Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte
La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni , edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle.
Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore- regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni , insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»),rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato.
Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente . Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »),s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore , A mari estremi e Mare, uomini, passioni . Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche
quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante
Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio? «Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine
Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai
reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile
durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo
molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su
Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho
cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella
è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha
dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È
seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è
nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa. «Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni
abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri
serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che
Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il
Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La
Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono
di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo
pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova
più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del
leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie
parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film
Benvenuti al Sud . Ma Terroni
è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano
il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di
febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La
voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei
ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel
Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia? «Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua
minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione,era animata dal
pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente
necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione
e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo
Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino
al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel
Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello
scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano
soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante
dell’Italiaunita,il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per
cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4.
Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i
piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma
più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi
e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute,
per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in
treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un
altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta
degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene
così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi
erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del
Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati.
Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale
ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò
Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato
da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al
Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un
macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle
centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di
diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella
Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a
pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti,che
l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere
circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che
avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli
indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli
d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale
cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo
Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata
morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il
figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente,si vantava
d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a
Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti
il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con
libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi
soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme
con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella
calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di
chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi,
dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per
garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le
finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che
era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino,
quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria,
aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai
briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in
un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la
più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe
divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una
baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto
dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento
d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti,
per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime
viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno
Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La
Civiltà Cattolica , rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono
oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”,
“peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”,
“degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con
tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli».
Io sono veneto.
Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti,
analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali,
sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo
genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i
Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e
giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di
Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la
Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della
violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha
minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo,
allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del
Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in
Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa
dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini
nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti
nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra
risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di
malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra
poveri s’incontrarono.E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza.
La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta
concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure
Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria
femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene,
geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la
Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra
Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è
impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto
industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi
contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più
povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono
trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa
500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima
1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano
autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso
non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario
della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto
strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud
non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo
fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del
Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di
raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica
navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città
di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del
1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni
di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033
miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il
luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale
Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il
Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile
risarcimento”.
Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo
luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel
patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro
di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti
ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225
dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in
più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le
chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento
del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5
miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano
quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I
cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della
Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a
statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non
assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in Il sacco del Nord documenta
che ogni anno 50 miliardidi euro lasciano le regioni settentrionali
diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso
Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a
conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul
metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor
Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica
all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni.
A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che
l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per
vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella
speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda
tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia!
se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col
passaparola».
Non nominare il nome di
Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il
mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni , l’editore di
Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il
risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno
maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me
piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato
di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche
altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e
da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola
tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali
nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione;
critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo
all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam;
chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di
Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è
“normale”?».
Sergio Romano sul
Corriere della Sera
s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i
soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e
rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di
Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e
sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime
consensodell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno
degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva,
paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione,
saccheggio e strage? Mi pare la tipica autoassoluzione del
colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo
bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una
corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello
vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e
Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere - rimasero in piedi solo
tre case - persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse
scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non
davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al
giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un
italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e
la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La
questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale
delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano
uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della
popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della
prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse:
«La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia
Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete
questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per
lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore
francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire
né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la
Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può
peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse
l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud
dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere
derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai
giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la
legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il
servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota
alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per
ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di
Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello
smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per
cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un
ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie
che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta
differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato
rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno
voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar
voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il
piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali
che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne
in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo,
che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via
dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono
andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per
l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero
romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae ,
deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore
della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i
muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi,
che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza
offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps? «Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei
città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è
pendente circail 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale
dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia
hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà
mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli
allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo
tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una
differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di
vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause
presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati.
Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto:
aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla
latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea,
senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato
e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con
i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è
sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito
del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il
testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di
Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non
puoi dirgli tu dove andare.
Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole,
a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il
Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano
Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo
Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un
osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo
Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di
pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati
alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo,il
paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome.
In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza
distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il
suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee
in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto
vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico.
Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che
ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i
repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni
forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del
Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione
del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie
pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non
significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel
mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è
un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una
generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di
dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti. «Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia». (527. Continua)
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