Eleaml


Fonte:
ilGiornale.it - 2 settembre 2009

Caro Silvio, dopo la Libia scusiamoci coi meridionali

Gilberto Oneto


Davanti al Parlamento libico, Berlusconi si è messo la mano sul cuore e ha domandato perdono per le violenze commesse dal colonialismo italiano. È stato un gesto forte e coraggioso, praticamente unico nel panorama dei rapporti internazionali. Per fortuna sono poche le situazioni analoghe di cui l’Italia moderna si debba scusare e il Presidente potrebbe ripetere il bel gesto in Etiopia e in Slovenia, e potremmo considerare chiuse, almeno dal punto di vista morale, certe vergogne che macchiano la nostra storia. Non sarebbe neppure faticoso, soprattutto se paragonato a cosa toccherebbe ai governanti di altri Stati per mostrare la stessa maturità e correttezza: alcuni di loro dovrebbero mostrarsi contriti nei Parlamenti di mezzo mondo.

L’episodio di Tripoli serve anche a squarciare una stratificazione di omissioni e di menzogne che è stata stesa sulla nostra storia più recente e a rendere giustizia a tutti i coraggiosi che si sono battuti per fare emergere la verità, anche a costo di intaccare certezze mal riposte e sconquassare miti artefatti. In questo caso specifico non si può non essere grati ad Angelo Del Boca, che da decenni si sforza di sollevare dolorosi coperchi e raccontare verità che non possono che essere liberatorie per la coscienza collettiva.

Berlusconi però non può - non fosse altro che per rintuzzare le illazioni collegate alla coltivazione di personali interessi televisivi - fermarsi alla Libia, e neppure agli altri Paesi citati. Deve trovare il modo di presentare le scuse dello Stato italiano anche a tutti quegli italiani che hanno sofferto per la sua unificazione, non solo quelli che sono morti «per» (cui la gratitudine nazionale è stata abbondantemente espressa) ma anche quelli che hanno sofferto «a causa» dell’unità.

Sarebbe un gesto di straordinaria civiltà con cui celebrare degnamente il 150° anniversario del Risorgimento, altro che finanziamenti a pioggia e melense cerimonie di palazzo!

Gli Stati Uniti hanno da tempo esorcizzato antiche divisioni, forse anche più laceranti e sanguinose delle nostre, ripercorrendo con serenità la storia del genocidio dei pellerossa e della Guerra Civile: oggi non c’è più alcun pudore o vergogna a riconoscere ragioni e torti, a confrontarsi serenamente sugli avvenimenti anche più dolorosi e sui fatti più ignobili. Contano anche le immagini: non ci sono solo i volti di Mount Rushmore, ma anche un ciglione del South Dakota trasformato nel profilo di Cavallo Pazzo e i capi sudisti Jefferson Davis, Robert Lee e «Stonewall» Jackson che emergono da un grande costone roccioso in Georgia. Sarebbe bello che si riconoscessero il valore e i sacrifici dei vinti del Risorgimento, dei soldati napoletani di Civitella e Messina, dei «briganti» massacrati in nome di una fratellanza imposta con le baionette, dei lombardi e dei veneti che hanno indossato fino all'ultimo l’uniforme del loro Imperatore, degli esuli per coerenza, dei cannoneggiati da La Marmora a Genova, da Cialdini ad Ancona, fino alle vittime milanesi di Bava Beccaris.

Anche senza scolpire un Cattaneo di cento metri sulle rocce delle Prealpi o elevare un colosso a Beneventano del Bosco, un bel modo civile di onorare la ricorrenza sarebbe proprio quello di affrontare la storia senza censure, senza la triste (e pericolosa) preoccupazione di dover per forza mettere tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Ecco, Presidente, il modo più bello per celebrare il Risorgimento: raccontarlo davvero.

Ma quali colpe dello Stato: coi Borboni stavano peggio

Mario Cervi


Gilberto Oneto ritiene che le scuse presentate dall’Italia alla Libia per le nefandezze del colonialismo siano state giuste. Sono in complesso d'accordo: anche se mi pare che gli anticolonialisti duri e puri glissino troppo su un fatto non irrilevante. Il fatto cioè che quasi tutti gli Stati africani di nuova indipendenza sono stati assoggettati a regimi ben peggiori di quelli coloniali, e che gli Stati non soggetti al dominio europeo-come l’Etiopia fino all'aggressione italiana-avevano strutture feudali e la pratica infame della schiavitù.

Ma dalla sua adesione al mea culpa berlusconiano Oneto prende spunto per suggerire all'Italia, dopo tante «omissioni e menzogne»,un atto di contrizione nei confronti di coloro che l’Unità la soffrirono. Ossia i vinti: i borbonici, i preti, i briganti su cui si avventò la furia piemontese.

Ciascuno ha diritto alle proprie idee. Ma poiché Oneto presenta questa richiesta e proposta - almeno così mi sembra - come un sasso nello stagno storico e istituzionale, voglio sommessamente ricordagli che da gran tempo a questa parte - e soprattutto in vista dei 150 anni dall’Unità - l’attacco al Risorgimento è diventato una moda. Del Risorgimento si parla, in pratica, solo per parlarne male, e dei Borboni - sono stato bacchettato, bisogna dire Borbone - per vantarne i fulgidi meriti. 

Potrei citare decine di saggi che già nei titoli hanno voluto smentire le glorie del Risorgimento, riducendone i protagonisti al rango di pagliacci o di malfattori; e al contrario esaltando il Regno delle due Sicilie come un modello di amministrazione, e il Sillabo come documento progressista. Da queste impietose diagnosi anche un genio come Camillo Benso conte di Cavour esce distrutto e Franceschiello esaltato.

Chiunque si sia occupato del Risorgimento sa delle molte ombre che l’offuscarono. Gravi. Anche se di sicuro non più gravi di quelle che offuscarono la Rivoluzione francese o la nascita degli Stati Uniti. Il fiume della storia è raramente limpido. Meno che mai lo è durante rivolgimenti che sconvolgono l'ordine costituito.

Ma avere rispetto per gli sconfitti non significa volerli indicare come esempio di buongoverno. Furono il contrario. Soprattutto furono l’espressione di una società e di una concezione dei rapporti sociali obsolete. Si è tanto discusso per il mancato inserimento nel progetto di Costituzione europea d’un riferimento alle radici cristiane. Mi associo alle critiche. Quelle radici sono profonde. Ma anche in assenza delle sue radici liberali l’Europa di oggi è inconcepibile. 

Una rivalutazione dell’ancien régime è anche una sconfessione del presente democratico. Nei modi e con le espressioni utilizzate per questo revisionismo duro, è preso a calci il momento più alto del nostro passato nazionale. Ebbe, quel momento, del miracoloso. È vero, l’Unità d’Italia fu costruita su tre vittorie straniere, Solferino, Sadowa e Sedan. Anche per la sua irripetibilità dobbiamo tenercelo caro, quel momento. Senza indulgenze retoriche deamicisiane o stentoree declamazioni fascistoidi, ma anche senza mistificazioni reazionarie.













ilgiornale 2 settembre 2009














vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.