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DELLO

ORDINAMENTO NAZIONALE

TRATTATO

del Professore

GIUSEPPE MONTANELLI

FIRENZE

TIPOGRAFIA GARIBALDI DIRETTA DA LUIGI RICCI

1862.

INDICE

Ai Pubblicisti........................................................................................................ Pag.V

I. Si pongono le questioni...........................................................................................» 1

II. Come l'Unità costituzionale sia necessaria...............................................................» 5

III. Come non sia necessaria V Unità legislativa.............................................................»9

IV. Si definiscono le idee d'Amministrazione e d'Accentramento amministrativo.............» 14

V. Dell'accentramento amministrativo in Francia e in Italia............................................»19

VI. I Governatori regionali..........................................................................................» 23

VII. Le piccole province.............................................................................................» 29

VIII. Le autonomie amministrative e l'unità politica.......................................................» 36

IX. Roma e i Comuni.................................................................................................»41

X. Le Succursali di Roma.........................................................................................» 47

XI. L'Italianità dei Centri mediatori..............................................................................» 51

XII. La proposta siciliana sulle regioni.........................................................................»53

XIII. La Regione rappresentativa................................................................................» 60

XIV. Le due unità.....................................................................................................» 64

XV. I Comuni nella piccola e nella grande Provincia......................................................»68

XVI. Di alcuni tipi differenti di Municipio......................................................................» 73

XVII. Del nuovo Municipio Italiano..............................................................................» 77

XVIII. Dell'Autonomia Municipale...............................................................................» 82

XIX. Elezione e Rappresentanza Municipale...............................................................» 88

XX. Conclusione......................................................................................................» 92


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Luglio 2012

V

AI PUBBLICISTI

Il sistema delle regioni nell'ordinamento del nuovo Stato d'Italia, messo fuori dal Minghetti quando tenne il ministero dell'interno, e caduto con lui, diede occasione a Giuseppe Montanelli di scrivere e pubblicare questo Trattato nella Nuova Europa, della quale egli era stato uno dei fondatori.

Eletto poi con tarda giustizia Deputato al Parlamento, egli aveva in animo di propugnare in quel consesso e dichiarare maggiormente gli ordini, di cui sono qui poste le fondamenta, allorquando fosse piaciuto al buon genio d'Italia, che i suoi legislatori, stanchi d'inseguire le nuvole, prendessero finalmente a discutere questa materia prima di ogni Stato. Anzi narrano in tale proposito coloro, che lo avvicinarono negli ultimi mesi del viver suo, com'egli si riserbasse di parlare alla Camera principalmente di questo, e che alla sua gentile natura, già travagliata assai dalla fortuna e dagli uomini, nuocessero forse l'assiduità e il grande amore, con cui andava ricercando le storie e le costituzioni dei popoli, per esordire nel nuovo arringo parlamentare non solo con alto subietto, ma in modo degno del subietto.

VI

E certamente cose degne avremmo udite da lui, e pari ali' aspettazione, che metteva di sé non tanto l'oratore, quanto lo scienziato: imperciocché era in lui quella mirabile felicità propria dell'ingegno italiano, e non concessa, almeno in egual misura, a verun altro popolo, per cui alla più gran virtù di poesia vanno in esso congiunte in sommo grado le severe facoltà del geometra.

Dopo la morte di lui, l'Associazione Democratica di Firenze volendo onorar l'uomo benemerito della libertà e della scienza, ne stimando esservi cosa più grata agli estinti che quella di continuarne ai superstiti i beneficj, deliberò di far raccogliere e pubblicare a sue spese la serie di scritti, che di lui comparvero intorno all'Ordinamento Nazionale nella Nuova Europa; affinché il libro assicurasse loro quella durata ed efficacia, che non era a sperarsi dalle vagabonde e caduche pagine d'un giornale.

Se non che soppresse, come ognun sa, le Associazioni politiche, e incalzando tanto maggiore il bisogno di volgere le menti ai principj della scienza, quanto più aperto si minacciava d'instaurare il regno della forza; alcuni amici di lui assunsero l'ufficio di mandare ad effetto il civile intendimento dell'Associazione, e avutane facoltà dalla vedova erede, signora Laura Cipriani, sono lieti di poter ora offrire in un sol corpo alla meditazione dei pubblicisti gli scritti medesimi,

VII

de' quali vollero nella presente pubblicazione religiosamente rispettata l'integrità, l'ordine e la parola originale. Imperciocché, sebbene la lucidità delle idee e dello stile gli renda accessibili ad ogni volgare intelletto, non è atto di spregio verso l'universale raccomandarli in particolar modo a coloro, che hanno per ufficio o per istituto della loro vita occuparsi nelle cose di Stato, e dalla mente de' quali può la luce della persuasione passar quindi nelle moltitudini, e sgombrarne insieme co' falsi concepimenti i desiderj impossibili.

Nelle età, e presso quei popoli, in cui uno o pochi comandavano, e i più si credevano obbligati d'obbedire, fu facil cosa comporre l'unità nazionale, che trovava il suo esecutore nell'ambizione degli uni, e il suo cemento nella coscienza degli altri, macchine in mano all'artefice. Ma dove avvenga, o pel corso naturale delle cose, o per precocità di cultura, o per forza di tradizioni, che simultaneo alla formazione unitaria si trovi nei popoli il bisogno della libertà, e le due forze d'attrazione e di repulsione operino egualmente, ivi par disperata l'impresa, e si ha quello stato che non è ben di vita né di morte, e che sì dolorosamente tormenta oggi l'Italia.

La ragione per noi sta in questo, che si è voluto seguire nella formazione dell'unità un processo contrario alla natura delle cose; laonde convien rifarci, per così dire, da capo, se vuolsi ch'ella sia consistente e durevole.

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A ciò mira e provvede, per quanto è possibile, il presente Trattato, inteso a conciliare l'unità del tutto colla libertà delle parti, e che è quello che di più giusto e di più pratico sia ancora comparso su tal materia in Italia fra tante declamazioni di rètori, e vani conati di presuntuosi ministri.

Arricchito ch'ei fosse di ciò, che si dice possa il Montanelli aver lasciato scritto in proposito, mostrerebbe ampiamente che come agli altri il sapere, così a lui non mancò che il potere, e collocherebbe meritamente il suo nome tra quelli degli uomini, «che non avendo possuto fare (secondo che dice Machiavelli) una repubblica in atto, l'hanno fatta in scritto, come Aristotele, Platone e molti altri, i quali hanno voluto mostrare al mondo, che se come Solone e Licurgo non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto.»

Firenze, 2 Dicembre 1862.

GLI EDITORI

DELL'ORDINAMENTO NAZIONALE

I.

Si pongono le questioni.

Se crediamo alle voci che corrono, la proposta del Ministero concernente l'ordinamento del Regno non sarebbe nata vitale. Si dice che negli Ufficj dell'Assemblea, la grande maggioranza dei deputati non le fece buon viso: si va bucinando che il Ministero, dopo queste prime cattive accoglienze, non è più disposto a cimentare il suo disegno a pubblica discussione, e pensa metterlo da banda, e tentare qualche cosa di meglio.

Cotali voci ci rattennero da manifestare finora il nostro parere rispetto all'accennata proposta, non amando noi intavolare discussioni accademiche, né pigliarcela coi morti, o coi moribondi. Tuttavia riflettiamo, che i problemi dell'ordinamento interno vogliono essere ventilati, né sarà mai opera perduta chiamare sopra quelli l'esame dei pubblicisti.

Ci eravamo sentiti rallegrare, quando fu messo fuori dal Ministero il così detto sistema delle regioni. Sperammo trovata la vera formula del saldo e libero ordinamento d'Italia: aggiunta la nuova unità ai preziosi acquisti unitarj della tradizione: rappresentata in cotesto sistema quella triplice centralità, che abbisogna al progressivo vivere d'ogni popolo moderno; vale a dire la centralità nazionale, istrumento della sovranità costituente, legislatrice, e amministrativa dello Stato;

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la centralità municipale, primo ritrovo delle famiglie in opera comune di civiltà; e la centralità regionale, consorzio mediatore tra il Comune e lo Stato, autorità di mezzo, partecipe insieme della vita dell'uno e dell'altro. Sperammo racchiusi nella sintesi nuova i grandi momenti storici, e i grandi desiderj dell'italico incivilimento; nei centri municipali il ricordo della gloriosa èra popolana dei Comuni; nei centri regionali le legittime omogenee agglomerazioni intorno alle città metropolitiche, che dalla minutaglia municipale iniziarono prime l'Italia a larghezza di Stato moderno; nel centro nazionale l'adempimento di quel diuturno sublime anelito verso una patria non circoscritta al campanile, non estesa soltanto alla nazioncella regionale, e avente per confine i mari e le Alpi, per nodo la favella di Dante, per seggio la città due volte imperatrice del mondo. - Sperammo offerta al mondo una testimonianza di più dell'ingegno fecondo e creativo d'Italia, sia che tenti i voli dell'arte e della filosofica speculazione, sia che batta le pratiche vie della sapienza civile.

Il disegno proposto dal Ministero, è forza dirlo, fallì in tutto alle nostre speranze. Il sistema delle regioni, quale il Ministero lo concepiva, è un aborto. Si vede bene, che gli architetti dell'ordinamento nazionale non si elevarono all'altezza del subietto; non seppero spiccicarsi dalla forma francese,quantunque avessero la presunzione di scostarsene.

E affinché il vizio della proposta ministeriale apparisca con evidenza, cominceremo a porre i veri termini delle questioni.

Noi siamo unitarj; vale a dire, poniamo al di sopra del municipio e della regione la sovranità nazionale: non facciamo derivare questa da patto di Province, o di Comuni; ma da coscienza d'italianità: siamo unitarj, perché siamo italiani.

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Ma per ottenere, che l'unità diventi forte, e ripari con energiche provvidenze ai nazionali pericoli, è egli necessario, che la somma del governo si concentri in un punto solo del territorio italiano? La sola centralità forte sarebbe l'unità, assorbente ogni altra centralità nazionale?.

Si fa presto a dire: - Vogliamo l'unità. - Ma quale? Ma quanta? - Qui cominciano le difficoltà. Avviene del principio unitario, come del principio d'eguaglianza. Presi alla lettera, conducono all'assurdità. - Col principio assoluto d'unità si va fino alla consacrazione della più mostruosa tirannide;col principio assoluto d'uguaglianza, fino al più ingiusto livellamento. Bisogna da un altro principio derivare il criterio moderatore d'entrambi; e come all'uguaglianza, così all'unità questo criterio moderatore viene dal principio di libertà. La rivoluzione francese non trovò fin qui condizioni d'assetto durevole, per aver sacrificato la libertà all'eguaglianza. Alla rivoluzione italiana avverrebbe lo stesso, dove pretendesse sacrificare la libertà all'unità.

Si credè aver trovato la formula del perfetto ordinamento italico, separando l'unità dall'accentramento, e ostentando favore a quella, che i francesi chiamano décentralisation, e che noi preferiamo chiamare, non decentramento, non scentramento, non decentralizzazione, secondoché si usa in Torino, ma disaccentramento. Però cotesta formula non spande abbastanza luce.

E prima di tutto, chi non vede quanto le condizioni d'Italia sieno differenti da quelle di Francia, e come sia strano favellare di disaccentramento nazionale in un paese, dove l'amministrazione centrale della nazione è ancora da costituirsi? S'intende, che i francesi, dopo avere accentrata la somma del governo in Parigi, pensino oggi a disaccentrare. Ma noi Italiani, che finora avemmo Stati, e non Stato, centri e non centro, dobbiamo per prima cosa definire, quali ufficj sieno da traslocarsi nell'amministrazione comune. -

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La questione fondamentale dell'ordinamento interno è dunque anzi tutto questione d'accentramento. Trattasi di costituire, non per indefinita aspirazione, ma per esplicite, e, come si direbbe in linguaggio giuridico, tassative affermazioni, la vera competenza dell'unità politica nazionale

Le questioni di disaccentramento si presentano, tosto ohe sia risoluta quella dell'accentramento in guisa che l'unità lasci largo spazio alle libertà sottostanti. Ma cotali questioni non riguardano punto alla potestà centrale novella; riguardano solo alle antiche autonomie: si tratta d'una specie di liquidazione delle facoltà, che a quelle rimarrebbero dopo la creazione dello stato nazionale: si tratta d'esaminare, se questi antichi centri debbano al tutto disfarsi a benefizio di centri inferiori, o conservare trasformata una larga parte nel sistema dell'attività nazionale: si tratta delle restituzioni da farsi, parte alla libertà individuale, parte alle libertà municipali, parte a libertà regionali conculcate dalla geografia politica del 1815.

Il disaccentramento è una negazione. La difficoltà dei problemi agitati sotto questa formula sta nel vedere, a quali altri centri viventi debbasi fare la restituzione degli ufficj, di cui un centro troppo assorbente era investito.

Così fattamente poste le questioni, apriamo la via a gettare i fondamenti, sui quali l'ordinamento nazionale ha da essere costituito.

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II.

Come l'Unità costituzionale sia necessaria.

Ragionando Carlo Rémusat dell'accentramento in Francia in proposito del bel libro su questa materia pubblicata recentemente da Dupont-White, scrisse le parole che seguono: «Non si crea società politica, non nasce Stato,non si forma governo senza accentramento: la parola è nuova, ma indica l'esplicazione e l'ultimo progresso di cosa assai vecchia. L'accentramento è quel moto, in virtù del quale la forza pubblica si costituisce. Questo moto può far sosta a gradi differenti. La società può essere un conserto di centri di sistemi particolari, che gravitano verso il centro del sistema generale. La forza pubblica può constare d'ufficj più o meno numerosi. Quando si suppone, che essa abbia nel centro dei centri il più gran numero d'ufficj possibile, si dice che havvi accentramento, ma è chiaro che il grado dell'accentra«mento è variabile: è una quantità che oscilla fra due estremi. Si suol dire che essa ha il suo maximum in Francia, e il suo minimum nell'America del Nord: l'una è una monarchia unitaria, essenzialmente amministrativa; l'altra è una federazione repubblicana.» (Renne des Deux Mondes, 15 Octobre 1860, pag. 808).

Queste parole mostrano prima di tutto, quanto errino coloro, i quali combattono l'accentramento in sé stesso, essendoché non si possa ragionevolmente osteggiare un principio necessario alla creazione d'ogni governo; mostrano in secondo luogo, come le conseguenze, o buone o cattive, di così fatto principio derivino soltanto dal modo d'applicarlo.

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Ed invero: l'armonica vita delle nazioni, dell'uman genere, e dell'intero universo resulta, non da centro unico, ma da colleganza gerarchica di centri differenti: benefico quindi è l'accentramento, se accresce potenza alla civiltà progressiva; esiziale, se la diminuisce, o la spegne del tutto.

Nel creare il centro nazionale e nel definirne gli ufficj, si dee adunque evitare cotesto pericolo: si dee costituire l'unità nella vita, e non nella morte.

Le formule poste in campo finora per definire le competenze del centro nazionale, e quelle dei centri sottostanti, non possono appagare l'intelletto del pubblicista. Si credeva' aver tutto chiarito,-quando si disse che gli affari municipali appartengono al municipio, i provinciali alla provincia, i regionali alla regione, e i nazionali alla nazione. Ma primieramente questa divisione non spicca per differenza evidente; poi gl'interessi, a cui si collegano gli affari delle tre accennate categorie, si toccano e si compenetrano vicendevolmente, di guisa che nella pratica riesce impossibile separarli.

IN NECESSARIA UNITAS (nelle cose necessarie unità). Questa formula, colla quale la teologia cattolica definiva le competenze unitarie nel dominio della fede, ci sembra la più atta a definirle altresì nel dominio della politica. Essa torna col principio sì bene illustrato dal nostro Romagnosi, che soltanto le necessità dell'ordine interpretato dalla ragione, rendono giusti i limiti posti alla libertà umana: essa somministra un criterio che conserva all'accentramento nazionale quel carattere di quantità oscillante fra due estremi, con assai finezza notato da Carlo Rémusat. Ed infatti: il giudizio della necessità dipende da contingenze, che non si possono tutte prevedere: e se è dato fino a un certo punto decidere, quale debba essere la misura dell'accentramento presente, non si può giudicare delle necessità future, che costringano a dargli maggiore latitudine. Basta però aver posta la massima, che ogni passo nelle vie dell'accentramento nazionale, ha da essere necessario. Giudice della necessità è la nazione.

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Portata su cotesto campo, l'unità diviene un ente scientifico, del quale l'analisi s'impadronisce. Allora si pongono le questioni d'accentramento, non rispetto all'unità in genere, ma rispetto a tale o tale altra unità: allora si cerca, se il limite alla libertà, proveniente da tale o tale altro moto unitario, sia giustificato dalla necessità: allora possiamo guardare lo Stato ne' suoi tre grandi movimenti, della Costituzione, della Legge, e della Amministrazione, e chiedere se a tutti sovrasti la ragione medesima d'accentramento.

Dell'unità costituzionale d'Italia non si potrebbe oppugnare la necessità senza negare il nostro essere di nazione.

Mostrava bene Dupont-White, come la creazione d'una nazionalità sia inconciliabile con più autorità indipendenti e sovrane. «Si creerebbe, egli dice, più facilmente una nazione con venti idiomi e altrettanti culti, differenti, riuniti sotto un solo potere, che con uomini adoranti lo stesso Dio nella medesima lingua, ma divisi ingruppi che ostentano indipendenza. Questi ultimi possono ripromettersi l'avvenire che segue: guerra fra loro, guerra al di fuori, e finalmente regno del forestiero.» (La Centralisation par Dupont-White, pag. 11).

Tutta la differenza fra il sistema della federazione e quello dell'unità sta appunto nell'ammettere o escludere varietà di pensiero circa le condizioni fondamentali del vivere civile. La federazione ammette Statuii particolari, e Statuto federale. L'unità non conosce altro Statuto che della nazione. L'anarchia, nata dalle diverse potestà statuenti, costringeva gli stessi popoli federali a porre un limite a coteste sovranità. E primi gli Americani fecero nella Costituzione federale larga parte al principio unitario: e gli Svizzeri, riformatori nel 1848 del patto federale, andarono più là che gli Americani:

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e gli Alemanni, promotori di riforma della costituzione federale germanica, vogliono nelle vie unitarie procedere anche più oltre: talmenteché si può dire, che l'America introdusse un tipo nuovo nelle federazioni, il tipo delle federazioni-unitarie.

Ora, se il movimento degli stessi popoli federali procede verso l'unità di Statuto, chi vorrebbe negare cotesta unità necessaria all'Italia?

S'intende, come i nemici del tutto o nulla, preferissero la federazione al separatismo, quando alle genti divise d'Italia essa offriva un primo mezzo di comune ritrovo. Era assai meglio avere nel tempo stesso Statuti particolari e Statuto comune, che Statuti particolari soltanto. Ma sarebbe un passo retrogrado ogni ritorno a costituzioni, o regionali, o provinciali, o municipali, quando circa ai principj organici del vivere italico, e solenne banditrice, sorge l'autorità sovrana della nazione.

Sostenendo necessaria l'unità costituzionale, noi non intendiamo restringerla nelle anguste proporzioni dello Statuto Albertino. Intendiamo, che lo STATUTO D'ITALIA ponga tutti i principj, di cui la presente civiltà chiede solenne consacrazione: intendiamo, che accettando le basi d'unità, di libertà, e di monarchia ereditaria poste dal popolo, stabilisca le norme generali, da cui tutte le leggi avranno a pigliare argomento. Meglio che le magre Carte, modellate su quelle moderne di Francia, a noi piace l'ampiezza statuente delle nostre antiche Repubbliche, e la vorremmo imitata coi perfezionamenti che i progressi della scienza civile domandano. E sarebbe pur tempo, che la mendace nomenclatura delle grandi classificazioni della legislazione, anch'essa sparisse. Perché, a cagion d'esempio, dare il titolo di Codice Civile al complesso delle sole leggi sulle persone, e sulla proprietà, mentre assai meglio così fatto titolo converrebbe alla sintesi dei principj di civiltà, sanciti nell'ampio nazionale Statuto?

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Vorremmo altresì, che insieme' con la fondazione della nuova unità costituzionale, fosse provveduto ai modi di riformarla senza uscire dai termini della legalità: vorremmo finalmente come in America, a guardia della Costituzione,. posta l'autorità giudiziaria in modo che la legge stessa, se contraria alla Costituzione fondamentale dello Stato, potesse dall'Alta Corte nazionale essere annullata.

Ma l'unità, sì necessaria nell'ordine costituzionale, è essa necessaria egualmente in tutte le leggi, e in tutti gli ordini dell'amministrazione dello Stato?


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III.

Come non sia necessaria l'unità legislativa.

Fermati che sieno nello Statuto i principj fondamentali della nuova italica civiltà, comincia l'opera delle leggi propriamente dette; la quale in due maniere si manifesta: nel distruggere e nell'edificare. E qui nascono le maggiori difficoltà; imperocché il passato ha i suoi diritti, e la ragione legislativa si trova a fronte della tradizione, e trattasi di conciliare due principj egualmente necessarj all'ordinato vivere delle nazioni: il principio del progresso, e quello della continuità. Non fa bisogno oggi dimostrare, come la Scuola filosofica, adoratrice superlativa della ragione, e la così detta Scuola storica, superstiziosa e devota alla tradizione, si dilungassero egualmente dal vero. Niun pubblicista odierno oserebbe affermare, che si debba escludere dal reggimento dei popoli, o al tutto l'una, o al tutto l'altra di queste due potenze di civiltà. Il problema è di limite, e consiste nel risolvere fin dove l'umano progresso, operando sul passato, abbia a distruggerlo, e fin dove a conservarlo.

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Conformo al criterio supremo, da cui eravamo condotti a dichiarare necessaria all'Italia l'unità costituzionale, non possiamo esitare un istante nel proporre diversa sentenza rispetto all'unità legislativa. Si voglia pure reggere tale, o tale altra materia per leggi eguali da un confine all'altro del Regno: e certamente niuno può pensare a sottrarre alla necessità dell'accentramento il sistema delle elezioni, delle armi, degl'interessi internazionali, delle poste, delle dogane, delle monete, del credito nazionale, di tutti insomma quegl'istituti che più intimamente si collegano all'ordine fondamentale dello Stato. Ma militeranno le medesime ragioni di pareggiamento per tanti altri oggetti del vivere comune differentemente regolati dalle leggi ereditate dal nostro sì vario passato? Piglieremo esempio dall'Inghilterra, il cui Parlamento fa di mano in mano riforme unitarie, e crea ordini nuovi di accentramento secondo che se ne rivela l'urgente necessità? 0 vorremo, come la Francia del 1789, insieme coll'unità costituzionale fondare tutta d'un fiato l'unità legislativa?

Consacrato dallo Statuto il diritto della nazione a promulgare leggi unitarie ogni volta che le piaccia, è rimosso ogni pericolo del lasciare ai varj paesi dello Stato molte delle loro leggi e delle loro consuetudini particolari. - Quanto in quelle leggi repugnava alle idee progressive sancite dallo Statuto, o per esplicita, o per implicita abolizione disparve. La varietà legislativa, ridotta a coteste proporzioni, non può riuscire in alcun modo dannosa.

Gli esempj di Roma, dell'Inghilterra, e della stessa Francia anteriore al 1789, con evidenza dimostrano, come la. più potente unità politica possa andare congiunta alla diversità delle leggi. E noto che i Romani, sotto il titolo di jus italicum, conferivano ai Municipj d'Italia diversi privilegj, fra i quali quello di conservare le loro leggi, e di farne delle nuove, secondoché fu luminosamente provato dal Savigny (Histoire du droit romain au moyen dge, Chap. II, § iS).

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- E Roma divenne nonostante signora del mondo! - Così la varietà delle leggi non impedì alla Inghilterra d'acquistare il dominio dei mari. Così la Francia non ebbe bisogno dell'unità dei Codici, e dell'abolizione dei paesi di stato per salire con Luigi XIV a sublime grandezza europea.

Ciò dee pienamente rassicurare coloro, i quali, confondendo l'unità costituzionale colla legislativa, stimano questa necessaria al pari di quella a creare e mantenere gagliardìa di nazione.

Ma a noi non repugnerebbe nemmeno imitare la Francia del 1789, se l'impresa di pareggiamento legislativo movesse dalle cagioni che allora la determinarono. Un gran moto d'idee, una forza immensa d'opinione, tutto il lavoro della filosofia del secolo XVIII, facevano capo alle riforme iniziate dall'Assemblea Costituente. Non si creava una legislazione unitaria per gusto d'avere le stesse leggi; si creava per attuare un ideale nuovo di civiltà maturato dalla sapienza. Qual è l'ideale nuovo che il ministro De Cassinis e il ministro Minghetti intendono d'attuare in luogo delle antiche leggi italiane?

Sappiamo bene, che in opera di progresso civile si dee pigliare il buono dove si trova: e se veramente la legislazione francese ci sembrasse l'ultima parola del progresso civile europeo, non sentiremmo alcuna repugnanza a propugnarne l'immediata adozione in Italia. Tuttavolta non possiamo ignorare,, come la Francia stessa è tutt'altro che contenta degli ordini suoi.

Non istaremo a ricordare le critiche fatte al Codice Civile da pubblicisti della tempra di Pellegrino Rossi, il quale, negli ultimi anni dell'operosa sua vita, lesse all'Accademia delle scienze morali uno stupendo discorso ordinato a dimostrare, come rispetto alle moderne dottrine economiche, quel Codice discordi nelle parti più sostanziali.

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Entrando in questo campo, sarebbe facile mostrare l'assurdità d'un sistema, che abbandona a leggi così dette eccezionali il governo degli interessi signoreggianti nel mondo moderno, come sono quelli nati dal Credito, dalle svariate Associazioni economiche, dalle combinazioni del lavoro e del capitale, dalla proprietà dei titoli, delle opere dell'ingegno, e così via discorrendo. Di ben altro si tratta che di qualche correzione d'articolo. Si tratta di una legislazione nuova sul mobile; si tratta, userò l'espressione un po' selvaggia, ma vera di Prudhon, si tratta d'un Codice Civile mangiato dal Codice di Commercio. E si vorrebbe derivare da cotesta parte della legge francese il fondamento della nuova unità legislativa italiana?

Avremmo inteso, che con fine politico, cotal proposta si facesse dalla dittatura piemontese durante la guerra, quando francesi e italiani combattevano insieme, e si volevano porgere al potente promettitore d'indipendenza fino all'Adriatico, testimonianze d'amicizia e di gratitudine. Ma quando sono riuniti i rappresentanti della nazione, quando l'Europa sta a vedere che sappiano fare i banditori del primato italiano, in verità pare impossibile, come non si senta vergogna del confessarci impotenti a convertire in istituti civili le nuove idee maturate dalla sapienza del secolo XIX.

E qual vasto campo s'apre oggi agli ordinatori di Stati, al tutto differente da quello già corso, quando i Francesi posero mano alla prima loro,codificazione!

Il secolo XVIII, applicando alla società laica il principio della sovranità popolare, affermato rispetto al pontefice dal Concilio di Costanza, si contentò di proclamare illimitata l'autorità dello Stato. Usufruttuata questa sovranità dal dispotismo imperiale, avvenne una reazione delle idee in favore della libertà, e si concluse per la passività dello Stato, soprattutto dagli Economisti, affermanti il famoso domina del lasciar fare.

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Ma un più recente moto intellettuale poneva l'arduo problema del dovere dello Stato a soccorrere la classe più numerosa, e più povera. E in mezzo a molti errori, e a molte utopìe, nacque quello che chiamasi Socialismo; apparecchiamento intellettuale di nuovi ordini civili, simile a quello fatto nel secolo decorso sotto il generico titolo di Filosofia. In tanto commovimento d'idee rispetto al futuro ordine delle nazioni moderne, come è lecito pigliare l'impresa rinnovatrice di tutto il giure italiano col misero corredo ideale, di cui fanno mostra i nostri improvvisanti unificatori? Non vale certo il pregio di mettere sottosopra le consuetudini d'una nazione, per farle il regalo di leggi forestiere tanto al di sotto di quell'ordine nuovo, che la sapienza civile sta apparecchiando.

Ma rimossa la necessità d'abolire tutto il nostro vario passato giuridico, si lascierà dentro a certi limiti ai differenti paesi la giurisdizione legislativa? Non possiamo risolvere questo problema, se non dopo aver parlato delle autonomie amministrative, e dei loro ufficj.

Intanto dalle cose discorse si deve concludere, che noi vogliamo l'unità immediata in alcune leggi, ma non la crediamo necessaria in tutte. Vogliamo l'unità immediata in tutte le leggi, le quali si collegano all'ordine politico che deve essere uno, perché è nazionale. Nel resto non si ha da cercare unità, ma progresso. - Si facciano pure necessarie riforme, e s'impongano a tutta la nazione: ma si lascino stare tutte quelle leggi tradizionali, in cui i popoli sono avvezzi ad esplicare la loro civiltà, finché non resulti evidente la necessità del cambiarle in meglio. La sfrenata libidine dell'uniformità si lasci ai Mandarini Chinesi.

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IV.

Si definiscono le idee d'Amministrazione e d'accentramento amministrativo.

Quanto era facile porre la questione dell'accentramento rispetto allo Statuto e alle leggi, altrettanto ciò riesce difficile rispetto all'Amministrazione.

Non faceva mestieri spiegare la differenza che passa tra l'avere, o il non avere unità costituzionale o legislativa, prima di esaminare quale di cotesti partiti s'addicesse meglio all'Italia; ma pigliando a discorrere l'articolo dell'unità amministrativa, sentiamo necessario anzi tutto il definire con chiarezza l'essenza de' due metodi d'ordinamento, fra i quali avremo a scegliere. Imperocché poche sieno le materie sulle quali, come in questa, regnino la confusione e l'equivoco: e molti di buona fede credono essere partigiani del disaccentramento, mentre in realtà non sono; e si confonde assai spesso ciò, che costituisce l'essenza dell'accentramento amministrativo, con alcuna delle accidentali e svariate sue forme.

La stessa parola Amministrazione non suona ancora un'idea ben chiara e ben definita: talvolta usata a significare l'azione, quanto è ampia, dello Stato: talvolta fatta sinonima della parola Governo: talvolta esprimente un concetto da quello di Governo distinto. Pietro Leopoldo, offrendo ai Toscani il rendimento di conti della sua Amministrazione, dava in esso le ragioni di tutte le sue riforme, e così mostrava come anche il far leggi per lui fosse amministrare. Romagnosi escluse dagli atti amministrativi la legge, ma identificò l'idea d'amministrazione con quella di governo. Tocqueville procedeva con altro criterio distinguendo due forme d'accentramento: l'amministrativo e il governativo.

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Dupon-White non parve contento della distinzione di Tocqueville, poiché chiamò accentramento politico quello, che il celebre Autore della Democrazia in America aveva chiamato accentramento governativo. Al contrario il ministro Persigny, nella sua ultima Relazione all'Imperatore intorno alle maggiori larghezze da attribuire all'autorità dei Prefetti, mostravasi più propenso a separare che a confondere l'idea d'Amministrazione da quella di Governo, quando ripeteva una sentenza da altri detta, che se si può governare da lontano, non si amministra bene altro che da vicino. Ciascuno vede, come tanta incertezza sopra il significato della parola signoreggiante nella discussione, renda difficile evitare deplorabili equivoci.

Noi intendiamo per Amministrazione ogni atto dello Stato, che non sia né statuente, né legislativo, e abbia per fine di attuare i principj dello Statuto e delle leggi, o mediante decisione dei Tribunali, o mediante Ordinanze, Decreti, Regolamenti, d'autorità governativa. Noi non identifichiamo l'idea d'Amministrazione coll'idea di Governo, né diamo a questa maggiore ampiezza che a quella. Secondo il nostro modo di giudicare, il Governo è parte dell'Amministrazione, e comprende tutti quegli atti che non hanno la generalità della legge. Se per Governo si avesse ad intendere ogni direzione data alle forze umane, conforme all'ordine della giustizia e dell'utilità, non solo sarebbero in questa generica denominazione incluse le leggi e le Costituzioni, ma gli oracoli stessi della pubblica opinione, reggitrice suprema dei popoli. Chi vorrebbe negare in questo senso qualità d'autorità governante alla libera stampa? Perciò preferiamo attenerci al più stretto significato della parola, facendo consistere il Governo in quella pubblica ingerenza, che sta fra la legislazione e l'amministrazione della giustizia.

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Il problema dell'accentramento amministrativo si riferisce appunto alla parte dell'Amministrazione, in cui noi riponiamo il Governo; imperocché, quanto all'amministrazione della giustizia, essendo il potere giudiziario destinato a mantenere con religioso culto l'osservanza delle leggi e dello Statuto, nessuno vorrebbe contrastargli il carattere di grande Istituzione Unitaria. Ma avrà ad essere egualmente una grande istituzione unitaria tutto il Governo, - o non potranno esservi interessi governati nel centro unitario, e interessi governati per autonomie amministrative nei centri secondarj della nazione?

Prima di discutere così fatto tema, è necessario dimostrare, quanto sieno in contraddizione con sé stessi coloro, che vogliono unità d'Amministrazione, e nel tempo stesso si dichiarano acerbamente nemici di accentramento amministrativo.

Ed invero: non si ha da credere, che accentramento amministrativo voglia dire invio di tutti gli affari al centro dello Stato, e assoluta esclusione dei cittadini dallo ingerirsi della cosa pubblica. Ciò che costituisce l'unità dell'Amministrazione, è l'esistenza d'una sola autonomia mallevadrice rimpetto alla sovranità nazionale per tutti gli atti esecutivi. O questa mallevadoria risieda nel capo della potestà esecutiva, o ne' suoi ministri, essa trae seco la necessità che quanto si opera dai governanti su tutto il territorio nazionale, abbia, o esplicitamente o implicitamente, l'assenso dal centro. Concedasi, che un governatore o un prefetto risolvano con sciolta potestà molti negozj della provincia: ma nel sistema dell'unica mallevadoria amministrativa, chi nominò il prefetto, o il governatore? Chi può issofatto revocarli? La potestà centrale. Dimodoché, nel risolvere l'affare, cotesti ufficiali secondarj hanno sempre bisogno di congetturare, quale sarebbe la decisione centrale, e da quella congettura staccare la maggiore del loro sillogismo.

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Così l'adunare Consigli, o municipali, o distrettuali, o provinciali per chiedere parere ai cittadini intorno ad alcuni loro interessi, non altera in nulla il sistema dell'accentramento; quando a coteste deliberazioni è necessaria, o diretta, o indiretta, la ratifica dell'autorità centrale, e quando il difetto di ratifica superiore le riduce a consulte accademiche. -

Perché dal sistema d'accentramento amministrativo si passi a quello di vero e proprio disaccentramento, fa mestieri scostarsi dal principio dell'unica mallevadorìa, e ammettere più autonomie amministrative, mallevadrici ciascuna della loro respettiva Amministrazione rimpetto alla sovranità popolare. Senza così fatto passaggio, non si ha diritto di dichiarare guerra all'accentramento amministrativo.

Valga l'esempio della Francia. Il primo Napoleonide attuava colà l'unità amministrativa nella maggiore ampiezza che mai si potesse darle: capi e consigli municipali, capi e consigli dipartimentali, tutti di scelta imperiale; il maire sottoposto al prefetto; il prefetto al ministro; il ministro all'imperatore; insomma una gerarchia civile modellata sulla gerarchia dell'esercito. Il Governo orleanese rendeva ai Consigli municipali e dipartimentali l'elezione popolare, novità conservata traverso alle vicende politiche posteriori. Il secondo Impero cominciò con un decreto del 25 marzo 1852, e proseguiva, con decreto del 13 aprile 1861, uno allargamento di competenze prefettorali.

Ma diremo per questo, che l'introduzione del principio elettivo nei Consigli municipali e dipartimentali, e l'allargamento delle competenze dei Prefetti, recassero alterazione al sistema? Basta dare un'occhiata agli opuscoli e ai diarj francesi di questi ultimi tempi, per vedere come amici e nemici s'accordino insieme nel distinguere l'essenza dell'accentramento amministrativo dalle differenti accidentali sue forme.

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Odillon Barrot scrive un libro in favore del disaccentramento, e giudica che una delle cagioni della caduta degli Orleanesi fu l'aver mantenuta centrale l'Amministrazione. Certo non sarebbe venuto a così fatta conclusione, se le novità introdotte dalla monarchia filippina gli fossero sembrate implicare un sistema opposto. Così i diarj napoleonici, in proposito del libro d'Odillon Barrot, hanno preso a fare panegirici del libro di Dupont-White favorevole all'accentramento.

Se le novità amministrative del secondo Impero accennassero davvero a un sistema di disaccentramento, oggetto dei loro encomj non sarebbe stato invece l'antico antesignano dell'opposizione parlamentaria orleanese. - In questo caso Paolino Limayrac, uno dei più ingegnosi e caldi propugnatori della democrazia napoleonica, non avrebbe certamente scritto nella Patrie dell'8 maggio le seguenti parole: «Il gran principio dell'accentramento non ci sembra in pericolo. - Il Sig. Odillon Barrot può fare opuscoli quanti vuole, ma non riuscirà a commuovere l'edilìzio della nostra unità La Francia democratica e liberale, farà l'Europa a immagine sua, mediante l'accentramento.»

Tenuta ferma pertanto la caratteristica differenza fra i due tipi diversi d'ordinamento amministrativo, fra l'ordinamento con centro unico, e quello con più centri di mallevadorìa governante, resta ad esaminare, se per avventura le cagioni medesime, che resero il primo necessario alla Francia, impongano il secondo all'Italia.

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V.

Dell'accentramento amministrativo in Francia e in Italia.

Cadono in grave errore coloro, i quali, trattando dell'unità d'Amministrazione, mettono a eguale stregua Italia e Francia: imperocché le condizioni dell'uno e dell'altro paese differiscono talmente, che l'accentramento amministrativo, leva di progresso in Francia, sarebbe oltremodo esiziale all'Italia. Per. poco che si guardi alla storia delle due civiltà, appariranno evidenti le cagioni di questo divario.

Prima del 1789, ogni maggiore incremento civile francese derivò dalla monarchia, la quale pigliò lo stendardo delle libertà popolane; affrancò i borghesi dalle sevizie dei signori, che sotto il regno dei Carlovingi erano divenuti altrettanti sovrani; chiamò il popolo a sedere come terzo Stato negli Stati-generali; abolì la servitù della manomorta; fondò le Corti di Giustizia.

Non è da maravigliare, se da qualunque parte sorgessero ostacoli alla potestà regia: essa agevolmente gli superò, sostenuta com'era dal favore delle moltitudini.

Intorno a questa forza unitaria l'incivilimento francese s' accentrava. E dapprima vediamo una specie di centralità nomade, incarnata nella persona del re, e che si muove con lui; vediamo Luigi XI percorrere incessantemente il paese, informarsi di tutto, andare, per dir così, incontro agli affari. Egli solo è l'unità amministrativa vivente.

In progresso di tempo si creano gli strumenti dell'Amministrazione unitaria; non si ha più bisogno del governo personale e minuto del monarca; si governa mediante una gerarchia d'ufficiali, chiamati, o Sindaci generali, o Intendenti; si forma nel centro della monarchia, e accanto al trono, il così detto Consiglio del re.

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Cotesto Consiglio, come bene notò il Tocqueville, è il perno della centralità nell'antico regime. Tratta cogli appaltatori dei pubblici carichi; stabilisce tutte le tasse non date in appalto, e le fa esigere da' suoi ufficiali; fissa i contingenti della leva; provvede all'ordine nelle province; cassa a talento regolamenti di polizia, fatti dalle Corti di giustizia; promulga regolamenti applicabili a tutto il Regno su qualunque materia gli piaccia; provvede arditamente alle esigenze della classe più numerosa, e più povera; talvolta costringe perfino i cittadini a prosperare malgrado di loro, inviando Ispettori generali dell'industria, che danno opera nelle province ai perfezionamenti di quella.

E certo adunque che prima del 1789, mediante cotali istituti, la Francia, quantunque priva d'uniformità legislativa, era retta a governo essenzialmente unitario.

Si dirà con Tocqueville, e Lanfrey, che la rivoluzione, abbandonata a' suoi istinti, avrebbe proceduto in via di disaccentramento? Si dirà, che la nuova unità amministrativa fu, come essi sostengono, un ritorno ai principj dell'antico regime? Noi non possiamo partecipare a cotesta sentenza.

L'Assemblea Costituente aveva posto, è vero, principj d'ordinamento libero e democratico al tutto differenti da quelli dell'antica monarchia: imperocché oltre all'adottare il sistema dell'equilibrio dei poteri, insegnato da Montesquieu, decretò che tutte le rappresentanze municipali e dipartimentali fossero elettive, e in luogo d'Intendenti, di Governatori, o di Maires, volle anche la parte esecutiva di coteste amministrazioni affidata ad un'autorità collegiale. Havvi un abisso tra quest'ordinamento, e quello, che nel 1800 fu costituito dal primo Console, su fondamenti al tutto dittatorj e monarchici. Ma i legislatori della rivoluzione non mai intesero d'abbandonare il principio d'accentramento, così favorevole al buon successo della rigenerazione per loro iniziata.


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- La novità consisteva nel sostituire l'accentramento democratico all'accentramento monarchico, la dittatura di Parigi alla dittatura del Consiglio del re. E bene il principio d'accentramento rivelò la sua profonda vitalità, quando sulle rovine d'ogni più rispettato potere tradizionale, sorgeva terribile la Convenzione nazionale. Si proclamò Repubblica, ma una e indivisibile; si decapitò Luigi XVI, ma si mandarono anche al patibolo i Girondini per avere osato assalire l'onnipotente autorità della metropoli. Napoleone fece opera controrivoluzionaria rispetto alla democrazia e alla libertà, ma non rispetto all'unità d'Amministrazione. In questa egli è il legittimo erede di Robespierre, e del Comitato di Salute Pubblica.

Ponendo in luce la necessità dell'accentramento amministrativo in Francia, non vogliamo affermare cotesta essere la forma ideale per noi desiderata a quella grande nazione. Già accennammo come una triplice centralità, nazionale, regionale e comunale, assai meglio che l'unica centralità nazionale provveda a progresso. Ma non si creano,,, ad arbitrio i centri d'attività progressiva: ma non basta decretare in legge libertà provinciali, o comunali, perché quelle libertà sorgano vigorose e feconde. Avviene dei centri progressivi, come degli individui e delle classi sovrastanti ad altri individui e ad altre classi per supremazìa d'intelligenza. 0 volere, o non volere, cotali supremazìe spiccano e s'affermano da sé medesime. Riconosciute negli ordini dell'arte umana, costituiscono uno stato normale di civiltà; offese, accendono quella coscienza di violata giustizia, da cui nascono le tremende riparazioni popolari.

La Francia è necessariamente retta a centralità di governo, perché in realtà tutta la vita progressiva di essa riusciva ad un solo centro, a Parigi. Poniamo, si volesse applicarle un vero e proprio sistema di disaccentramento; o rimarrebbe lettera morta, o riuscirebbe a diminuzione di civiltà.

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Ed invero: i più caldi sostenitori del disaccentramento in Francia non sono forse i partigiani dell'antico regime? E non a torto; essi sperano, per via di franchigie municipali e provinciali, rinnovare i privilegj che il diritto rivoluzionario, sostenuto dalla dittatura di Parigi, aboliva.

Perché la Francia entrasse davvero in via di disaccentramento, farebbe d'uopo che quella vita, che ora accoglie tutta nel centro. refluisse naturalmente alla circonferenza, e le città di provincia gareggiassero colla metropoli in rappresentanza di civiltà progressiva. Nulla ancora annunzia così fatto cambiamento. Vedemmo anzi le reazioni parigine pigliare autorità dal suffragio dei dipartimenti.

Sottrarre il progresso alla fatale periodicità delle rivoluzioni di Parigi, e ottenere, che cotesta metropoli mai non perda il suo natural peso di forza unitaria intellettuale nella bilancia dei destini nazionali, questo è il vero nodo della civiltà francese. Nè staremo ad esaminare i rimedj a tale uopo proposti dall'acuto Dupont-White, né quelli che accennava l'enciclopedico Giovanni Reynaud nella sua vita di Merlin, libro gravido di pensieri originali e profondi. Solo noteremo, come quei due forti pensatori mostrassero, più che altri. d'aver sentito che si provvederà a progresso e a libertà, non per illusorie provvidenze di disaccentramento, ma solo facendo all'intelligenza, che è l'eterna e imprescrittibile sovranità delle sovranità, la parte che le spetta nella gerarchica rappresentanza della nazione.

Guardando all'esplicazione della civiltà italica. qual differente spettacolo! In Francia la democrazia si restringeva al potere monarchico; in Italia basta a sé stessa, e fonda il Comune politico. In Francia nasce un centro metropolitico assorbente; in Italia pullulano i centri, e solo con laboriosissima unificazione. dalla minutaglia metropolitica dei municipj, si viene alla salda centralità di alcune metropoli regionali.

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In Francia la potenza unificativa s'incarna nella Monarchia, e quindi in Parigi: in Italia si spande dal pensiero e dalla parola. In Francia l'unità è una politica: in Italia una religione. In Francia il moto unificatore procede dall'alto al basso, dal centro alla circonferenza: in Italia procede dal basso all'alto, dalla circonferenza al centro.

Come adunque l'accentramento amministrativo riuscirebbe in Italia alle stesse conseguenze che in Francia?

VI.

I Governatori regionali.

La repugnanza all'accentramento amministrativo in Italia è così universale, e i più accesi fautori d'unità si mostrano talmente avversi alla forma unitaria francese, che per distogliere gli animi dall'imitazione di essa, non abbiamo bisogno d'enumerare tutte le funeste conseguenze, a cui riescirebbe il tentarla. Basta dire, che avverrebbe il contrario di ciò che si vede in Francia: colà dalla grande metropoli muove ogni impulso di civiltà a benefizio delle regioni e delle comuni; qui comuni e regioni, private d'ogni vita spontanea, invano aspetterebbero da quel centro artificiale, da quel caput mortuum dell'Amministrazione unitaria, le sacre faville vitali, che spande Parigi. Avremmo una larva di metropoli, una larva di parlamento, una larva di re, e sola signoreggiante, a scapito di tutte le forze civili della nazione, quella barbarie nuova, a cui il barbaro nome sta bene - la così detta Burocrazìa: avremmo una tisica unità di mano in mano incarnata nel fortunato ministro, condottiero d'un esercito di commessi.

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Ma quanto è facile il convenire astrattamente, che l'accentramento francese non s'addice alla patria nostra, altrettanto riesce difficile scostarsene in pratica, soprattutto quando si abbia peritanza a introdurre nel congegno novissimo e complicato dell'italica unità innocui e anzi vitalissimi elementi d'essenza federativa. S'immaginano allora quei bastardi disegni di disaccentramento, di cui abbiamo esempio ne' due sistemi finora proposti dalla scuola piemontese: l'uno dei quali vuole partita l'Italia in alcune grandi signorìe regionali aggiudicate a potenti governatori, e l'altro in piccole province dotate di rappresentanze consiliari ed esecutive. Il primo ammette fra la centralità nazionale e la centralità municipale due mediazioni: del prefetto e del governatore, della provincia e della regione. Il secondo ammette una mediazione sola, vale a dire della provincia; ma fa capo di provincia ogni italica città indistintamente col suo satellizio di borghi e di comuni rurali. Prima di esporre le nostre idee sull'ordine d'Amministrazione, che ci sembrò meglio accomodato alle esigenze della nostra multiforme civiltà, vogliamo mostrare come in pratica, né il sistema dei governatori regionali, né quello delle piccole province escano dall'imitazione del tipo francese.

Il sistema dei Governatori regionali è l'esagerazione di quella forma di disaccentramento, che il secondo impero napoleonico cominciava nel 4852, e che sta nell'allargare le competenze degli ufficiali sparsi sul territorio della nazione.

Altra volta accennammo, che questo non è vero e proprio disaccentramento, perché non chiama i paesi all'amministrazione dei loro interessi. Né vogliamo discutere, se la riforma imperiale arrecasse un vero miglioramento nel sistema della stessa amministrazione francese; di che potrebbe dubitarsi, leggendo il giudizio dato dall'autorevole Dupont-White intorno al decreto del 25 marzo 1852.

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«È certo, diceva il dotto pubblicista, che il decreto offre alcun vantaggio di celerità per lo spacciò delli affari. Dico solamente: alcun vantaggio. Di fatti bisogna pensare, che il prefetto prenderà più tempo per risolvere un affare di quello che non ne prendeva per trasmetterlo col suo avviso al ministro, cui spettava risolverlo. Quanto alla qualità delle decisioni, si può bene dubitare, se essa sia così guarentita sotto questo regime, come sotto quello dell'antica tutela. Naturalmente il prefetto è più accessibile alle influenze locali che il ministro: dipoi queste influenze si manifesteranno tanto più svegliate e operose, quanto si tratta di conseguire da un ufficiale che è a loro ben noto, non un semplice avvertimento, ma una risoluzione. E vero che ogni persona, la quale si stimi offesa, può ricorrere al ministro; ma questo ricorso incontrerà due avversari: primo, l'opposto interesse, quindi il prefetto impegnato a soste«nere la sua decisione... Se si volesse andare più oltre nella via aperta dal decreto del marzo 1852, si correrebbero pochi rischi a lasciare ai Comuni il governo di loro stessi, salvo il ricorso al Ministro, che potrebbe essere esercitato contro ciascuno dei loro atti da tre membri del Consiglio municipale. In questa ipotesi il prefetto potrebbe essere consultato utilmente dal Ministro, e non sarebbe più come un giudice di primo grado consultato sul merito della sua sentenza dal giudice superiore.» (Dupont-Wite, La Centralisation, pag. 96.) Lo stesso autore in altra parte della citata opera, dimostra come si potrebbero facilmente superare le lentezze rimproverate alle risoluzioni dell'autorità amministrativa centrale. (Idem, png. 74. )

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Or bene:- gli ordinatori del Regno d'Italia si compiacquero di questo avviamento a conferire ampie delegazioni d'autorità fuori del centro, e imaginarono nientemeno che altrettanti subministri, residenti nelle città più popolose del regno, con larghissima balla sopra i Comuni, le Province, i Soprintendenti, e i Prefetti. Così nasceva il minghettiano Governatore della regione.

Egli ha, dice la proposta ministeriale, sotto la sua diretta dipendenza i servizj politici; veglia per interesse dell'ordine e della sicurezza pubblica sull'andamento di tutti i servizj dipendenti dall'Amministrazione dello Stato, e sulla disciplina del personale addetto a tali servizj; può dare, nei casi d1 urgenza e sotto la sua responsabilità, ordini obbligatorj per tutte le amministrazioni; Protegge tutti gli uffiziali del governo nell'esercizio delle loro attribuzioni; nomina, sospende e revoca gl'impiegati d'ordine negli uffizi di governo e di prefettura, e gl'impiegati di grado inferiore in tutti gli altri rami dipendenti dal ministero dell'interno; decide definitivamente dei ricorsi dei Comuni e delle Province; approva i loro regolamenti; autorizza lo stabilimento di fiere e mercati; approva i cambiamenti nella classificazione delle strade provinciali, e l'introduzione di pedaggi per le medesime; approva i regolamenti delle Opere pie, e la formazione in corpi morali di nuovi istituti di carità e beneficenza con una speciale Amministrazione; conferisce i posti di fondazione, le doti e i sussidj riservati al governo del re negl'istituti d'istruzione, di beneficenza, e di culto; elegge i direttori degl'istituti e i componenti le commissioni sanitarie; convoca la Commissione regionale; prepara le materie da trattarsi nelle sue adunanze, e provvede all'esecuzione delle sue deliberazioni.

Basta l'enumerazione di queste prerogative per vedere, come la nuova Minerva uscisse armata di tutto punto dal cape del nostro governo.

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Né cotale disegno farebbe maraviglia, se concepito a servizio di potere assoluto. Ma come potevano osare proporlo ministri che si dicono costituzionali?

E già un gran problema, se la libertà politica possa convivere lungamente con amministrazione gerarchica, eletta dall'autorità esecutiva.

In Inghilterra una selva d'autonomie privilegiate pone insuperabili ostacoli ad ogni attentato liberticida. Dove la democrazia distrusse le autonomie tradizionali, per inalzare sulle loro rovine la sovranità del popolo, sta sospeso sopra la libertà un incessante pericolo di colpi di Stato, e di soverchierie ministeriali secondate dal docile esercito burocratico. Bene a ragione la prima Assemblea costituente francese aveva fatta larga parte al principio elettivo anche nella creazione dei primari magistrati amministrativi, giudicando esser questo il solo modo di mantenere inviolato alla nazione l'esercizio della propria sovranità.

Gli ordinatori del Regno d'Italia, anziché preoccuparsi dei pericoli che la libertà già corre nel sistema delle prefetture elette dall'alto, pericoli di cui la esperienza francese porge assai chiare testimonianze, propongono, a rinforzo d'arbitrio, i governatori regionali. Come il secondo Impero divideva la Francia in grandi zone militari, sottoponendo ciascuna ad un maresciallo, essi vorrebbero dividere l'Italia in altrettanti Maresciallati Civili, il sindacato dei quali sfuggirebbe necessariamente al Parlamento universale del regno: cosicché nulla sarebbe più facile, come ridurre sotto cotesti potenti sbirroni a lettera morta la costituzionalità, e avere in diritto l'unità democratica e liberale, e in fatto un regno di gendarmi, di commessi, e di spie.

Questa incompatibilità col principio costituzionale, basterebbe a condannare il sistema dei governatori regionali.

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Tuttavia si vuole esaminarlo anche sotto l'aspetto del disaccentramento, e mostrare come sarebbe lontano dal conseguire questo fine.

Ed invero - o si cerca il disaccentramento nel senso delle riforme napoleoniche, o nel vero senso scientifico della parola. - 0 si vogliono soltanto avvicinare maggiormente agli amministrati le risoluzioni degli affari, o chiamare i paesi all'amministrazione di sé stessi. Nel primo caso, perché tutte quelle incombenze, che si danno ai governatori, non darle ai prefetti? Qual grazia speciale di più lucida e giusta sentenza privilegia l'uomo Governatore sull'uomo Prefetto? Il lusso della burocrazia francese non creava questa ruota amministrativa. E vorremo introdurla in Italia? Nel secondo caso, non si avrebbe ad istituire un governatore, ma confidare l'amministrazione degli interessi regionali alla rappresentanza degli interessati.

Del rimanente la discussione, che noi facciamo', è diventata pressoché accademica, dopoché il voto degli ufficj del Parlamento si palesò contrario alla proposta ministeriale. Importava però mettere in evidenza la mostruosità, che sotto il lusinghiero titolo di sistema delle regioni, i nostri governanti stavano macchinando. Per alcun tempo restò in dubbio, dove cotesto sistema manipolato dal piemontismo andrebbe a finire. E pareva impossibile, che la idea d'un vero e proprio disaccentramento regionale potesse trovare accoglienza, dove tanta avidità d'accumulamento si accoglie. Ma venne fuori il minghettiano Governatore, e disse: LA REGIONE SON IO. Allora tutto fu chiaro, e si scoprì il segreto della commedia regionale. All'apparizione però di quel Deus ex machina un coro di biasimi s'alzava. E dal fondo d'ogni regione italica si gridò: Vogliamo vita vera di libertà, e non autonomi, o automatici tirannelli in giornea unitaria.

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VII.

Le piccole province.

Più ragionevole in apparenza, ma non meno viziato di gallica forma disadatta alle nostre condizioni, è l'altro disegno d'ordinamento, che propone sminuzzare l'Italia in piccole province, dando a ciascuna un Consiglio, una Deputazione esecutiva, e un Prefetto direttamente sommesso al governo centrale. -»

Hanno i fautori di cotesto sistema un bel fare i misogalli, un bel pretendere a italianità di concepimento! Essi rubarono alla legge francese dell'8 gennajo 1790 la sostituzione del dipartimento, ossia della piccola alla grande provincia; rubarono alla legge francese del 28 piovoso, anno Vili, la poliziesca idea del prefetto; rubarono alla legge francese del 22 giugno 1833 il Consiglio provinciale elettivo; rubarono al decreto francese del 25 marzo 1852, l'idea delle competenze prefettoriali allargate. E con tutto questo francesume addosso, oserebbero vantare unità italiana su tipo italiano? Mostrammo già, come il sistema dei governatori regionali fosse l'esagerazione del principio di disaccentramento, quale lo concepiva il secondo Impero Napoleonico. Il sistema delle piccole province è gallicismo pretto. Non si faccia pompa di novità per averci aggiunta la Deputazione provinciale che i francesi non conoscono. Questo assai tenue acquisto, il sistema prima che in Piemonte lo aveva già fatto nel Belgio.

Col disegno che ora esaminiamo si mira a dare un gran colpo; a pareggiare le città metropolitane d'Italia alle più umili città. Perché, dissero i fautori della piccola provincia, Sicilia, Napoli, Toscana si mostrano ancora sì restìe ad assetto tranquillo nel Regno? Palermo ha tuttavia una preminenza su tutta l'isola, Napoli sulle Calabrie, sugli Abruzzi, e sulle altre tene napolitane del mezzogiorno, Firenze su tutte le genti toscane.

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Questa è la causa del difetto di coesione fra le diverse parti dello Stato. Diventino sedi di prefettura, Palermo alla pari di Girgenti, Napoli alla pari di Catanzaro, Firenze alla pari di Grosseto, e l'Italia è subito fatta. -- Noi però domanderemo a costoro, se sperano distruggere i centri metropolitani con un decreto, e se la famosa legge dell'Assemblea Costituente francese, colla quale si sostituivano alle trentadue grandi province dell'antica monarchia, ottantaquattro dipartimenti, avrebbe ottenuto l'intento, quando tutte le città metropolitane della Francia non avessero ornai perduta ogni loro potenza d'attrazione sulle città minori.

Il sistema dipartimentale in Italia non ucciderebbe le antiche metropoli, non creerebbe la società amministrativa della provincia; riescirebbe soltanto all'autonomia, più o meno stemperata, del prefetto.

Coloro, i quali non pensarono che cosa sia un centro metropolitano,o, come generalmente si dice, una Capitale, meditino le due dottrine che seguono, estratte, l'una dall'opera più volte da noi citata di Dupont-White sopra l'accentramento, l'altra dall'ultimo libro di quel fecondo e potentissimo ingegno che tanto illustra la democrazia italiana, l'amico nostro Giuseppe Ferrari.

Dupont-White definiva la Capitale con queste profondamente pensate parole:

«Una Capitale non è un potere contrassegnato e classificato fra i poteri costituzionali. I pubblicisti non definirono ancora le operazioni di quest'organo nella fisiologia delle nazioni. Pertanto una Capitale è una potenza accanto alle potenze costituite. - Essa è un organo, o meglio ancora, essa è nel corpo politico quella forza vitale, che i fisiologi non vedono nel corpo umano, ma affermano al di sopra di tutti gli organi, e di tutte le funzioni visibili. - L'opera sua è creare idee al di fuori delle chiese, e delle accademie: creare una moda, e una società al di fuori della corte: creare una opinione al di fuori del governo.

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La Capitale è una forza? Sì, poiché fu veduta armare, e disarmare le forze officiali. Notate bene ciò: non ve ne fu altra per infrangere l'antico regime. I procedimenti suoi sono assai semplici. Azione delle idee sopra gli spiriti, degli spiriti sopra le volontà, della volontà sui corpi che tengono la spada e la bilancia; tale è l'itinerario di questa forza in sostanza la preminenza d'una Capitale è quella delle idee sulle cose; dello spirito sul rimanente. Qual preminenza più legittima?» (La Centralisation, 248).

Il nostro Ferrari, col suo pittoresco stile, aggiunge nuovi tratti di luce alla importante teorica della scienza moderna intorno alle metropoli. «Fondate, egli dice, da conquiste secolari, in cui il lavoro dell'uomo perfeziona quello della natura, le capitali acquistano come una vitalità organica che le rende infinitamente superiori alle considerazioni individuali, ai disegni dei conquistatori, alle nostre volontà, ai nostri partiti presi, ai nostri sdegni d'un giorno. Più volte diroccate, le loro mura si rialzano come se rinascessero spontanee: devastati, saccheggiati, cotesti centri riparano ai loro disastri, e alcuni anni bastano per ripigliare i loro splendori; distrutti, risuscitano dalle loro ceneri.... Le strade vi riconducono il commercio; le cose vi riconducono gli uomini; le città, ormai rese subalterne, vi cercano ancora il loro punto d'incrociamento; le fortezze V'invocano la base strategica, l'esperienza del passato è lezione all'avvenire, e in mancanza di riflessione, la superstizione delle consuetudjni tien luogo di civiltà nel recinto che le servì di culla... Simile al ragno nel centro della sua tela, ogni città regnante possiede un istinto che la illumina, un'accortezza che si confonde co' suoi bisogni; essa ha tendenze perseveranti, furberìe naturali, disegni invariabili: ha un linguaggio che prende i suoi segni dalla geografia politica, e che è sempre inteso anche nel silenzio della storia, anche nel tumulto delle rivoluzioni.» (Ferrari, Histoire de la raison d'Etat, pag. 8).

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Non vogliamo ora discutere nell'ordinamento nuovo d'Italia i centri metropolitani esistenti, abbiano a desiderarsi distrutti, o solamente trasformati. Ma, dopo le luminose dottrine che riferimmo, egli è certo che non basta un decreto, perché Palermo, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Torino, anche sotto il primato di Roma, perdano la respettiva preminenza, di cui le investiva una maggiore acquistata potenza movitrice di civiltà. Si riducano pure a semplici seggi di prefettura: non cesseranno per questo di essere ardenti focolari di vitalità nazionale, centri formidabili di agitazione, cittadelle strategiche delle fazioni opponenti. Coi loro diarj in tempo di libertà, colle loro congiure in tempo di servitù, daranno la parola d'ordine alle genti della grande provincia già in esse virtualmente rappresentata. Perché queste genti cessino di guardare ai centri tradizionali, fa d'uopo che il centro supremo della nazione primeggi tanto di luce e di vita da attirarle in un sistema d'attrazione più vasto.

Nel secolo sedicesimo e diciassettesimo in Francia le principali città di provincia possedevano tipografie ragguardevoli. Resulta da Relazioni fatte al governo intorno alla stampa francese nel secolo XVIII, poco avanti alla rivoluzione, che queste stamperie, o non esistevano più, o non facevano più nulla. E nondimeno si stampava assai più libri nel secolo XVIII, che nel XVI. Il moto del pensiero partiva dal centro. Parigi, come dice energicamente il Tocqueville, notando questa differenza, aveva alla perfine divorato le province.

Ciò spiega, perché il sistema dipartimentale si poté in Francia attuare senza difficoltà. Esso non spengeva alcun centro di progresso; al contrario poneva il solo centro egemonico francese, rimasto meritevole di questo nome, nella verità della sua acquistata legittima signoria.


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Siamo noi destinati a vedere eguale novità in Italia? Nascerà anche fra noi la gigantesca metropoli progressiva, divoratrice delle province? Diverrà Roma rispetto a Napoli, a Milano, a Firenze, a Torino così smisuratamente e per sapienza, e forza economica, e grosso popolo preponderante, com'è Parigi rispetto a Lione, a Marsiglia, e alle altre antiche metropoli provinciali di Francia? Se ciò accada, allora sì, ma allora solamente, il sistema dipartimentale si potrà impunemente applicare anche in Italia: non quando il moto del pensiero muove da più centri; non quando le fluttuazioni della pubblica opinione obbediscono in Sicilia alla parola di Palermo, nelle province meridionali di terraferma a quella di Napoli, in Toscana a quella di Firenze, in Lombardia a quella di Milano, in Liguria a quella di Genova, in Piemonte a quella di Torino; non quando ogni fatto unitario, per acquistare veramente questo carattere, ha bisogno d'un concordato più o meno sottinteso fra le metropoli delle grandi province; non quando con più simultanei centri di gladiatori l'Italia combatte le lotte feconde della civiltà novella. In questa condizione di cose volete negare alle città metropolitane la legittima preminenza, che loro spetta nell'ordinamento amministrativo dello Stato? Le condannate a ripigliarla colla rivoluzione.

Altro grande errore dei partigiani delle piccole province, è la speranza di costituirle in altrettante associazioni dotate d'autonomia amministrativa.

Come per decreto non si disfanno i centri metropolitani, nemmeno si fanno le associazioni, e le autonomie provinciali. Bisogna che la legge ordinatrice di cotali fatti li trovi già adulti per lavorìo organico indipendente dal volere dell'uomo.

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Se intendiamo a dar forma socievole, e libera amministrazione alle grandi province d'Italia, qual ricca materia preparata dai tempi! Nate coi primi stanziamenti, e coi primi gruppi dei popoli abitatori di questa incantevole contrada, prive ora d'autonomia politica, ma non amministrativa come sotto il giogo di Roma, ora d'autonomia politica e amministrativa insieme, come nell'era dei Comuni, ma sempre spiccanti per tipo d'ingegno e di speciale temperamento, e nell'era dei monarcato riformatore così risorte a vita civile fino a prender nome di nazioni, le grandi province d'Italia recano dal passato elementi stupendi per divenire le associazioni mediatrici tra il Comune e lo Stato, e come corde di differenti suoni nell'armonia della lira italiana.

Ma quale addentellato storico per la creazione di una piccola società provinciale fra una città e i circostanti borghi? Nell'èra repubblicana il legame fra il Comune urbano, e i Comuni del contado, o distretto, non era legame d'eguaglianza, ma di servitù e di protezione. Il municipio urbano regnava sugli altri, con più o mene larghezza di dominazione, secondo i patti deditizj, o delle accomandagie.

Nell'era monarchica l'unione dei borghi colla città vicina consistè unicamente nell'essere sommessi a eguale autorità o di giudice, o di polizia, o di tutela amministrativa. Il primo elemento cittadinesco in queste artificiali classificazioni di governo, fu introdotto dall'Austria con quelle larve di rappresentanze, che si chiamarono Congregazioni Provinciali. Vennero in moda poi, in tempi a noi più vicini, i Consigli provinciali. Ma ciascuno sa come queste istituzioni acquistassero una certa popolarità soltanto perché la rivoluzione, intesa a disarmare i poteri dispotici, si sarebbe, come suol dirsi, attaccata ai rasoj.

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Qualunque sforzo si faccia per elevare a dignità d'ente sociale la piccola provincia, nel difetto d'una tradizione preordinata a tale resultamento, non riesciremo a nulla. - Cotesta rappresentanza s'ecclisserà davanti, o al municipio urbano, o al prefetto. - E questo ultimo caso è il più probabile, ed è quello di cui gli amatori di libertà avrebbero più a preoccuparsi. E invero basta leggere la enumerazione delle prerogative del prefetto moderno, inventato dalla reazione consolare francese, per conoscere quanto differisca dal prefetto che i Romani mandavano in alcuni municipj, amministratori di giustizia; e come cotesto generico magistrato, cotesto factotum, che si dice agente del potere centrale, mezzano fra il governo e la provincia, procuratore dell'azione amministrativa, provveditore di tutti i bisogni del servigio pubblico, plenipotenziario, istruttore, eccitatore, ispettore, sorvegliante, apprezzatore, sindaco, censore, riformatore, tutore, comandante, intendente, edile, giudice, renda impossibile ogni principio di vera autonomia amministrativa provinciale. Mostrammo che la regione, come il ministro Minghetti la concepiva, era il Governatore. La piccola Provincia sarebbe il Prefetto.

Noi speriamo, che al sistema delle piccole province tocchi adunque eguale destino, che a quello dei governatori regionali. Tuttavia non dissimuliano che esso ha due potenti campioni; la burocrazia piemontese, e il municipalismo delle antiche città esautorate dai centri metropolitani.

Questi due campioni lo difendono facendo pompa di unitarismo. Giù le maschere! Non s'unisce un paese cominciando dal disunirlo. Questa guerra alle grandi province in favore delle piccole è ammutinamento di campanili contro le vecchie metropoli, è ambizione d'una grande provincia a fondare la sua dominazione sulle rovine delle altre tutte.

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Se la metropoli d'Italia si trasferisse a Roma, uno di questi alleati al sistema disparirebbe; ma avremmo sempre a combattere le intemperanze del municipalismo, il quale è, potente sì, ma perigliosa leva di progresso italiano.

VIII.

Le autonomie amministrative e l'unità politica.

Dalle cose finora discorse resulta evidente l'errore di quei nostri pubblicisti, i quali stimano che per isfuggire agl'inconvenienti d'una centralità amministrativa a modo di Francia, basti sgravare il Ministero, del giudicio d'alcuni affari, e attribuirlo, o ai Governatori delle regioni, o ai Prefetti delle piccole province. Mostrammo, come questa falsa maniera di disaccentramento ad altro non riuscirebbe, che ad accrescere gli arbitrj degli amministratori secondarj, con detrimento di giustizia, e pericolo di libertà.

Bisogna risolversi fra due principj: quello che fa mallevadori di tutta l'Amministrazione della cosa pubblica i soli ministri della potestà centrale, e quello, che a più centri di rappresentanza del paese lascia diritto di decidere in modo terminativo gli affari, col loro sindacato nel giro degli amministrati.

Le competenze più ampie degli ufficiali, che il Ministero nomina e revoca a suo piacimento, non solo lasciano intatto il principio d'accentramento, ma gli tolgono alcune guarentigie.

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Per applicare il principio opposto, fa d'uopo ammettere più autonomie amministrative, e ciascuna sindacata nel giro della respettiva Amministrazione.

Or bene: la coesistenza di queste autonomie amministrative si concilierà coll'unità dello Stato?

Quali e quante saranno esse in Italia?

Quale la estensione della loro giurisdizione?

Per iscreditare il sistema delle autonomie amministrative si evocò lo spettro del federalismo.

Noi mostreremo in primo luogo come elementi federali possano entrare nello stato più unitario, e secondariamente come l'esempio dell'Inghilterra basta ad allontanare ogni dubbio d'incompatibilità fra cotesto sistema e l'unità politica.

Ragionando della federazione americana, Alessio Tocqueville dettava queste assennate parole: «Quando molte nazioni s' uniscono in lega permanente, e costituiscono un'autorità suprema, che senza operare sui semplici cittadini, come potrebbe fare un governo nazionale, opera però sopra ciascuno dei popoli confederati, questo governo piglia il nome di federale. - Si scopre di poi una forma di società, in cui molti popoli si confondono realmente in un solo, rispetto a certi interessi comuni, e restano separati, e solamente confederati per gli altri, u Qui il potere centrale opera senza mediazione sui governati, li giudica, e li amministra, come fanno i governi nazionali; soltanto quest'azione s'esercita entro un cerchio ristretto. - Certamente questo non è più un governo federale, ma un governo nazionale imperfetto. Così fu trovata una forma di governo che non era al tutto ne nazionale, né federale; ma la scienza si fermò lì, e la parola nuova non esiste ancora» (Tocqueville. De la Démocratie en Amerique, Tom. I, pag. 189).

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Il profondo pubblicista francese giustamente indicò la mancanza d'una formula che indichi tutta una categoria di Stati, ai quali non si può applicare il tipo dei veri e proprj Stati federali. - Ed invero quanti elementi unitarj non si trovano nella Confederazione Americana? Non è forse unitaria, vale a dire rappresentatrice d'individui, e non di Stati, la prima Camera; mentre è federale, vale a dire rappresentatore di Stati, il Senato? Lo stesso Tocqueville enumerava varj casi, nei quali il governo federativo d'America è assai più centrale che non fosse l'antica Monarchia di Francia.

Vincenzo Gioberti fece avvertire la parte che il principio federale ha negli Stati unitarj. «Osservo, egli dice, --- che nella stessa teorica dei centralisti il concetto di federazione ha luogo, benché imperfettamente e in modo troppo subordinato all'unità predominante; altrimenti, invece d'un governo, si avrebbe una tirannide intollerabile, anzi impossibile. Imperocché quel grado di spontaneità nell'operare che in ogni reggimento, sia pur centrale quanto si voglia, si lascia agli individui, alle famiglie, ai Comuni, alle Province, insomma a tutte le parti della repubblica, è una applicazione del principio federativo, impossibile ad escludersi, se l'individualità e la libertà di ciascun componente al tutto non s'estinguono. Il che è chiaro specialmente negli ordini municipali, quali hanno luogo eziandio nei paesi costituiti a forma centrale; perché il corpo dei Municipj è una vera confederazione di repubblichette temperate ad aristocrazia monarchica, e raccolte intorno all'unità dello Stato e della Nazione. Il divario, che corre fra la confederazione municipale, e la politica, è più di gradi che d'essenza....» (gioberti, del Primato morule e civile degli Italiani; Tomo I, pag. 88).

Quando due scrittori di questa fatta hanno potuto affermare, uno che la federazione moderna racchiude elementi unitarj, l'altro che negli Stati più centrali si rinviene l'idea federativa;

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lasciamo giudicare ai nostri lettori, qual caso debba farsi dell'accusa di federalismo scagliata, o con profonda perfidia, o con inescusabile ignoranza, contro qualunque intenda a costituire italiana e non francese, democratica e non burocratica, libera e non vassalla unità.

Sia pure, che il sistema delle autonomie amministrative appartenga alla famiglia delle idee federali. Avremo dunque a ributtarlo per odio di origine? L'ortodossìa unitaria, così fattamente concepita, trarrebbe a conseguenze da cui certo gli stessi nemici di quel sistema rifuggono. Per odio alla federazione si avrebbe a combattere ogni libertà municipale, perché il corpo dei Municipj liberi, come disse il Gioberti, è una vera confederazione di repubblichette temperate ad aristocrazia monarchica e raccolte intorno all'unità dello Stato, e della nazione. Per odio alla federazione si avrebbe a combattere l'idea dei consorzj, i quali altro non sono che federazioni di Comuni, e di Province, circoscritte al conseguimento di alcuni fini speciali. Che più? Per odio alla federazione s'avrebbe a combattere il sistema stesso costituzionale, fondato sopra una federazione dell'autorità regia col l'autorità senatoria e popolana.

Non importa, che il principio delle autonomie amministrative sappia di federalismo. Sta a vedere, se questo federalismo distrugge l'unità politica necessaria all'Italia. Ma se l'unità politica consiste nell'arbitrio sovrano, o direttamente, o indirettamente esercitato dalla nazione, egli è certo che le autonomie amministrative non possono recare alcun detrimento a cotesta unità, imperocché a qualunque deliberazione della sovranità nazionale, sia pure per loro deliberazione di morte, debbono sottostare.

L'esempio dell'Inghilterra ci rassicuri. In quale altro Stato l'unità politica si manifestò più poderosa, e l'amministrazione meno accentrata?

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Delle più audaci riforme di codesto paese si fece iniziatore lo Stato; muovono dal Parlamento, cioè dall'autorità unitaria suprema, leggi e regolamenti per l'assistenza pubblica, pel dissodamento dei terreni, per l'emigrazione, per la salute fisica e morale della nazione nelle città industriali. E quale ostacolo a tutte coteste provvidenze unitarie oppongono le autonomie amministrative?

L'amministrazione inglese è tutt'altro che accentrata e gerarchica come in Francia. Sorgono, sui varj punti della circonferenza, associazioni che trattano i loro interessi, che eleggono i loro amministratori, che operano al tutto indipendentemente dal potere centrale. Le più elementari fra queste associazioni sono le Parrocchie, nelle quali si concentra la vita locale, e si ordinano consorterie simili nella sostanza al vero Comune.

Sotto nome di Contea, al di sopra delle Parrocchie s'eleva l'associazione mediatrice fra queste e lo Stato. I membri attivi della Contea erano da principio tutti di classe privilegiata. Più tardi si stese ad abbracciare anche la plebe. La rappresentanza della Contea posta in ufficiali eletti dai consorti, e sempre fra loro, possiede le attribuzioni necessarie a dirigere tutti gl'interni interessi, e a porli in armonia cogli esterni.

Il Comune in Inghilterra è una eccezione, poiché Comune rurale non esiste; ma veramente indipendente nella sostanza, non meno che nelle forme dalla Nobiltà, esso vive nelle grosse terre, e nei così detti borghi incorporati. Il Comune pure amministra da sé i suoi interessi.

Si aggiungano le franchigie d'un Clero fortemente costituito, quelle dei Corpi insegnanti, quelle degli Avvocati, e soprattutto poi le prerogative della Casta dei Nobili, la quale trova nella Camera dei Lordi un centro di rappresentanza speciale, e concluderemo essere l'Inghilterra ad un tempo la nazione dell'unità politica, e delle autonomie amministrative per eccellenza.

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Certamente l'Italia non può avere né Parrocchie, né Contee, né Corporazioni all'inglese: ma quantunque d'altra essenza,come in progresso mostreremo, perché le autonomie amministrative italiane repugnerebbero all'unità politica, mentre non repugnano ad essa le autonomie amministrative _ britanniche?

Cessino una volta queste puerili e traditrici temenze d'ogni vita spontanea al di fuori del centro, in cui siede il governo supremo dello Stato: non si cada nell'errore scolastico d'assomigliare un popolo ad un individuo, quasiché in un sol punto del corpo debba stare la forza movitrice, e tutto il resto passivamente obbedire agli impulsi di quella: si rispettino, si consacrino le forze movitrici dovunque sono, si moltiplichino, se è possibile: s'imiti dall'unità celeste, tutta gremita di centri luminosi armonizzanti fra loro, il disegno unitario d'Italia.

IX.

Roma e i Comuni.

Come Michelangelo vedeva dentro al marmo percosso dal creatore scalpello riposta la statua, quasiché la mano di Dio colà l'avesse plasmata, né altro restasse al magistero dell'arte che discoprirla al guardo degli uomini, così l'intelligenza dei popoli disfà a colpi di rivoluzione il passato, vedendo l'archetipo ideale dell'ordine nuovo che avrà a sorgere sulle rovine dell'antico.

La Francia del 1789 distruggeva il reggimento feudale coll'immagine davanti allo sguardo d'una nazione sorgente sul fondamento dell'autorità popolana, e del diritto dell'uomo.

L'Italia scuote il giogo dello straniero e del papa-re, idoleggiando una novella Roma, e novelli Comuni.

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L'idea romana, e l'idea municipale sono infatti i due poli del mondo italiano: la prima è il perno della nostra unità politica: la seconda è quello delle autonomie amministrative: la prima s'immedesimò coll'Italia fino dall'antica guerra così detta sociale: la seconda rivelò tutta la esuberante sua vitalità col moto dei Comuni.

Un secolo avanti all'èra cristiana le genti rette dai Romani, col titolo di socie, levano stendardo di ribellione, convengono in Corfinio, e per la prima volta combattono in nome d'Italia. «Quale calamità, esclama lo storico Floro, il Lazio, il Piceno, l'Etruria, la Campania, l'Italia tutta, sorgenti contro la madre!... Un popolo arbitro di genti e di re, non potrà reggere sé medesimo? Roma vincitrice d'Asia e d'Europa sarà combattuta da Corfinio?» (L. Flori, Rerum Romanarum, Liber. Ili ).

Lo storico, giudicando questa guerra da romano, anziché da italiano, naturalmente non le risparmia gli oltraggi, come a quella che assaliva il privilegio del municipio sovrano.

E nulladimeno non possiamo, senza battito di cuore, leggere, quantunque scritti da un nemico, i pochi cenni della epopea iniziatrice della nostra unità. «Il primo consiglio della guerra si tenne sul monte Albano.... Tutto il furore scoppiò in Ascoli, trucidati in mezzo allo spettacolo gli ambasciatori della città... Questo fu della guerra il giuramento.... Indi in ogni parte d'Italia, di popolo in popolo, di città in città risonarono i segni: correva qua e là motore e duce dei sollevati Popedio... Ecco le terre Otricolane (nell'Umbria), … ecco l'Agromento (Basilicata), ecco Fiesole, ecco gli Arsolani (Terra di lavoro), ecco Nocera (nell'Umbria), ecco i Picentini (costa d'Amalfi); si devasta tutto a i ferro e fuoco: disfatte le schiere di Rutilio, e quelle di Cepione; lo stesso Giulio Cesare, perduto l'esercito, torna in Roma grondante di sangue. (L. Flori, ib.

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Ma qual era il fine dei sollevati? Volevano forse tornare ciascuno alla prisca indipendenza federale? Volevano distruggere la città conquistatrice? Proferirono rispetto a Roma il terribile Delenda est, che essa aveva proferito rispetto a Cartagine? Tennero in Corfinio adunanza, come i Ghibellini di Firenze in Empoli, per deliberare se la città dei sette colli avesse a ridursi in cenere, quando Italia ne divenisse signora? Tutt'altro. La guerra sociale era accesa per sostituire alla Roma dei Romani, la Roma Degli Italiani: era fatta per fondare la metropoli della nazione.

«Le città socie, dice Cesare Balbo, domandavano quell'accomunamento compiuto della cittadinanza romana,che i capi-popolo di Roma venivano domandando per essi.» (balbo, Della Storia d'Italia, 28).

Roma vinse colle armi; Catone domò gli Etruschi, Gabinio i Marsi, Carbone i Lucani, Silla i Sanniti, Strabone fece sterminio d'Ascoli. Ma la vittoria morale restava all'Italia: imperocché i domandati diritti di cittadinanza romana prima si concessero ai socj rimasti fedeli, quindi anche agli ostili. «Grandi, seguita il Balbo, furono certamente l'aristocrazia, i governanti romani in vigoria; ma grandissimi in prudenza governativa, in non ostinarsi mai davanti alle concessioni diventate necessarie. E vero, che questo accrebbe numero e forza alla plebe, la fece di potente prepotente. Ma chi può '(dire ciò che sarebbe succeduto senza la concessione? Forse il fine della repubblica un 50 anni prima di ciò che avvenne; e il fatto sta, che tutti i governanti d'allora in poi estesero per anco quella concessione fino ad Augusto, che concedette la cittadinanza a tutta la penisola.» (Balbo, ib. )

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Dappoiché ogni italiano potè dire: civis romanus sum, non abitarono la penisola popoli solamente più o meno confederati, come avanti alla conquista romana: non regnò uno di essi sugli altri, come nel tempo dell'assoluta conquista; e al disopra di ciascun popolo, o Etrusco, o Sannitico, o Campano, o Lucano, o Marsio ec. ec, sorgeva il gran popolo italico, e del gran popolo italico metropoli Roma.

Così indissolubilmente congiunte, l'idea italiana e l'idea romana traversano i secoli. Nacque, è vero, sotto Costantino un cosi detto Vicariato d'Italia, distinto dal Vicariato di Roma: questo comprendeva la Campania, l'Etruria e l'Umbria, il Piceno Suburbicario, la Sicilia, la Puglia e la Calabria, la Lucania, i Bruzj, il Sannio, la Sardegna, la Corsica e la Valeria; quello, il cui capo era Milano, comprendeva la Liguria, l'Emilia, la Flaminia, il Piceno Annonario, Venezia, le Alpi Cozie, e l'una e l'altra Rezia. Al Vicariato d'Italia si rannoda la tradizione di Regni e d'Imperj, che pretesero signoreggiare Roma. Ma l'istinto nazionale si ribellava costantemente ai sacrileghi attentati contro alla comune Metropoli: e ogni gran moto d'Italia, come l'antichissima guerra sociale, mira a rivendicazione di cittadinanza romana.

Lasciando gli antichi tempi, e fermandoci all'era nuova cominciata dalla rivoluzione francese, vediamo a Roma accennare tutti i guerrieri, tutti i tribuni, tutti gli statisti, che da sessanta e più anni in poi danno mano alla rigenerazione d'Italia

Vincitore dell'esercito collegato, il primo Bonaparte così in Milano favella ai soldati: «Stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente» siamo dei discendenti di Bruto, degli Scipioni, di tutti gli uomini grandi che impreso abbiamo ad imitare.


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RISTORARE IL CAMPIDOGLIO, RIPORVI IN ONORE LE STATUE DEGLI EROI, PER CUI TANTO È FAMOSO AL MONDO, DESTAR DAL LUNGO SONNO IL ROMANO POPOLO, TORLO ALLA SCHIAVITÙ DI TANTI SECOLI FIA FRUTTO DELLE VITTORIE VOSTRE: vi acquisterete una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa.

I Carbonari cospirano per fondare la Repubblica Ausonia con la metropoli a Roma; - la Giovine Italia egualmente. - Gioberti vuole un papato romano che capitaneggi ad un tempo l'unità cattolica e V unità italiana. - La democrazia chiede Costituente italiana sul Campidoglio. Si acclama Vittorio Emanuele re d'Italia, ma a condizione che vada a Roma. 0 col papa, o senza, o col re, o colla repubblica, o con simbolo federale, o con simbolo unitario, Roma è sempre il des ubi consistavi dell'Italia sorgente, indicato dalla coscienza immortale della nazione.

Non istaremo a cercare le origini del sollevamento comunale, che racchiudeva in germe i destini del mondo moderno: non tratteremo la questione ventilata fra eminenti scrittori, se il municipio del medio evo fosse creazione al tutto nuova, o se si rannodi alla tradizione municipale antica. All'uopo nostro basta ricordare, che quando i Conti, ultimi rappresentanti della caduta longobarda tirannide, vollero mantenere, ciascuno nel raggio di sua giurisdizione, le asprezze aborrite del regno, i popoli dapprima coi vescovi, quindi coi consoli dappertutto sorgendo a libertà, cominciarono il moto delle autonomie municipali. E finché ogni comune intendeva a levare il governo di mano al conte tirannello, e a portarlo nel popolo, nulla v'era di più giusto: ma disgraziatamente, a raffrenare l'autonomia municipale, mancò autorità di nazione, e tra città e città, tra borgo e borgo s' accesero guerre implacate d'invidie e di conquiste.

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Non per questo la manifestazione dei comuni cessava di essere, dopo la guerra sociale, il più gran fatto della italica democrazia.

Collegata a memorie gloriose, cotesta tradizione risorge nel secolo XVIII colle riforme del principato filosofico: scrive nelle Leggi Leopoldine la recognizione dell'autonomia amministrativa del Comune Toscano; resiste alle micidiali applicazioni dell'idea unitaria francese; innalza a grado d'assioma il principio, che soltanto su fondamento di libertà comunale, l'Italia possa fondare edilìzio di civiltà.

Così l'archetipo ideale d'Italia sta nella coscienza popolare, unitario e autonomo nel tempo stesso: unitario perché romano, autonomo perché comunale. Dall'intrecciamento di questi due principj, dipende la saldezza dell'ordine nuovo che abbiamo a edificare.

Ma il principio unitario romano e il principio autonomo comunale, come si accorderanno insieme, senza un principio mediatore? Perché il primo non diventi assorbente, né il secondo anarchico, non farà d'uopo che tra Roma e i Comuni sorgano altri centri d'amministrazione? E quali saranno? Qui la coscienza nazionale non porge alcuno argomento, e ci troviamo rimpetto ad una tradizione tutta economica e giuridica, sulla quale si ha a pronunciare sentenza di vita o di morte, pigliando consiglio dalle necessità del progresso civile.

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X.

Le succursali di Roma.

L'ordine di questa trattazione ci ha condotti a porre il più arduo fra tutti i problemi dell'ORDINAMENTO NAZIONALE, quello cioè che si riferisce ai centri mediatori fra l'autorità politica posta in Roma, e le autonomie amministrative dei Comuni. In generale non si mette alcun dubbio intorno alla necessità d'un ente amministrativo che si chiami provincia. E pure sarebbe stato ragionevole il concepire anche questo dubbio, ponendo mente ad esempj di Stati, com'è l'Americano, dove fra il Comune e l'autorità centrale dello Stato non si trova ente amministrativo mediatore, e ad opinione di pubblicisti notevoli, che furono a così fatta mediazione contrarj.

Citeremo un libro che fa grande onore alla scienza toscana, quantunque conosciuto e letto da pochi; il libro sul Municipio, ec. dell'Avv. Giuliano Ricci di Livorno, rapito nel 1848 da morte miseranda alla patria sul vigore degli anni. In cotesto libro, utilissimo ad essere consultato nei tempi presenti, con infinita erudizione e con molto acume s'istituisce la genesi filosofica dell'idea municipale nella patria nostra, e si vuole dimostrare come il municipio fu, è, e sarà la pietra angolare dell'edifizio civile italiano.

Or bene, l'opinione del Ricci è contraria ad ogni autonoma mediazione amministrativa fra il Comune e l'autorità nazionale. - Ecco, com'egli giudicò il così detto spirito di provincia: «Lo spirito di provincia non si formò, né poteva formarsi in Italia per ragione dei municipj, che tutti assorbivano i sentimenti, dei quali avrebbe voluto nutrirsi.

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Dal municipio, anziché dalla provincia, se pur lo Stato per sua convenienza tanto faceva di ordinarne una, dal municipio, io dico, il cittadino riceveva lo statuto regolatore dei rapporti economici e domestici, e della polizia edilizia: al municipio andava debitore dei soccorsi caritatevoli, dei buoni studj, del culto pubblico protetto e nobilitato, dei commercj facilitati con le strade ed i ponti, dei comodi ed anche dei piaceri della convivenza procuratile con gli edificj e le istituzioni; nel municipio ciascun cittadino acquista coscienza di formar parte d'un ente dotato d'un io proprio immortale, il quale alla sua volta è membro del corpo politico; fuori del municipio infine il convivente non cerca cosa alcuna, tranne la suprema protezione dello Stato, protezione che vuol essere direttamente concessa, e sarebbe la mal venuta, se passasse per mezzo d'un ente provinciale intermedio. Lo che vale quanto dire, che IN ITALIA IL DISTRETTO AMMINISTRATIVO, O PROVINCIA PUÒ ESSERE UNA ISTITUZIONE GOVERNATIVA PIÙ 0 MENO BUONA, MA NON TROVA NEL SENTIRE POPOLARE IL BENCHÉ MINIMO APPOGGIO». (Del Municipio, ec. Saggio dell'Avv. Giuliano Ricci, pag. 428).

Le riferite parole vogliono essere meditate da quanti sull'autonomia amministrativa per la piccola provincia, fondano tutto il loro sistema di disaccentramento.

Noi siamo in ciò affatto del parere del Ricci; stimiamo che la piccola provincia non trovi nel sentire popolare il benché minimo appoggio, e ripeteremo quanto altrove dicemmo, che ogni rappresentanza provinciale di così fatta natura, s'ecclisserebbe sempre davanti, o al municipio urbano, o al prefetto.

Ma sarà forza sostenere coll'illustre pubblicista livornese, che tra il municipio e l'autorità nazionale, abbiano per questo a mancare in Italia centri d'amministrazione intermedia?

Qui noi siamo di parere diverso.

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Dal municipio nasce il municipalismo, e quanto il primo è istituzione salutare, altrettanto è principio esiziale il secondo, come quello che spingendo ogni municipio a porre l'interesse suo al di sopra degli interessi nazionali e umani, inverte l'ordine di giustizia, su cui ogni associazione civile si fonda.

Ora, il municipalismo è il maggiore pericolo d'Italia; e a riparare a questo pericolo, la creazione improvvisa d'un centro nazionale non basta.

Una delle due: o il centro nazionale riesce ad attuare subito un sistema d'amministrazione unitaria, come quello di cui Francia porge l'esempio, e sotto a quel sistema cadrà, è vero, schiacciato il municipalismo, ma insieme al municipalismo cadrà il municipio, divenuto una ruota dell'amministrazione centrale: o il centro nazionale, privo d'ordegni tradizionali,sarà impotente a riprodurre in Italia il sistema francese, e prima o poi il municipalismo rinascerà anarchico, e dissolvente.

Forse il medio evo italiano ributtava speculativamente il principio d'accentramento? Si legga il libro Della Monarchia di Dante, e si ammirerà il più vasto sistema unitario che mai umano intelletto concepisse. Ma nel medio evo italiano non si raffrenò il municipalismo, appunto perché tra l'associazione municipale e la grande associazione mondiale, di cui ponevasi il centro a Roma, mancarono associazioni mediatrici, le quali ovviassero all'anarchia dei piccoli centri, e al dispotismo d'un gran,centro preponderante.

Per non tornare all'Italia del medio evo, e per non imitare la Francia d'oggidì, l'esistenza dei centri mediatori è inevitabile. E questi centri, almeno per ora, dove si porrebbero se non nelle città primeggianti, preordinate dal processo della civiltà italica a divenire come altrettante.

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SUCCURSALI DI ROMA? Queste succursali sono, nel mezzogiorno Napoli e Palermo: nel centro Firenze, peristilio della città eterna: nell'Alta Italia, Bologna, Milano, Genova, Torino e Venezia. O si dee al tutto rinunciare al concetto delle autonomie amministrative mediatrici, stando al sistema proposto dal Ricci; o se si vuole davvero un'autonomia amministrativa provinciale, fa d'uopo costituirla con elementi che le assicurino salda vita. E poiché tra Roma e i Comuni nacquero questi centri di ritrovi parziali, che nel difetto d'autorità politica sorgente sul Campidoglio, fecero perfino da metropoli di Stati, perché in essi non si manterrebbero altrettanti grandi emporj di civiltà, e altrettante sedi d'amministrazioni provinciali? Non domandiamo meglio che l'accrescimento delle città succursali; ma fa d'uopo che ne abbiano anche i requisiti, e per ora non vediamo a quest'altezza che le indicate, quando non si voglia aggiungere Cagliari per la Sardegna, e Bastìa per Corsica, la quale dal trionfo ultimo del principio delle nazionalità, deve uscire per lingua, per tradizioni, e positura geografica essenzialmente italiana.

Noi preferiamo al nome di province, il nome di regioni, perché il nome di provincia ricorda genti vinte e conquistate, e in Italia si fondano ordini di libertà: oltrediché in UNDICI REGIONI, Augusto divise l'Italia appunto per distinguerla dal rimanente dell'Impero, diviso in province: e soltanto ai tempi d'Adriano anche l'Italia fu distribuita in diciassette province: distribuzione mantenuta fino a Longino, che fu l'inventore del sistema delle piccole province sotto titolo di ducati. Intorno al quale ordinamento lo storico Pietro Giannone espresse una sentenza, che i Longini dei nostri giorni avrebbero a considerare. «Longino, egli disse, fece in tutte le città e terre di qualche momento capi i quali chiamò duchi, assegnando giudici in ciascheduna di esse per l'amministrazione della giustizia....

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Questa MINUTA DIVISIONE DELLE PROVINCE IN TANTE PARTI, ed in più ducati, rese più facile la ruina d'Italia, e con più celerità diede occasione ai Longobardi d'occuparla.» (Giannone. Storia Civile del Regno di Napoli, Libro III, Cap. 5).

Tuttavia se gli enti amministrativi mediatori, anziché regioni si hanno a chiamare province, poco importa la parola, purché la loro autonomia amministrativa sia una verità. Non può divenire tale, altro che ponendo coteste parziali rappresentanze dei Comuni, non dove Longino avrebbe posto un duca, ma dove Augusto avrebbe posto un Preside, o Correttore, e dove forse porrebbe un Governatore il Minghetti, vale a dire in città, centri d'altre città, e non solamente di terre, e di borghi circonvicini.

Ma queste grandi amministrazioni rappresentative non metteranno in pericolo l'unità politica nazionale?

Mostrammo altra volta, come le autonomie amministrative in genere non repugnino a cotesta unità: mostriamo ora, come le autonomie amministrative poste nelle SUCCURSALI DI ROMA, anziché repugnare all'unità, le apparecchiano i soli efficaci strumenti d'attuazione che essa può rinvenire in Italia.

XI.

L'italianità dei centri mediatori.

Errano assai alcuni superficiali ragionatori d'unità, dicendo che fa d'uopo levare ogni preminenza alle presenti città metropolitane, affinché non rimanga traccia delle nostre secolari separazioni.

Ed invero: dove si cerchino le origini di coteste preminenze, è facile andare persuasi, come esse nascessero da un moto, non di separatismo, ma d'unificazione progressiva.

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Certo, quando dalla minutaglia delle autonomie municipali si venne alla creazione d'alcuni veri centri regionali, sarebbe stata ottima cosa poter fondare a dirittura sopra quelli autorità di nazione. Ma perché esercitarono ufficj, che nell'ordinamento normale della nazione spettano all'autorità nazionale, sarà dunque necessario privarli d'ogni ufficio autonomo, ancorché amministrativo?

Se così fatto ragionamento valesse, bisognerebbe estendere la proscrizione dei grandi centri mediatori ai piccoli centri municipali. Il ricordo delle separazioni intestine assai più a questi che a quelli si collega: e i nemici delle città metropolitane, volendo essere conseguenti, non dovrebbero mostrarsi, come fanno, caldi fautori delle franchigie municipali; ma ricordare, che i municipj italiani diedero spettacolo delle più sanguinose discordie che mai si vedessero sotto il sole; e perché ogni traccia di cotali discordie si cancelli, negare al municipio qualunque simulacro d'esistenza civile.

In quella guisa che le unità nazionali sono avviamento alla grande unità umana, così le unità regionali furono avviamento a unità di nazione.

Che diremmo pertanto di chi nell'era dell'Umanesimo, davanti all'Anfizionato dei popoli, proponesse sopprimere le metropoli delle nazioni, perché surte in tempi, nei quali un Centro Umano non esisteva? Si risponderebbe, che le unità minori hanno a trasformarsi, ma non a sparire nell'unità più vasta resultante dalla loro aggregazione. Si risponderebbe, che all'unità umana furono apparecchiamento e non ostacolo le unità nazionali. Per la stessa ragione si vogliono trasformare, e non distruggere, nel nuovo sistema unitario d'Italia, i centri minori rappresentati dalle spiccanti città, che chiamammo SUCCURSALI DI ROMA.

La filosofia della storia è l'Egeria degli statisti moderni, i quali hanno sempre a consultarla, dove intendano a disegnare edificazioni durevoli.

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Un rapido sguardo alle fermate della nostra lenta, ascensione unitaria, basterà a mostrare, qual conto prezioso debba farsi di cotesti centri, così a sproposito sospettati di separatismo.

Disfatta per opera di Greci e di Longobardi l'unità italica, come l'aveva ordinata l'impero di Roma, essa non risorgeva politica, ma religiosa, pigliando dalla Chiesa il capo che era anche patrizio di Roma, e facendo della gerarchia ecclesiastica il fondamento della nuova società. Il primo vero Comune rurale della nuova Italia fu la Parrocchia: le sue primeggianti città, le sedi dei vescovati: il suo primo re, il papa. E finché papa, vescovi e parrochi militarono tribuni di civiltà contro la barbarie, la vera Italia, l'Italia romana stava con loro. Ma quando intesero a fondare alla loro' volta una barbarie teocratica, essa si separò dal clero, evocò le sue rimembranze consolari e imperiali, oppose al nuovo giure ecclesiastico l'antico giure di Roma, cominciò coi Comuni laicali, colla giurisprudenza, e colle lettere quel moto, che si chiamava dapprima Risorgimento italiano, quindi Riforma germanica, e per ultimo Rivoluzione francese.

Per altro l'Italia romana dei laici, non trovava una gerarchia unitaria a cui appigliarsi, come l'aveva trovata l'Italia romana dei preti. Gli ordini unitarj dell'antico impero disfatti, e quelli del nuovo impero impotenti a ripigliar vita in un paese, che aveva fatto accanita guerra al Regno, ai Conti e a tutti i rappresentanti della barbaresca gerarchia feudale, l'Italia romana del laicato, benché speculativamente intesa sempre a rifare l'impero di Roma, non potè elevarsi al di sopra della unità municipale, e fu costretta a soccombere sotto il peso d'una teocrazia, che la combatteva colle forze d'immensa ordinata unità cosmopolitica.

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La guerra laicale, cominciata dai Comuni, si riaccende nel secolo passato sotto gl'influssi della filosofia francese. Come in Francia il movimento erasi accentrato a Parigi, in Italia s'accentra in alcune città primeggianti.

La sapienza italiana, colla voce dei suoi pubblicisti, fa eco alla sapienza dei pubblicisti di Francia: si chiedono riforme: si combatte il cattolicismo teocratico; si costringe un papa a sopprimere l'ordine dei Gesuiti: si fanno in Toscana novità, che destano la maraviglia del mondo. Da questo moto progressivo nasce la preminenza unificatrice d'alcune città, che diventano come altrettante Parigi rispetto alle città sottoposte.

Il medio evo aveva creato il Comune. Il secolo XVIII crea la grande Provincia, o per meglio dire la Regione. - Non importa che, a differenza del municipio, la regione nasca sotto auspicj monarchici. - Il Monarcato, iniziatore delle riforme filosofiche del secolo XVIII, piglia l'ispirazione dalla sapienza di quella italianità laicale, che aveva al Comune dei Vescovi sostituito il Comune dei Consoli.

E oggi che quella stessa italianità tenta il suo passo supremo, e vuole affermare in Roma, nel centro della nazione, la sua idea, come l'affermò nel cerchio ristretto del municipio colla rivoluzione consolare, e in quello più vasto della grande provincia colle riforme filosofiche del secolo XVIII; chi non vede la triplice centralità italiana animata della medesima vita, sostenuta dalla medesima tradizione, e quindi per necessità organica cooperante al medesimo fine?

Le cause delle separazioni italiane non sono da vedere nella regionalità, ma nella teocrazia, nell'impero, e nei principati indigeni che tentarono soffocare ogni vita spontanea.

Le centralità regionali, lungi dal favorire questo separatismo, costantemente spingevano a centralità di nazione. Italiani, Italiani ! fu l'incessante grido, dopo il 1814 di tutte le nostre metropoli ribellanti a coteste tirannidi.

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E come temere, che-conseguito l'intento, e fondata la nuova Roma del laicato, questi stessi focolari di unificazione progressiva diventino a un tratto focolari di scisma e di regresso? Come è possibile concepire, a rovescio dell'antica, una guerra italica indirizzata a isolare o l'una, o l'altra romana regione da Roma? L'unità d'Italia, lo dicemmo altra volta, muove, non dall'alto al basso come l'unità di Francia, ma dal basso all'alto. T suoi gradini per salire al Campidoglio erano il municipio, e la metropoli regionale. Ora, quanto è giusto che il municipio e la regione non abbiano prerogativa politica, quando la sovranità nazionale è fondata, altrettanto è assurdo togliere all'edificio italico i suoi storici fondamenti. Chi ammette nel nuovo ordinamento l'autonomia amministrativa del Comune, e vuol togliere la mediazione delle grandi province rappresentate nei loro centri metropolitani, dee cancellare dalla storia dell'italianità laicale, nientemeno che il fecondo secolo XVIII.

XII.

La proposta siciliana sulle regioni.

Fa d'uopo volgere uno sguardo al cammino già fatto, e riepilogare le conclusioni, alle quali conducono i principj esposti finora.

Partendo dallo stato di separatismo, in cui si trovava l'Italia al tempo degli ultimi rivolgimenti, vedemmo, come anzi tutto importasse costituire il centro della nazionalità: quindi la questione d'accentramento era quella, a cui prima d'ogni altra conveniva applicare la scienza.

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Ponemmo cotal questione rispetto a tre specie d'unità: - all'unità costituzionale, - all'unità legislativa, - e all'unità amministrativa: e guidati dalla formula in necessariis unitas, provammo essere necessario alla creazione della centralità italiana, l'immediato rifiuto d'ogni sovranità costituente al di fuori della nazione: quanto alle leggi, mostrammo aversi a pareggiare solamente quelle delle quali, o subito, o di mano in mano, il parificamento apparisse d'assoluta necessità: quanto all'amministrazione, facemmo vedere come sarebbe dannoso, non che superfluo, il concentrarla in un punto solo, anziché distribuirla su varj punti del territorio. Qui la questione d'accentramento s'intrecciava con quelle di disaccentramento: imperocché trattavasi d'esaminare, se i centri degli Stati esistenti nella ultima forma del separatismo italiano, dopo aver perduto quante prerogative ed ufficj rivendicasse la suprema autorità nazionale, avessero a rimanere altrettanti grandi centri d'amministrazione signoreggianti su tutta l'antica tenuta, o partire la preminenza amministrativa con altri centri in cotesta ultima forma ad essi sottoposti.

Dopo aver combattuti alcuni falsi sistemi, che si risolvono in bastarde progeniture della centralità francese; dopo avere, coll'esempio dell'Inghilterra, mostrata la possibilità di congiungere a forte unità politica libere autotomie amministrative, chiedemmo alla filosofia della storia i fondamenti, quella partizione di centri, che avesse a costituire il vero sistema dell'ordinamento italiano. E la filosofia della storia mostrò, per antico consenso dei popoli tutti della Penisola, additata Roma capo d'Italia; mostrò, per indelebili tracce di gloriosa vita municipale, chiamati a rivivere amministrativamente autonomi i nostri Comuni; mostrò, per ufficj egemonici d'iniziativa progressiva, destinate alcune città italiane a primeggiare quali grandi centri mediatori fra le autonomie comunali e l'eterna metropoli.


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Così dalla geografia politica uscivano disegnate dieci Regioni. I.a di Roma; II di Napoli; III.a di Firenze; IV.a di Bologna' ; V.a di Venezia; VI.a di Milano; VII.a di Torino; VITI. di Genova; IX.a di Palermo; X.a di Cagliari. Quando il trionfo compiuto del principio delle nazionalità rendesse all'Italia anche la Corsica, avremmo quel numero stesso di undici Regioni, in cui l'Italia fu divisa da Augusto.

Prima di proceder oltre in questa materia, è da far menzione d'un documento importante, a cui pochi badarono, e che raccoglie quanto di più sensato sul sistema delle Regioni finora fu scritto. !

Questo documento è la Relazione che il Consiglio temporaneo di Stato, creato dal prodittatore Mordini in Sicilia, presentava al Governo, quando l'Isola stava per unirsi al Regno d'Italia. -

Havvi in questa Relazione una parte speciale, che concerne la Sicilia. Si noverano le amministrazioni, e le leggi che avrebbero a rimanere al di fuori dell'unificazione: si chiede attribuito alla regione siciliana il reggimento delle opere pubbliche, che per natura loro non sieno dichiarate nazionali; si chiede pieno potere dell'autorità regionale sulle cose dell'istruzione pubblica, e su quelle dei comuni; si mostra qual danno verrebbe dall'attuare nell'Isola alcune gravezze, come le privative regie sulla produzione e vendita del sale, del tabacco, e della polvere da sparo, ed all'incontro come vi si potrebbero utilmente adottare alcune altre che altrove non si conoscono, e difficilmente potrebbero adottarsi: si vogliono conservate le buone cose della legislazione siciliana, come, per esempio, le disposizioni sulle miniere, e la legislazione ecclesiastica.

Ma la parte della Relazione, più degna per noi di ricordo, è quella, che si riferisce ai principj fondamentali dell'assetto regionale.

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Con molto senno i pubblicisti siciliani, quasi presentendo il minghettiano aborto, notavano «ivi» che scarso «frutto e proprio di governo stretto e dispotico, anziché di libero reggimento, la Regione produrrebbe, quando servisse di mera divisione amministrativa, e centro di pubblici affari, ancorché comodo ai popoli, e richiesto dalle consuetudini, e interessi loro. - La maggiore utilità dell'istituzione è, che le popolazioni associate in virtù di essa reggano da sé i propri negozj loro, quelli cioè, che non interessino direttamente la grande associazione dello Stato, né le associazioni minori. Convenevole fia dunque, o piuttosto necessario, l'adattare alla regione entro giusti limiti il sistema di rappresentanza e responsabilità che regge lo Stato».

In conseguenza si proponeva:

I. Che ogni Regione abbia un Luogotenente, nominato dal re, e un Consiglio deliberante composto di membri nominati per elezione diretta sulla base almeno d'uno per ogni cinquantamila abitanti.

II. Che il Luogotenente abbia la doppia qualità di delegato del potere esecutivo dello Stato, e di capo del potere esecutivo della Regione.

III. Che il Luogotenente, qual Delegato del Potere esecutivo centrale, sia investito di tutte le facoltà di competenza dell'accennato Potere, eccettuate alcune materie dai proponenti indicate.

IV. Che le sessioni del Consiglio sieno pubbliche, e le sue deliberazioni abbiano forza di legge nella Regione dopo la sanzione del Luogotenente, il quale sarà tenuto di pubblicarle entro i quindici giorni dal dì della deliberazione.

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V. Che quante volte il Luogotenente si abbia ragionevole motivo di negare la sanzione, debba nello stesso periodo di quindici giorni rimandare al Consiglio Regionale la sua deliberazione, ed invitarlo a deliberare di nuovo. Se il Luogotenente dopo tal seconda prova crede di non dovere rendere esecutiva la deliberazione del Consiglio, la divergenza sia sottomessa all'esame, e al giudizio supremo del Parlamento nazionale.

VI. Che il Luogotenente, come Capo del potere esecutivo regionale renda conto al Consiglio della sua Amministrazione, e che il Consiglio, in questo come in qualunque altro caso, possa liberamente rassegnare al Parlamento le sue querele, o censure sugli atti del Luogotenente.

VII. Che il Consiglio Regionale non possa essere sciolto se non per decreto del re, emesso a proposta del Luogotenente, e dopo udito il Consiglio di Stato, il quale decreto debba ordinare ad un tempo la convocazione del novello Consiglio.

Le basi della Regione rappresentativa erano stupendamente disegnate in questo documento di sapienza civile, che assai onora la dittatura Mordiniana, sotto i cui auspicj fu concepito, e che ebbe per autori uomini eminenti, come il sapiente Sacerdote-cittadino Gregorio Ugdulena, che presiedeva al Consiglio temporaneo di Stato, il primo storico d'Italia Prof. Michele Amari; uno dei primi Economisti d'Europa, il Prof. Francesco Ferrara, e altri illustri benemeriti Consiglieri.

Così ogni grande Regione italiana nel sacrificare la sua autonomia politica sull'altare della patria avesse fatto, per così dire, il suo testamento a similitudine della Sicilia! La nostra rivoluzione avrebbe i suoi Cahiers, come li ebbe la rivoluzione del 1789; e conosceremmo per interpreti autorevoli le idee pratiche da ciascun paese arrecate all'edilizio dell'unità: né si darebbe all'Europa, il vergognoso spettacolo d'un Parlamento nazionale, che forse sta per compiere la sua prima sessione senza aver detto come la Nazione abbia ad essere ordinata.

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XIII.

La Regione rappresentativa.

Si vede ora la differenza che passa fra la Regione come l'aveva disegnata il ministro Minghetti, e come la propose il Consiglio di Stato della Sicilia. La prima è un istrumento di governo; la seconda una istituzione rappresentativa: la prima appartiene a quel sistema d'idee imperiali e autocratiche da cui nacquero i presidj d'Augusto, e i prefetti del Napoleonide: appartiene la seconda a quel sistema d'idee liberali e democratiche, che diede origine al Comune degli Italiani, e al self-gouvernement degli Anglosassoni.

-

Della Regione, che chiameremo rappresentativa per distinguerla dalla governativa, due sono adunque gli elementi sostanziali: la rappresentanza popolare, e la luogotenenza, o vicariato la rappresentanza popolare costituisce l'Amministrazione dal paese data al paese: la Luogotenenza, o Vicariato accoppia all'autorità popolare l'immagine della potestà regia, come si chiede a mantenere il carattere del monarcato costituzionale.

Concordi intorno a queste basi fondamentali della regione rappresentativa, toccheremo d'alcuni punti sui quali la nostra opinione dalla proposta siciliana differisce.

E prima di tutto non vorremmo davanti al Consiglio regionale personalmente sindacabile il luogotenente, come quello che rappresenta nel governo della Regione la persona inviolabile del re. L'inviolabilità regia è una finzione costituzionale, di cui può benissimo estendersi il favore a questi yicarj del re.

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Come nel governo degl'interessi nazionali sono sindacabili soltanto i ministri, così in quello degl'interessi amministrati dalla Regione, il sindacato cadrà sul Consiglio o Ministero, che voglia chiamarsi, di Luogotenenza. Il Luogotenente non ha ad avere altra responsabilità che di fronte al potere regio, il quale lo nomina, e che a talento suo può revocarlo...

Così si eviteranno i perigliosi conflitti che potrebbero nascere, ogni volta che il Consiglio della Regione avesse la facoltà che i proponenti siciliani gli riconobbero, di citare perfino il Luogotenente davanti al Parlamento nazionale.

Sembra inoltre superfluo, anzi dannoso, l'indicare, secondoché i Siciliani proponevano, per formule tassative e retributive le competenze dell'autorità regionale.

Ed invero, una volta conosciute le prerogative, che ad essa si rifiutano, perché con distinzioni più metafisiche che reali, porremmo inciampi a libera esplicazione di provvidenze progressive? Chi saprebbe, nella imprevedibile congerie degli interessi uscenti dalla civiltà moderna, definire a priori il campo tutto dell'Amministrazione della cosa pubblica, e dire con precisione qual parte in quello spetti al Comune, quale alla Regione, quale alla Nazione?

Respingiamo l'antico pregiudizio che dell'autorità faceva la regola, e della libertà l'eccezione; e se non vogliamo perpetuamente aggirarci in un circolo vizioso provvedendo a libertà per mezzo di spedienti a quella esiziali, lasciamo che la regione liberamente provveda a tutto quello che l'autorità nazionale non dichiarò di sua competenza. Per via d'esclusione, e non d'attribuzione, le autorità superiori segnano i limiti alle libertà sottostanti, o individuali, o collettive. Ma il punto più sostanziale in cui non possiamo consentire colla Proposta siciliana, concerne la provincia, riguardata come ente amministrativo dalla regione distinto.

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Egli è vero, che i dotti autori della Proposta non fecero di ciò un argomento speciale di discussione: tuttavia accennarono alla provincia come ad anello intermedio fra la Regione e il Comune. Ora noi dicemmo, e torniamo a ripetere, che la Regione nel nostro sistema è appunto la grande provincia d'Italia, la provincia come la intese Machiavelli, quando nel suo bel discorso sulla lingua scriveva: «ivi» Divideremo quella (l'Italia) solamente nelle «sue Province, come Lombardia, Romagna, Toscana, Terra di Roma, Regno di Napoli.» (Opere complete di N. Machiavelli..- Volume unico, pag. 422. ) - Quindi non possiamo ammettere, che tra il Comune e la Nazione viva il dualismo delle grandi e delle piccole province; né vediamo ragione perché diventino province d'Italia quei circuiti di territorio, che furono province, o di Municipj, o di principati italiani.

Certamente fra i Comuni e i centri delle grandi province si formeranno Compartimenti e Distretti, ordinati a distribuire ne' vari punti del territorio i benefizj dell'amministrazione nazionale, o regionale.

Le armi, i tribunali, le pubbliche rendite, i censimenti, le ipoteche, i registri, i fiumi, le strade, il patrimonio dello Stato, gli edifizj nazionali, la beneficenza, l'istruzione, la marineria, tutti questi e altri oggetti di governo, domandano divisione d'ufficj, gerarchie di amministratori e circuiti differenti d'azione. Ma prima di tutto non fa mestieri che i diversi rami dell'amministrazione, nel distendersi sul territorio, obbediscano a legge d'uniformità simmetrica; né è necessario che il centro principale di una data amministrazione debba essere di tutte le altre; anzi ragioni d'equità, ed esigenze d'incivilimento diffuso, consigliano il contrario. In secondo luogo, una piccola centralità rappresentativa, posta fra il Comune e la Regione, a che menerebbe?

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Gl'interessi che vi si tratterebbero sono tali da esser trattati con molto più vantaggio, o nel Comune, o nel centro della grande Provincia.

Infine è da riflettere che a certi interessi, i quali non hanno né la specialità dell'interesse municipale, né la generalità dell'interesse regionale, i Comuni provvederanno mediante i Consorzj.

Come si riconobbe la superfluità delle rappresentanze distrettuali, così non sarà difficile riconoscere quella delle Rappresentanze delle piccole province, tosto che tra i Comuni e lo Stato siano rappresentate le grandi.

Noi poi anderemo anche più oltre: né solamente rifiutiamo alla piccola provincia la rappresentanza amministrativa, ma vorremmo al tutto levato di mezzo il poliziesco sistema delle prefetture. Come conciliare questo sistema colle esigenze d'una monarchia libera, e democratica?

La rivoluzione del 1789 con liberissimi e democratici intendimenti dava il governo delle province francesi a rappresentanti elettivi delle province stesse. Le Prefetture furono istituzione napoleonica; e s'intende come il possente guerriero, imitatore di Cesare e di Carlomagno, avesse bisogno di cotesta istituzione per reggere dispoticamente la Francia. L'istituzione delle Prefetture si collegava a un sistema d'inquisizione politica, per cui non solo ogni libertà di stampa, e di ringhiera, ma perfino d'elezioni municipali e provinciali, diventava sospetta. - Ma se la libertà non è un vano nome, ogni traccia d'inquisizione politica ha da sparire, non meno che ogni traccia d'inquisizione religiosa; e gli ufficj che al di fuori della polizia politica dai prefetti si esercitano, resi a magistrature municipali, o giudiziarie, saranno adempiti con maggiore intelligenza, e con minore aggravio della pubblica fortuna.

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XIV.

Le due unità.

Nella grande provincia, accentrata col nome di Regione intorno ad una città metropolitana, e libera d'amministrare per via d'una rappresentanza e d'un potere esecutivo tutti gl'interessi non dichiarati nazionali, sta dunque il perno del nuovo ordinamento d'Italia.

Non è da maravigliare se la novità di così fatto ordinamento, il quale non ha tipo in alcuno degli Stati presenti d'Europa e d'America, desti opposizione nei campi più opposti: non è da maravigliare se la Regione rappresentativa dispiaccia a molti federalisti, perché non è lo Stato americano, e se dispiaccia a molti unitarj, perché non è il Dipartimento Francese. Le obiezioni dei federalisti non sono da temere, come quelle d'una scuola a cui la decapitazione politica di Napoli tolse ogni possibilità di nazionale spontaneo esperimento. Al contrario le obiezioni degli unitarj possono fare assai pregiudizio, come quelle che sotto speciosa sembianza d'unità, gettano discredito sul metodo più atto a saldamente costituirla. Perciò a tali obiezioni risponderemo, esaminando la Regione rappresentativa:

1° rispetto alla Nazione;

2° rispetto al Comune.

Non istaremo a ripetere quanto altrove dicemmo per mostrare che le autonomie amministrative, e l'unità politica s accordano benissimo insieme; e del pari stimiamo superfluo insistere sopra l'italianità dei centri mediatori, che vedemmo collegata all'essenza stessa della nostra civiltà. Ma fa d'uopo dissipare le vane paure, che rappresentano l'unità italica in pericolo, a cagione dei Consigli regionali.

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Si confondono due modi di unità, i quali vogliono essere ben distinti fra loro: l'unità fondata per via d'una dittatura centrale, che valendosi della forza, aggruppa elementi di province diverse, li combina, li assimila e ne forma la Nazione; e l'unità uscente per moto spontaneo dalle viscere d'un popolo.

Noi intendiamo, come nella prima forma d'unità faccia mestieri soffocare ogni manifestazione di vita sui varj punti della circonferenza, poiché quella manifestazione non potrebbe esser altro che ostile al principio centrale. Le antiche metropoli, le radicate consuetudini provinciali, le corporazioni, le assemblee collegate alla vita particolare dei popoli, cui fu tolta l'autonomia, tutto in tal caso è da distruggere. Così fatta unità va fondata innovando da capo a fondo i paesi, secondoché suggeriva all'unitario tiranno suo Niccolò Machiavelli. Ma nell'altra unità, uscente dallo spontaneo volere di tutto un popolo, più sono libere e in grossi centri vivamente rappresentate le esigenze comuni, e meno è a temere che la compagine nazionale si dissolva.

Ora questo secondo metodo d'unificazione non è appunto quello che prevalse in Italia? Certo, senza i plebisciti unitarj della Lombardia, dell'Emilia, della Toscana, e delle Province meridionali, Vittorio Emanuele non avrebbe distesa la sua giurisdizione al di là del Regno assegnatogli dal Congresso di Vienna. Egli diventò re d'Italia per libera acclamazione di popoli, e non per conquista.

Possiamo professare opinioni differenti intorno ai modi di costituire la nazionalità italiana: ma che dalle Alpi fino all'estrema Sicilia si voglia vivere tutti in corpo di nazione, è verità ormai dimostrata per luminose iterate testimonianze. I soli veri separatisti italiani sono i retrogradi.

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Quindi il timore che si ha delle Rappresentanze regionali, non potrebbe essere fondato, se non che ammettendo più facile alla parte retrograda prevalere nelle elezioni ordinate a rappresentare la grande provincia, che in quelle ordinate a rappresentare la piccola: ma questa supposizione è assurda, imperocché sulle prime meglio che sulle seconde si faranno sentire gl'influssi dei centri, dove si raccolgono gli elementi più progressivi, e perciò appunto più nazionali del paese.

Tuttavia poniamo, che arrivi a primeggiare nel Consiglio della Regione la parte retrograda. Lo Statuto nazionale non toglierà all'autonomia amministrativa della grande provincia ogni ingerenza politica? Così fa d'uopo che l'empio scisma si compia con ardimento ribelle, rinnegando l'Italia, e dichiarando guerra alle autorità che la rappresentano. Ma Napoli, Milano, Firenze, Genova o qualunque altra delle succursali di Roma, dove una maggioranza regionale tentasse cotesta follìa, sarebbero forse disposte a darle mano? Qual è il popolo delle nostre metropoli, che nel dirsi italiano non sentiva un allargamento di vita tale da disperdere con subito impeto i separatisti che avessero voluto ridurlo all'antico isolamento?

E concediamo pure anche questo; cioè la complicità d'una grande città italiana colla sua rappresentanza regionale per separarsi dall'Italia. Che farebbe in faccia a tutta la Nazione riunita contro di essa?

Bisogna che tutte, o almeno quasi tutte le rappresentanze regionali aiutate dai centri mediatori, s'accordino a volere ciascuna far nazione da sé, perché il regionalismo diventi davvero pericolose per l'unità. Ma in questa ipotesi noi supponiamo spenta l'idea, che mosse le differenti province d'Italia a unirsi l'una coll'altra per creare autorità di nazione.

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E se davvero così fosse, invano si cercherebbe riparo al soverchiente spirito di separatismo: poiché, o colle rappresentanze regionali, o senza di esse, questa forza dissolvente alla perfine trionferebbe; anzi, dall'assoluto sacrificio degli antichi centri metropolitani, piglierebbe pretesti e armi al trionfo.

Non si citino gli esempj del Sonderbund svizzero, e del presente separatismo americano. Prima di tutto nella Svizzera e nell'America si tratta di vero e proprio sistema federale, mentre in Italia saremmo sempre in termini d'unità. Quindi nemmeno coll'unità s'impediscono i conflitti di principj; e n'è prova la Francia, dove così nell'antico come nel nuovo reggimento tante guerre civili si combatterono.

Insomma fa d'uopo scegliere tra due vie: o si crede che una nazione voglia l'unità, o si crede necessario lo imporgliela.

Nel primo caso non si hanno a temere le rappresentanze amministrative delle Regioni, le quali nei centri più progressivi, e d'Italia, raccolte, provvederanno all'esigenze d'una grande provincia senza dimenticare, che la vita di essa è vita d'Italia.

Nel secondo caso, più che le rappresentanze delle grandi province, sarebbero da temere quelle delle piccole, e degli stessi Comuni.

L'unità d'Italia mosse non dal centro alla circonferenza, ma dalla circonferenza al centro: e iniziata come fu nei grandi focolari della nazione, non dee farsi stoltamente parricida, temendo e uccidendo le forze rappresentative da cui trasse la vita.

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XV.

I Comuni nella piccola e nella grande Provincia.

L'ostacolo maggiore, come altra volta accennammo, all'instauro della grande Provincia, viene dal municipalismo delle minori città, le quali vorrebbero vedere umiliate e ridotte al loro livello le città metropolitane, e divenire ciascuna una Capitaletta amministrativa, rispetto ai Comuni rurali e borghigiani di cui si circondano.

Non istaremo a ripetere gli argomenti coi quali dimostrammo, come a torto si rimproveri alle città metropolitane d'avere promosso e mantenuto il separatismo, quasiché l'Italia fosse già accentrata intorno ad una sola metropoli, quando esse ridussero a vivere comune sotto la loro egemonia le città circostanti; mentre il vero è, che queste si reggevano a governi municipali indipendenti, e fu un vero progresso unificativo lo aggrupparle in più ampia compagine.

Importa ora esaminare gli elementi di cui le rappresentanze delle piccole province si formerebbero, e vedere con quanto poca ragione, le città minori si augurino costituire per esse altrettante territoriali associazioni di Comuni a loro proficue.

Ogni piccola provincia si comporrebbe d'una città, e dei borghi e comuni rurali compresi nel distrette di quella. Raramente due, o più città si troverebbero nella stessa provincia; e quando ciò avvenisse, si tratterebbe di città non dissimili da grossi borghi. In questo sistema verranno adunque a rappresentare il paese due maniere di deputati: i deputati del comune urbano, e i deputati dei comuni borghigiani e rurali. Degli uni e degli altri si formerà il governo degl'interessi provinciali.


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Ora dove piglierà questa associazione la sua forza;? Sarà essa una vera e propria rappresentanza d'interessi locali?

Oggi si abusa di questa parola località, come dell'altra di municipio, e a proposito si chiamano interessi locali e municipali perfino quelli che si riferiscono a così estesa superficie di territorio com'è la Toscana, la Sicilia, la Lombardia, od altra grande provincia italiana. Certo, in questo senso, le nazioni stesse costituirebbero una località: ma volendo procedere con idee scientifiche schiettamente definite, fa d'uopo restringere il titolo d'associazione locale a quella, i cui membri sono collegati da identità d'interessi, nascenti dal territorio su cui si trovano accolti. Ora cotale identità si riscontra, invero, nel perfetto municipio; ma non nella piccola provincia, a cui si può applicare a ragione ciò che il Ricci scriveva della Contea inglese: «Non è possibile il darle abilità di regolare i momenti tutti della sociale convivenza con assenso concorde, perché non possono essere identici in tutti i punti di una vasta superficie, e perché le distanze non permettono fra gli abitanti quei giornalieri rapporti, e consuetudini, senza di cui non possono nascere i perfetti consensi costituenti individualità di vita.» (ricci, del Municipio, pagina 116.)

Né solamente alla piccola provincia manca quell'interesse locale che è sostegno del Municipio, ma pugnano in essa gli opposti interessi del Comune urbano, e dei Comuni rurali.

Finché si tratti di voti più, o meno accademici, come quelli dei nostri Consigli Compartimentali, non si riveleranno i funesti effetti di così fatto dualismo. Ma immaginiamo la piccola provincia nel pieno esercizio della sua autonomia amministrativa: immaginiamo il Consiglio riunito per valersi della sua facoltà d'imporre, e fissare le opere in cui il denaro provinciale abbia ad essere speso: chi non vede subito la difficoltà di conciliare le esigenze opposte della città e della campagna?

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Riferiamo le sensate parole del Ricci su questa materia. «Il municipio urbano, (egli dice) molto più del rurale, provvede ai commercj, alle industrie così dette manifatturiere, alla pubblica educazione, alle superfluita della vita fisica ed intellettuale; ma temendo assai più la corruttela dei costumi, e i materiali inconvenienti della convivenza, tiene in molto maggior pregio la polizia detta appunto municipale, gli stabilimenti destinati al culto, alla educazione, alla salute, al divertimento, e gli ordini che senza troppo discapito della libertà individuale ne rendono innocuo l'esercizio. Il municipio rurale al contrario combatte le acque straripanti, e facilita comunicazione con ogni sua possa; accontentasi d'una primaria istruzione popolare; non a ha che scarsa occasione di provvedere, a favore della s sua popolazione, a quei bisogni e rapporti che del solo condensamento sono figli. Qui si dimostra la convenienza di tenere nel più dei casi separate le campagne dalle Città, e la spiegazione dei danni resultanti dalla loro riunione in una sola consorteria. Diversi, sovente, ed anche opposti fra loro sono i pensieri egli interessi delle due classi d'abitanti; cosicché non di rado, secondo i resultati d'una lotta incessante, le forze dell'associazione sono tutte rivolte a favorirne una sola a danno dell'altra. (ricci, del Municipio ecc., pag. 118.)

Non si citi l'esempio degli antichi Comuni urbani d'Italia, che furono centri di Comuni circostanti: né si rinnuovi l'errore, in cui cadde il ministro Minghetti, di rannodare a cotesta forma di centralità, la tradizione della piccola provincia. Tanto il Comune urbano, a cui la conquista di Roma lasciò autonomia, quanto quello da cui uscirono le nostre repubblichette del medio evo, non erano socj, ma sovrani dei Comuni rurali e borghigiani circonvicini.

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Il primo signoreggiava sui così detti Vici; il secondo sulle Capitanìe. Quindi si era ben lontani da quel sistema d'associazione, che avrebbe a costruire la piccola provincia; né poteva nascere conflitto d'interessi, essendoché la campagna non aveva, come si direbbe, voce in capitolo.

Non potendo adunque la rappresentanza della piccola provincia essere sostenuta da interessi locali omogenei, spereremo che ogni città minore d'Italia diventi a un tratto officina d'idee progressive, e che ogni Consiglio in quella adunato, si faccia iniziatore d'istituti di civiltà? Dove sarebbe la potenza per attuare le idee di progresso, quando pure fossero concepite? Fecero invero gigantesche opere i municipj italiani; ma colle ricchezze che accumulavano nei commercj mondiali.

0 il disaccentramento rimarrà una parola, o ha da consistere nelle provvidenze spontanee, che le province e i municipj piglieranno senza ingerimento dell'autorità centrale. Queste provvidenze si potranno riferire, così a progresso materiale, come le strade, i ponti, le irrigazioni, gli edifizj, o a progresso morale, come le scuole, gl'istituti di soccorso e di beneficenza, le banche di credito, ec. L'assistenza alle classi lavoranti, soprattutto a fronte delle tremende crisi create dalle rivoluzioni, e dalle stesse scoperte industriali, è oggidì uno de' precipui oggetti dell'Amministrazione della cosa pubblica. E certo, se ci è ramo amministrativo, il quale meglio alle province, che all'autorità nazionale s'addica, è appunto cotesto, in cui è difficilissimo procedere con ordini uniformi per tutti gli abitanti d'una nazione. Ma nulla si può tentare di veramente proficuo alla civiltà in così angusto cerchio, come è quello della piccola provincia.

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Le grandi iniziative di perfezionamenti materiali e morali, fa d'uopo che partano, o dal centro della nazione, 0 almeno da centri assai vasti, dove per concepirle, e farle eseguire s'accolga una forza d'opinione pubblica distesa su larga scala.

Insomma le associazioni territoriali dei Comuni diverranno altrettante leve di civiltà nazionale, allora soltanto che dilatandosi dalla piccola alla grande provincia, abbiano per base una città metropolitana. Qui faranno capo le disseminate proposte: qui la stampa, araldo infatigabile del progresso, le sottometterà al crogiuolo della discussione: qui una volta la loro utilità provata, o la Rappresentanza regionale piglierà ad attuarle, o proporrà dove le forze regionali non bastassero, che la nazione stessa le adempia. Imperocché ogni miglioramento vero in una parte della nazione, torna a vantaggio del tutto: e una legge di solidarietà signoreggia il moto dei popoli.

Le rappresentanze provinciali cosi largamente attuate sodisfaranno a un doppio ufficio: a un ufficio di disaccentramento rispetto alla Nazione, e a un ufficio d'accentramento rispetto ai Comuni: renderanno, cioè, inutile relativamente a molte esigenze progressive, l'intervento dell'autorità nazionale, e opereranno nel tempo stesso ciò che i Comuni, o da loro stessi, o in piccole associazioni provinciali raccolti, non potrebbero operare.

Ma qual parte d'autonomia in questo sistema rimane ai Comuni? Ecco un nuovo ordine di problemi da risolvere.

Ponemmo i principj fondamentali dell'ordinamento d'Italia rispetto alla formazione del centro nazionale, e dei centri mediatori; dalla cima e dal mezzo scendiamo alla base della piramide, e poniamo i principj fondamentali ordinatori del Municipio.

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XVI.

Di alcuni tipi differenti di Municipio.

Senza intraprendere filosofiche e storiche indagini, che tornerebbero superflue all'uopo presente, gioverà al disegno degli ordini municipali d'Italia, toccare d'alcuni tipi assai differenti, quali sono il Municipio Americano, il Municipio Francese e il Municipio Leopoldino.

Il Municipio Americano ha questa singolarità; che manca in esso un Consiglio rappresentativo. I cittadini direttamente nominano i loro magistrati, e decretano in grandi assemblee le opere utili che si abbiano a compiere. Il magistrato opera conforme ai principj posti nel decreto della maggioranza, e se voglia, o cambiare l'ordine prescritto, o fare nuova impresa, è costretto a risalire alla fonte della sua autorità e interrogare l'oracolo sovrano del popolo.

Altro singolare carattere del Municipio Americano è il difetto di personificazione dell'autorità esecutiva in un solo individuo, come sarebbe il Gonfaloniere in Toscana, il Sindaco in Piemonte, il Potestà in Lombardia, il Maire in Francia.

I poteri esecutivi più importanti si raccolgono nelle mani d'un numero d'individui eletti ogni anno col titolo di Selectemen. Le obbligazioni di cotal Magistratura sono fissate dalle leggi generali dello Stato: l'inadempimento di queste obbligazioni è punito come delitto. Oltre ai Selectemen, l'assemblea generale dei componenti il Municipio elegge altri magistrati, ciascuno preposto ad ufficj ben definiti. Gli uni fanno il reparto delle imposizioni; gli altri le riscuotono; il così detto Costabile esercita gli ufficj di polizia, guarda ai luoghi pubblici, dà mano all'esecuzione materiale della legge:

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il Cancelliere del Comune registra le deliberazioni, tiene nota degli atti dello stato civile: un ufficiale apposta custodisce e amministra i fondi comunali: altri hanno il carico di badare all'osservanza della legislazione sui poveri; altri dirigono l'istruzione; altri guardano alle strade; altri alle spese del culto; altri alle raccolte, alle chiuse, ai boschi; altri ai pesi e misure: s'eleggono perfino ufficiali comunitativi per regolare l'azione dei cittadini quando si abbia ad estinguere un incendio.

Cotesti ufficiali per un lato servono al Comune; per l'altro, dove occorra, allo Stato. Così, per esempio. lo Stato decreta le imposizioni; gli ufficiali del Comune ne fanno il reparto, e le riscuotono. Lo Stato decreta una scuola: il Comune la paga, e per mezzo de' suoi ufficiali la dirige.

Ecco poi in qual modo la ruota municipale si muove. I soli Selectemen hanno autorità di convocare l'As.cemblea generale dei comunisti; ma possono essere costretti a questa convocazione da dieci proprietarj, i quali abbiano una proposta da sottomettere all'assentimento popolare. Sempre però ai soli Selectemen appartiene il diritto di presiedere all'Assemblea Comunale. Il numero loro non è eguale in tutti i Comuni: nei più piccoli sono tre, e nei più grandi nove.

Il Comune americano ha illimitata autonomia nell'amministrazione de' suoi interessi. Vende, compra, litiga, aggrava o diminuisce il suo bilancio senza dipendere da alcuna autorità superiore. Questa libertà ha soltanto un limite rispetto agli obblighi che gl'impone lo Stato. - Per esempio, lo Stato chiede danaro? Il Comune non può rifiutarlo. Lo Stato vuole aprire una strada? Il Comune non può impedire che essa traversi il suo territorio. Lo Stato fa un regolamento di polizia? Il Comune lo eseguisce. Lo Stato ordina che si fondino scuole'? Il Comune le fonda.

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L'unico sindacato sul Comune in America viene dal potere giudiziario. - Questo sindacato riguarda gli ufficj che incombono al medesimo, nella sua qualità d'esecutore dei decreti centrali. - Nella Contea americana, la quale a differenza dell'inglese non ha personalità amministrativa, è eletto dal governatore dello Stato un numero di giudici, i quali durano in carica per sette anni. Tre di questi giudici sono designati a formare in ogni Contea la così detta Corte delle sessioni: la quale si riunisce due volte l'anno nel capo-luogo della Contea, e giudica le accuse fatte a tale o tal altro Comune per inadempimento agli obblighi che la legge gl'imponeva.

Al polo opposto del Municipio Americano sta il Municipio Francese.

La rivoluzione del 1789, distruggendo tutte le svariatissime amministrazioni municipali dell'antico regime, aveva create le nuove su base largamente democratica. Imperocché in ogni Comune i cittadini furono autorizzati ad eleggere: 1° il capo del corpo municipale che prenderebbe indistintamente da per tutto il nome di Maire (maior); 2° i membri del corpo municipale che si chiamerebbero ufficiali municipali; 3° un numero di notevoli maggiore del doppio di quelli dei componenti il Corpo Municipale, e che insieme a questo costituirebbero il Consiglio generale del Comune. Ogni Corpo Municipale in questo sistema si divideva in Consiglio ed Ufficio: l'Ufficio era costituito del terzo degli ufficiali municipali compreso il Maire; il Consiglio degli altri due terzi: l'azione spettava all'Ufficio e al Maire, presidente di quello: la deliberazione ordinaria al Corpo Municipale, la straordinaria al Consiglio generale. I municipj non erano sottoposti al sindacato dei distretti, o dei dipartimenti, se non per quegli ufficj, i quali esercitassero come delegati dell'Amministrazione generale dello Stato. Un' autonomia pienissima nel governo degl'interessi locali era il principio fondamentale della nuova legislazione.

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Qual differenza tra questo disegno dell'Assemblea Costituente e il Municipio foggiato dalla legge del 28 piovoso anno III! Questa legge conferisce al Maire e agli Aggiunti la gestione esecutiva del Comune; conferisce la deliberazione a un Consiglio municipale, i cui membri saranno più o meno numerosi, secondo la popolazione. Ma chi nomina il Maire, gli Aggiunti, il Consiglio? Tutto il Governo. - Nel sistema della Costituente, il Municipio francese si accostava assai al tipo americano: nel sistema del primo Console, esso diventò una ruota di governo, e di Municipio non conservava più che il nome.

La restaurazione borbonica, solo a parole favorevole a disaccentramento, nulla fece per rendere la vita alle istituzioni municipali, che dopo la rivoluzione del 830 ottennero il principio elettivo per i componenti il Consiglio. - Il diritto di elezione per la deputazione municipale, circoscritto in principio ai privilegiati di censo, si estese, dopo le novità del 1848, a tutti gli elettori dei deputati nazionali.

I fondamenti adunque del Municipio francese sono:

1° La doppia qualità nel Maire di rappresentante del Municipio e dello Stato;

2° L'elezione popolare del Consiglio, e la nomina imperiale, o prefettorale del Maire e degli Aggiunti;

3° La mancanza assoluta d'autonomia: essendoché tutte le deliberazioni, così del Maire, come del Consiglio, non possono essere eseguite, se non quando, o per mancanza di veto, al decorrere d'un dato tempo, prefisso dalla legge, o per assenso esplicito, abbiano l'approvazione del governo.

Ma una qualità comune, così al Municipio Americano, come al Francese, quantunque sì opposti, è la rappresentanza del potere centrale congiunta in ambedue all'Amministrazione degl'interessi locali.

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Nel Municipio Leopoldino coteste ingerenze non si confondono. Il Gonfaloniere non è, come il Maire francese, l'autorità che pubblica e fa eseguire le leggi dello Stato: non è l'ufficiale di polizia giudiziaria, non è l'agente del ministero pubblico; esso è unicamente il capo e l" esecutore d'un' azienda economica.

Pietro Leopoldo diede al Municipio Toscano libera facoltà di amministrare come volesse i suoi beni, avvicinandosi in questo al tipo municipale americano: gl'impose però la necessità dell'assenso superiore, ogni volta che si volessero alienare fondi, o consumare capitali. Così una tutela sui Comuni rimase anche nel sistema Leopoldino. In questa tutela però si mantenne la separazione dal Governo che notammo in questa forma di Municipio. Di fatti essa fu affidata alle dette Camere di Soprintendenza Comunitativa, le quali non ebbero nessuna ingerenza politica.

A quale dei tre accennati tipi si accosterà il nuovo Municipio italiano?

XVII.

Del nuovo municipio Italiano.

Fa d'uopo che il nuovo Municipio Italiano sorga dotato d'autonomia amministrativa: sotto questo aspetto esso si scosterà dal Municipio francese, attuando il principio fondamentale che diede forma al Municipio Leopoldino e al Municipio Americano.

Ma dal Municipio Leopoldino piglierà eziandio l'idea dell'assoluto allontanamento da ogni ingerenza di governo? E l'autonomia municipale italiana procederà sciolta da ogni tutela come quella d'America?

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Fu invero oltremodo benefica all'Italia l'esistenza di Municipj non contaminati da rappresentanza governativa, quando sul nostro infelice paese pesavano governi sacerdotali e tirannici, fieramente avversi alla civiltà. Così nel mezzo al disprezzo e all'odio, cui furono segno gli strumenti della pubblica potestà, la venerazione popolare non veniva meno alle autorità municipali, che nei tempi di crisi poterono usarla a benefizio dell'ordine civile. Se lo Stato futuro d'Italia avesse a somigliare agli Stati Italiani del passato, non esiteremmo un istante a desiderare la rappresentanza municipale affatto distinta da quella del governo. Ma non vogliamo noi fondare una monarchia libera e democratica? E in un sistema di libertà e di democrazia, come si potrebbe mantenere quel dualismo?

Certamente sotto un governo che non piglia autorità dal paese, è utile e logico ad un tempo che il Municipio amministri le cose sue, senza esercitare ufficj che all'amministrazione dello Stato appartengano. Il paese in cotesto governo non si sente rappresentato, e se il Municipio fa causa comune con esso, perde il carattere suo, e diventa, come in Francia, l'ultima ruota dell'azione centrale. Ma negli Stati, o repubblicani, o monarchici d'essenza democratica, non si potrebbe ammettere la coesistenza di due autorità, una delle quali prenda forza dall'alto, e l'altra dal basso. In questa forma di Stati il paese dee sentire cosa sua l'amministratore immediato, come il più lontano. Perciò il nuovo Municipio unirà la doppia qualità di libero amministratore de' suoi interessi, e di fido rappresentante della più vasta società di cui fa parte.

Del resto, anche negli ordini presenti d'Italia, vedonsi delegati al Municipio ufficj, i quali appartengono all'ordine generale dello Stato.

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Così, per esempio, in Toscana il Consiglio municipale elegge i deputati pel ripartimento delle tasse, quelli pel reclutamento militare, e quelli per l'arruolamento della guardia nazionale. Il Gonfaloniere guarda e coopera al censimento della popolazione, lavora colle deputazioni di arruolamento della guardia nazionale, e di reclutamento. - Il Camarlingo, oltre alle tasse per conto del Comune, riceve quelle che si riscuotono per conto dello Stato.

Trattasi di estendere così fatte delegazioni, e soprattutto poi di trasferire nel Municipio alcuni ufficj eminenti, come per esempio quello di pubblicare le leggi nazionali, i provvedimenti provinciali, e dar mano alla loro esecuzione. Vi siano pure servizj amministrativi del tutto indipendenti dal Municipio: basta che il paese comunichi colla nazione, mediante questa sua prima elementare unità di governo.

Niuno vorrebbe sostenere che l'autonomia del Municipio italiano ha da essere illimitata. Tutte le libertà hanno un limite: né quelle del Municipio possono sottrarsi alla legge comune. Ma altro è il limite, e altro la tutela; e mentre intendiamo che l'autonomia del nuovo Municipio d'Italia operi circoscritta entro giusti confini, non potremmo intendere che essa soggiaccia a tutela. Autonomia e tutela sono idee, le quali reciprocamente si escludono.

Giova dare un rapido sguardo alle vicende della legislazione toscana su questa materia.

Vedemmo il tipo de! Municipio Leopoldino consistere nella libertà attribuitagli di liberamente amministrare le rendite sue. La tutela esercitata dalle Camere di Soprintendenza si restringeva in questo sistema al divieto di alienare fondi, obbligare capitali, intraprendere liti senza approvazione superiore.

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Né il principio autonomo, proclamato da Pietro Leopoldo, era mai in Toscana letteralmente abolito; però con parziali disposizioni la libertà dei municipj fu talmente ristretta, da ridurla a zero. Alcune di queste restrizioni si fecero avanti alla dominazione francese; le più importanti dopo la restaurazione del 1814. Per mezzo dei cancellieri, del Corpo degli ingegneri, della Soprintendenza Comunitativa, e della Potestà Sovrana, si ordinò una tutela delle più soffocanti.

Le rivoluzioni del 48 e del 59, toccando a questa parte essenzialissima del pubblico ordinamento, restarono assai al di sotto dell'antica riforma leopoldina.

Ecco le basi della tutela, come fu ordinata dall'ultima legge toscana sui municipj del 31 dicembre 1859.

Si lascia ai Comuni il diritto d'imporre per conto loro, aggiungendo alla tassa prediale e personale una sovrimposta egualmente distribuita: però questa sovrimposta non deve mai eccedere nel suo totale la somma, che ragguaglia al tre per cento della sola rendita imponibile desunta dal Catasto. Per maggiore aumento d'imposta, è necessaria una legge speciale.

Il Bilancio delle rendite e delle spese è sottoposto al sindacato del Prefetto, e del Consiglio di Prefettura. Non può il Municipio proporre nell'anno nuove spese, se non per assoluta necessità, proveniente da forza maggiore: ma quando i fondi previsti nella massa di rispetto a ciò non bastassero, per istanziare nuovi fondi, è necessario che una legge autorizzi lo stanziamento.

Ha bisogno il Municipio dell'approvazione del Consiglio d'Arte per qualunque restauro voglia fare d'opere monumentali esistenti. Ha bisogno dell'approvazione del Prefetto a fine di stare come attore in giudizio. Ha bisogno della licenza del ministro dell'Interno per debiti o alienazioni che non eccedano una certa misura, al di là della quale si richiede una legge.


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Del resto il Municipio è libero di confermare o licenziare i suoi impiegati, di aumentare o diminuire i loro salarj, di pubblicare regolamenti locali di polizia municipale, di decidere sui reclami per errori nelle liste elettorali, e nei ripartimenti delle tasse. Ma la legge ammette ricorsi anche contro l'uso di questa libertà; e i ricorsi si fanno al Consiglio di Prefettura, che in alcuni casi sentenzia inappellabilmente, e in altri con appello al Consiglio di Stato.

Quest'antica culla della democrazia e delle riforme leopoldine aspettava bene altre novità sui Municipj suoi dal governo dei Georgofili!

Più ardito dei governanti toscani, il Ministro Minghetti nel proporre il nuovo ordinamento della nazione, va fino a sottrarre ad ogni tutela governativa la formazione del Bilancio nella sua parte ordinaria. Chiede però l'approvazione del Prefetto, quanto alle spese straordinarie, per le quali si vincoli l'avvenire, o l'azione dei futuri Consigli, e per gli affari eziandio che toccano il capitale patrimoniale, quali sono gli acquisti, le alienazioni di stabili, le creazioni di debiti. Chiede inoltre che tutte indistintamente le deliberazioni, o comunali o provinciali, debbano essere trasmesse al prefetto, il quale o le risolverà da sé, o le trasmetterà alla deputazione provinciale, o al governatore regionale. A quest'ultimo si dà la vigilanza sui regolamenti di polizia od organici e di amministrazione, che i Consigli Comunali hanno facoltà di compilare, sulle proposte di mutazione nella classificazione delle strade, e sull'introduzione di relativi pedaggi; sull'istituzione infine di fiere e mercati. Alla deputazione provinciale spetta approvare quegli atti, nei quali essa abbia interesse.

Ma nemmeno con queste riforme il Municipio italiano s'inalzerebbe all'altezza dei tempi, e delle sue tradizioni gloriose.

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XVIII.

Dell'autonomia Municipale.

Si vede, come tre sistemi differenti governassero questa materia dell'autonomia municipale: nel primo, il Municipio è sovrano rispetto alla sua amministrazione interiore: nel secondo, è pienamente sottoposto a tutela: nel terzo, è sottoposto, per usare una frase forense, solo mediamente. Fra le sottoposizioni medie, mitissima sarebbe quella proposta dal Ministro Minghetti, quantunque più stretta della leopoldina.

A noi sembra, che l'Italia possa senza pericolo fondare a dirittura il Comune veramente autonomo a similitudine dell'America.

Distinguiamo la vita interna ed esterna di questa unità elementare: ricordiamo come essa sia ad un tempo e lutto e parte; tutto, relativamente alle famiglie che compongono l'associazione municipale; parte, relativamente agli altri Municipj accomunati in associazioni più vaste di provincia, e di nazione. L'autonomia del Municipio si riferisce soltanto alla vita interna di esso: perciò, mentre sarà libero di spendere i suoi averi in quel modo che alla volontà generale dei socj sembri più profittevole, non potrà, né sottrarsi alle leggi universali confinatrici d'ogni libertà, né rifiutare l'adempimento dei carichi che le autorità superiori gl'impongono, né offendere interessi che al di là del cerchio municipale si estendono in quello più vasto della provincia e della nazione.

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L'istituto americano, conosciuto col titolo di Corte delle Sessioni, racchiude il germe dell'autorità giudiziaria, che anche in Italia si potrebbe istituire come guardia degl'interessi generali di fronte alle possibili esorbitanze dell'autonomia municipale. - Se non che insieme a cotesti tribunali d'indole amministrativa, converrebbe istituire parimente un Ministero pubblico della stessa natura, il quale avesse facoltà, non solo d'accusare i Municipj che non adempissero ai carichi imposti dall'autorità nazionale o provinciale, ma di porre un veto a tutte le loro deliberazioni municipali, violatrici d'interessi più alti. Il Tocqueville fece giustamente notare gl'inconvenienti della mancanza d'un Ministero pubblico appresso le Corti delle Sessioni in America, quantunque aggiungesse, che colle consuetudini americane sarebbe difficile assai conciliarlo. Ma le difficoltà, accennate dall'illustre scrittore per l'America, non sussistono per l'Italia, dove l'istituzione dei Ministeri pubblici per le materie giudiciarie, propriamente dette, fece ottima prova, e dove non parrebbe vero ai Comuni, sfuggiti al sindacato arbitrario delle autorità poliziesche, vedere la libertà della loro associazione soltanto infrenata a nome degl'interessi di società più vasta davanti a un potere giudiziario.

Nelle cose indifferenti alla provincia e alla nazione, perché si vorrebbe sottoporre il Municipio autonomo a un sindacato esterno, anche parziale? Perché distinguere spese ordinarie e straordinarie, accrescimenti d'imposte e alienazioni di fondi, erogazione di rendite, o creazione d'imprestiti, come se tutti questi modi d'amministrazione non richiedessero eguale abilità amministrativa, e chi sappia bene impiegare le sue rendite, non sia egualmente in grado di giudicare opportuna e proficua la vendita d'un fondo, o l'impiego del credito?

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Una delle due: - 0 l'associazione municipale è reputata abile ad amministrare liberamente i suoi interessi, e non v' è ragione che nella sua vita interna debba soggiacere a tutela per tali o tali altre spese, per tali o tali altre contrattazioni: - 0 cotesta abilità le manca, e allora si dee francamente rifiutarle l'autonomia.

Da ciò siamo condotti ad esaminare, se tutti i presenti Comuni d'Italia possano essere giudicati, per ciò che concerne l'autonomia, alla medesima stregua.

Intorno all'eguaglianza giuridica dei Municipj italiani, tre sono le opinioni: gli uni sostengono che ogni consorteria, la quale porti questo nome, dev'essere lasciata così com'è, e i Municipj più angusti messi alla pari dei più vasti e popolosi: altri vorrebbero solo alle città, come rappresentanti della provincia, concessa l'autonomia e il nome di Municipio: altri propongono la soppressione dei piccoli Comuni, e la creazione di grossi Municipj, tutti con eguali diritti.

Non sapremmo aderire al sistema che vorrebbe intangibili le circoscrizioni, e nel tempo stesso pareggiate le condizioni politiche di tutti i presenti Comuni d'Italia. Pietro Leopoldo nel concedere l'autonomia amministrativa ai Comuni toscani, sopprimeva i così detti Comunelli. E noi concederemmo autonomia maggiore della leopoldina a molti Municipj, che non sono altro che Comunelli? Quando si voglia mantenere l'assoluta dependenza del Municipio dallo Stato, come in Francia, è naturale che la maggiore o minore vitalità civile di cotesta associazione appaja indifferente. Ma per l'esercizio d'una autonomia si chiedono le condizioni di quella; né una nazione può ammettere nel suo seno società secondarie, le quali siano anziché d'incivilimento, centri di barbarie.

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Ora, se una parte dei Comuni italiani non offre le condizioni necessarie all'esercizio dell'autonomia, perché s'avrebbero a privare di cotesta prerogativa quelli di cotali condizioni largamente forniti?

Il secondo sistema, che restringe il titolo e le prerogative di Municipio solamente alle associazioni, le quali si formino dalla rappresentanza collettiva d'una città e di tutto il suo territorio, non iscioglie la difficoltà, e trasporta la questione dai termini del Comune in quelli della Provincia. Sarebbe stato da esprimersi il dubbio, se il Comune urbano s'avesse a pareggiare ai Comuni rurali ed oppidanei. Ma lo stesso Comune urbano sparisce, quando, come nel sistema dell'Avvocato Luigi Carbonai, si fa del Municipio una stessa cosa colla Provincia, e la rappresentanza municipale s'incarna nei deputati delle città, uniti ai deputati dei borghi e dei castelli circonvicini.

Resta il terzo sistema, quello cioè che propone grossi Comuni con eguali prerogative e diritti. Così alcuni pubblicisti francesi manifestarono il desiderio, che l'angusto Comune di Francia si dilatasse in quel più vasto circuito che colà si chiama Arrondissement.

Come già accennammo, noi non possiamo professare astrattamente la massima dell'intangibilità dei confini municipali: d'altra parte non possiamo nemmeno ammettere che il Comune, quasi ente artificiale, si edifichi e si dissolva ad arbitrio di statista. Il Ricci con molto buon senso scriveva in questo proposito: «Se tu riunisci in uno molti Municipj destinati dalla natura ad esistenza distinta, tu puoi creare un Ente legale meritevole del nome di Provincia o Distretto, un Ente che sarà più o meno perfetto in relazione al suo scopo; ma non avrai per certo una vera Comunità, imperocché i cittadini continuando a convivere intorno ai loro centri speciali non avranno sensi, bisogni, e rapporti comuni intorno ad un centro generale in cui non convivono.

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L'aggregato da te composto potrà utilmente reggere i rapporti esistenti fra i Comuni limitrofi, ed avviarne verso uno scopo generale i voleri e le forze; sarà, se vuolsi, il complemento dell'ordine municipale, sarà una nuova ruota amministrativa interposta tra il vero Municipio, e lo Stato; ma per certo non sarà mai un vero Municipio egli stesso, checché la legge prescriva. - Taccio delle gare fra le varie parti dell'aggregato, e parlo del o difetto d'espresso consenso che tutta ne perturberebbe la vita.» - (Cenni sopra le basi del Sistema municipale toscano, Livorno 1847).

Tuttavolta anche il Ricci ammetteva doversi sopprimere i Municipj mancanti di un centro vero e spontaneo, e doversene dividere il territorio infra i centri, verso i quali inclinano gli abitanti.

Ma né con queste soppressioni di superstiti Comunelli, che non meneranno a gran cosa, né col solo criterio della popolazione, risolveremo l'arduo problema testé proposto. Ed invero è possibile, che un piccolo Comune racchiuda condizioni di libera autonomia, le quali manchino a un Comune popoloso.

Giovanni Reynaud con profondo acume faceva notare, come la rivoluzione moderna distruggendo le due classi iniziatrici del passato, la Nobiltà e il Clero, intendesse a porre in luogo di quelle, la classe borghese e la classe letterata. «La classe popolare (egli dice) è il fondo della nazione, è quella dal cui seno si generano continuamente le due splendide classi che la incoronano, e forniscono alla società le guide di cui ha bisogno: gli uni danno l'indirizzo alle idee, e ai sentimenti; gli altri, in moltitudine indefinita di cerchi speciali, reggono la sua attività materiale. Queste tre classi, liberamente collegandosi, producono la forza, l'unione e lo splendore della vita nazionale, e niuna delle tre può mancare alla rappresentanza del paese, se vuolsi che questa rappresentanza sia esatta.» (Vie et Correspondance de Merlin de Thionville, publiée par M. Jean Reynaud.)

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L'unione dell'industria, della proprietà e della cultura, come fa la vita della nazione, così in grado elementare ha da costituire la vita del Municipio autonomo. Perciò non si deve ammettere franchigia municipale, dove per segni, che a priori non è dato stabilire, non appariscano cotesti tre elementi.

Essi si rinvengono certamente nelle città: ma moltissimi borghi d'Italia si vogliono oggi equiparare alle città. - E non sarebbe suprema ingiustizia privarli d'autonomia?

La legge adunque farà del Comune autonomo la regola del giure municipale italiano, noverando, nella prima attuazione di quello, tutti i Comuni dotati della solenne franchigia. Ma accanto alla regola rimarrà l'eccezione; accanto al Comune Maggiore, il Comune Minore, ossia quello in cui i requisiti d'industria, di proprietà e di cultura, sufficienti all'esercizio dell'autonomia, non si verificano., - Rimanga però sempre aperta la via ad ogni Comune minore per acquistare maggioranza, mediante la prova dei diritti suoi apprezzabili dal Parlamento.

Non si combatta questo sistema colla generica parola di disuguaglianza. Noi siamo profondamente democratici, vale a dire fautori d'egualità, e avversi ad ogni privilegio. Ma non è privilegio l'esigere, che al possesso d'un diritto rispondano le qualità necessarie per esercitarlo. - Non è privilegio la differenza fra lo spirito e la materia, fra la civiltà e la barbarie. - Ai Comuni, rimasti minori per difetto di civiltà, e quindi privi di vera vita popolare, diremo che se vogliano uscire dal minoratico, ciò sta in loro. - 0 si pongano in grado di possedere le condizioni necessarie a divenire un Comune Maggiore, o cessino un' effimera vita sociale, un simulacro di municipio, e di buon grado s'aggreghino all'autonomo Comune vicino.

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XIX.

Elezione e Rappresentanza Municipale.

Quando nella prima Assemblea Costituente di Francia fu posto in discussione l'ordinamento dei Municipj, Mirabeau tutto propenso a lasciar loro la massima libertà, avrebbe perfino voluto si concedesse ad ogni Municipio la facoltà di porre a talento i fondamenti del proprio assetto.

Tanta larghezza non trovò accoglienza nel disegno, quantunque larghissimo, di riforma municipale, colorito dai legislatori dell'89; e si ordinarono tutti i Municipj francesi su fondamento uniforme. In quella guisa che neghiamo sovranità costituente alla provincia, noi non potremmo davvero assentirla al Municipio.

La Nazione pertanto nel costituire l'autoaomia municipale, come provvederà a istituzioni le quali raffrenino cotesta autonomia, dove eccedesse il limite delle sue competenze, così ordinerà guarentigie contro le ingiustizie e gli abusi dell'Amministrazione interiore. La differenza fra il Municipio maggiore e minore sta in questo: che nel primo il rimedio alla cattiva amministrazione viene da un' autorità esteriore, nel secondo dagli ordini interni del Municipio medesimo. E fra gli ordini municipali interni, i più atti a guarentire l'universale contro ogni soverchieria d'individuo, di famiglia, e di corporazione, saranno:

1° Il voto universale nelle elezioni;

2° Una bene ordinata rappresentanza.

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E necessario che dalle elezioni municipali escano uomini non devoti a tale o tale altra consorteria, non preoccupati degl'interessi di tale o tale altra classe; ma i più onesti, i più intelligenti, i più idonei insomma a cooperare al bene di Tutta la piccola società per loro rappresentata. Diremo che la facoltà di discernere la maggiore virtù, e la maggiore intelligenza degli eligibili, appartenga solo ai possidenti? Vorremo circoscritta la prerogativa d'elettore in coloro, i quali pagano una contribuzione?

Finora, nell'ordinamento dei Municipj italiani, sembrò prevalere cotesto principio: e parve che il diritto d'elezione, più che alle persone, s'avesse a concedere ai beni; cosicché i beni dei corpi morali lo esercitavano per via dell'amministratore di quelli, i beni dei pupilli e degl'interdetti per via del tutore, o curatore. Ma anche questo rimasuglio di feudalismo ha da sparire; e il diritto di designazione de' migliori si vuole collocare fra i diritti imprescrittibili dell'uomo, e non farne un privilegio di casta. Se il voto universale ha da designare i rappresentanti della nazione, con quanta maggiore ragione non designerà i rappresentanti del Municipio?

Oltrediché l'interesse, che gli artigiani e i popolani hanno al buon governo municipale, non è minore di quello dei possidenti, e dei ricchi. Diceva ottimamente Cormenin, che i poveri hanno più interesse dei ricchi, perché i mercati siano bene forniti, perché il vino non sia alterato, perché la contribuzione personale non sia gravosa, perché le abitazioni siano ariose e salubri, perché nel Municipio regnino l'ordine e la sicurezza, condizioni essenziali alla prosperità del lavoro, da cui il maggior numero trae il pane quotidiano.

E si temerà che il popolo, guidato dall'istinto del bene, e dal suo stesso interesse, faccia peggiori scelte di quelle che farebbe la casta dei privilegiati di censo?

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Noi siamo del parere di Cormenin, che dando al voto universale l'autorità di eleggere i rappresentanti del Municipio, e lasciando questo voto medesimo giudice delle qualità in essi richieste, non si avranno a deplorare cattive elezioni. Si crede forse che la plebe chiamerà al governo del Municipio uomini solo della sua classe, e rifuggirà dal cercare i migliori in classi differenti? Specchiamoci nell'esempio di Roma. Per trecento anni, la democrazia romana scelse al tribunato persone patrizie: aveva invero voluto con la creazione dei tribuni partecipare al governo della cosa pubblica; ma quando ebbe a recare giudizio particolare sugli uomini suoi, s'accorse della loro poca attitudine alle cariche dello Stato, e andò a scegliere i tribuni fra i nobili, cioè fra gli uomini allora i più atti al maneggio dei pubblici affari. Certo non si vede l'artigiano malato, o che abbia una lite, ricorrere, quando possa spendere, ad un cattivo medico, o ad un cattivo avvocato.

Quanto alle elezioni, si lasci adunque da banda ogni scrupolo, e si adotti a dirittura in tutta la sua ampiezza il principio del voto universale, come è praticato nel sistema francese.

Parimente dal sistema francese possiamo imitare l'unità nella Rappresentanza deliberante, rigettando quel dualismo collegiale, che prevalse e dura tuttora nelle tradizioni italiane.

Ed invero - quale sarebbe l'ufficio del secondo collegio? - 0 di sindacare le deliberazioni del primo, come il Senato sindaca quelle della Camera dei deputati, o di esercitare ufficj esecutivi. Ma se si tratta di sindacato, è forza convenire che le deliberazioni d'un gran Consiglio, uscito dalla elezione diretta del popolo, hanno molto più autorità che quelle d'un piccolo Consiglio, il quale abbia, o direttamente o indirettamente, la medesima origine.

Inoltre sarebbe assurdo attribuire al secondo Collegio autorità senatoria, senza un terzo potere, che nella creazione della legge municipale facesse le veci dell'autorità regia.

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Se si tratta poi d'ufficj esecutivi, questi hanno ad appartenere a magistrature deputate a tali o tali altre ingerenze, e non ad un collegio.

Insomma la repartizione dell'autorità municipale in due collegi, non può non indebolire l'azione di essa, senza una compensazione proporzionata di guarentigie. Basta un solo Consesso, perché forte abbastanza da godere di quella piena fiducia, senza la quale sarebbe vano desiderare una buona vita municipale.

Ma quanto il tipo francese è imitabile sia per l'ampiezza del voto elettorale sia per l'unità del Collegio, altrettanto vorremmo che la riforma italiana da cotesto tipo si discostasse nell'ordinamento del potere municipale esecutivo.

Che tutte le magistrature municipali debbano essere elette dal Consiglio generale, non si potrebbe mettere in dubbio senza offendere radicalmente il principio dell'autonomia. Ma è egli necessario concentrare la somma delle facoltà esecutive in un solo individuo, che sia come la personificazione del Municipio col titolo di Maire, di Gonfaloniere, di Sindaco, e di Potestà ec.? o meglio sarebbe all'uso americano distribuire la potestà esecutiva fra più magistrature con ufficj ben definiti? Noi consentiamo questa seconda forma d'assetto, la quale meglio s'addice all'indole del reggimento democratico, e alle vere tradizioni italiane.

Di fatti, o che esaminiamo l'antico Municipio romano, o quello del medio evo, nulla troveremo che somigli alla carica, essenzialmente monarcale, del gonfalonieratico moderno. Nel Municipio romano la magistratura suprema, assai somigliante al Consolato, abbracciava tutte le parti del governo, e quelli (non quello) che ne erano investiti, si chiamavano duumviri o quatruumviri,secondo che erano in numero di due o di quattro. Nel Municipio del medio evo questa stessa giurisdizione suprema era esercitata da due o più Consoli.

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Usciamo dalle città, vediamo come si reggessero anticamente a libero Comune alcune terre o castelli, su cui oggi si esercita la più minuta e soffocante tutela, e non vi troveremo nessuna assorbente personalità esecutiva. I Bandi si mandavano per ordine dei Consoli, e per loro si radunava il Consiglio generale. Questo Consiglio eleggeva le magistrature, alcune delle quali collettizie, come per esempio un collegio di dodici che soprintendeva alle fortificazioni del Castello; altre personali, come un potestà forestiero per amministrare la giustizia, e un capitano per guardare il palazzo.

Fondato il Municipio autonomo su questi principj, altre guarentigie di buon governo gli potranno venire dalla pubblicità degli atti, dall'appello richiesto per alcune deliberazioni di maggior momento al plebiscito diretto degli elettori, e da altre minori precauzioni. Ma questi sono tutti particolari da discutere nella attuazione della Riforma, della quale basta aver posto in teoria i principj fondamentali.

XX.

Conclusione.

Prendemmo a ragionare dell'ordinamento nazionale col fine di discutere, non tutte le questioni, le quali si riferissero al nuovo assetto della nazione, ma solamente quelle che nascevano dalla necessità di definire, come in cotesto assetto abbia a sorgere l'unità; se a modo di Francia, o conforme al genio d'Italia. Pertanto possiamo dire conseguito lo scopo del ragionamento; imperocché dalle cose discorse luminosamente resulta, che l'unità francese non fa punto per noi, e che nel costituire la nazionalità italiana si ha a tener conto di tre grandi fatti storici, i quali furono:


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1° L'antica guerra italica;

2° L'emancipazione dei Comuni;

3° La creazione delle primazìe metropolitane moderne.

Vedemmo emergere spontaneo da cotali antecedenti il disegno d'una patria veramente italiana; non acefala, non mostruosamente accentrata, ma con Roma a capo, colle autonomie amministrative dei municipj alla base, e colle mediazioni provinciali di alcune primeggianti città apparecchiate dagli ultimi secoli a divenire le SUCCURSALI DI ROMA.

Questo disegno escludeva tre sistemi d'ordinamento tutti egualmente erronei:

1° Il federalismo politico;

2° L'unitarismo accentrante;

3° Il municipalismo unitario.

Chiamiamo federalisti politici coloro, i quali derivano la personalità d'Italia, non da un fatto organico di per sé stante, come è la coscienza della vita nazionale comune, ma da una creazione artificiale proveniente dall'arbitrio e dal patto di più indipendenti sovranità.

Chiamiamo unitarj accentranti coloro che, a similitudine della Francia, vorrebbero concentrare anche in Italia la somma del governo in una sola città.

Chiamiamo municipalisti unitarj coloro che sperano impedire tra noi l'accentramento francese, pareggiando le città metropolitane alle città minori, e facendo di ciascuna di queste una metropoli amministrativa, rispetto ai borghi e Comuni rurali circonvicini.

Ciascuno di questi sistemi è falso, appunto perché non tien conto, o dell'uno, o dell'altro dei fatti storici testè indicati.

I federalisti politici parlano delle genti italiane, come se la guerra italica non fosse mai stata, come se un giorno l'Italia tutta non avesse posto in essere un grande fatto unitario, combattendo per acquistare la cittadinanza romana.

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Gli unitarj accentranti non pensano, che mentre il Comune francese chiedeva, contro il feudo, appoggio alla monarchia, il Comune italiano visse di vita sua, rivelando, su tutti i punti della circonferenza nazionale, un indomito istinto autonomo, che si potrà guidare, e restringere entro giusti confini compatibili coll'unità, ma non mai al tutto distruggere.

I municipalisti unitarj non pongono mente all'opera degli ultimi secoli, creatrice sotto a Roma delle primazìe metropolitane di Palermo, di Napoli, di Firenze, di Bologna, di Venezia, di Milano, di Genova, di Torino, di Cagliari; essi parlano della città rispetto alla nazione, come se alcuni grandi accentramenti provinciali non esistessero già, e il secolo XIX potesse annodare direttamente l'opera sua unificatrice all'autonomismo municipale del medio evo.

Questo terzo sistema fu con molta copia d'erudizione sostenuto dall'Avvocato Carbonieri di Modena, il quale identificava il Municipio colla città, e nel Municipio così inteso faceva consistere la vera e propria provincia italiana. Pare impossibile, che un pubblicista cotanto sollecito della tradizione romana, e di quella del medio evo, non apprezzasse per nulla le tradizioni degli ultimi secoli, pei quali si fondarono vaste agglomerazioni intorno ad alcune città metropolitane! «Colà (egli dice) dove sorge una città grossa che vive e visse per secoli, è da vedere un cumulo d'interessi imperitivi, inseparabili, vitali che la produssero, la alimentarono, e le dànno ragione di essere; e colà quindi, non altrove, è da cercarsi la provincia naturale, che nella città si confonde». (Delle Regioni in Italia, per l'Avv. Luigi Carbonieri).

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Ma con queste stesse parole non si potrebbe sostenere la necessità, che la vera provincia italica s' accentri intorno ad una città metropolitana, come quella soltanto che della vera e propria città mantiene oggi gli ufficj? Stando infatti alla definizione data da S. Tommaso, e citata dal Carbonieri, la città è perfecta communitas quantum ad omnia necessaria vita?

CONCLUSIONE

È naturalmente sentito il bisogno di costituire la nazionalità italiana, senza cadere per un lato nel federalismo, per l'altro nel centralismo francese.

Quanto al primo pericolo, si eviterà avendo la metropoli della nazione in Roma: colà è il capo d'Italia: colà ogni politico ritrovo italiano è necessariamente unitario.

Per isfuggire al secondo pericolo, non basta porre autonomie amministrative in ogni Municipio, o in ogni città; ma conviene fondare grandi centri di amministrazioni provinciali, o regionali (il nome non importa), nelle città che ereditarono dal passato una primazìa provinciale egemonica. Chi rinnega queste secondarie preminenze metropolitane, abbandoni come sogno l'idea del disaccentramento, e si rassegni a fare un'Italia francese.

Lo scopo principale del nostro ragionamento intendeva a porre in chiaro cotesta verità.

E quale anima italiana potrebbe vedere senza umiliazione la patria nostra in via d'imitazione forestiera, quando da' suoi fatti storici antecedenti ha segnato una traccia, seguendo la quale diverrebbe novamente maestra d'ordinamento alle nazioni?

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Come potremmo volere l'Italia ridotta al regime di settanta, o ottanta prefetti, e priva de' suoi più vivaci focolari d'incivilimento, e non irraggiata nemmeno dallo splendore solare d'una centralità, a modo di Parigi?

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L'idea d'ìmprefettare l'Italia poté nascere alle falde del Monte Cenisio, ma non sosterrebbe la discussione sulla cima del Campidoglio. - Roma non iscambiò mai l'unità coll'uniformità.- Roma non può temere, che alcuna delle sue figlie succursali concepisca l'insano e parricida disegno di segregarsi dalla madre e dalla patria italiana.








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