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Riceviamo da Nino Gernone la prima parte di una inchiesta tratta da "il manifesto" del 28 ottobre 2005.
30 ottobre 2005 - Webm@ster

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Fonte:
ilmanifesto - 28 ottobre 2005 - pagina 11

I rapporti fra le cosche calabresi, gli ambienti istituzionali e quelli sovversivi

Da dove viene la `ndrangheta e il suo potere

Le origini storiche lontane, nella resistenza allo stato «straniero» e repressore tra i monti della Calabria; e quelle vicine, nelle frange devianti dell'emigrazione intrecciate ai capibastone inviati a domicilio coatto nell'hinterland milanese. Come si è arrivati alla potenza dell'ultima e più aggressiva delle mafie italiane globalizzate


MANFRED


Siamo tra l'area a nord di Milano e la provincia di Lecco, all'inizio degli anni Novanta. Il paesaggio è rimasto manzoniano: boschi, scorci lacustri a intermittenza, borghi non soffocati da eccessiva speculazione edilizia. Molte delle pizzerie della zona appartengono a Coco Trovato, dominus locale della `ndrangheta. Una, in particolare - specie di quartier generale - si chiama enfaticamente «Wall Street», ed è intestata alla moglie del boss, Eustina Musolino. Non ci potrebbe esser miglior sintesi storica e tecnica dell'evoluzione della mala calabrese: il cognome Musolino evoca le origini ottocentesche dell'organizzazione stessa, cioè quel Giuseppe Musolino «re dell'Aspromonte» a lungo emblema di una resistenza contro le sopraffazioni di uno Stato piemontese-italiano esclusivamente (e ottusamente) repressivo; mentre il nome del locale sarà anche quello di una vasta operazione giudiziaria condotta dall'allora sostituto procuratore Armando Spataro (poi al Csm) e conclusa il 14 ottobre 1993, da cui emergono le sagome di una rete criminale modernissima nei modi e precocemente globalizzata.


Prima venne il domicilio coatto


Dopo essersi radicata in un'area estesa dalla Brianza a tutto l'hinterland milanese - sia attraverso le derive devianti di un naturale flusso migratorio, sia, soprattutto, attraverso i boss mandati al «domicilio coatto» - la 'ndrangheta ha infatti saputo riciclare i proventi dei sequestri e del traffico di droga in transazioni cifrate (Svizzera in primis) o in attività di copertura quali, tra le altre, agenzie immobiliari o finanziarie, imprese di costruzioni e società di leasing, spesso intestate a congiunti o parenti dei capi (oltre ai Trovato, si ricordino almeno i Flachi, i Paviglianiti e i Papalìa). Non solo: in quegli stessi anni si ramifica anche l'attività trans-nazionale delle cosche lombarde, specie nel campo degli stupefacenti: bastino gli esempi della cascina di Rota Imagna, nella bergamasca, dove il calabrese Roberto Pannunzi - già sodale dei boss di Cosa Nostra Bontate e Inzerillo - fa raffinare la droga turca e mediorientale per smistarla nel nord e nel centro Italia; e l'attività del clan Sergi, che prima scambia con gli Stati uniti eroina per cocaina, e poi - grazie a Pannunzi stesso - importa droga direttamente dalla Colombia, lungo un «circuito» che si sarebbe via via consolidato.


Ma operazioni come la «Wall Street» o maxi-inchieste come la «Nord-Sud» (firmata dal giudice per le indagini preliminari Guido Piffer) sono sintomatiche anche di altri due aspetti fondamentali nella messa a fuoco della `ndrangheta.


Il primo è la lenta emersione dei collaboratori di giustizia dalla vischiosità di un familismo impenetrabile, accentuato peraltro da un intreccio fitto di matrimoni parentali. Aspetto molto delicato, perché l'inaffidabilità dei pentiti - come già per Cosa Nostra - verrà brandita in tutte le indagini sulla 'ndrangheta per delegittimare i pm volta a volta attivi. Non a caso, proprio nelle operazioni citate magistrati rigorosi come Alberto Nobili provvedono a verifiche e accertamenti accaniti: vedi il caso di Saverio Morabito alias «il Buscetta della `ndrangheta» o, prima di lui, di Salvatore Annacondia detto «Manomozza».


Il secondo aspetto è il disvelamento dei legami tra l'organizzazione criminale e le istituzioni politiche, dovuto proprio all'apporto dei pentiti. Tra i tanti esempi, tornano con frequenza quelli di area socialista - craxiana e non - e poi forzista: è il caso dei rapporti tra Natale Moscato (consigliere comunale e assessore dell'edilizia e urbanistica a Desio) e il suo parente Natale Iamonte; tra Donato Giordano (che ascenderà poi nel `94, con Forza Italia, addirittura alla poltrona di assessore degli Affari Regionali al Pirellone) e il citato clan dei Flachi; o tra quel Massimo Guarischi (noto anche per un'inchiesta giudiziaria successiva, al tempo della sua militanza berlusconiana) e Rocco Papalìa, trafficante di hashish della zona di Buccinasco.


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Il legame tra la `ndrangheta e le istituzioni a livello locale o «centrale» - ma anche coi servizi deviati, con l'eversione terroristica e con la cosiddetta «massoneria coperta» - rappresentano l'architettura profonda per chi voglia davvero comprendere il «contesto», storico e strutturale, dell'assassinio di Francesco Fortugno. Lo snodo più vicino nel tempo è la mattina del 9 novembre 2004, quando - su mandato della Procura di Catanzaro - vengono emessi 6 ordini di custodia cautelare e 34 avvisi di garanzia verso un nucleo di figure della politica, della magistratura e dell'informazione - non solo di ambito calabrese - indiziato di aver esercitato sulla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria (Dda) pressioni e condizionamenti di vario genere, a partire dal tentativo di far trasferire magistrati sgraditi.


Tra gli arrestati: Amedeo Matacena jr., ex-parlamentare di Forza Italia sospettato di legami con diverse cosche; Paolo Romeo, ex-parlamentare Psdi vicino al boss Orazio De Stefano, dell'omonimo clan; il direttore del mensile Il dibattito Francesco Gangemi; e il suo cugino omonimo, avvocato. Tra gli avvisi, spicca soprattutto quello al sottosegretario di Stato della Giustizia Giovanni Valentino (An). Il provvedimento - come si legge nell'ordine di custodia cautelare stilato dal gip Antonio Baudi su richiesta del procuratore Mariano Lombardi, dell' «aggiunto» Mario Spagnuolo e del «sostituto» Luigi De Magistris - si fonda sull'esito di 60.000 intercettazioni telefoniche effettuate a partite dal febbraio 2001. Ma prima di addentrarci in queste intercettazioni, è necessario un lungo flashback, in cui l'iter di alcune delle figure sottoposte al mandato risulta rappresentativo dei rapporti tra la'ndrangheta e le istituzioni dello stato e del controstato.


Una loggia segreta

La figura di Paolo Romeo appare per la prima volta, in questa prospettiva, nella casa di Filippo Barreca - è lo stesso «pentito» a ricordarlo in una deposizione dell' 8 novembre 1994 - presenti anche il terrorista nero Franco Freda e un membro dei De Stefano, il legale Giorgio. Obiettivo: la costituzione di una loggia segreta di confluenza tra `ndrangheta (oltre ai De Stefano, i Piromalli e i Nirta) e la destra eversiva.


Qui il discorso sarebbe lungo e controverso, e aprirebbe un flashback nel flashback: perché se è difficile dar torto a Ugo Maria Tassinari quando definisce una «fandonia fantasiosa» l'adesione di Freda a una simile associazione, saremmo più cauti di altri nel liquidare l'accostamento tra i due versanti criminali, dato che in molti casi più di un indizio tenderebbe invece a dimostrarlo: alludiamo alla «rivolta» di Reggio del `70, al golpe di Junio Valerio Borghese, all'assassinio del giudice Occorsio il 10 luglio `76, al «deragliamento» del treno per Gioia Tauro del 22 luglio `70. E poi, è proprio la parabola di Romeo a fungere da cerniera, con due arresti precedenti quello dell'anno scorso: il primo l'11 gennaio dell'80 per «favoreggiamento personale verso Franco Freda» (reato poi estinto per intervenuta prescrizione); il secondo - 18 luglio `95 - avvenuto nell'ambito della maxi-operazione Olimpia (che si articolerà poi in quattro fasi), nella quale spiccano tra gli altri gli avvisi di garanzia per l'ex-ministro Riccardo Misasi (numero uno della Dc calabrese) e per il presidente della prima sezione penale di Cassazione Corrado Carnevale alias «l'ammazzasentenze», sospettato di aver preso soldi per «aggiustare» i processi.


Amedeo Matacena jr (il padre, armatore dei famosi traghetti Caronte, era stato a sua volta indagato nell'operazione Olimpia per i finanziamenti ai citati moti dei «boia chi molla» a Reggio), appare per la prima volta come giovane liberale reggino proprio accanto a Romeo - e a figure come il democristiano piduista Vito Napoli - nell'attacco al pool di Agostino Cordova, impegnato nello scoperchiare lo scandalo della centrale di carbone Enel a Gioia Tauro (una torta immensa di miliardi stanziati dal Cipe). Poi - vedi deposizione dl 3 luglio `97 del pentito Giuseppe Lombardo detto «cavallino» - lo troviamo come referente elettorale della «cupola» avente ai vertici Diego Rosmini sr., Pasquale Condello e Paolo Serraino, già orientata a un «processo di delegittimazione dei collaboratori di giustizia» al fine di azzerare ogni azione investigativa e giuridica.


E per finire - dopo che ha perorato i voti per il suo amico liberale Bastianini, sottosegretario all'Industria che si batte proprio per la costruzione della centrale di Gioia Tauro - lo troviamo evocato in due testimonianze nel momento dello scontro per il dominio della «piana di Sibari»: quella di Florinda Mirabile (figlia del boss della nuova camorra Mario, ucciso dalle `ndrine, le cosche) lo presenta come tramite tra suo marito e l'ex prefetto di Cosenza Catenacci; quella dell'ex affiliato alla `ndrangheta Pasquale Tripodoro ne rinsalda il ruolo di interlocutore elettorale dei boss.


La seconda guerra di mafia

Quanto a Francesco Gangemi (il Francesco Gangemi giornalista), siamo ormai nella dissolvenza del flashback. Dopo la «tregua» tra cosche successiva alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» - stipulata nei primi anni Novanta per mettere in off il territorio e poterlo gestire meglio, a partire dalla distribuzione degli appalti - la Dda, anche grazie ai «pentiti», comincia a incidere pesantemente su incriminazioni e arresti. Come ricorda Paolo Iannò - numero due del clan Condello e testimone decisivo nella nuova ondata dei collaboratori di giustizia - le cosche delegano allora proprio a Romeo e Matacena, in cambio della loro elezione, il compito di «aggiustare» i processi, specie quelli incombenti sui De Stefano e i Condello stessi.


Ma quando i benefìci non arrivano, scatta la nuova strategia: ed è lì che entra in scena Gangemi col suo periodico, Il dibattito, fondato con lo scopo di delegittimare sia la Dda (e in particolare i suoi uomini principali quali i magistrati Boemi, Verzura, Pennini, Mollace) sia i «pentiti» di cui l'Antimafia si serve. Mezzo per ottenerlo: soprattutto alcune talpe, che gli inquirenti individuano in due impiegate degli uffici giudiziari di Reggio e in un uomo della scorta di Mollace.Siamo così alle intercettazioni, e al quadro che ne deriva.


(1- continua)
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scheda

Libri e studi per sapere di più

Questa ricostruzione dei rapporti tra la `ndrangheta e le istituzioni dello stato (e tra la `ndrangheta e le varie forme di eversione anti-stato, dal neofascismo alle massonerie ai servizi deviati) si basa soprattutto su alcuni libri e studi recenti: quello di Mario Guarino («Poteri segreti e criminalità. L'intreccio inconfessabile tra `ndrangheta, massoneria e apparati dello stato», Dedalo, 2004); quello di Piero Innocenti («La mondializzazione delle mafie», Berti, 2005) e i contributi di Enzo Ciconte e Gianremo Armeni sul numero di Limes del febbraio 2005 («Come mafia comanda», pp. 143-164). Per i rapporti tra 'ndrangheta ed eversione nera si rimanda al capitolo relativo nella dettagliata analisi di Ugo Maria Tassinari («Fascisteria», Castelvecchi, 2001); mentre per un inquadramento generale della 'ndrangheta sono fondamentali i due libri dello stesso Ciconte: «'Ndrangheta dall'Unità a oggi» e «Processo alla `ndrangheta», tutti e due pubblicati da Laterza, rispettivamente nel 1992 e nel 1996.





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