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Fonte:
La città del sole ANNO V - Nr. 4 - Aprile 1998

IN CALABRIA QUALE DIALETTO?

  di Rocco Ritorto

Non sono uno studioso dei sistemi linguistici regionali italiani, ma credo che, all’interrogativo del titolo di questa nota, si possa tranquillamente rispondere: nessuno. Molto spesso usiamo i termini dialetto e vernacolo come se l’uno valesse l’altro, mentre sappiamo che non è così, considerando che la loro semantica non è identica, intendendosi per dialetto la lingua parlata dai residenti di una regione o area geografica e, per vernacolo, quella propria di un paese che si differenzia dal dialetto comune.


Senza contare le parlate grecaniche e albanofone ancora in uso in alcuni centri calabresi, in Calabria non si profilò e non s’impose mai alcuna parlata come dialetto regionale, e ciò perché in nessuna area territoriale calabra di una certa consistenza si usò o si usa una parlata tale da essere prevalente rispetto alle altre. Abbiamo, addirittura, paesi limitrofi dove da tempo si avanzano ipotesi di conurbazione, le cui parlate paesane si differenziano l’una dall’altra in maniera sensibile. Un tipico esempio, ma non è l’unico, lo abbiamo sulla costa dei Gelsomini. Ce lo danno centri come Siderno e Marina di Gioiosa Jonica, o come Caulonia e Roccella Jonica i quali, urbanisticamente, non hanno soluzione di continuità, eppure, le rispettive parlate sono marcatamente distinte tanto da far individuare il paese d’appartenenza dalla parlata, la qual cosa non si osserva solo in questi centri, ma in molti altri della zona e della regione in generale.


E’ chiaro, dunque, che la Calabria ha una folta serie di vernacoli, ma non un proprio dialetto. Come mai si è potuto verificare tutto questo? La risposta non è facile. La formazione di una parlata locale, alla quale concorrono elementi diversi, richiede un tempo quantificabile in secoli che è pressocché impossibile esaminare compiutamente, non tanto per la durata, quanto per l’assenza di documenti che consentano di risalire alle origini e trovare tracce dell’evolversi e del divenire della stessa.


Si può solo tentare qualche ipotesi che, a mio parere, potrebbe essere quella che segue. Se si tiene conto: dell’orografia particolarmente accidentata della nostra regione; dell’estensione in lunghezza dei suoi quindicimila e più chilometri quadrati bisognevoli di una adeguata rete viaria che non ebbe mai e che tuttora rimane carente; delle secolari dominazioni; delle incursioni piratesche, prima saracene e poi turchesche che flagellarono, soprattutto, gli abitanti del litorale ionico soggetto, altresì, ad endemie malariche, debellate dal DDT introdotto durante l’ultima guerra dalle truppe alleate, si può immaginare quali furono le traversie che per secoli travagliarono le genti di questa terra, lasciate intatte, se non peggiorate, dall’unità d’Italia e, scandalosamente, anche dai governi repubblicani. Tutti questi elementi che fecero buon gioco al sistema medievale, bisognoso, per sopravvivere, di cristallizzare una forma di vita subalterna e funzionale alla perpetuazione della classe egemone, rinserrarono nel retroterra dei litorali i residenti, inducendoli, in origine, a scegliere luoghi abitativi aspri e inaccessibili perché meglio difendibili e sicuri. E’, perciò, da supporre che, l’assenza di strutture viarie e di altri mezzi di comunicazione che, per secoli, tennero isolati e lontani d’ogni progresso gli abitanti della maggior parte delle contrade di questa regione, consentirono, assieme all’indigenza storica, il formarsi di costumi, tradizioni, linguaggi, folklori e quant’altro andò a caratterizzare le varie comunità locali<. Fino a determinare, per varie ragioni, una loro esclusiva identità, che iniziò a confrontarsi con le altre, persino le più vicine, con un ritardo astronomico, ove si pensi che l’elettricità, per sempio, giunse in moltissimi luoghi della Calabria, quando altri ne fruivano già da un secolo e passa.


L’avvento della civiltà dei consumi che, in breve spazio di tempo sbaragliò quella contadina, rivoluzionò, per molti aspetti in meglio, il vivere civile di queste zone, imponendo modifiche sostanziali nei costumi e nella mentalità, oltre che nella conduzione economica, incidendo anche sul linguaggio locale che, per una serie di motivi, andò ad archiviare molti termini riguardanti, soprattutto, utensili di uso comune tra i contadini, resi fuori uso dal progresso scientifico e tecnologico, e a modificare, italianizzandone molti altri (nessuno, per fare solo qualche esempio, chiama più carzi i pantaloni, broccia la forchetta o custumi il vestito), con evidente danno per il patrimonio vernacolare, i cui segni restano ancora tangibili e palpabili, grazie alla produzione letteraria popolare del passato e del presente, i cui valori meriterebbero essere meglio apprezzati, difesi e valorizzati.


Non c’è dubbio che l’assenza di un dialetto regionale, o meglio, di una lingua non ufficiale parlata ad ampiezza molto più vasta, non fu e non è un fatto positivo soprattutto per la produzione poetica vernacolare, considerato che più ampia è la base parlata, maggiore è la diffusione e, quindi, il suo assetto nel mondo della cultura, così come venne a verificarsi per le parlate dialettali vere e proprie e, in particolare, per quelle romanesche, napoletane e siciliane. La qualità, ovviamente, non risente della maggiore o minore estensione territoriale della parlata locale, atteso che un componimento poetico è la somma di molti fattori peculiari all’autore, che prescindono dalle latitudini e dagli ambienti sociali, peculiarità che non mancarono e non mancano ai poeti vernacolari calabresi, per cui, se la produzione vernacolare regionale, non raggiunse la rinomanza e la risonanza di tante altre, la ragione va ricercata non nella qualità, come ci dimostrano i versi di Conia, Padula, Pane, Martino, Ammirà, Patari, Butera, Milone, Chiappetta, De Nava, Ciardullo, Vitale e tantissimi altri che sarebbe lungo elencare, che nulla hanno da invidiare ai più blasonati cultori della musa dialettale italiana, senza contare i tanti bravi e interessanti poeti vernacolari viventi. Credo che oggi, il patrimonio vernacolare calabrese risenta anche della disattenzione da parte di coloro che dispongono degli strumenti giusti per farlo contare nel mondo culturale per ciò che veramente vale, valore che non trova la funzione e il merito nei concorsi indetti in occasione di feste e manifestazioni varie estive che non sottovàluto, ma che di rado vanno oltre i confini del folklore, mentre dovrebbe altrimenti essere vivificato.  


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