Non c'è dubbio che il manifesto di Eboli di Antonio Bassolino abbia fatto notizia. Eboli è un nome magico, simbolo di un pezzo di storia meridionale e italiana. Carlo Levi ha lasciato una testimonianza non solo di antifascismo e di rifiuto di ogni forma di totalitarismo, ma anche e soprattutto di una vicenda umana e sociale vissuta in una terra allora lontana dalla civiltà e dalla cultura; dimenticata dallo Stato unitario.
Solo una trovata elettorale
in concomitanza delle ultime elezioni regionali, oppure c'è
anche la determinazione per una azione politica di riequilibrio
Nord-Sud? Che il manifesto, al quale fece subito da contraltare
l'incontro di Teano promosso dal Polo, avesse il fiato corto apparve
subito evidente a tutti, affrettato com'era nella stesura e carente nei
contenuti, approssimativo nelle analisi e nella individuazione delle
responsabilità delle forze sindacali, imprenditoriali e
politiche (di maggioranza e di opposizione) che dal dopoguerra ad oggi
hanno governato il Paese.
Un manifesto di parte ed in odor di elezioni.
Però un merito gli va riconosciuto: aver richiamato, almeno per
un giorno, l'attenzione sulle permanenti condizioni di grave
sottosviluppo in cui versa, più di ieri, il Mezzogiorno. La
verità è che, purtroppo, nella coscienza nazionale
è stata rimossa quella «cultura scomoda» dei grandi
meridionalisti come Compagna, Galasso, Rossi Doria e, prima di loro,
Salvemini, D'Orso, De Viti De Marco e degli altri che, dal primo
governo De Gasperi, avevano dato vigore al dibattito politico sul
Mezzogiorno. E così, senza trovare più coordinati,
efficaci e moderni correttivi per il superamento del divario Nord-Sud,
è stato cancellato l'intervento straordinario.
La questione
meridionale è stata di fatto rimossa, con un evidente concorso
di colpa della classe politica, di quella meridionale in particolare,
che a Roma ha finito per sostenere i poteri forti ed uno sviluppo
economico disarticolato che marginalizza tuttora il Sud dall'economia
reale. Con la conseguenza che lo Stato interviene ancora nel
Mezzogiorno con politiche assistenziali e di tamponamento (vedi la
trovata dei lavori socialmente utili) con le quali cerca di sgonfiare
la collera dei disoccupati storici di ieri e di oggi.
Del manifesto di Eboli, come dell'incontro di Teano non si parla
più, mentre riecheggia il solenne «giuramento» fatto
ai lombardi dal presidente Formigoni, che potrebbe costituire un
inquietante segnale del ritorno di egoismi regionali. Le Regioni
locomotiva dello sviluppo del Nord correranno sempre di più sui
mercati europei, mentre quelle meridionali, siano esse guidate dal
centrodestra o dal centrosinistra, continueranno ad avere solo
comprensione e solidarietà (astratta) dal Paese e dall'Europa.
Oggi che il Novecento è diventato «il secolo
scorso», possiamo ripercorrere la storia dell'azione
meridionalista, identificarne le zone d'ombra e i successi davanti ad
uno scenario del tutto nuovo, che vede protagonisti tre figure
imponenti: il federalismo, la transizione dalla seconda alla terza
Repubblica, il nuovo meridionalismo, che potrebbe anche trovare una
linfa vitale nella rivisitazione del liberalismo, in una analisi
attenta dell'attuale stato delle classi sociali e del pensiero politico.
Nei giorni scorsi a Roma, una mostra intitolata «Il cammino della
libertà» ha riproposto un serie di riflessioni
sull'età liberale, ha ricordato come il liberalismo sia stato
avversato e ignorato per tutto il Novecento e ha dedicato un'intera
sezione alla solitudine dei liberali nel secolo scorso, soffermandosi
non a caso si sofferma su quattro grandi nomi: Luigi Einaudi, Eugenio
Montale, Benedetto Croce e Luigi Sturzo. Se Einaudi intitolò
Prediche inutili una raccolta dei suo scritti, Benedetto Croce tuonava
dalla sua biblioteca di via Mariano Semmola contro ogni forma di
autoritarismo: «Laddove il liberalismo va incontro all'avvenire,
l'autoritarismo porta impresso in ogni suo atto il carattere del
transitorio e provvisorio». Ma perché una mostra sulla
storia del liberalismo all'inizio del terzo millennio?
Penso che in una
fase di transizione come questa, alcuni dei principi che hanno dominato
il pensiero dei secoli scorsi possano essere riproposti in una chiave
di lettura moderna. Anche perché il liberalismo sta tornando ad
essere una moda culturale che ha una sua ragione precisa: davanti ad un
quadro di disgregazione delle idee, a sinistra come al centro, il
liberalismo ripropone una sua rivisitazione perché «la
religione della libertà» non conosce tramonto.
La mostra, dopo l'esposizione romana, farà tappa a Napoli nel
prossimo dicembre. Davanti alla grande tradizione del pensiero
liberale, Napoli infatti non è stata a guardare, dandoci non
solo Vico e Benedetto Croce, ma offrendo nella sua storia millenaria
esempi-simbolo di ricerca della libertà. Dunque, Napoli
città-laboratorio, Napoli città-pensiero, Napoli
città universitaria che, con le sue intelligenze e le sue
personalità scientifiche, ha continuato ad indicare il cammino
verso ideali e verso nuove frontiere. Non so se Guido Dorso
ristamperebbe oggi la sua Classe dirigente meridionale senza una serie
di aggiornamenti dell'autore...
Da vent'anni, in quel Palazzo che fu di
Gennaro Serra di Cassano, nel solco della scia lasciata da Croce e da
Raffaele Mattioli, Gerardo Marotta, innamorato dei libri e della
cultura, ha fatto nascere quel gioiello di intellettualismo europeo che
è l'Istituto italiano per gli studi filosofici. In questi stessi
ultimi venti anni, esponenti di prestigio della società
napoletana e meridionale sono stati chiamati alla guida di grandi
organizzazioni nazionali ed europee delle professioni e
dell'imprenditoria. Ed è di questi anni lo sforzo, spesso vano,
ma anche con risultati talvolta incoraggianti, di costruire una classe
imprenditoriale meridionale tale da portare tutto il Sud verso i
traguardi cui ha il dovere di aspirare.
Allo stesso tempo e per altro aspetto, Napoli sta vivendo il
«fenomeno Bassolino», che è del tutto anomalo
rispetto alle altre situazioni italiane e la spiegazione è,
forse, ancora una volta nella storia, che ci aiuta a capire il
perché di certi fenomeni che, alla fine, appannano l'immagine
stessa e i meriti che obiettivamente hanno uomini di prestigio, che pur
hanno dato molto alla città, anche se a proprio modo.
Nella
Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, c'è un passaggio
che descrive l'arrivo a Napoli dei nuovi regnanti: lanciavano monete
d'oro e d'argento e la gente accorreva e non aveva importanza se erano
austriaci, francesi o spagnoli. C'erano infatti due buone ragioni per
applaudire: le monete d'oro e d'argento e la possibilità di
credere in un mito, di dare una sembianza fisica allo Stato. Dopo
Federico II, il senso dello Stato nelle Regioni meridionali si è
affievolito; con gli Angioini, gli Aragonesi e gli spagnoli dei
Vicerè è stato addirittura relegato in soffitta. Poi
vennero i Borboni e lo Stato continuò ad essere lontano.
Con i Savoia, oltre che lontano, divenne un ectoplasma. L'Unità
fu una vicenda di straordinario rilievo storico e politico, rilanciato
dall'ampio schieramento moderato di centrodestra con il
«nuovo» incontro di Teano, con una filosofia diversa e
certamente molto più vicina a quella del liberalismo che
vogliamo per il futuro. Nel dopoguerra le figure che hanno avuto
seguito a Napoli hanno in realtà continuato le sequenze
descritte da Colletta. Ogni volta i napoletani hanno dato il loro
consenso ad un personaggio che esprimeva qualcosa della
«napoletanità», come direbbe Raffaele La Capria.
Una rilettura del saggio di Percy Allum ci aiuterebbe a comprendere il
fenomeno Bassolino, che forse è già sulla china del
giorno dopo e segnando, col contestato e contrastato passaggio alla
Regione, la fase finale dei fuochi d'artificio, che hanno accompagnato
il ritorno di immagine di Napoli sulla ribalta internazionale come
luogo di meetings e di straordinari percorsi museali, ma con il
bagaglio dei suoi grandi problemi irrisolti, in quel ventre di cui
scriveva Matilde Serao.
È tempo che l'anima di Napoli riaffiori.
Ormai il sole, il mare e le canzoni non bastano più se vogliamo
evitare il rischio - come ha scritto recentemente Biagio de Giovanni -
che il popolo di Napoli torni ad essere plebe, con una borghesia
incapace di mettere la passione e l'intelligenza al servizio della
causa comune. Napoli ha bisogno di tornare ad essere una capitale
europea ed ha cominciato ad avere i numeri per esserlo almeno come
capitale della cultura.
Il secolo che si è aperto sarà ancora e di più il
secolo del grande confronto tra il Nord ed il Sud, nel quale il nostro
ruolo non potrà limitarsi a quello di grande regolatore del pur
devastante fenomeno dell'immigrazione verso il Nord, ma dovrà
portare le nostre capacità di lavoro nei paesi del Mediterraneo,
a favore delle aree più deboli, creando reali e proficue osmosi.
Anche così si realizza la libertà. Thomas Jefferson, il
grande presidente americano che raccolse l'eredità di George
Washington, volle che sulla sua tomba fosse scritto: «Dio ci ha
dato la vita, Dio ci ha dato la libertà». Sono parole,
concetti che hanno guidato la crescita del nuovo mondo e che hanno
ancora seguaci tra i credenti in quella «religione della
libertà» che, dal centro storico di Napoli, Croce diffuse
nell'Europa del secolo decimonono.
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