci sarebbe più ragione di mutare la capitale. Ecco come il rimettere a tempo indefinito la quistione, era via per risolverla in definitivo a favore di Torino. E l'oratore ebbe vivissimi segni d'approvazione, prova che le sue opinioni facean tenore alla corrente (1). Il governo che ora è entrato sotto il grave incarico di riordinare l'Italia, dee trovarsi nell'ambiente dove lo spirito nazionale sovreggi, dove ci sia copia di nomini ingegnose capaci d'intendere non solo il proprio paese, ma l'Italia. E queste condizioni non le offre Torino. Laonde finché la sedia del governo ivi starà, non è da sperare che le cose volgano al meglio.

(1) Tedi le Discussioni mila quistione romana. Torino 1861.


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Gl'istinti municipali premeranno sul governo, sia pure composto dagli uomini più capaci e più teneri della patria: Torino sarà la misura cui dovrà adattarsi l'Italia; il che se ne' giorni sereni è pericoloso, torna pericolosissimo ne' giorni torbidi, e può causare la rovina della patria. Ma si dirà: mentre le sorti italiche stanno ancora sospese, vuoi tu togliere il centro governativo da Torino, soprattutto in caso di nuova guerra. ? Rispondo: che questa non pare imminente: ma se lo fosse, Torino dee sempre essere il nucleo militare d" Italia, ed è naturale che ivi abbia domicilio la suprema direzione delle cose militari. Il trasporto della sede del governo so anche io che non può farsi in un giorno; esso si dee apparecchiare con prudenza, perché segua nel modo meno aspro e più compiuto. A ciò dunque provvegga il senno de' governanti: ma questa è la conclusione del discorso, che il tenere Torino per capitale anche provvisoria, è sfidare imprudentemente gravi pericoli.

Ecco le ragioni per cui ne il popolo toscano ne il subalpino può far da centro, né Firenze né Torino da capitale dell'Italia. La provincia italiana che dee fare l'ufficio di motore della vita di tutta la nazione, dee essere la più universale non per le arti, non per la lingua, non per le scienze fisiche e matematiche, non per le armi, ma per la filosofia e la giurisprudenza soprattutto, e ricca di spiriti nazionali, perché possa adeguatamente significare la ragione riflessa e la volontà nazionale; onde se in questo vanto il popolo napoletano avanza gli altri, co me è stato dimostrato nella prima parte

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di questo discorso, da tale premessa viene di conseguenza, che esso sia il natural fòco della vita nazionale. Aggiungi, che indispensabile prerogati va perché un popolo possa diventare il punto movente di tutta la nazione, si è che egli sia complessionato in modo da porgere addentellati reali alle altre famiglie congeneri, le quali Si connettano con esso, come le ruote secondarie di una macchina si incastrano colla maestra propagatrice del movimento. Ed appunto questa prerogativa adorna il popolo napoletano, come fu pure da noi dimostrato: se egli primeggia per le scienze intellettuali e per la giurisprudenza, non difetta punto in possedere le altre parti che costituiscono l'integrità della civiltà italiana, per le quali può combaciare con le altre genti d'Italia. Così ha bastante altitudine alle arti ed alle scienze sperimentali per potersi legare co' popoli delle Romagne e di Toscana; possiede non comune capacità per le cose nautiche, industriali e militari per potersi rappiccare a' Veneti, a' Liguri, a Subalpini, a Siculi; e per collegarsi a' Lombardi ha dippiù con essoloro una certa intellettuale cognazione (1).

(1) Questa parentela intellettuale tra i Napoletani ed i Lombardi è visibile nel genio de' due popoli. Dopo Napoli, i migliori filosofi speculativi sono di Lombardia: così Pietro Lombardo, Geronimo Cardano, il Pomponazzi ed altri: nella filosofia civile, insieme co' Napoletani, i Lombardi sovrastano agli altri popoli, il Romagnosi, il Beccarla sono lombardi e la patria del Verri è la sorella minore di quella del Serra, del Filangieri, del Genovesi. Nissuno in Italia più de' Lombardi studia nel Vico, ed abbiamo obbligo al Ferrari della migliore edizione delle sue opere. Nelle lettere non molli, ma sommi, come è intervenuto a Napoli, quali, per non dire altri, sono il Monti, il Parini, quell'unico lume del Manzoni. Negl'istinti nazionali puoi dire lo stesso: per le vicende politiche la storia lombarda è un ritratto quasi di quella di Napoli. L'indole del lombardo perla vivacità, l'acume,

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Ne importa che per alcune di queste doti sia superato da qualche famiglia singola, perché allora sarebbe il popolo unico, non già il principale. Importa bensì che egli primeggi per le discipline intellettuali e giuridiche, che sono il perno dialettico e vitale delle umane scienze e della società civile; basta poi che abbia delle altre quanto sia necessario a collegarsi co suoi confratelli. A tutte queste considerazioni non pose mente l'ottimo d Azeglio, ondè che la sua dimostrazione manca di reale costrutto; e con lai hanno sorte comune i fautori della supremazia piemontese. Or come il popolo napoletano si può chiamare il centrale della nazione italiana, e dimostrammo con invincibili argomenti, Napoli essere il capo naturale di questo popolo, ne segue per fato logico, che Napoli sia per natura la Capitale ed il centro delle genti italiane, come per natura il centro di una sfera lo è anche delle sue concentriche.

A questo aggiungiamo altre considerazioni, che se di minore rilievo, saranno però utili a dare più saldo appoggio alla nostra tesi.


Una delle doti essenziali per determinare una città capitale, è che la gente che vi stanzia abbia quella qualità che chiamasi comunicabilità, o sociabilità, la cui mercé riesca facile agli abitatori delle altre regioni dello stato di mettersi in relazione con essa. Abbiamo mostrato senza replica possedere il popolo inquilino di Napoli questa

la prontezza e la universalità, è similissima a quella del napoletano. Crediamo da queste ragioni nascere quella naturale simpatia che tira l'un popolo verso l'altro.

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proprietà in modo eminente, per la quale avendo egli certo sottilissimo natural tatto per iscovrire quale è il lato comune che possa avere con altri, cerca di collegarglisi da questo lato, onde è che vive in buona armonia con tutti, accettando senza contrasto i diversi umori e le diverse indoli degli altri; i quali, perché non si sentono contraddetti in quanto alle differenze, che ciascuno ha, facilmente accettano il lato comune che hanno con esso, e vivono seco in buona concordia. Questa pieghevolezza, o vogliam dire dialettismo pratico, del napoletano, ha un riscontro perfetto ed un potente veicolo nella sua maniera di parlare. Potrà taluno essere tentato a ridere di questa avvertenza, ma non credo che ciò possa farsi sul serio, quando è una verità, che nessuno sogna di contraddire, che tanto le lingue quanto l'accettuazione nel parlarle, tengono intimamente alla natura delle nazioni, di cui sono la rivelazione più spontanea e veritiera: e se la lingua è il più potente e naturale mezzo di comunicazione tra gli uomini, il grado di comunicabilità di ciascun popolo può determinarsi dal modo di comunicabilità della sua lingua; e tra popoli unilingui dalla pieghevolezza e facilità della pronunzia di ciascuno. Può chiunque vedere da sè, che quelle genti d'Italia, che hanno una pronunzia più aspra, più. inflessibile, e però meno intelligibile a chi ne ha una diversa, sono appunto quelle che più difettano di comunicativa. Cosi tra le genti italiane quella che ha meno determinate inflessioni nella pronuncia è senza fallo la Toscana, e quel popolo gentile è per natura assai socievole; ma quello che non ha alcuna accentuazione peculiare è il napoletano, nemmeno l'aspirazione e la leggera cantilena del toscano:

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la sua pronuncia è libera, sonora, aperta, per la quale si lascia facilmente intendere da tutti: certo un genovese ed un calabrese s intenderebbero assai meno tra loro, che entrambi con un napoletano. Adunque per questa nativa arrendevolezza ed armonica tempera, coadiuvata non poco dal suo parlare, il napoletano è fatto a bella posta per comunicare facilmente tanto con r urbano e sottile toscano, quanto con l'energico paesano delle Romagne, come col grazioso e compagnevole Veneto, che col vivace siculo, col rigido subalpino, e con l'ingegnoso lombardo; dove che nessuno di essi vanta questa capacità di attemperarsi così pianamente agli altri, e taluno ne ha grandemente difetto.

Se si guardino poi le condizioni materiali, che pure sono da pesare grattandosi della capitale di un grande stato, non so quale tra le città italiane ne abbia più felici di Napoli. Essa per ampiezza è incomparabilmente maggiore di ogni altra; per bellezza di postura unica; per salubrità d'aere e benignità di cielo non cede ad alcuna; ha un agro ricchissimo, il più ricco e fecondo del regno, che la provvede abbondantemente degli agii della vita; tiene buoni edifìcii pubblici, e possiede la più vasta reggia, il principale teatro, ed il più ampio e ben disposto palagio pe' pubblici uffici; per silo è, salvo Roma, la più mediana; ha dippiù l'incalcolabile vantaggio di essere spiegata sul mare, ciò che da un lato la rende facilmente accessibile alle numerose città littorane, ed a quelle delle isole italiane; dall'altro la rende un naturale centro di movimento politico e commerciale, non pure con l'Italia stessa, ma con le nazioni straniere,

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il quale andrà smisuratamente a crescere quando i fati consentiranno che l'istmo di Suez venga traforato; se il suo porto non è ampio, tiene a poca distanza le due rade di Baia e di Castellammare, che al bisogno potrebbero migliorarsi. Dopo ciò non le si può obbiettare sul serio di essere esposta al nemico dalla parte del mare; perché qui vi ha due risposte: l'una che essa è munita di fortificazioni, le quali nulla impedisce di accrescere; l'altra, e la principale, si è che quelle dovrebbere guarentirla nel caso di guerra con nazioni marittime, cui non potesse opporre forze sufficienti. Questo non può applicarsi al caso di guerra con l'Austria, perché il regno italiano avrà sempre una flotta tale, da opporla all'austriaca: dovrebbe dunque aver guerra con la Francia, con l'Inghilterra, o con la Russia: con questa ultima non sappiamo vedere quali possibili ragioni di collisione possano correre: con la Francia, è facile scorgere che si dee togliere di mezzo tale eventualità come assai strana, quando noi le siam congiunti per sangue e per obblighi inestimabili; oltreachè se avessimo ad incorrere in una sciagura simile, potremmo noi ragionevolmente presumere di far testa anche alle sole sue forze terrestri? Rimane l'Inghilterra: questa eventualità, che è una possibilità, è però improbabile quanto si può dire; essa è legata con noi per una certa medesimezza di principii politici, e ci ha perciò dato il suo appoggio morale, se non altro, nel nostro risorgere; ma data pure l'ipotesi della guerra, si starà la Francia colle armi al braccio? la Francia non può mai consentire che l'Inghilterra, opprimendo l'Italia, accresca la sua già troppo formidabile potenza nel mediterraneo. Inoltre gli eventi delle guerre si fan facendo di giorno

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in giorno più rari; i vincoli solidali, che legano le nazioni tra loro, si stringono ogni dì più; e le guerre isolate tra stato e stato sono per divenire quasi impossibili: le guerre o saranno generali, o non saranno affatto: questo è l'avviamento che pare abbia preso la politica. Solo è importante che la capitale T Italia sia al coverto degli assalii del suo potente e perpetuo nemico, l'Austria;e sotto questo rispetto non so quale città abbia tante vantaggi quanto Napoli, per giungere alla quale dovrebbe l'Austria passare trionfante a traverso di due terzi quasi della penisola, superando non dispregevoli linee di difesa.

Ecco in breve adombrati fuggevoimente i meriti del popolo e della capitale. Meriti immensi senza dubbio, i quali presi nell'insieme non hanno pari. E che si dirà quando si ponga mente, che le glorie di cui questa provincia va altera nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, sono state quasi unico frutto degli sforzi individuali de' suoi cittadini? Se poi si guarda agi influssi maligni che loro ostarono, terranno del prodigio. Tra' nostri reggitori dopo Federico svevo, e Alfonso aragonese non sono surti né un Cosirao né un Lorenzo Medici, né un Leone X, né una Elisabetta, né un Luigi quarto-decimo, né un Federico prussiano. Per l'opposto essi, sempre stranieri almeno di originine, attendeano solo a mantenere la loro potenza, dandosi poca briga del resto; anzi talvolta avversando apertamente gli studii, come sopra tutti fecero gli Spagnuoli nella lunga loro dominazione {1). Furono essi fomentati alquanto sotto il terzo Carlo,

(1) Era agli Spagnuoli sospetta ogni audizione, e si guardavano

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ma i successori alle orme onorate non tennero dietro. Con ciò spieghi perché in casa nostra l'insegnamento privato e individuale ha avuto la gloria di tener vive le fiaccole della scienza e della libertà, quando il costume governativo era volto a spegnere l'una e l'altra. E comunque spesso incontra, che a' sommi ingegni non sieno propizii né gli uomini ne la fortuna, certo non credo, che in nessun luogo abbiano quelli sì dovuto fronteggiare la perfidia della sorte, quanto qui. Quante tristi vicende, quanti assalti dolorosi non hanno dovuto tollerare? la miseria, l'esiglio, il carcere, e parecchi ci han messo anche la vita: testimoni Tommaso d'Aquino, il Tasso, il Vico, il Serra, il Broggia, il Filandieri, il Telesio, il Campanella, il Giannone, il Coco, il Bruno, il Vanini, il Paleario, il Pagano, il Conforti, il Cirillo e tanti altri nobilissimi. E non pertanto tale era il nostro valore nelle scienze, che il Botta e il Denina di conserva ascrivono il maggior prosperare degli studii in Lombardia, assai più che in Piemonte, a' napoletani che andarono ad insegnare a Milano, e che il Piemonte non poté ottenere (1).

Di che dunque non sarà capace questo popolo se le aure spirino più seconde? Chi può misurare l'altezza che potrà attingere la sua prodigiosa virtualità, ove cessino

molto di non fare introdurre novità nelle scienze, o nel modo d'insegnarle e di professarle. Giannone, Stor. civ. tom. Al p. 132.


(1) II Botta fa suo il seguente luogo del Denina, che narra perché Milano per la coltura delle scienze e delle lettere superò Torino: «L'imperatore Carlo VI consigliato dal principe Eugenio, protesse e promosse nella sua Lombardia le buone arti e le scienze, più ancora che il re Vittorio non poté fare in Piemonte; egli avea più mezzi di tirare a Milano i Napoletani allora suoi sudditi, che non avesti se il re Vittorio per tirarne a Torino, i Op. cit. Lib. XXXVIII.

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gli ostacoli che le sono stati assiepali d'intorno? Se è stato tanto grande in ceppi, libero non supererà sè medesimo? Se le sue individuali forze separate e disgiunte hanno potuto produrre quei miracoli, che non potranno unite e consociate? La vigorosa vitalità di questo popolo è ancora in gran parte latente; occulta altrui, forse ignota in parte anche a se stesso, colpa de fati avversi. Per apprezzarlo non basta guardare la buccia: bisogna saperne il passato, conoscerne l'indole, vivere la sua vita, intenderne le aspirazioni: «Questa nazione, esclamava il Coco, ha la disgrazia di essere stata vilipesa, perché non conosciuti la: gli spagnuoli la conoscevano e la temevano: solo Federico II imperatore la conosceva e l'amava, (1)» Ma quale sia la sua virtù, quale il suo avvenire non isfuggi alla vasta e penetrante mente del Gioberti, di cui è pregio del lavoro riferire le parole. «Grandi sono le speranze collocate dalla comune patria nel fervido ingegno de' popoli austrini della penisola; i quali vinceranno sé stessi e le loro memorie, quando alla vena naturale, che è in loro ricchissima, si aggiungeranno i sussidii dell'arte. Imperocche si può dire, generalmente parlando, che quanto hanno fatto sinora di bello e di grande in ogni impresa d'ingegno, di mano e di senno, non dirò solo i Napoletani e i Siciliani, ma tutte le nazioni meridionali del mondo, è stato più effetto della natura che de' soccorsi civili, più opera degl'individui che delle istituzioni, più industria dell'istinto che della disciplina pubblica e privata, la quale nonché favorire l'esercizio delle facoltà più nobili

(1) Saggio stor. p. 41. nota 2.

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in que' luoghi, dove esse maggiormente abbondano, lo trascura o combatte, cercando di soffocarlo. Cosicchè in tali paesi i fruiti più esquisiti della mente sono, come di re, un provento spontaneo, che nasce a prova non ostanti l'incuria o il mal talento degli uomini, a guisa di que' preziosi portali del suolo, che la natura vi semina a larga mano, e che vengono ricercati e conquistati a gran prezzo dagli abitatori di men liete regioni. Ora se nelle contrade boreali della nostra Europa, lo studio e il volere dell'uomo hanno saputo vincere le condizioni ribelli del terreno e del ciclo, e produrre tutti que' miracoli di civiltà che veggiamo; se nella inospita Bretagna, e tra le nebbie palustri del Tamigi ora sorgono la prima monarchia e la prima città del mondo, di quali prodigii non sarebbe capace l'estrema Italia, quando ivi alla natura oltrapossente l'arte umana si pareggiasse?» E questa natura ora dimanda e vuole liberamente esplicarsi, perché si compia il vaticinio dello stesso scrittore, «che la salute dell'Italia le possa quandochesia venire in gran parte dalla Giarretta, dal Sebeto, dal Volturno, dal Garigliano a donde già uscì anticamente (2).»

(1) Primato, tom. 2. p. 153.


(2) Primato, lom. 2. p. 435

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III.

Queste considerazioni che si radicano nella natura stessa delle cose, noi con ma fede in esse, e nel retto senso e sincero amore verso la patria degl'italiani, esponghiamo loro, sperando che non essendo né arbitrarie, ne sprovvedute di contenuto reale, possano indurre in loro quella profonda convinzione che hanno prodotta in noi. La taccia solita di municipalismo non potrebbe esserci apposta a ragione:. perché se questa parola ha un significato, vuole esprimere il disordinato amore della propria terra, per cui si promuove il suo bene particolare a scapito dell'universale, cioè della Unità. Dunque ci si provi prima, che la vita di una nazione non abbia per base il diritto; ci si mostri come Napoli non sia il centro giuridico d'Italia, e perciò la personificazione del suo intelletto e della sua volontà, considerata come unica comunanza civile; s'impugni, che la tempra del napoletano non sia la più universale e dialettica tra tutte quelle di cui sono forniti i suoi confratelli, onde egli non sia allo a fare l'ufficio di lesta, di centro organico, di fòco vitale, di ruota maestra nell'organismo e nella vita della nazione italiana; si provi tulio questo,

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se è possibile, ed allora piegheremo il capo innanzi all'accusa. Ma se questa dimostrazione non può farsi, perché resiste alla storia, e quel che e più, alla natura delle cose, la quale è più forte delle arguzie e de' sofismi umani più o meno passionali, allora tanto sarebbe giusto il tassare di municipalismo la legittima supremazia di Napoli, che noi abbiamo indicala, quanto sarebbe imputare di egoismo la testa, la quale dimostrasse al petto, alle braccia, alle gambe, che ella, non essi, dee reggere naturalmente il corpo: ci si conceda l'argomentare a modo di Menenio Agrippa.

Non si parli della solita imputazione d'immoderanza fatta a' napoletani. Pruove gravissime stanno in contrario, anche assai recenti. Quali sono le intemperanze in cui è trascorso questo popolo? Non è forse degno di elogio, vivendo tranquillo da diciassette mesi immezzo a tante turbinose vicende, e tra gl'incendii della guerra civile? Non si può ragionevolmente ascrivere ciò alla forza del governo, la quale è stata nulla nel breve, ma agitatissimo spazio della dittatura; e presso che nulla con le seguenti amministrazioni, sotto cui la soia forza quasi è stata la lodevolissima Guardia Nazionale, composta di cittadini appartenenti a quasi tutte le classi del popolo. In che ha egli imbarazzato l'azione governativa? non ha forse il governo fatto quello che? ha voluto, comunque la più parie delle cose fatte non gli fosse andato a sangue? L'unico eccesso che gli si può rimproverare, fu l'assalto dato alla vecchia polizia due giorni dopo lo statuto: ma se un tal fatto è condannevole, è spiegato però dall'odio profondo ed inveterato che covava negli animi, sempre rinfrescato da nuove e intollerabili vessazioni.

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E se qualche rumore è accaduto anche dopo, è stala cosa di ben lieve momento, da non porre in bilancia con la profonda quiete, serbata per tanto tempo; che anzi quelle agitazioni non si hanno ad avere in nessuna stima, atteso lo scarso numero e il poco credito di quelli che le promossero. Ed infine ove la forza rettrice è debole, non si può recare a colpa del popolo, se veggendosi quasichè senza freno, qualche parte di esso straripi alcuna volta. Gli uomini non sono angeli; che se lo fossero, i governi non avrebbero ragione a brigarsi di loro ne punto ne poco. Neanche dee darsi peso allo spauracchio degli spiriti repubblicani, che voglionsi ardenti a Napoli. Questa credenza, nella quale sono incapati parecchi, e un grosso errore. Napoli è paese democratico, ma non repubblicano, perché il suo acume sa discernere l'essenza, dalla forma più o meno propria; e però intende bene, che si può essere liberi e vivere democraticamente sottogoverno a principe; come si può stare schiavi sotto un reggimento repubblicano. Una prova luculenta de suoi sentimenti monarchici la diede, quando non dubitò di obbligare gli uomini della dittatura a procedere senza più allo squittinio universale, al che costoro erano notoriamente avversi. Certo era quello il momento opportuno di proclamare la repubblica. Se poi a Napoli si viva con libertà, si può, vedere da che, sebbene il maggior numero parteggi per la libertà con monarchia, tollera i repubblicani, i settatori del principato assoluto, i retrogradi, e per fino gli austriacanti, i quali, se avessero serbata più moderazione nello scrivere, non avrebbero avuto a dolersi di qualche violenza usata contro certi giornali, che colla veemenza faziosa del linguaggio l'aveano provocata.

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Il popolo napoletano consente facilmente che ognuno pensi come gli talenta, appunto per la larghezza del suo concepire; e in esso trovi quell'ambiente, (che indarno l'Azeglio va cercando a Torino) vasto, universale, pieno di calore e di vita, ma senza eccessi, nel quale tutte le idee si scontrano senza offendersi, e vengono in discussione, dalla quale salta fuori la verità, come la scintilla che sprizza nell'attrito.

Ma sarà forse più solida l'altra accusa, che pure si muove da molti, cioè che anche a mandarsi buono quello che abbiam detto sulla precellenza della napoletana famiglia, a cui capo sta Napoli, ciò sia vero pel passalo non pel presente; e però trattandosi di storia e non di presenzialità, non può vantaggiarsene in modo alcuno la nostra dimostrazione. Questa accusa poggia sopra un grave errore, per disgrazia comune a moltissimi, il quale consiste in una singolare credenza (dico credenza, perché non sorretta da alcuna prova), cioè, che il passato sia qualcosa di morto, e che la storia non sia che un vasto cimitero delle pazzie e de' travagli del genere umano; il che se fosse vero, come potrebbe essere la magistra vitae e l'obbietto di serie meditazioni, non sapremmo comprendere. I migliori antichi non la sentivano così: per buona sorte questo malvezzo, frutto della superficiale filosofia francese del secolo diciottesimo, va perdendo vigore, non si però che non stia rigoglioso presso il volgo degli statisti, de' politicanti, e de' rimestatori delle cose umane e divine: è curioso poi che costoro abbraccino la dottrina delle nazionalità, certamente senza comprenderla, la quale è la condanna della loro vacua credenza.

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Il presente in realtà non è che l'attualità del passatoci quale ne e la via eia preparazione: questo è palpabile nella storia singola di ogni individuo, di ogni nazione, anzi del genere umano. Se io oggi sono quel tale determinato individuo, gli è perché sono nato da quei genitori, in quel tale luogo, mi sono nudrito di. que' tali cibi, ho atteso a que tali o tali altri esercizii corporei ed intellettuali, ho vissuto insomma della tale o tale altra maniera: il mio presente è dunque il risultato reale del mio passato, il che vai dire, che io in tanto sono oggi, in quanto sono stato per l'addietro. Così pure per le nazioni: se la Francese, se l'Inglese oggi sono tali quali sono, lo debbono a che esse hanno avuto quella patria, que' costumi, quegli ordini politici, quelle leggi, quelle credenze religiose, quelle arti, quelle guerre che la loro storia ci narra. Questa mi pare una verità palpabile. L'attuazione continua dalla realtà potenziale dell'individuo, della nazione, del genere umano è la storia: ed è questa la verità della dottrina del progresso continuo, di cui sono tanto presi i moderni. Il separare il passato dal presente è un'astrazione subbiettiva, un giuoco puerile: è un rendersi inesplicabile lo stesso presente, un sostituire all'ordine delle cause e degli effetti che governa l'universo, il capriccio ed il caso. Come poi possa fondarsi sopra questa chimerica opinione una politica soda, reale, sustanziosa, che risponda alle condizioni di una società qualunque, è un problema d'impossibile soluzione, come il quadrare il cerchio; e chiarisce la vanità degli sforzi de' novatori a vanvera, di cui per disgrazia non c'è stata mai carestia in tutti i tempi e dovunque, i quali alla natura delle cose che non intendono, vogliono sostituire i delirii de' loro infermi cervelli.

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Napoli dunque è oggi tale quale l'ha fatta il può passato: il che si converte col dire, che il suo presente è la realizzazione del suo passato, il quale non e morto ma vivo in quanto al suo reale contenuto. Ne per questo si dee pretendere che in ogni anno debba produrre uomini grandi; e che per non dire altri, l'Aquinate, il Bruno, il Vico deggiano sorgere ad ogni passo: questa sarebbe una pretensione stolta, contraddetta dalla storia, perché la stessa Grecia non ha dato che un solo Omero, ed un solo Platone: e la feconda Toscana un solo Dante, E Napoli ha diritto, crediamo buonamente, a riposarsi dopo aver dato ali umanità Tommaso, in cui si compendia la vasta civiltà del medio evo; Giordano che abbraccia un periodo di civiltà eterodossa, che ancora dee compiersi; il Vico, che ha iniziato la nuova civiltà dell'accordo tra la fede e la scienza, tra la religione e la politica, tra il sacerdozio e l'imperio; civiltà appena incoata, di cui ognuno può scorgere quanto disgraziatamente sia lontana ancorai attuazione.

Ma è poi egli vero, che anche al presente noi siamo inferiori alle altre genti d'Italia (1)?

(1) Sarebbe a fare una discreta dimanda: da quale epoca comincia la nostra pretesa inferiorità? Certo non prima del 99, perché allora eravamo ricchi di quella moltitudine di uomini insigni, che perirono atrocemente. Dunque dopo. Ma si può dire sul serio? In prova additiamo parecchi nomi di uomini valenti in ogni disciplina, i quali o sopravvissero alla strage, o fiorirono dopo, autori quasi tutti di opere lodatissime, o almeno riputati nel regno e fuori per copia e per bontà di dottrina.


Come uomini del foro sia giureconsulti, sia avvocati, o magistrati furono chiari, ed alcuni chiarissimi, il Cianciulli, il Capone, il Niccolini, il Raffaelli, il Valletta, il Roberti Francescantonio, il Winspeare il d'Agostino, il Borrelli, il Magliano, il Parrilli, il Poerio, il Lauria, il Capitelli, lo Starace, il Letizia, il Tavassi, il de Marini, il Criteni.


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Se vuoi guardare le condizioni delle cose, quando noi ci annettemmo possedevamo i migliori ordinamenti amministrativi d'Italia; il miglior codice civile, militare, marittimo; avevamo la migliore legislazione penale d'Europa; una finanza tutt'altro che rovinata, e se ora è al verde, sarebbe singolare attribuircene lo scialacquo; le nostre industrie erano fiorentissime; e queste e quella possono presto ripigliare la recente floridezza, perché ci soccorre la terra ricchissima sopra tutte le altre regioni della penisola, e non si attende che un po' di pace, e che razione governativa non le perturbi; avevamo eccellenti istituzioni finanziarie, e i difetti che ci erano si poteano, senza incommodare la forza di Ercole, correggere. In quanto agli uomini, senza citare nomi, per non fare odiosi paragoni e non offendere l'altrui modestia,

Nelle lettere salirono in molta riputazione il Coco, il Troya, il Colletta, il Cimorelli, il Mazzetti, il Rossetti, il de Cesare, il Puoti, il Montrone, il Betti, il Capialbi, il Rosini, il Rossi, lo Scotii, il Ciampitti, il Jannelli, l'Avellino, il principe di Belmonte, il Jorio, Pepe Gabriele. Primeggiarono per le scienze il Petagna, il Sementini, il Tondi, Covelli Francesco, lo Scinà, il delle Chiaie, il Tenore, il Monticelli, il Poli, il Caolini, il Pilla, il Guari ni, il Brugnatelli, il Fazzini, il Cotogno, il Lanza, l'Antonucci, il Petrunti, il Santoro, il Leonardi, l'Amantea, il Sarcone, il Galluppi, il Colecchi, il Galdi, il Delfico, i] Borrelli, il padre Ventura, il de Grazia, il Giampaolo, il Cagnazzi, il Pergola, il de Angelis. Nell'amministrazione della cosa pubblica, il Zurlo, monsignor Capecelatro, l'Acciavio, il Marchese Vivenzio, il Martucci, il de Thomasis, il Ricciardi, il Medici, il Tommasi. Nella milizia: Gabriele e Florestano Pepe, il d'Ambrosio, il Begani, il Bausan, lo Spinelli Cariati, il Pignatelli Strongoli, il Roccaromana, il Carrascosa, il Rosaroll, il Pedrinelli, il Macdonald, il Visconti, il de Cosa, l'Arcovito, il Moli terno, il di Gennaro, il Masci, in cui era pari la scienza militare, il valore in battaglia, e la erudizione nelle greche e nelle latine lettere; ed altri molti.


De' presenti non parliamo: ma si potrebbero additare nomi non meno numerosi, né meno illustri.

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noi possiamo vantarci di possedere, con altri minori, il più profondo professore e giurista italiano; abbiamo tuttora amministratori capacissimi e d'incontestabile superiorità; magistrati egregii non inferiori a quelli di qualsia altra provincia; vantiamo degli eruditi tenuti in pregio da' più grandi eruditi di Europa; nelle scienze naturali di ogni genere sono tra noi professori valentissimi non secondi a nessuno, uno de"quali morto teste, il Tenore, era noto in Europa per lavori dottissimi; nelle matematiche potremmo additare alcuni nomi insigni; nelle lettere non so se ci si possa contendere il primato, quando, dal Manzoni in fuori, vivono tra noi parecchi scrittori che tengono da presso i migliori antichi per eleganza e splendore di forma; nelle economiche non andiamo scarsi; nelle cose navali e militari non abbiamo ad arrossire; ed in filosofia sta sempre in piedi il nostro antico vanto, perché non pure vi ha tra noi alcuni illustri cultori di essa già maturi, ma un recente e splendido sperimento pubblico fece, con maraviglia altrui, manifesta gran parte delle nostre ricchezze. Altro testimonio della nostra dovizia intellettuale è il numero non piccolo di professori napoletani, che ha seduto o siede sulle cattedre delle più cospicue università italiane, dove con pubblico plauso hanno insegnato ed insegnano; e nella ricerca che, per come è fama, si fa di professori napoletani; i nostri artisti sono lungi dall'essere gli ultimi, e per talune parli ottengono anche il primato: i nostri sodalizii scientifici, soprattutto il già Ercolanese, e quello già delle Scienze, avean credito generale in Europa, onde tanto più deesi maravigliare dell'inconcepibile condanna da cui teste furono colpiti. Napoli dunque è sempre la stessa, ed in comparazione delle altre città italiane, non conosco quale

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opporrebbe meriti maggiori, anche fatta astrazione, se fosse possibile, dal suo passato. E con ciò rimane ribadita la nostra dimostrazione» che sia pure temporaneamente, tanto, per condizioni materiali che intellettuali, Napoli è la capitale nata del regno italiano.

Le cose che abbiamo ragionate, perché fondate sulla natura, non crediamo che possano ragionevolmente offendere il decoro delle diverse nobilissime genti, ohe compongono la più nobile tra le nazioni, perché non offendono la verità. Ogni singola famiglia ha le sue proprie glorie, e titoli abbondanti all'amore, al rispetto, alla riconoscenza delle altre. Tutte hanno lavorato secondo il potere al be ne comune, a tenore del proprio modo di partecipazione al tipo o idea italiana: e non sarebbe ragionevole, né vero, che una sola volesse per tutte le parti usurparsi il primato. Però come esse costituiscono un corpo organico, il quale deve per questo appunto essere essenzialmente gerarchico nell'ufficio delle membra, è perciò natural cosa, che una famiglia abbia sulle altre la disposizione connaturata ad esserne il capo; e se questa famiglia è il popolo napoletano, di cui Napoli e capitale, non vi è da sdegnarsi che Napoli sia la capitale del nuovo stato non per signoreggiare, ma per dirigere la società civile italiana, e servire al bene generale di essa e delle singole sue membra £ perché il bene del tutto e quelle delle parli noti si può ottenere» se non serbando il naturale ordine delle parti tra loro. Il Vico piantò come assioma, che «Le co«se fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano (1);» seguendo l'insegnamento dell'Alighieri,

(1) Scienza nuova terza ediz. lib. p. 75. Napoli 1748.

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da cui non vuolsi mai dipartire, chi intenda di giovare alla patria italiana,

Sempre natura, se fortuna trova


Discorde a se, come ogni altra semente


Fuor di sua region, fa mala prova.


E se il mondo laggiù ponesse mente


Al fondamento che natura pone,


Seguendo lui, avria buona la gente.


Parad. VIII.

Dalla quale conservazione dell'ordine fondamentale della natura, troppo spesso dimenticato da certi strani politici, che vogliono reggere a modo loro il mondo che non hanno creato, solamente può nascere la giustizia, la saldezza e la stabilità del nuovo ordinamento politico, e quella concordia spontanea e naturale, senza la quale è un vano sogno l'indipendenza e l'unità della patria.

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SOMMARIO.

I. Occasione dello scrivere—Della capitale di uno stato—Essa è tale per natura non per arbitrio umano—Dell'Italia moderna e della sua divisione in varii stati— Dell'Italia unita in un solo stato — Di Napoli, e del popolo di queste provincie — Dell'universalità della sua natura — Delle sue origini — Della sua storia — Del suo principato in teologia, ìd filosofia, in giurisprudenza — Di un lato speciale di questa— è creatore della economia pubblica —Non s'intende di menomare i meriti delle altre provincie—Si toccano di volo le sue glorie nella filologia—Nelle lettere— Nelle scienze fisiche e matematiche—Nella nautica—Nelle armj — Nelle belle arti—Ricchezza della sua complessione morale—Della sua vocazione politica —Della città di Napoli, e perché fu capitale del regno— Dell'indole de' suoi abitatori—Perché le leggi francesi presero radice tra noi—Di due imputazioni che a quelli si fanno—Si risponde alla prima— Si combatte la seconda—Del carattere religioso del popolo napoletano— Del suo carattere politico—Indole civile della rivoluzione di Masaniello — Perché questo popolo fu avverso alla repubblica nel 99.


II. Della universalità della natura degl'italiani—Si sviluppò nel mondo antico pe' Romani—Nel moderno si accresce mercé la irruzione de' barbari e il cristianesimo — Della religione cattolica—Della legge che regola le società— Del municipalismo italiane—Come esso sia stato preparazione all'unità—Di una opinione dell'Azeglio, che vuole Firenze capitale dell'Italia — Si combatte, dimostrandosi le ragioni che le contrastano— Della opinione di molti, che vogliono che il Piemonte sia il centro del popolo italiano—La storia e la natura degli abitanti vi si oppone—Il Piemonte tra le famiglie italiane partecipa meno al tipo italiano —Il Piemonte giudicato dal Gioberti—Esso manca delle qualità necessarie per assumere la supremazia civile in Italia—Il Piemonte supera le altre famiglie italiane dal lato militare— Esso è il braccio dell'Italia: e questa è la sua vocazione—

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Torino è la città meno atta a far da capitale in Italia, anche a tempo—Dell'ambiente municipale di Torino—Della sua temperanza civile—Delle parole dette dal Chiaves al parlamento ad occasione della questione di Roma—Delle ragioni perché il popolo napoletano è il centro delle famiglie italiane—Napoli è la capitale per natura del regno italico, sia pure a tempo—Sociabilità de' napoletani—Della loro lingua—Delle condizioni materiali che fanno Napoli atta a fare da capitale—Della grandezza del popolo Napoletano—Della sua grandezza futura: vaticinio del Gioberti.


III. Se ci si possa apporre la taccia di municipalismo—Della imputazione d'intemperanza civile fatta a' Napoletani—Dell'accusa che la loro grandezza stia nel passato, non già nel presente—Che cosa è il passato e che il presente di un popolo— II nostro presente è l'esplicazione del nostro passato—Se sia vero che anche oggidì il popolo napoletano sia inferiore a suoi confratelli— Conclusione.

N. B. La nota num. 2 a pag. 80 deve leggersi a pag. 81 alla nota num. 4. e questa invece dee porsi a num. 2 della pag. 80. A pag. 18 in luogo di principis leggi principum.










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