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Per giudicare le opere di un autore a volte basta seguire la sua carriera. Con le sue presunte rivelazioni - niente altro che una glorificazion dell'operato di Cavour e della diplomazia sabauda - Nicomede Bianchi si spianò la strada verso un fulgido futuro:

  • nel dicembre 1870 fu nominato direttore capo del R. Archivio di Stato di Torino, carica che ricoprì per oltre diciassette;
  • fu uno dei primi venti consiglieri della Società Italiana degli Autori ed Editori;
  • fu senatore del Regno d'Italia nella XIV legislatura.

La sua opera principale "Storia documentata diplomazia europea in Italia dall’anno 1814 all’anno 1861" offre una notevole mole di materiale documentale certamente utile. La sua preoccupazione nell'utilizzarlo è sempre quella di sottolineare le sagaci mosse dei diplomatici piemontesi - non a caso gli furono spalancate le porte dell'archivio di Napoli dal Lamarmora - e la inconcludenza di quelli napoletani. Facile esercizio, da vincitore, nei confronti dei vinti.

Non si può, comunque, prescindere dalla sua opera se si vuole comprendere la unificazione di questo paese.

Zenone di Elea - ottobre 2010


STORIA DOCUMENTATA
DELLA

DIPLOMAZIA EUROPEA IN ITALIA
DALL' ANNO 1814 AL L'ANNO 1861
PER

NICOMEDE BIANCHI
VOLUME VII.
Anni 1851-1858
DALLA SOCIETÀ L'UNIONE TIPOGRAFICO EDITRICE
TORINO
Via Carlo Alberto, N° 33
casa Pomba 1870 NAPOLI (Deposito)
Strada Nuova Monteoliveto, N° 6



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CAPITOLO PRIMO

Sommarlo

Persistenza dell'Austria d'aggregare tutte le sue provincie alla Confederazione germanica - Pratiche diplomatiche opposte della Francia, dell'Inghilterra, della Russia e del Piemonte - Nuovi impulsi del Gabinetto di Vienna per concludere una Lega austro-italica - Osservazioni del papa e del cardinale Antonelli - Inciampi positivi dal re di Napoli - Tentativi infruttuosi dell'Austria per superarli - Pressioni imperiali sulle Corti di Roma, di Parma, di Firenze - Pratiche per la lega doganale tra le Corti di Vienna e di Modena - Intendimenti dell'Austria intorno le strade ferrate italiane - Modi usati verso i Governi di Modena, di Parma, di Firenze e di Roma per averli assenzienti - Pratiche per una lega doganale austro-italica - Osservazioni.

PARTE 1

I.

Al principio dell'anno 1851 l'imperatore Francesco Giuseppe e i suoi ministri persistevano nel proposito di incorporare alla Confederazione germanica tutti i paesi soggetti all'Austria. Ma non meno tenace era l'opposizione del principe Luigi Buonaparte all'attuazione d'un disegno, che avrebbe retrospinto la Francia in condizioni peggiori di quelle in cui erasi trovata prima della pace di Westfalia. E poiché i benevoli consigli non erano stati sufficienti, i legati della Repubblica francese presso le Corti di Vienna e di Berlino fecero sapere che la pace europea verrebbe ben tosto compromessa ove non si lasciasse in abbandono una pratica così contraria al diritto

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pubblico europeo (1). Nell'affermar ciò la diplomazia francese era sul vero, da che slava fuor d'ogni dubbio che il paltò costitutivo della Confederazione germanica era una parte integrale dell'atto finale del Congresso di Vienna.

Che se per gli accordi stipulati nel 1820 dai plenipotenziari degli Stati tedeschi federali si era introdotta la facoltà di mutare i limiti territoriali della Confederazione, col far ciò si era mirato solamente ad aprire il varco all'ingresso nella Confederazione a tutti i popoli di sangue germanico, riservato sempre l'assenso dei maggiori potentati, non potendo esser lecito ai soli governi tedeschi di alterare trattati rogati in comune dall'Europa. Il pretesto messo in campo dal Gabinetto di Vienna che, volendo dare unità d'organamento politico alla monarchia, trovavasi al bivio o di uscire dalla Confederazione o di aggregarvi tutte le provincie, non aveva un valore giuridico, essendo la Confederazione indissolubile per patto europeo. Strana poi usciva la dichiarazione austriaca, che bisognava ringagliardire la Confederazione germanica per alzare un argine all'irrompente fiumana della rivoluzione, mentre col volere far ciò si metteva in pericolo la pace d'Europa.

La conservazione della quale grandemente interessando alla Russia e all'Inghilterra, Luigi Napoleone se ne servì di leva per averle compagne a impedire all'Austria di progredire nel tentativo d'assicurare la guarentigia armata della Germania al suo dominio sopra i paesi bagnali dalla Theiss e dal Po.

Il Gabinetto di Torino non era rimasto inerte. I legati sardi residenti a Londra, a Parigi, a Berlino, dietro gli

(1) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Vienna, 3 febbraio 1851.

- Dispaccio Brenier al ministro della Repubblica a Dresda, Parigi 23 febbraio 1851. - Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Berlino, 11 febbraio 1851.

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ordini ricevuti, avevano dato opera solerte a mandar guasta una pratica che tendeva a ridurre gli Stati italiani vassalli necessarii dell'Austria per una ineluttabile preponderanza d'armi (2). Massimo d'Azeglio, onde riuscir meglio nell'intento, fece compilare un memoriale; ma prima di comunicarlo ai potentati amici della Sardegna, volle il parere del Gabinetto di Londra. Palmerston rispose: -

È un lavoro ben redatto; ma negli affari di questo genere bisogna esaminare l'utilità del proposto fine, quindi la bontà dei mezzi prescelti a raggiugnerlo.

In quanto all'utilità, la credo al presente svanita, da che per recenti notizie l'Austria indietreggia. In quanto alla bontà dei mezzi, l'Austria ne piglierebbe pretesto per dar corso alle sue accuse contro le vostre ambizioni sulla Lombardia. Tenete quindi per ora in serbo questo memoriale: se verrà l'urgenza di farlo conoscere, Io comunicherete ai Governi che vi sono più amici (3). - Questo caso non si presentò. Dopo l'arrivo a Pietroburgo d'un agente segreto del Presidente della Repubblica francese che portava allo czar la dichiarazione che la Francia verrebbe irreparabilmente strascinata alla guerra dall'ingresso che l'Austria facesse con tutte le sue Provincie nella Confederazione germanica, Nicolò scrisse di mano propria all'imperatore Francesco Giuseppe che bisognava ben guardarsi dal suscitare difficoltà al Gabinetto parigino nelle sue relazioni internazionali, e che anzi conveniva aiutarlo a conservar la pace, e importava non dimenticare i servigi segnalati che il principe Luigi Napoleone aveva reso e poteva rendere alla causa dell'ordine europeo, minaccialo sempre dalla rivoluzione.

(2) Dispaccio Azeglio, Torino 17 maggio 1851. - Dispacci Ricci al ministro degli affari esteri in Torino, Berlino 3 e 10 giugno 1851.- Dispacci Revel, Vienna, 13 e 17 agosto 1851.

(3) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Londra, 20 agosto 1851.

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Il Gabinetto di Londra non aveva pretermesso i più vivi e risentiti reclami a Vienna, a Berlino, a Dresda nel senso delle protestazioni francesi (6); onde il principe di Schwarzenberg si trovò forzato a desistere nei primordi del 1852 da un tentativo, sconsigliato dalla Russia, mal sopportato dai minori Stati tedeschi, osteggiato dalla Francia e dall'Inghilterra (5).

Durante il tentativo d'acquistare all'Austria un predominio assoluto nella Germania, Schwarzenberg da un altro lato si adoperava con uguale alacrità intorno alle cose d'Italia. Ricorderà il lettore le prime pratiche segrete fatte sottomano dal Gabinetto viennese per avere piena la balìa dei governi di Parma, di Modena, di Firenze, di Roma e di Napoli. A renderle più attive, nel febbraio del 1851 il Presidente dei ministri austriaci scrisse all'ambasciatore imperiale in Roma ch'egli aveva acquistato la certezza che Palmerston, nemico sempre instancabile della quiete degli Stati pontifici, maneggiavasi a turbarla con proposte di riforme politiche. Ciò essere un tristo spediente per seminare nuovi germi di discordie civili e di torbidi rivoluzionari sul suolo appena rassodato a tranquillità della penisola italiana. Volevano i principi italiani riparare in tempo utile i nuovi guai che loro apparecchiava il Gabinetto inglese? non tardassero a stringere in un sol fascio i propri consigli e le proprie forze (6). Spinti dalla sferza della paura i plenipotenziari del duca di Modena e del granduca di Toscana furono in breve a Roma, dove l'Austria aveva assentito che si raccogliessero

(4) Dispaccio Ricci, Berlino 10 marzo 1851. - Dispaccio Revel, Vienna 15 gennaio 1852.

(5) Memorandum del Governo francese, 5 marzo 1851. - Dispaccio Palmerston all'incaricato d'affari inglesi in Vienna, 17 marzo 1851.- Nota Cowley al Presidente della Dieta germanica, Dresda 9 luglio 1851.

(6) Dispaccio Schwarzenberg, 17 febbraio 1852.

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le conferenze per la lega segreta. A non perdere tempo nell'aspettare gli oratori parmense e napoletano, fu convenuto che frattanto Baldasseroni sbozzasse i capitoli preliminari della confederazione. Eccoli nella loro sostanza: - Lo Stato pontificio, il regno delle Due Sicilie, il granducato di Toscana, i ducati di Modena e di Parma collegavansi sotto gli auspici del Padre comune dei fedeli in unione perpetua per la conservazione vicendevole, per il mantenimento della tranquillità pubblica, e per il maggiore vantaggio degli interessi economici e politici dei popoli che li costituivano. Si provvederebbe di pieno accordo e progressivamente alla possibile unificazione degli ordini politici e dei codici. Nell'attuare per l'avvenire provvidenze moderatrici della monarchia assoluta, esse non verrebbero spinte oltre a un Consiglio di Stato con volo consultivo, scelto dal principe. Che se per necessità politica si dovesse oltrepassare questo limite da qualcheduno dei Governi federali, dovrebbe, a mantenere il buon accordo, ragguagliarne gli altri in tempo utile. La conservazione e la difesa della religione cattolica, la tutela del principio d'autorità, la protezione vigilante della moralità nel paese, della podestà paterna nelle famiglie, e della proprietà privata, dovevano essere gli oggetti primarii e costanti delle cure assidue dei Governi contraenti. Si obbligavano pertanto ad avvalorare la monarchia temperata con leggi giuste e savie, e ad invigorirla della forza necessaria per essere rispettata; dichiaravano illegittimo il diritto delle adunanze popolari; promettevano di togliere dalle proprie leggi tutte le massime e le disposizioni che risentissero soverchiamente gli influssi democratici; s'impegnavano a combattere ad oltranza la nociva libertà della stampa periodica, e a propagare il credito della politica professala colla diffusione di diarii sussidiati.

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Senza pregiudizio alla propria indipendenza i governi associati, in via di ufficio benevolo, si comunicherebbero vicendevolmente i progetti delle leggi di maggiore importanza che nell'avvenire volessero introdurre in materia politica, civile o criminale. La polizia verrebbe ricostituita con norme comuni; e comune diverrebbe l'obbligo per i Governi federati d'aiutarsi scambievolmente a vegliare e a scoprire i maneggi dei settari, e la diffusione clandestina di stampe offensive alla religione, alla morale, al principato. Riconosciuto l'assoluto bisogno d'una forza militare ben fidata, ben disciplinata e numerosa per difendere l'ordine pubblico e la sicurezza interiore della Confederazione, gli stati che la componevano s'impegnavano di prestarsi scambievole aiuto a questo fine con tutti i mezzi che possedevano. Accettati che fossero questi accordi preliminari dai cinque Stati contraenti, essi inviterebbero l'imperatore d'Austria ad accedere alla lega per le sue provincie italiane, e ad assicurarle in pari tempo in caso di bisogno il suo appoggio morale e materiale.

Rimarrebbe aperto il protocollo per l'ingresso della Sardegna nella Confederazione ov'essa lo chiedesse, mutate le istituzioni sue che contraddicevano alle massime politiche dagli Stati federali adottale. - Il surriferito progetto tornò gradito al papa. Letto che l'ebbe, Pio IX disse: - Col volere di Dio, avremo finalmente la Confederazione contrastatami tanto dal Piemonte! - e ripetè ciò che aveva detto al Baldasseroni, che quanto più si ristringeva e s'incentrava l'azione governativa nelle cose politiche, tanto più bisognava largheggiare nelle amministrazioni municipali. Antonelli per accettarlo propose alcune modificazioni, indispensabili, ei disse, per salvaguardare massime connaturate al Governo pontificio. Volle pertanto che fosse aggiunto

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l'impegno di ricondurre l'istruzione pubblica ai veri e sani suoi principii, e che fosse guarentito ai vescovi e al clero d'assumervi le ingerenze del sacro loro ministerio. Ad istanza del segretario di Stato fu portata inoltre al progetto del Baldasseroni una modificazione di grave momento, relativa alle forze militari della Confederazione, la quale consisteva nella proposta da farsi, intavolate che fossero le pratiche con i plenipotenziari dei cinque stati, d'introdurre nell'ordinamento militare federale un corpo di truppe straniere, che per il numero e per l'esempio servisse di gagliardo nucleo alle nazionali milizie.

Praticamente Antonelli intendeva che si assoldassero ventimila uomini reclutati nella Svizzera, nella Baviera e nel Tirolo, per amalgamarli alle soldatesche toscane, modenesi, parmensi e pontifìcie, le quali, in aspettazione dei temuti eventi di Francia, verrebber poste a mantenere tranquilli i paesi tra il Po e il Garigliano (7).

I plenipotenziari di Modena, di Firenze e di Roma si erano messi d'accordo intorno ai preliminari della lega, ma non eransi per anco intesi i loro sovrani. Francesco V di Modena, che avea nella mente signoreggiante il concetto della sconfinala autorità sua sovrana, li trovò tinti di pece liberale; onde nel rimandarli al suo ministro sopra gli affari esteri, gli scrisse:

Confesso che quanto credo piaceranno le usate espressioni liberalesche al papa e al granduca, altrettanto daranno nel naso al re di Napoli e al duca di Parma, per cui non vedo ancora così sicura e incondizionata la loro firma. Spero sull'Austria sovratutto; in ogni modo quel governo pesa poco

(7) Lettera Baldasseroni al granduca Leopoldo II, Roma 18 marzo 1801. - Nota verbale Antonelli, Baldasseroni, Malaguzzi, Ilenia 1 aprile 1851. - Nota verbale degli stessi tre plenipotenziari, Roma 4 aprile 1851. - Dispaccio confidenziale Malaguzzi al ministro degli affari esteri di Modena, Roma 19 aprile 1851. - Dispaccio confidenziale Villamarina, Firenze 30 aprile 1851. - Nola Antonelli al Baldasseroni, Roma 14 agosto 1851.

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le frasi, ed è solito anche a dar polvere negli occhi, per cui esso che promise la costituzione libéralissima del 4 marzo, non si farà caso di quelle equivoche espressioni. Torno a dire che io farò un'adesione, dando una positiva e precisa interpretazione al trattato, voltandolo al mio modo di vedere (8).

Questo principe massimamente desiderava che la lega si stringesse per fini ostili alla Francia, che egli cordialmente odiava, e contro la quale confidava che ben tosto l'Europa armata si riverserebbe. Sul quale proposito infocatasi stranamente la fantasia, metteva in carta le cose seguenti, che è bene stiano registrate nelle pagine della storia a testificare che, se a quel tempo vandalicamente freneticavano le sette demagogiche, non meno vandalicamente deliravano coloro i quali dicevansi mandatarii sul trono della Provvidenza divina:

Trattandosi finalmente d'una guerra felice, non posso che ripetere che bisognerà al più presto possibile che l'armata austro-confederata italica, d'accordo coll'armata austro-confederata germanica, pongano il piede sul suolo francese e si dirigano, mentre una flotta di vapori inglesi risalisse con paixhans la Senna e si inoltrasse, sul capo dell'Idra, su Parigi, divenuta oltre la cloaca delle scelleraggini d'Europa, anche più che mai la capitale della Francia. Io non ho certo né la pretensione, né la capacità di proporre le mosse che si dovrebber fare in tale circostanza; solo dirò che desidero vivamente che, ripresa Parigi, si dia da tutta Europa una memoranda lezione ai Francesi, che la loro capitale venga trasportata altrove, che tutte le fortezze più interne vengano demolite, che quelle poste presso le frontiere vengano occupate dagli alleati, che in tutti i dipartimenti confinanti alla Germania e all'Italia vengano stabilite delle colonie militari simili a quelle stabilite dall'Austria sul confine turco; anzi proporrei che gli stessi Croati e Slavi fossero in parte ivi trasportati, rimanendo i paesi da loro colonizzati sotto i sovrani primitivi dei coloni; che la popolazione più turbolenta di tali dipartimenti

(8) Lettera del duca Francesco V di Modena al conte Forni suo ministro sopra gli all'ari esteri, Venezia 27 aprile 1851.

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fosse cacciata nell'interno della Francia, o trasportata in America; che la Francia non potesse costruire più d'un dato numero di vascelli, né fortezze; e che finalmente la Francia stessa dovesse mantenere le armate nemiche sintantoché tutto fosso regolato così, pagar le spese della guerra e della nuova colonizzazione, e demolire le fortezze di Parigi. Quanto godrei di vedere, dopo gloriose battaglie sostenute, sventolare in compagnia delle altre anco la bandiera della Confederazione austroitaliana sulle alture di Montemarte! (9).

Il duca di Parma nulla avea saputo delle prime pratiche segrete per la lega. Quando parve che fosse opportuno di metterlo a parte di esse, Francesco V scrisse al suo ministro Forni che bisognava tirarvelo entro con circospezione, essendoché egli era tutt'altro che uomo sodo e d'affari (10). Aveva piena ragione. La cura di arreticare quel giovinastro scapestrato, che insozzavasi in sollazzi e lascivie da trivio, dilapidando le finanze pubbliche, fu lasciata al granduca di Toscana (11). Carlo III aderì ben tosto, e mandò a Roma per suo plenipotenziario il barone Onesti, tristo arnese di governo. Le prime entrature fatte al re di Napoli per la lega non erano riuscite conformi ai desiderii dell'Austria. Ferdinando II anch'egli avea le sue ambizioni segrete; quindi a scavalcare l'Austria dal primato, cui mirava con quelle pratiche, tentò di scinderle in due parti, intavolando il negoziato in Napoli (12). Scartato questo partito, Ferdinando deliberò di tener modi da impedire destramente la conclusione della lega. Per togliere questo grave e im (9) Manoscritto di mano del duca Francesco V di Modena.

(10) Lettera del duca Francesco V, Massa 1° marzo 1851.

(11) Dispaccio Corsini al granduca Leopoldo II, Firenze 26 febbraio 1851.

(12) Lettere del marchese Fortunato al cardinale Antonelli, Napoli 15 dicembre 1850 e 1 febbraio 1851. - Dispaccio confidenziale riservato Bargagli al ministro degli affari esteri in Firenze, Roma 8 gennaio 1851. - Lettera Baldasseroni al Granduca, Roma 18 marzo 1851. - Dispaccio Baldasseroni al Granduca, Roma 24 marzo 1851.

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preveduto ostacolo fu mandato a Napoli Leopoldo II; ma non riuscì nell'intento. Schwarzenberg allora consigliò che frattanto i plenipotenziari degli altri Stati italiani raunati in Roma s'accordassero fra loro, poi qualcuno di essi si portasse in Napoli a far conoscere i punti convenuti, e a prender nota delle osservazioni del Governo napoletano, per veder modo di giungere a un comune accordo. Baldasseroni ebbe questo incarico. A entrar meglio nelle grazie di Ferdinando, lo assicurò che la costituzione verrebbe abolita nella Toscana. Ebbe in compenso l'approvazione dello schema della lega con alcune correzioni di poco momento (13). Il poco scaltro oratore toscano corse diffìlato a Roma, e subito si portò dall'ambasciatore austriaco per sollecitarlo a persuadere il cardinale Antonelli ad accettare le nuove proposte napoletane. Il cardinale così fece, riserbandosi tuttavia la facoltà di proporre qualche altra mutazione. Ridotte le cose a questo punto, sembrava più non rimanere che a regolare le condizioni già in massima assentite.

Ma ecco insorgere un altro inciampo di maggior consistenza. Il Governo napoletano pose sul tappeto un nuovo progetto di lega, che scassinava affatto le basi del progetto voluto dall'Austria, e già convenuto fra le Corti di Modena, Parma, Firenze, e Roma. Quel re chiedeva dai confederati una dichiarazione esplicita del pronto ristauro della monarchia assoluta nei loro Stati, escludeva dalla lega l'Austria, non accettava l'eventualità dell'ingresso in essa della Sardegna, non ammetteva la domanda d'intervento armato austriaco nel caso di gravi trambusti nel territorio della Confederazione (14). Occorreva fare un ultimo tentativo per vincere la ritrosia del re di Napoli;

(13) Lettera del re di Napoli al Granduca, Caserta 12 aprile 1851. - Lettera Baldasseroni al Granduca, Roma 24 aprile 1851.

(14) Memorandum napoletano, 30 aprile 1851.

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onde Baldasseroni scrisse al ministro napoletano sulle cose esteriori nei sensi seguenti: - Noi siamo pronti a prender l'impegno di retrocedere francamente verso il sistema del governo monarchico assoluto, tostochè si presenterà l'opportunità; ma non ci costringete a fare il salto fuor di luogo e di tempo. Non per anco sono conti i modi che l'Austria intende seguire nel riordinare l'amministrazione delle sue provincie italiane; e quindi per ora bisogna attenersi a una savia politica d'aspettazione.

Voi ci dichiarate che i Governi federati col vostro non dovranno in avvenire fare assegnamento di sorta sull'intervento armato napoletano; e intanto togliete loro di assicurarsi della cooperazione dell'Austria. I governi di Roma, di Firenze, di Modena, di Parma non si ridurranno giammai a spogliarsi volontariamente di questo aiuto, necessario per la loro sicurezza all'interno e al di fuori. E perché tagliar poi la via al Governo sardo d'entrare nella lega, mentr'è palese l'interesse comune di aprirgliene una onorata e facile? La rivoluzione latente minaccia di sconvolgere da capo a fondo gli ordini sociali e politici; grandi sono le difficoltà che assiepano i Governi italiani conservatori; è imperioso quindi per essi il bisogno d'accordi salutari. Il Gabinetto napoletano non crede egli conveniente d'associarsi ai Governi toscano, romano, modenese e parmense, di sollecitare l'ingresso dell'Austria nella lega, e d'assicurarsi il suo soccorso morale e materiale? faccia le sue riserve, ma intanto approvi e accetti le altre condizioni della unione (15). - Il re di Napoli non si mosse d'un punto dal partito preso. Il cavaliere Fortunato rispose a Baldasseroni: - Ritorni la Sardegna qual era nel suo governo

(15) Lettere Baldasseroni al marchese Fortunato, 12, 25 e 28 maggio 1851.

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prima della rivoluzione, e noi accetteremo con soddisfazione la sua alleanza intima; ora è debolezza mostrare d'aver voglia della compagnia del Piemonte, fucina ardente di tutte le mene demagogiche che travagliano l'Italia. Non si deve chiedere la cooperazione dell'Austria da poi che essa ha dichiarato di voler restare in disparte.

In ultimo era un mostrarsi dubbiosi intorno ai principii politici che si volevano addottare, col rimaner in sospeso nel proclamarli solennemente. I tempi erano tali da rendere eccessivamente ruinosa l'inerzia, e da richiedere clic con passi franchi e solleciti si procedesse al ristauro della pura monarchia assoluta (16).

Da che la pertinacia napoletana frustrava tutti gli sforzi per vincerla, Schwarzenberg consigliò i plenipotenziari congregati in Roma a tirar innanzi senza l'assenso di Napoli, e a sottoscrivere i preliminari della unione progettata. Accettato questo partito, nei primi d'ottobre 1851 fu sottoscritta una dichiarazione, che comprendeva i preliminari per una lega perpetua tra lo Stato pontificio, i ducati di Modena e di Parma, e la Toscana, coll'espressa clausola indeclinabile che l'Austria vi dovesse partecipare. Il Governo napoletano fu ragguaglialo di ciò con una nota sottoscritta dai quattro plenipotenziari (17). Ferdinando lì ordinò che non vi si facesse risposta alcuna. Così, senza concluder nulla di definitivo, si giunse alla fine del 1851. Nel qua! tempo avendo l'imperatore Francesco Giuseppe dichiarato a' suoi popoli abolita la costituzione, Baldasseroni ne prese argomento a riappiccare le sospese pratiche col Governo di Napoli per le vie più confidenziali e segrete. Una sua lettera al ministro napoletano sopra gli affari esteri dicea:

(10) Lettera del marchese Fortunato al Baldasseroni, Napoli 11 ag 1851.

(17) Nota del 6 ottobre 1851.

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Se per avventura il gabinetto di S. M. il re delle Due Sicilie non rispose alla nota del 6 ottobre 1851 per avervi scontrato avviluppate in qualche riserva massime di governo che esso avrebbe desiderato di scorgere proclamate, esplicitamente poteva ora essere soddisfatto nel suo desiderio, dappoiché per l'abolita costituzione austriaca il Governo toscano era pronto a prendere un partito deciso intorno l'abolizione dello Statuto del 188, e ad entrare poscia in accordi che annientassero le funeste vestigia lasciate dai moti liberali felicemente domati. Luigi Carafa di Traeto, incaricalo da Ferdinando del portafoglio degli affari esteri al posto del marchese Fortunato, licenziato, rispose che le lezioni dolorose del passato consigliavano il Governo napoletano di mantenere il silenzio serbato verso l'Austria e la Sardegna nell'unione progettata (18). Così andava fallito l'antico pensiero della Corte di Vienna di porre mano, per mezzo d'una lega perpetua, in tutti i consigli degli Stati italiani ritornati a monarchia assoluta per muoverli a suo talento.

Frattanto l'Austria premeva con aspro imperio i governi degli Stati italiani occupati da' suoi soldati. Nelle terre pontificie presidiate, essi continuavano a governare da padroni assoluti, facendosi pagar caro dal Governo pontificio il prezzo del prestato soccorso. Nel maggio del 1851 l'occupazione austriaca era digià costata all'erario pontificio due milioni di scudi, e censettantamila scudi alla provincia di Bologna. E poiché la spesa di ottantamila scudi per ciaschedun mese, nel 1852 ingratamente sopportata dalla finanza romana per gli austriaci ausiliari, oltre ad esser ruinosa, era anco ingiusta sorpassando di assai la spesa reale, Antonelli fece istanza onde venisse assottigliata.

(18) Lettera Carafa al Baldasseroni, Napoli 27 febbraio 1852.

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Fu chiesto in pari tempo il rimborso, come erasi pattuito, d'una vistosa somma pagata dal Governo pontificio per ispese di vestiario. Su questi punti ebbe luogo una conferenza a Fuligno tra monsignor Amici commissario apostolico nelle Marche, e il generale austriaco conte Nobili. Il risultato fu che il gabinetto di Vienna pretese un aumento per ciascun mese di diecimila scudi, e gli arretrati di questa somma fin dal primo dì dell'occupazione. Il debito incontrato col Governo pontificio fu bensì riconosciuto, ma per saldarlo l'Austria produsse a debito della Corte romana le spese fatte per il bombardamento di Bologna e d'Ancona, e le spese da farsi per riedificare i fortilizi di Comacchio abbattuti nel 187 (19).

Per il trattato di pace del 6 agosto 1849 col Piemonte, l'Austria avea ricevuto una determinata somma di moneta a titolo di risarcimento de' danni patiti, durante la guerra nazionale, dalla Corte di Parma. Non essendosi effettuato alcun rimborso ad onta di sollecitazioni iterate, nel 1852 il ministro di Carlo III presso la Corte di Vienna inoltrò una istanza energica. Schwarzenberg per risposta ordinò all'agente austriaco presso il duca Carlo di notificargli ufficialmente che, ove Ward non usasse modi più temperati, egli romperebbe seco ogni relazione d'ufficio. E poiché il Borbone di Parma rispose che il suo ministro, così operando, aveva eseguito un ordine del suo sovrano, Schwarzenberg replicò che in tal caso, se il Governo parmense non si rimettesse a quanto l'Austria avrebbe proposto, essa lo tratterebbe come potenza belligerante contro l'Austria in quella guerra, e gli chiederebbe

(19) Dispacci San Giuliano al ministro degli affari esteri in Napoli, 22 e 23 luglio 1852.

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un indennizzo proporzionato a quello pagato dalla Sardegna (20).

Nella Toscana gl'influssi austriaci non avevano più ritegno di padronanza, usufruttando le ignobili paure del granduca e de' suoi ministri. Soppressa ornai quasi del tutto la diplomazia granducale, gl'interessi toscani all'estero erano stati affidati agli agenti diplomatici dell'Austria. Un generale austriaco presiedeva al comando supremo delle scarse milizie toscane. L'ambasciatore austriaco in Firenze non riconosceva più indipendenza di sorta, nel principe e nei suoi ministri. È degno di nota il fatto seguente. Nel 1851 il barone Hugel, per festeggiare il giorno natalizio del suo imperatore, diede un pranzo di gala, al quale intervennero i ministri toscani Casigliano, Bocella, Laugier. Conforme all'uso, il primo propose un brindisi al monarca austriaco. S'aspettavano tutti che il legato austriaco ne proponesse un secondo al Sovrano territoriale. Ma egli si tenne silenzioso. Piccato e mortificato di così insolito e scortese silenzio, il duca di Casigliano dopo il pranzo ne fece chiedere il motivo per mezzo del barone Ostini. A cui Hùgel rispose che in quella occasione il granduca non era che un arciduca austriaco, cioè un suddito dell'imperatore (21). L'ignobile vassallaggio appariva in ogni cosa. Doveasi segnare una convenzione postale colla Sardegna: fastidito da lungaggini che non avevano senso per essersi messi pienamente d'accordo, Villamarina volle conoscerne l'occulta ragione, e seppe confidenzialmente che Baldasseroni arrabattavasi per vincere l'opposizione che vi faceva l'ambasciatore austriaco (22).

(20) Dispacci "Ward, Vienna 12 e 18 aprile 1852. - Dispaccio Revel al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 14 maggio 1852.

(21) Dispacci Villamarina al ministro degli affari esteri in Torino, Firenze 20 e 22 agosto 1851.

(22) Dispacci confidenziali Villamarina, Firenze 14 ottobre e 20 novembre 1851.

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Alle rimostranze amichevoli fatte dal Gabinetto eli Londra intorno alla prolungata occupazione austriaca nel granducato, il presidente dei ministri toscani rispondeva che importava avvertire essere al tutto speciali le relazioni tra la Toscana e l'Austria, sia per la parentela delle due Case regnanti, sia per le eventualità contemplate dai trattati del 1815 (23). La Toscana era fatta un feudo imperiale ed un patrimonio lorenese: in palazzo vecchio governavano prefetti austriaci colle apparenze di ministri granducali.

II

Alla lega politica e militare austro-italica il Gabinetto di Vienna voleva associata una lega doganale, intorno la quale furono da noi narrate le pratiche fino al punto in cui, per un accordo segreto tra il negoziatore imperiale e quello di Parma, il duca di Modena si trovò inopinatamente escluso dalle trattative. Con questo espediente Schwarzenberg aveva mirato a togliere di mezzo alcune velleità di Francesco V, di salvaguardare almeno in parte gl'interessi economici de' suoi sudditi. Visto che nicchiava di troppo, egli lo stimolò a muoversi coll'usato pungolo. Il Piemonte e l'Inghilterra praticavano la leva degli interessi economici per rinfrancare la rivoluzione in Italia; era necessario quindi alzar tosto anche da questo lato una diga (24). Il duca deliberò d'inviare a Vienna il conte Volo a ripigliare le negoziazioni sospese.

Lo munì di due lettere di proprio pugno, l'una per il

(23) Lettera Baldasseroni al granduca Leopoldo II, Firenze 6 luglio 1852.

(24) Lettera Schwarzenberg al duca di Modena, Vienna aprile 1851.

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presidente dei ministri, l'altra per l'imperatore. Nella prima era detto che a lui sembrava equo ohe la grande e potente Austria e Parma dovessero pur sopportare il peso della gravità dei tempi; confidare che le ragioni, le quali verrebbero addotte dal suo plenipotenziario, sarebber valutate, non volendo né potendo supporre che il Gabinetto di Vienna tendesse a porre alle strette un arciduca austriaco per costringerlo a sacrificare gl'interessi de' propri sudditi (25). Nella lettera all'imperatore il duca, esposte le vicende per cui erano passate le pratiche, concludeva con dire: - Vostra Maestà certo non permetterà che la lega daziaria debba servire d'argomento a rendere i sentimenti de' sudditi miei meno propensi all'Austria, e a disaffezionarli a me per l'aggravio di nuove imposte. Al mio Governo nulla per anco non s'è rimborsato di quanto gli compete per il trattato di pace colla Sardegna, e per altri crediti già liquidati con il Gabinetto imperiale (26). - La prima cosa che si fece balenare agli occhi del modenese plenipotenziario in Vienna fu il corrusco spettro della rivoluzione. Come l'imperatore e il suo ministro primario ebber favellato al conte Volo di prossimi sovvertimenti repubblicani, gli lasciaron intendere di non pensare a rimborsi di spese e di danni sofferti, dappoiché, se gli Stati di Modena e di Parma erano stati salvi nel 1849 da una nuova rivoluzione, lo dovevano a mezzi militari posti in moto dall'Austria (27).

Nell'affare dell'unione doganale il plenipotenziario modenese trovò una durezza intollerabile.

(25) Lettera del duca Francesco V di Modena, Venezia 2 maggio 1851.

(26) Lettera del duca Francesco V di Modena, Venezia 2 maggio 1851.

(27) Rapporto Volo al ministro degli affari esteri in Modena, Vienna 6 maggio 1851.

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L'incaricato d'affari austriaco in Modena non tardò a dichiarare in nome del suo Governo che tornava inutile la presenza del conte Volo in Vienna quando non si voleva da lui accettare le proposte austriache sul minimo dei prodotti guarentiti, e intorno le basi del riparto delle spese. Il ministro Forni rispose abbastanza dignitosamente per mostrare che, prima di rinunziare a condizioni solenni stipulale coll'Austria, il Governo di Modena era nel pieno diritto di porre un limite ai danni che lo minacciavano (28).

Prima dell'arrivo di questa nota a Vienna, vi giunsero nuove istruzioni segrete del duca al suo plenipotenziario.

Per esse il conte Volo dovea limitare a un milione e cinquecentomila franchi il minimo del riparto di prodotti per Modena;se su ciò non giungeva a conseguire l'assenso del ministero austriaco, lasciasse in disparte questo punto, e negoziasse sul resto degli articoli (29). Il consigliere aulico Kok trattava con Volo per l'Austria; egli si mostrò bensì tenace nel rifiutare il suo assenso alla domanda modenese, ma pose fuori un progetto che sembrava corrispondervi. Giunto però a casa, e fatta una prova del calcolo, Volo ebbe a scrivere a Forni, essersi accorto che il consigliere Kok lo aveva ingannato, e che il suo progetto equivaleva a una chimera (30).

Mal riuscito questo laccio, il ministro De Bruk dichiarò al plenipotenziario modenese che la proposta d'un milione come minimo era irremovibile, e non esservi quindi per lui che un solo partito, quello d'accettarla o di rifiutarla.

Nel ragguagliare il suo Governo di questa austriaca prepotenza, Volo scriveva: - Supponendo precluso qualunque mezzo di far valere le nostre ragioni, quantunque

(28) Nota Forni al conte Allegri, Modena 9 maggio 1851.

(29) Istruzioni segrete per il conte Volo, Pavullo 8 maggio 1851.

(30)

Rapporto Volo, Vienna 11 maggio 1851.

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sia amaro il sacrificare il proprio interesse e il proprio diritto non alla ragione, ma alla preponderanza del potere e all'inflessibile volere dei ministri imperiali, pure non vi ha nessun buon suddito di S. A. R., nessun buon modenese, il quale, conosciute bene le circostanze, non opini che la lega debba farsi, e che per conseguenza debba accettarsi il milione (31). - Bisognava almeno salvar le apparenze del proprio decoro. A questo fine il conte Forni indirizzò una nota all'agente diplomatico austriaco in Modena per dichiarare che, se il Governo estense spinto da imperiose ragioni d'alto interesse politico accettava la proposta austriaca, non intendeva nullameno di rinunziare alle ragioni che militavano in favore della sua proposta, che intendeva riprodurre, trascorso il primo periodo di tempo fissato all'unione (32). Il Gabinetto di Vienna rifiutò d'accettare questa nota; e a smuoverlo dal partito preso non valsero le spiegazioni date dal Governo modenese (33).

Il conte Volo era tornato da Vienna mal soddisfatto del procedere del conte Forni a suo riguardo: questi non era iu migliori disposizioni d'animo; onde il duca inviò a Vienna per continuare il negozialo il conte Tabarini ministro di finanza (3). Assentito il ritiro della nota modenese del 7 luglio, Francesco V e il suo ministro sugli affari esteriori si posero a insistere affinché la riserva inclusa in essa venisse posta in un articolo segreto annesso al trattato. Il Governo di Parma fin allora era proceduto d'accordo con quello di Vienna al segno che i| conte Volo aveva scritto:

(31) Rapporto Volo, Vienna 13 maggio 1851.

(32) Nota Forni al conte Allegri, Modena 7 luglio 1831.

(33) Nota Schwarzenberg, Vienna 14 luglio 1851.

(34) Relazione del conte Forni al Duca, Modena 10 luglio 1851.

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- Ward è un uomo che al danaro sacrifica il buon andamento delle cose di Parma (35). - Era vero.

La storia degli intrighi di quest'uomo, che fu per molti anni l'arbitro degli interessi dei Borboni di Lucca e di Parma, è singolare. Egli stava a quei dì tentando per sé un grosso lucro; perciò aveva bisogno di rendersi benevolo il duca di Modena; e a procurarselo, da Vienna corse diffilalo a Pavullo nel Frignano, ove Francesco V villeggiava, per dichiarargli che egli, scambiando le carte in mano all'Austria, era pronto ad accordarsi col plenipotenziario estense per esigere da essa l'esecuzione piena della convenzione del U dicembre 189, purché alla Corte di Parma venissero garantite diecimila lire italiane annue, che servissero di compenso alle franchigie doganali godute. Il duca assentì; ma l'Austria vegliava, e gli tolse il modo di cavar profitto della proposta del Ward.

Portatosi Francesco V in Germania, il Gabinetto di Vienna gli propose si patteggiasse che la convenzione del h dicembre verrebbe messa in vigore per lo Stato modenese, trascorsi otto anni. Il duca accettò, ponendovi la clausola che questo patto rimanesse invariabile anche ove, per l'adesione di altri Stati italiani, diminuissero le spese assegnate alla finanza estense. Nel ragguagliare su ciò il suo ministro sopra gli affari esteriori, Francesco scrivevagli: - Noi otteniamo ciò che ci fu promesso nel 189; e per assicurarcelo non dobbiam esitare a prolungare per quattro anni di più una parte dei sacrifizi che già eravamo deliberati d'imporci per il primo periodo. Sono, è vero, otto anni di aspettazione; ma almeno avrò stabiliti gli interessi del mio Stato sopra buone basi (36). - Vanti e calcoli chimerici! egli aveva

(35) Rapporto Volo, Vienna 8 maggio 1851.

(36) Lettera del 29 luglio 1852.


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accettata una lega, la quale in realtà era un tributo assai oneroso dei ducati di Modena e di Parma all'Austria, per una tariffa daziaria che soltanto vantaggiava il tesoro imperiale.

Questo trattato, stipulato addì 9 agosto 1852, fu dichiarato durevole per quattro anni e nove mesi a cominciare dal 1° febbraio 1853. Si doveva intendere prolungato di quindicennio in quindicennio, ove non venisse disdetto in tempo utile. Venivano tolte le linee daziarie Ira i ducati e il territorio doganale austriaco. Detratte dal prodotto lordo le comuni spese, si determinerebbe la somma da incassare da ciascheduno dei tre Governi, restando pattuito che, per il primo riparto, l'Austria pel regno lombardo-veneto preleverebbe dodici milioni di lire imperiali, un milione e cinquecentomila Modena, un milione e trecentomila Parma. 1 ducati aderivano al trattato di commercio del 18 ottobre, e alla convenzione per la repressione del contrabbando del 23 novembre 1851, stipulati dall'Austria colla Sardegna. Essi impegnavansi inoltre a sottoscrivere la convenzione che la Corte di Vienna fosse giunta a concludere colla Santa Sede per allargare il territorio della lega; e, ad eccezione di pochi casi, facevano piena facoltà al Gabinetto di Vienna di negoziare e concludere trattati di commercio e di dogane con altri Stati tedeschi o italiani anche in nome loro, per annetterli alla lega patteggiata. Gli abitanti dei ducati all'estero venivano posti sotto la protezione dei consoli austriaci, meno per quei di Parma in que' luoghi dove la tutela fosse già esercitata dai consoli napoletani. Un articolo segreto annesso al trattato, stabiliva che, se gli Stati dell'unione doganale germanica oppure il Piemonte, appoggiandosi ai rispettivi trattati conclusi coll'Austria nell'ottobre 1851 e nel febbraio 1853, dichiarassero di non riconoscere il trattato stipulato tra le Corti di Vienna,

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di Modena e di Parma per una perfetta unione doganale, e pretendessero conseguentemente d'avere gli stessi favori che elleno vicendevolmente s'erano accordali, l'Austria (in d'allora assumeva l'impegno di contrastare a cotali pretese; e se non riuscisse ad acquetarle, rimaneva inteso che in tal caso, senza alcun bisogno di una precedente denunzia, il trattato rimaneva annullato.

III.

L'Austria cercava sempre la propria utilità, e null'altro, nel vincolare a sé per trattati gli Stati italiani tornati agli antichi principii di governo. Così nel condurre accordi con essi per la costruzione di strade ferrate, il Gabinetto di Vienna era guidato dal recondito pensiero di tirar le cose al punto da far costruire una ferrovia che lo mettesse in grado di dominare militarmente lo Stato romano e la Toscana, di custodir meglio le coste dell'Adriatico, d'isolare l'esercito napoletano dal piemontese, di non lasciar tempo, nel caso di gravi trambusti in Italia, ai rivoluzionari della parte meridionale d'agire di comune accordo coi sollevati popoli della regione settentrionale, e ove la lotta fosse contro un'invasione straniera, d'allontanare o rendere più tarda la guerra sulle rive del Po. Per ciò i ministri viennesi chiesero al Governo pontificio che s'impegnasse di vietare la costruzione sul suo territorio di qualunque ferrovia parallela alla progettata sul Bolognese, o che fosse di nocumento alla medesima

(37). Il papa e il cardinale Antonelli si rifiutarono;

(37) Dispacci del conto San Giuliano al ministro degli affari esteri in Napoli, Roma 22 marzo e 1 aprile 1851.

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onde il Baldasseroni che si trovava in Roma, ebbe l'incarico d'adoprarsi a rammollirli. Egli a nulla riuscì, e scrisse al Granduca: - Se il Gabinetto di Vienna si ostina nelle sue pretese, nuocerà a sé, a noi, al papa; ma non riuscirà sicuramente ad ottenere quell'esorbitanza, contro la quale il Governo pontificio è sostenuto anco dall'opinione pubblica (38). - Il Gabinetto di Vienna se ne capacitò, e tralasciando d'opporsi alla costruzione di una ferrovia che da Bologna si stendesse ad Ancona per legar quindi questa città con Roma e Civitavecchia, si restrinse a chiedere che il Governo pontificio s'impegnasse a congiungere, nel più breve spazio di tempo, alla ferrovia centrale sanese l'anconitana diretta per Roma (39).

Per gli accordi ulteriori s'intavolarono conferenze in Roma, dietro le quali i Governi austriaco, pontificio, toscano, modenese e parmense segnarono il primo maggio del 1852 una convenzione per la costruzione d'una ferrovia, che denominala strada ferrata dell'Italia centrale si staccasse per l'una parte da Piacenza, corresse lungo il territorio di Parma e di Reggio, e per l'altra parte, partendo da Mantova, procedesse pure fino a Reggio, e di là per Modena, Bologna, Pistoia e Prato, per innestarsi nell'una e nell'altra di queste due ultime città alle ferrovie toscane. L' Austria avea ottenuto il segreto suo intento, e se lo era assicurato nell'avvenire per una clausola introdotta nella convenzione onde rimaneva vietata qualunque altra concessione di ferrovie in tutta la distesa del territorio allacciato colle linee delle strade pattuite. Inciampi gravissimi insorsero alla costruzione

(38) Lettera Baldasseroni al Granduca, Roma 17 marzo 1851.

(39) Dispaccio Hiigel al conte Esterhazv in Roma, Firenze 27 marzo 1851.

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delle medesime: se ne prevalse l'astuto ministro parmense Ward per indurre il duca Carlo III ad accordare ai Grandell di Londra il privilegio di tre ferrovie sul territorio del suo Stato (40). Era un principe vassallo che ricalcitrava: bisognava ridurlo tosto all'obbedienza, ponendo mano agli usati efficaci rimedii. Il conte Buol, che aveva preso l'uffizio di ministro sopra gli affari esteri in Vienna, scrisse al duca di Modena che il privilegio delle ferrovie parmensi concesso ai Grandell era un anello della catena dei maneggi con cui l'Inghilterra si studiava di preparare la rivoluzione in Italia; bisognava quindi agire in comune e con grande energia a sventare un disegno gravido di pericoli per la quiete dell'Italia settentrionale e centrale (41). Mentre il duca di Modena operava da parte sua per togliere al progetto dei Grandell la possibilità d'essere attuato dal lato della Lunigiana, il Gabinetto di Vienna ponevagli contro ostacoli insormontabili dal lato del Po, altieramente dichiarando a Carlo III che, in vista delle condizioni politiche e militari del suo Stato di fronte all'Austria, il suo Governo avrebbe dovuto chieder prima consigli, e aspettare che si decidesse in comune intorno a un affare, che potea divenir fonte di pericoli e di danni (42). Il Gabinetto di Vienna usava ugual rigidezza d'imperio verso gli arciduchi austriaci, che stavano sui troni di Firenze e di Modena. perché Leopoldo II titubava nel dare il suo assenso alla ferrovia sanese, H'iigel senza relicenze gli disse che, ove non lo desse e tosto, agirebbe né da buon alleato, né da principe onesto e riconoscente (43). Più tardi Francesco V di

(10) Decreto del 12 settembre 1853.

(41) Lettera Buol, Vienna 15 ottobre 1853.

(42) Dispaccio Buol, Vienna 24 gennaio 1854.

(43) Dispaccio confidenziale di Villamarina, Firenze 21 febbraio 1852.

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Modena avendo cercato di scaricarsi d'una parte dei danni che, a dispetto dei patti stipulati, l'Austria volevalo aggravare mutando le condizioni finanziarie per la costruzione della ferrovia dell'Italia centrale, l'ambasciatore austriaco Lebzeltern gli favellò in contrario così aspro e reciso, che il duca scrisse al suo ministro sulle cose esteriori nei sensi seguenti: - Importa ponderare se conviene romperla coll'Austria, che a torto sì, ma di fatto vuol violentarci come fece colla lega doganale. Lebzeltern mi fece capire che a Vienna non muteranno in alcun caso d'opinione, e che aspettano da me un sacrifizio pel bene generale. Egli in quel momento mi parlava officiai mente, ben inteso (44). -

Alla padronanza sulla politica, sulle armi, sulle dogane, sulle ferrovie, doveva essere accoppiata nel concetto dei diplomatici austriaci quella sulle poste degli Stati italiani suoi alleati. Prima che l'anno 1852 si chiudesse, quest'ultimo risultato era conseguito per Io Stato pontificio, la Toscana e i ducati di Modena e Parma (45). Il re di Napoli, che aveva impedita la formazione della lega austro-italica negandovi il suo assenso, che si era rifiutato di sottoscrivere le convenzioni sulle ferrovie e sulle dogane, con fini pretesti si tenne eziandio fuori dagli accordi postali. Il Gabinetto di Vienna tentò in appresso di tirarvelo entro, facendo maneggiar la pratica dal duca di Modena. Ferdinando II, che si vantava eli non temere né insidie né armi di ribelli, e che non voleva pastoie di sorta al suo imperio dispotico,

(44) Lettera di Francesco V al conte Forni, Pavullo 11 settembre 1855.

(45) Note Forni, Modena 7 febbraio 1851 e 10 febbraio 1852. - Dispaccio dell'incaricato d'affari austriaci in Modena, 8 ottobre 1852.

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simulò di assentire, ma pose in campo pretensioni che non erano accettabili (46).

Questi fatti aggruppati diventano di gran rilievo, e sono degnissimi di studio, imperocché porgono la chiave a conoscere la politica seguita sistematicamente dall'Austria nelle cose italiane. Nell'esaminarli pare d'essere tornati col racconto agli anni prossimi ai congressi di Lubiana e di Verona. È ricomparso l'ambizioso pensiero di rendere la Germania e l'Italia vassalle dell'Austria, Per esercitare una egemonia indefinita e prepotenti influenze, la diplomazia austriaca torna a rimetter in campo gli antichi pretesti di dovere e di diritto dei maggiori potentati di proteggere negli Stati minori il libero esercizio dell'autorità legittima, e d'aiutarla a cancellare la traccia dei sofferti sconvolgimenti politici.

L'immagine minacciosa della rivoluzione è pur sempre posta dinanzi agli occhi de 5 principi, tenuti in dura tutela, al minimo atto di risentimento o disobbedienza. Sono identici gli esempi e i consigli di governo: ridurre ogni cosa alle antiche forme d'impero assoluto, e punire come delitto di Stato il semplice desiderio di libertà se palesavasi. Era una politica inevitabilmente feconda di ruine, incapace di maturare qualche buon frutto degno d'essere menzionato. Le apparenze splendenti sotto cui presentavasi, potevano solo lusingare uomini di Stato di corta vista. Del che prenderemo solenni documenti nel progresso di queste istorie.

(46) Nota Forni al duca di San Paolo, Modena 8 aprile 1853. - Lettere confidenziali Forni all'ambasciatore austriaco in Firenze, Modena 20 maggio 1853, 16 giugno, 30 settembre 1854.

CAPITOLO SECONDO

Sommario

Le Corti di Roma e di Firenze riprendono le pratiche per un concordato - Primo inciampo - Conferenze in Roma tra il cardinale Santucci e il ministro Baldasseroni - Accordi - Concerti verbali segreti - Susseguenti dissapori tra la Curia romana e il Governo fiorentino - Pio IX divenuto consigliere di Leopoldo II - Dissenso tra questo Sovrano e i suoi ministri - Intrighi clericali - Vassallaggio del Granduca verso la Corte romana - I coniugi Mudai - Accordi religiosi e politici ira l'Austria e la Santa Sede - La questione religiosa nel reame sardo - Speranze d'accordi con Roma - Nuove cagioni di dissapori - Gran desiderio del Governo piemontese di negoziare un concordato - Assenso pontificio - Istruzioni date al cavaliere Bertone di Sarnbuv - Accoglienza fattagli da Pio IX - Negoziazioni - Effetti sulle medesime della presentazione al Parlamento sardo d'una legge sul matrimonio civile - Conseguenze d'uno scarto diplomatico del marchese Spinola - Pratiche della Sardegna a mitigare i corrucci romani - Intromessione della diplomazia francese - Maggiori acerbezze della Corte romana - Tentativi del Governo piemontese per mitigarla - Lettera del re al papa - Risposta di Pio IX - Lettera del cardinale Antonelli all'arcivescovo di Chambery - Contegno di Massimo d'Azeglio - Effetti degl'intrighi clericali - Mutamento di ministero in Piemonte - Osservazioni - Pratiche per un ministero Balbo - Rivelazioni storiche - Ministero Cavour - Considerazioni - Invio in Roma per parte della Sardegna del conte di Pralormo - Relativa circolare del ministro degli affari esteri - Accoglienze fatte in Roma al nuovo oratore della Sardegna Sospensione d'ogni negoziato - Insistenze del cardinale Antonelli - Risposta del Pralormo - Nuove malevoglienze della Corte di Roma - Invio in Roma d'alcuni vescovi piemontesi - Effetti della presentazione nel Parlamento sardo d'una legge sulle Corporazioni religiose - Monitorio pontificio - Contegno in proposito del ministero Cavour - Difficoltà e pericoli - Proposta Colobiana - Rivelazioni storiche - Scomunica pontificia - Osservazioni.

I.

Se dopo la ristorazione granducale del 189, Leopoldo li e i suoi ministri si fosser messi nel proposilo deliberato di svogliare i Toscani dal principato lorenese, non avrebbero operato diversamente da quel che fecero.

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Non soddisfatti d'avere sacrificato la franchezza dello Stato all'Austria, vollero eziandio soggettare la podestà civile all'ecclesiastica. Seguitiamoli in quest'ultimo sviamento dalle tradizioni più onorate della politica leopoldina.

Nel marzo 1850 il ministro toscano in Roma ebbe l'incarico d' avvisare il cardinale Antonelli che il suo Governo era desideroso di riprender le pratiche per un concordato (1). Il progetto toscano non piacque al papa, il quale scrisse di mano propria a Leopoldo che le trattative doveansi condurre sul capitolato concertato fra il Boninsegni e il cardinale Vizzardelli (2). Il granduca rispose che veramente sincero era in lui il desiderio di venire a un accordo colla Santa Sede nelle materie giurisdizionali; pregar solo che si volesse avere qualche riguardo ad alcune massime troppo radicate nell'opinione de' suoi sudditi per essere neglette (3).

Scontrammo in Roma Baldasseroni negoziatore per la Toscana di un'alleanza austro-italica. A lui pure fu commesso il mandato per il concordato. Il papa delegò suo oratore il cardinale Santucci, riserbata al segretario di stato la facoltà di discutere e d'approvare o rifiutar le cose concordate, prima di presentarle alla sanzione del papa. Per quanto Baldasseroni fosse proclive a transazioni, tuttavia ben tosto s'accorse che doveva maneggiare un arduo affare con chi nulla voleva cedere, e tutto pretendeva per se. - Queste sono le massime, gli disse in sul bel principio Santucci, questi i principii che la Chiesa cattolica professa; se non vi vanno a garbo, fate il piacer vostro; siate protestanti anco se lo volete essere, la Chiesa non può impedirvelo; ma essa non può rinunziare

(1) Dispaccio del duca di Casigliano al marchese Barbagli, Firenze 18 marzo 1850.

(2) Lettera di Pio IX al granduca Leopoldo II, Roma 1 gennaio 1851.

(3) Lettera del Granduca a Pio IX, Firenze 10 gennaio 1851.

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alla sua dottrina, né vuol vulnerare le massime cardinali del suo giure (4). - Tuttavia nella prima conferenza il plenipotenziario pontificio si mostrò inclinato a singolare arrendevolezza: voleva scoprir terreno. Nella seconda conferenza la scena per Baldasseroni, con suo grande stupore, si mutò improvvisamente di lieta in trista.

Egli trovò il cardinale Santucci divenuto argomentatore cavilloso, minuto, negante ciò che nel primo colloquio aveva assentito, intento con moltiformi artifizi ad arreticare l'avversario nelle pastoie del gius canonico. Quando l'oratore toscano si credette giunto al termine d'una disputa tanto lunga quanto travagliosa, si trovò di fronte a una maggior difficoltà. - Siamo sulla via di metterci di pieno accordo, gli disse Santucci, intorno alle materie trattate; ma bisogna scartare l'ultimo articolo del vostro progetto, pel quale si vuol concordare che intorno alle giurisdizioni ecclesiastiche perdurino nel granducato le vecchie massime legislative per le cose non trattate nel negoziato in corso. Al contrario fa d'uopo che accettiate l'ultimo articolo del progetto del cardinale Vizzardelli, così concepito: in tutte le altre cose, riguardanti la religione, la Chiesa, il governo delle diocesi, si osserveranno le disposizioni de' sacri canoni, e principalmente del Concilio di Trento; inoltre l'ecclesiastica autorità sarà pienamente libera nelle varie incombenze del sacro suo ministerio. - Baldasseroni tentò smuovere questo grave ostacolo, maneggiandosi a indurre il plenipotenziario pontificio ad accettare il compromesso d'escludere dal capitolato l'uno e l'altro articolo. Santucci rimase irremovibile, dicendo e ripetendo che il silenzio della Santa Sede sulle materie non concordate si poteva interpretare

(4) Lettera Baldasseroni al Granduca, Roma 17 marzo 1851. - Dispacci Baldasseroni al consigliere Bologna, Roma 18 e 28 marzo 1851.

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come un'acquiescenza della Chiesa intorno le medesime (5). Il ministro Bargagli era presente; egli si portò dall' Antonelli per pregarlo a intervenire alla terza conferenza. - E piaccia a Dio, scriveva al ministro Corsini, qualora ci trovassimo d'accordo, che sia questa l'ultima prova di tolleranza; del che sono sempre in dubbio, stante la poca autorità dell'Antonelli presso il pontefice in cose teologiche e canoniche, per cui temo o che si troverà più rigido l'Anlonelli che altri del mestiere, o se franco, debba poi volersi la sanzione d'un teologo e d'un canonista (6). - L'intervento dell'Antonelli nella terza conferenza giovò. Dopo una lunga discussione, al battere della mezzanotte del 27 marzo 1851, si stabilì un pieno accordo tra le due parti, recedendo l'una e l'altra dall'ultimo articolo da inserirsi nel capitolato, sotto la clausola ch'esso non assumesse la forma d'un pieno concordato (7). A una parte del ministero toscano parvero esorbitanti le concessioni fatte dal Baldasseroni alla Corte di Roma (8). Essa non si tenne così nel tirato da non fare, dietro nuove istanze, una qualche concessione; ma in compenso chiese che nella convenzione si richiamasse la bolla pontifìcia condannatrice del sinodo di Pistoia del 1786 (9). Mentre gli altri ministri toscani ricalcitravano di subire questa condizione, ch'essi appellavano legge tropo dura, Baldasseroni scrisse al Granduca: - Io mi atterrò alle ingiunzioni di vostra Altezza Reale e Imperiale, e passerò oltre per terminare una volta questo difficile affare (10). -

(5) Dispaccio Baldasseroni al Granduca, Roma 23 marzo 1851.

(6) Dispaccio Bargagli, Roma 26 marzo 1851.

(7) Lettera Baldasseroni al consigliere Bologna, Roma 28 marzo 1851.

(8) Lettere Bologna al Baldasseroni, Firenze 28 e 31 marzo 1851.

(9) Lettera Bologna al Baldasseroni, Firenze 13 aprilo 1851.

(10) Lettera Baldasseroni al Granduca, Roma 17 aprile 1851.

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Quest'atto che portava un colpo mortale all'edifizio delle massime leopoldine, fu sottoscritto addì 25 aprile del 1851 dall'Antonelli e dal Baldasseroni. Per esso l'episcopato toscano era fatto libero di pubblicare qualunque scritto relativo al sacro ministerio, libero d'usare della autorità propria a distogliere i fedeli dalla lettura dei libri contrari alla morale e alla religione, libero d'affidare la predicazione a chi meglio giudicasse, libero di comunicare a piacer suo coi fedeli e colla Santa Sede, libero insieme ai curati nell'amministrazione dei benefizi e dei beni ecclesiastici. Ai tribuni ecclesiastici rimanevano deferite le cause che si riportavano alla fede, ai sacramenti, ai riti e ai diritti chiesastici. La Santa Sede assentiva che le cause civili, nelle quali fossero interessati i chierici e le proprietà loro, venisser giudicate dai tribunali laici. Essa neanco poneva difficoltà che, per i delitti contemplati nelle leggi criminali dello Stato ed estranei alla religione, i preti fosser giudicali dai tribunali laici, purché per le pene loro inflitte si avessero luoghi a parte. Il Governo rinunziava alla regalia dei benefizi vacanti; s'impegnava di non toccare i beni ecclesiastici senza un accordo preventivo colla Santa Sede; affidava ai vescovi la censura preventiva per gli scritti di materia religiosa; riconosceva il dover suo d'impedire e rimuovere gli scandali e le offese alla moralità, alla religione e al culto; e assicurava la protezione efficace del braccio secolare ai vescovi nell'esercizio del loro ministerio. Questi patti dovevano servire di preliminari a un solenne concordato.

Baldasseroni aveva creduto di temperare tali patti così contrari all'indipendenza della podestà civile dall'ecclesiastica con alcuni accordi verbali segreti, che veramente erano importanti. Antonelli avcali assentiti, purché rimanesser tali. Per essi la libertà data ai vescovi di pubblicare scritti relativi al loro sacro ministerio,

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veniva sottoposta all'assenso del Governo ove si facesse per affissione pubblica fuor delle chiese. In quanto alla censura preventiva affidata all'episcopato, era rimasto inteso che essa si dovesse restringere alla sola materia dogmatica, pur lasciando conoscere, senza prendere alcun impegno, che ove nel granducato si ristabilisse la censura preventiva per ogni sorta di stampati, si terrebbe conto del desiderio del Santo Padre che ai vescovi fosse dato l'incarico della censura per tutte le scritture religiose ed ecclesiastiche. I vescovi potrebber bensì dare l'incarico del predicare a chi meglio loro talentasse; ma se il sacro oratore non fosse toscano, dovevano in tempo utile declinarne il nome al Governo, il quale riservavasi la facoltà d'escludere coloro che per politiche ragioni non gli garbassero. In ordine alle comunicazioni dei vescovi e dei fedeli colla Santa Sede, il plenipotenziario toscano avea dichiarato che il suo Governo non intendeva derogare al diritto del regio exequatur per le bolle e per gli atti della Santa Sede che avessero valore ed effetto nel foro esteriore. Venne inoltre stabilito verbalmente che, rispetto alle relazioni dei claustrali toscani con i loro superiori generali, rimarrebbe in vigore la convenzione dell'anno 1815. Per tutte le altre parti delle leggi toscane non contemplate negli accordi presi, e che per avventura discordassero dal diritto canonico, la Santa Sede perdurerebbe nell'antica tolleranza che, ove fosse insorto qualche caso di aperto contrasto tra le leggi civili e le leggi canoniche, il vescovo della diocesi chiederebbe al Santo Padre istruzioni e podestà di mettervi termine.

Oltre questi accordi verbali segreti, alla convenzione del 25 aprile 1851 era unita una nota, in virtù della quale rimaneva stabilito che la podestà sovrana del granducato secondo i casi avrebbe con grazie speciali

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temperato il rigore delle leggi civili per le manimorte, ogniqualvolta farlo potesse senza danneggiare interessi privati (11).

Il Governo toscano dietro questi concerti verbali, pubblicato ch'ebbe l'atto stipulalo colla Corte di Roma, con due circolari determinò i limiti entro i quali il medesimo doveva praticarsi. 1 diarii clericali schiamazzarono tosto, appuntando di sfacciata duplicità i ministri toscani; i vescovi si dichiararono offesi di cotal procedere, e il legato pontificio in Firenze vi protestò contro per nota officiale (12). Perché tanto rumore? Antonelli si era impegnato col Baldasseroni di notificare all'episcopato toscano i presi accordi verbali. I ministri toscani erano proceduti con prudenza così meticolosa, da sottoporre all'approvazione del segretario di Stato pontificio le due circolari, e da farle ristampare per includervi le sue correzioni (13). Qual altra maggior deferenza potevasi pretendere senza oltrepassare ogni più lontano limite delle sacerdotali esigenze? Baldasseroni a buon diritto ebbe tali modi per intollerabili. Antonelli, messo alle strette, dichiarò che la nota di monsignor Massoni verrebbe ritirata, e che realmente le materie indicate nelle due circolari del presidente del Consiglio dei ministri granducali erano rimaste all'infuori delle cose concordate di recente (13). Mentre il segretario di stato pontificio ciò prometteva e dichiarava per le vie diplomatiche, il papa con una lettera enciclica confortava l'episcopato toscano a tollerare l'exequatur, non riconosciuto per (14) Memoriale del presidente del Consiglio dei ministri Baldasseroni pel Ministero degli affari ecclesiastici, Firenze 7 maggio 1851.

(12) Nota di monsignor Massoni al duca di Casigliano, Firenze 17 luglio 1851.

(13) Lettera Baldasseroni al Bargagli, Firenze 20 luglio 1851.

(14) Nota Bargagli al cardinale Antonelli, Roma 21 luglio 1851. - Dispaccio Bargagli al duca di Casigliano, Roma 12 agosto 1851.

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legittimo dalla Santa Sede, fidenti nelle promesse fatte dal piissimo principe di concedere larghezze maggiori alla Chiesa tosto che i tempi, fatti più tranquilli, lo permettessero. Ad accelerarli Pio IX scombuiava la timida coscienza di Leopoldo, mettendo i suoi ministri in sospetto di non volere con sincerità l'accordo dello Stato colla Chiesa, e di trattar quindi senza prudenza e senza carità il benemerito clero lucchese (15).

Fra il Granduca e i consiglieri suoi non lardò a manifestarsi un grave screzio in siffatte materie, attinenti alla religione. Trattavasi d'abolire lo Statuto. All'infuori del Boccella, gli altri ministri proposero e sostennero che agli ebrei e agli acattolici si doveva conservare il libero esercizio sotto determinate cautele delle professioni con matricola. Leopoldo mostrò contrario avviso, e non riuscito a metter concordi i suoi ministri e a tirar dalla sua Baldasseroni, scrisse per consiglio al papa (16).

Il quale gli rispose che, se voleva esser tranquillo in coscienza, abolisse lo Statuto in modo puro e semplice, e rispetto agli ebrei e agli acattolici ripristinasse le cose nello stato antico (17). Leopoldo portò questa lettera nel Consiglio dei ministri, i quali, tranne Boccella, se ne mostrarono meravigliati. Baldasseroni e Bologna favellarono con vigore a dimostrare che si poteva esser buoni cattolici conservando, sotto prudenti cautele, nel diritto pubblico toscano l'emancipazione civile degli ebrei.

Nulla ottennero. Leopoldo cavò di tasca una cartolina, lesse alcuni testi di Santi Padri, poi vollosi ai ministri loro disse: - Mi.diano un parere per iscritto, l'invicrò al papa, che intendo sia la guida principale della mia coscienza. - Compilato il memoriale, Baldasseroni

(15) Lettere di Pio IX a Leopoldo II, 30 giugno e 14 ottobre 1851.

(16) Lettera di Leopoldo II, Firenze 14 febbraio 1852.

(17) Lettera di Pio IX a Leopoldo II, Roma 21 febbraio 1852.

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si pose attorno per persuaderò il granduca a non inviarlo al papa. La risposta che verrebbe, non sarebbe dissimile dalla prima, e cosi si complicherebbe la questione maggiormente. Un termine mezzano si poteva prendere: nel decreto dell'abolizione dello Statuto si togliesse ogni disposizione relativa agli ebrei; poi per circolari manoscritte si lasciasse loro aperta la via ai gradi accademici, coli obbligo di circoscrivere l'esercizio della professione imparata ai propri correligionari. Di questo fatto si cercasse poi d'aver tollerante la Santa Sede con una lettera a lei ossequiosissima. Che se il principe era deliberato di sottomettere all'oracolo di Roma una materia di natura affatto laica, pensasse a circondarsi d'altri consiglieri, che gli attuali non si sentivano più in grado di rimanere in uffizio (18). - Leopoldo non rispose, e partì tosto per la Maremma. Di là scrisse al Bargagli di portare al papa una sua lettera col nuovo progetto dei suoi ministri. Ma i ministro toscano in Roma doveva carteggiare nel massimo segreto col suo segretario intimo di Gabinetto. Ma i ministri non erano stati colle mani alla cintola. Baldasseroni avea scritto al Bargagli perché Io aiutasse a cavarsi fuori dall'impiccio in cui aveanlo messo gli scrupoli religiosi del Granduca. Landucci ebbe ricorso a un cavaliere Pontini; ma la sua lettera venne alle mani del papa, che la inviò a Leopoldo scrivendogli: Questa lettera è stata lasciata, non si sa da chi, nell'anticamera del mio cardinale segretario di Stato; ed io con tutta riserva la trasmetto in copia a V. A., affinché conosca che presto o tardi dovrà adottare qualche misura, che serva a garantire sempre meglio la di lei dignità, ed a confondere l'altrui debolezza. Dico debolezza, perché in sostanza credo che questa sia la sorgente principale dell'opposizione, la quale vuole ap (18) Lettere Baldasseroni al Granduca, Firenze 11 e 12 aprile 1852.

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poggiarsi sopra un fondamento di creta, quale è ai nostri giorni la popolarità (19).

Mentre il papa si studiava di conficcare ben saldi nell'animo del Granduca il sospetto e lo scredito degli attuali suoi ministri, onde, col Boccella a capo, i clericali s'impossessassero del Governo toscano, un volgare intrigo ai danni dei medesimi veniva ordito. Un cotale, console toscano e pontificio, ebbe l'incarico di redigere scritti che mettesser in voce di volteriani Baldasseroni e Landucci, onde farli pubblicare nelle effemeridi clericali di maggior grido in Francia e nel Belgio. I due ministri si ripararono in tempo utile da questo colpo vigliacco e se ne risentirono acerbamente per iscritto a Leopoldo (19). Baldasseroni gli scrisse: - Si ha ora la prova palpabile dell'intrigo; ma non si sa a nome di quale dei due padroni, il Taurel operi; non polendosi supporre che si abusi del nome di Vostra Altezza, non volendo neanco fare al Governo pontificio il torto di crederlo ordinatore e complice di simili bassezze, è per avventura il Boccella che, dissidente dagli altri ministri, dà ordini a nome del Governo; oppure è monsignor Mazzoni che a tal segno abusa dell'uffizio di cui è investito? - E concludeva così: - I miei presagi si sono verificati! La falalità ha voluto che in mezzo alla Toscana, nel 1852, si aprisse la più immonda e pericolosa delle cloache, talché o bisogna che con mano ferma ne venga ermeticamente chiusa la bocca, o chi ha senso d'onore fugga a molte miglia per non essere colpito dalle micidiali esalazioni della medesima (20). - Ma Baldasseroni serviva, se non con alta mente, certo con molta lealtà

(19) Lettera di Pio IX al granduca Leopoldo II, Roma 22 aprile 1852.

(20) Ivi.

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il d'animo un principe ingrato, che nell'intimo del cuore lo disprezzava e tenevalo in conto d'uno strumento da buttarsi via, passata la buona opportunità di usarlo (21).

Però Leopoldo non diede soddisfazione alcuna alle rimostranze de' suoi ministri (22), e tirò innanzi per la sua via, giudicandoli e battezzandoli per uomini paurosi, ambiziosi, propalatori dei segreti dello Stato, indagatori degli intimi atti del Sovrano per serbarsi in sella (23).

Egli era divenuto un principe al tutto devoto alla Corte pontificia. Al minimo lamento del papa che le cose ecclesiastiche in Toscana non procedevano come si era stabilito, Leopoldo rispondeva che non s'avesse alcun timore, che si confidasse sul suo animo religioso, il concordato avrebbe il suo pieno compimento (24). Avvenuta la pubblicazione del Codice civile, saputo che a qualche vescovo non era garbata la parte che risguardava le offese e i delitti contro la religione (25), il granduca fu sollecito a far noto a Roma che la cosa s'accomoderebbe, massime che egli aveva ordinato a' suoi ministri che spingessero fin dove era possibile le pene per tali colpe (26). Al vassallaggio austriaco s'era aggiunto il vassallaggio clericale, non men esigente ed oneroso. Il confessore del granduca gli dichiarò per iscritto che non potea ammetterlo al sacro tribunale di penitenza, ove non si dichiarasse convinto che il patrimonio della Chiesa

(21) Appunti di mano di Leopoldo II, Firenze 30 aprile 1852.

(22) Lettera del Granduca al ministro Landucci, Firenze 23 aprile 1852.

(23) Appunti sovracitati di mano di Leopoldo.

(24) Lettere riservatissime del marchese Bargagli al cav. Venturi, segretario intimo di Gabinetto, Roma 21 e 23 aprile, 14 e 21 maggio 1852. - Lettere del cav. Venturi al Granduca, 24 e 26 aprile 1852.

(25) Lettere dell'arcivescovo di Firenze e del vescovo di Fiesole al Granduca, 24 e 26 aprile 1853.

(26) Lettera del cav. Venturi al marchese Bargagli, Firenze 27 luglio 1853.

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era inalienabile per legge divina. Leopoldo ubbidì (27).

L'arcivescovo di Firenze lo minacciò di scomunica ove avesse comperato dallo Stato, senza il beneplacito della Santa Sede, foreste possedute in addietro dai Camaldolesi.

Leopoldo obbedì (28). Egli desiderava a vescovo di San Miniato il padre Alessandro Belli (29): la proposta non piacque al papa, da che gli avevano detto che il Belli era tinto di pece liberalesca (30). I ministri granducali vollero fare un tentativo per togliere dalla mente del papa questo infondato concetto; ma egli, a tagliar la via ad ulteriori pratiche, inviò l'abbate Casaretto generale dei monaci Gassinesi con una sua lettera al granduca, che, ricevutolo in segreto, rispose a Pio IX: - Io prego la Santità Vostra a voler accogliere i sentimenti della mia gratitudine per la schietta confidenza e bontà con cui le è piaciuto di pormi a parte delle sue stesse segrete informazioni, inviandomi da Roma la persona medesima da cui ella le aveva ricevute, col solo fine di chiarirmi in cosa sommamente delicata e rilevante; e torno in pari tempo a dir quello che desiderai le dicesse il padre Casaretto, cioè ch'io desisto ornai dalle premure che erano state avanzate in favore del padre Belli (31). - Da Roma giunsero lamenti perché in Toscana si pubblicavano le opere di Lodovico Muratori, e perché l'effemeride del Governo dava alcune volte notizie non sempre vere sulla salute del papa: Leopoldo, senza farne motto

(27) Lettera del sacerdote Gualberto Cattarti, cappellano maggiore di S. A. R. il granduca Leopoldo, con annesso voto sulla natura dei beni ecclesiastici, Firenze 10 luglio 1853.

(28) Lettera riservatissima Bargagli al segretario intimo di Gabinetto del Granduca, Roma 23 luglio 1853.

(29) Lettera del Granduca al Bargagli, Firenze 2 giugno 1853.

(30) Lettera riservatissima Bargagli al Granduca, Roma 7 luglio 1853.

(31) Lettera di Leopoldo II a Pio IX, Firenze 31 agosto 1853.

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a' suoi ministri, chiamato a sé il prefetto di polizia, gli ordinò la sospensione della stampa in corso delle opere del grande storico italiano, e fece divieto al diario governativo di favellare del papa senza il suo permesso (32).

Ter l'addietro lunghe e aspre contese erano passate tra le Corti di Firenze e di Roma sulla pretensione pontificia che i cardinali dovessero avere il passo innanzi allo stesso granduca; ond'era avvenuto che nessun cardinale in appresso erasi trovato nell'episcopato toscano.

Leopoldo II, stando fuori dello Stato, all'insaputa dei ministri suoi, s'intese definitivamente col papa per la scelta del cardinale Cosimo Corsi ad arcivescovo di Pisa (33). Egli non tardò a dichiarare che non poteva prender possesso della sua diocesi, fintanto che il Governo toscano operava in contraddizione ai patti concordati di recente colla Santa Sede. Per sette mesi ebbe luogo uno scambio di dispacci diplomatici, senza che il Governo toscano giungesse a persuadere la cancelleria pontificia che a torto veniva appuntato di mancata lealtà nell'eseguimento della convenzione del 25 aprile 1851. Nel luglio del 1854 il cardinale Altieri si portò in Firenze per veder modo d'assestare le cose; ma pose fuori pretensioni esorbitanti (3 k). Mentre i ministri granducali si studiavano di renderle per lo meno più sopportevoli, il papa ricorse all'usato espediente, scrivendo di mano propria al granduca. Il quale non lardò a comporre l' affare: Lettera Bargagli al Granduca, Roma 5 novembre 1853. - Lettera del segretario intimo del Granduca al Bargagli, 20 novembre 1853. - Dispaccio Centurioni al ministro degli affari esteri in Torino, 1 dicembre 1853.

(33) Dispaccio Centurioni, Firenze 1 dicembre 1853.

(34) Nota Antonelli, 7 febbraio 1854. - Note Bargagli, 9 marzo e 28 aprile 1851. - Dispacci del duca di Casigliano, 26 marzo e 2 maggio 1851.


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come voleva la Corte di Roma (35); e i ministri di Leopoldo piegarono il capo, mormorando che ogni concordato era una grande calamità (36). Maggiore calamità di tutte era il governo che essi e il principe facevano della Toscana. Alle persecuzioni politiche si erano associate le persecuzioni religiose. I soldati austriaci bastonavano persino per soldatesco umore, i preti facevano imprigionare per dissidenze religiose. Più degli altri rumoroso il fatto dei coniugi Mudai, condannati a lunga prigionia, con lavori forzati per il marito, da che erano passati al protestantesimo, e s'erano adoperati a far proseliti. Dall'Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dall'Olanda e dalla Svizzera giunsero al granduca autorevoli supplicazioni perché volesse far grazia ai Mudai: Leopoldo neanco volle udirle. Sopravvennero le sollecitazioni diplomatiche delle Corti di Londra e di Berlino; i ministri consigliarono il principe di graziare (37): egli rispose aspro e secco: - Me lo vieta la mia coscienza di sovrano cattolico. - Tuttavia furono ragioni d'interesse politico che nel marzo del 1853 indussero Leopoldo a mutare per i Mudai la pena dell'ergastolo in quella del bando perpetuo dallo Stato.

Procedendo per tali vie, Leopoldo II e i suoi ministri in realtà si erano resi benemeriti all'Italia dell'avvenire; essi avevano, con imperdonabile ingratitudine, tagliati violentemente i nodi più saldi e cari, che congiungevano il principato lorenese alla toscana famiglia.

(35) Lettera di Pio IX al granduca Leopoldo, Roma 10 agosto 1854. - Lettera di Leopoldo a Pio IX, Firenze 26 settembre 1854.

(36) Dispacci Sauli al ministro degli affari esteri in Torino, Firenze 31 novembre e 17 dicembre 1854.

(37) Lettera Baldasseroni al Granduca, Firenze 9 aprile 1852.

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II.

Nel Piemonte il ministero Azeglio non aveva suscitato la questione religiosa nel proposito deliberato di osteggiare a oltranza la Corte di Roma, tornata alleata operosa dell'Austria; bensì l'aveva scontrata inevitabile per rimanere fedele agli ordini liberi dello Stato. La moderazione usata nel l'affrontarla non era venuta meno dietro la freddezza mostrata dalla Santa Sede nelle pratiche intavolate per venire a un equo accordo rispetto alle riforme che in materia ecclesiastica il Governo del re divisava. Al marchese Spinola, inviato a Roma dopo la mal riuscita legazione del Pinelli, era stato caldamente raccomandato di non tralasciare studio né fatica a ritentar pratiche d'accordi colla Sede pontificia.

In sul principio dell'anno 1851 l'incaricato sardo scrisse a Torino che la Curia romana mostravasi proclive a più miti consigli, tornar quindi opportuno di provocare discussione pratica e determinala (38). Il ministero accolse di sbalzo il consiglio del suo legato, e tosto gli die' commissione di farne istanza per iscritto al cardinale Antonelli (39). Benevola fu la risposta del segretario di Stato. In essa era detto che la Corte pontificia desiderava si evitassero discussioni di principii, e soltanto si prendessero in esame i fatti, in ordine ai quali il Santo Padre non era alieno d'entrare in preventivi accordi confidenziali, massime per l'abolizione delle decime nell'isola di Sardegna, quand'anche fosse votata dal Parlamento la relativa legge proposta, purché il re si tenesse

(38) Dispaccio Spinola, Roma 5 gennaio 1851.

(39) Dispaccio Azeglio, 14 gennaio 1851.

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dal sanzionarla prima che la negoziazione fosse terminata (40). Accolta di buon grado tale proposta, Azeglio inviò allo Spinola nuove istruzioni ond'egli iniziasse le sue trattative per un accordo sull'abolizione delle decime nella Sardegna, e le proseguisse per ottenere una ripartizione più equa del patrimonio ecclesiastico, la chiusura d'alquanti conventi, la riduzione d'alcuni vescovadi e canonicati. L'oratore sardo, nel sollecitare tali accordi, dovea favellare e operar in modo da togliere ogni dubbio sulla bontà e schiettezza degli intendimenti del Governo che rappresentava. Dicesse egli pure al papa e ai cardinali che Vittorio Emanuele e i consiglieri della sua corona erano deliberati a mantenere illeso il retaggio venerando della fede antica contro tutti gli assalti; che se le mutate condizioni politiche del paese in modo indeclinabile esigevano riforme legate a interessi religiosi, essi desideravano e chiedevano di compierle per accordi colla Santa Sede. Non si voleva ridurre il clero in servitù dello Stato, non si appetiva l'incameramento dei beni ecclesiastici, non si disconfessava l'utilità degli Ordini religiosi. Anzi, a rimettere in credito nell'opinione pubblica i frati buoni e utili, si domandava che si togliesser di mezzo i claustrali oziosi e svogliati della vita monastica. La Santa Sede, purché il volesse, poteva aiutare il Governo regio a porre un saldo argine alla fiumana dell'opinione pubblica, indirizzata ad abbattere i ritegni ond'era impedito che per voto del Parlamento i beni ecclesiastici incamerati venissero in sussidio delle strette finanze, purché concordasse tali provvedimenti che vantaggiassero lo Stato dello sgravio avvenire di tutte le spese di culto (41).

(40) Dispaccio Antonelli, Roma 25 gennaio 1851.

(41) Istruzioni del presidente del Consiglio dei ministri al marchese Spinola incaricato sardo in Roma, Torino 3 marzo 1851.

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Il cardinale Antonelli fece buon viso a queste proposte, pur riservandosi di rispondere ufficialmente come avesse esaminato le comunicazioni dettagliate che sulle medesime il Governo sardo dovea presentare (42). Ma sotto queste benevoli apparenze, pur sempre alimentala da interessi politici irreconciliabili, stava l'avversione della Corte di Roma al regime costituzionale del Piemonte. Del quale fatto non tardarono a manifestarsi chiari segni. Nel marzo di quell'anno per necessità legislativa venne posto a partito nel Senato del regno un progetto di legge per il riordinamento dell'imposta fondiaria, che includeva la proposta intralasciabile dell'abolizione delle decime nella Sardegna. Benché il ministero fosse stato assicurato per l'indicata dichiarazione scritta dal segretario di Stato, che la discussione nel Parlamento subalpino di cotal legge non sarebbe stato un ostacolo a proseguire nei negoziati, sotto patto che il re non la sanzionasse prima d'essersi messo d'accordo colla Santa Sede; tuttavia, a impedire nuovi corrucci nella Curia romana, prima che incominciasse la discussione Azeglio commise allo Spinola di darne pronto avviso ad Antonelli, di sollecitare da lui un preventivo accordo confidenziale (43), di assicurarlo in pari tempo che il regio Governo non intendeva mancare alle promesse, e che qualunque fosse il linguaggio dei senatori sostenitori dell'abolizione delle decime nella Sardegna, esso non se ne sarebbe valso come argomento di coazione (43).

Procedendo cosi le cose, tornava lecito, e il ministero giudicò fosse utile, a maggior concordia di voti, lasciar intendere, come in Senato la discussione sulla legge

(42) Dispaccio Spinola, Roma 12 marzo 1851. - Dispaccio Azeglio all'ambasciatore sardo in Parigi, 3 aprile 1851.

(43) Dispaccio confidenziale Azeglio, Torino 4 marzo 1851.

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sovramenzionata fu in corso, che nei rapporti religiosi tra il Piemonte e la Santa Sede non esisteva rottura. La Curia romana s'indispettì di questa dichiarazione, che spuntava la miglior arme usata dai clericali a combattere gli ordini costituzionali nel reame sardo. A pronto riparo l'effemeride del Governo pontificio dichiarò d'essere autorizzata ad attestare che, non senza grave rammarico dell'augusto Capo della Chiesa, lo stato di cose fra la Santa Sede e il Piemonte rimaneva tuttavia in quelle tristi condizioni che aveano resa necessaria l'allocuzione pontificia del 1° novembre 1850 (44). Spinola ebbe tosto l'ordine di risentirsi presso il segretario di stato di una dichiarazione così malevole e ingiusta (5). In quel tempo, se alla Corte di Roma premeva di mantener viva nei cattolici la credenza che Vittorio Emanuele e i suoi ministri perduravano a dare tribolazioni alla Santa Sede, importava del pari d'aver modo, per negoziati destramente maneggiati e prolungati, di raffrenarli poi dal procedere spediti nello svolgimento delle pubbliche libertà. Il cardinale Antonelli pertanto, a pieno fidando sulla sperimentata discretezza di procedere del Gabinetto di Torino nel mantener il segreto intorno alle trattazioni diplomatiche in corso, rispose che egli ignorava appieno la dichiarazione fatta dall'effemeride romana, alla quale non si doveva dare alcun carattere officiale. E avendo Spinola osservato che per avventura essa era uscita dal Gabinetto privato del papa, da che il gazzettiere aveva dichiarato d'essere autorizzalo a dire ciò che avea stampato, il segretario di stato tolse anco ogni valore a questa supposizione, e couchiuse con dire che a quelle parole, essendo di scrittore privalo,

(44) Giornale di Roma, N u 64, 18 marzo 1851.

(45) Dispaccio confidenziale Azeglio, 25 marzo 1851,

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non si doveva dare la minima importanza. - Per la brama di venire a un accordo con Roma, Azeglio si contentò di questa magra scusa (46), soddisfatto inoltre com'era d'essersi parato a meraviglia da un altro colpo menatogli dalla diplomazia pontificia. Essa non aveva smesso il costume di seminare scredito e diffidenze verso il Gabinetto di Torino nei maggiori potentati, massime pennelleggiandolo intrattabile oppositore d' ogni equo accordo colla Santa Sede nelle cose ecclesiastiche.

Il nunzio in Parigi avea proceduto in questo contegno a segno da indurre i reggitori francesi a muover nuove rimostranze amichevoli al Governo di Torino. Azeglio lasciò che l'ambasciatore di Francia esponesse per intiero l'incarico avuto; poi a tutta risposta lo pregò di leggere undici dispacci, che gli pose in mano sorridendo. Trascorsi che gli ebbe, Butenval ringraziò il presidente del Consiglio dei ministri d'averlo posto in grado di far conoscere la verità al suo Governo, e lo assicurò che il medesimo si troverebbe appieno soddisfatto del procedere leale e arrendevole del Piemonte verso la Corte di Roma (47).

Per quanto da questi segni di malevoglienza apparisse difficile un accomodamento, tuttavia il Governo piemontese vi s'infervorò maggiormente attorno. Lo Spinola fu chiamato in Torino onde con nuovi consigli confortarlo nelle sollecitazioni che dovea fare pressanti perché si ponesse mano alle negoziazioni. A dare alla cosa più vivo impulso, il re mandò in nome suo al papa un limosiniere di Corte. Antonelli da prima rispose a voce che innanzi d'intraprendere qualsiasi pratica, la Santa Sede

(46) Dispaccio Azeglio al marchese Spinola, Torino 26 marzo 1851.

(47) Dispaccio Azeglio all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 3 aprile 1851.

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intendeva di conoscer le massime professate dal Governo sardo rispetto al valore dei concordati. Ma continuando le insistenze, il segretario di Stato scrisse allo Spinola che, mentre il Santo Padre gradiva le assicurazioni di rispetto figliale che riceveva per parte del Governo sardo, assentiva che s'aprissero trattative nella speranza che da esse fossero per risultare que' ragionevoli accordi, i quali valessero a tutelare i diritti della Chiesa e la quiete delle coscienze dei fedeli (48).

III.

Onde palesare il gradimento per l'assenso del papa a intavolare le desiderate negoziazioni, il Governo di Torino accreditò di nuovo presso la Santa Sede un inviato straordinario e ministro plenipotenziario, affidando tale ufficio al cavaliere Bertone di Sambuv (49). A ben comprendere l'andamento di tutto il negoziato fa d'uopo aver minuta cognizione delle istruzioni che a lui venner date. Egli doveva per pratiche immediate trovar modo, trattando con abili, scaltri e accorti negoziatori, d'appianare le divergenze insorte tra la Santa Sede e il Governo sardo, e in tal guisa provvedere agli interessi veri e permanenti della religione, del pari che alla tranquillità e alla prosperità dello Stato. Questo incarico era irto di grandi difficoltà, essendo che, a porre tutto il diritto pubblico ecclesiastico del regno in perfetta consonanza coi nuovi ordini liberi di governo, ostavano i principii che intorno alla libertà assoluta della Chiesa e alle sue preminenze erano tenacemente propugnati dalla Curia romana.

(48) Nota Antonelli al marchese Spinola, Roma 5 ottobre 1831.

(49) Circolare Azeglio, Torino 7 novemlirr 1851.

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Meglio quindi sarebbe per l'una e per l'altra parte sorvolare ad ogni controversia di principii, e fermandosi a valutare i casi straordinari onde la vertenza s'era originata, ricavarne i modi acconci ad appianarla. Negli ultimi tempi la Corte di Roma avea cercato di compromettere la dignità della Sardegna, erasi adoprata a screditarne il Governo presso i potentati, né s'era tenuta dal tentare d'introdurre l'intervento di stranieri influssi negli affari interni del Piemonte. Il Governo del re contro questi assalti aveva difeso l'onore e l'interesse suo con sufficiente vantaggio; né voler più rinvangare il passato, da che la Corte di Roma era venuta a più miti consigli. Volendo serbato intatto lo Statuto fondamentale del regno con tutte le sue conseguenze, non si doveva entrar di nuovo nella questione relativa alla natura e al valore de' vecchi concordati. Ove il negoziatore pontificio avesse accennato a un nuovo concordalo, si accogliesse la proposta con grande riserbatezza, e senza mostrarsi assolutamente avverso, si badasse a non prender impegno formale d'assentirvi. Frattanto si facesse intendere che, se il ministero sardo si limitava a favellare di Colle pontificie anzi che di concordato, si doveva ascrivere questo suo procedere a meglio predisporre l'opinione pubblica a far buon viso agli accordi che tra le due parti verrebbero stabiliti, ben potendosi aspettare che tutti fossero terminati per intendersi sulla forma che loro conveniva dare (50).

Il ministro per la grazia e giustizia non tralasciò di munire il nuovo oratore della Sardegna presso il papa di speciali istruzioni intorno agli argomenti di maggior rilievo da discutere: dappoiché il segretario di Stato aveva riconosciuto che una legge sul matrimonio e sullo

(50) Istruzioni Azeglio. Torino?9 ottobre 1851.

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stato civile non poteva né doveva esser oggetto di negoziati tra le Corti di Roma e di Torino, non era il caso di intavolar pratiche su di essa. Tuttavia, per deferenza verso la Santa Sede, il plenipotenziario nella prima conferenza coll'Antonelli doveva avvisarlo che il regio Governo non potea più a lungo ritardare di presentarla alla sanzione del Parlamento; se il tempo non stringesse tanto, senza difficoltà alcuna se ne sarebbe fatto conoscer prima lo schema al Santo Padre; ma da che questo non si poteva fare, s'avesse per accertato che colai legge lascierebbe intatti i doveri che la religione imponeva, pur tutelando la libertà della coscienza. Il papa aveva condannato di recente, con Breve di censura, Nepomuceno Nuvtz per alcune sue tesi di gius canonico professate nell'Ateneo di Torino. Su questo fatto il plenipotenziario rimanesse silenzioso ove il papa o il cardinale Antonelli non ne facessero motto; nel caso contrario si limitasse a manifestare il rincrescimento provato dal Governo del re sui modi della condanna, fatta senza darne avviso alla podestà statuale, e senza neanco eccitare paternamente il Nuvtz a emendare le proposizioni giudicate erronee ne' suoi libri, in buona parte stampali dietro la licenza di revisori ecclesiastici. Intorno al grave negozio degli esuli arcivescovi di Torino e di Cagliari, pel primo conveniva sollecitare la cooperazione della Santa Sede onde indurlo a rinunziare alla sede; che ove ciò non fosse conseguibile, si ottenesse almeno dal papa l'assenso della nomina temporaria d'un amministratore apostolico. Il ritorno di monsignor Marongiu alla sede di Cagliari poteva concertarsi, assestato l'affare delle decime, e dietro la sua promessa di voler rispettare le leggi dello Stato. Rispetto alla sede vacante di Genova, benché Roma avesse respinto due nomine senz'addurne alcun motivo, il re tuttavia era disposto a procedere a una terza nomina.

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L'assestamento della controversia insorta per l'abolizione delle decime nella Sardegna doveva esser preso tosto di mira dal plenipotenziario, promuovendo la commissione mista, assentita dalla Santa Sede, per il lavoro preparatorio. Per il soppresso onere dell'annuale presentazione al papa d'un calice con patena d'oro del valore di duemila scudi romani in virtù d'un antico diritto feudale della Santa Sede, il plenipotenziario doveva far sentire che il Consiglio di Stato avea giudicato che cotale spesa non era di stretto obbligo, intanto che il Parlamento l'aveva annullata per le angustie del pubblico erario. Tuttavia, per modo di conversazione, Sambuv potea lasciare scorgere che questo affare potrebbe accomodarsi con vicendevole soddisfazione, ove tutte le altre differenze rimanessero assestate. Il ministro Boncompagni concludeva con dire che una delle cure prime e principali del plenipotenziario doveva esser quella di adoperarsi con ogni diligenza a cancellare le preoccupazioni svantaggiose ingeneratesi in Roma sul Governo del re e sullo spirito religioso dei Subalpini. Facesse egli con franchezza e calore ben comprendere ai personaggi più ragguardevoli della Corte romana che il re e i suoi ministri non nutrivano la minima avversione verso il Santo Padre e contro la Chiesa; che il Governo piemontese deplorava quant'altri mai le esorbitanze della stampa quotidiana intorno alle cose e alle persone di Chiesa, mentr'era persuaso che il miglior rimedio a questo male era riposto in una pronta riconciliazione delle due podestà supreme (51).

Il plenipotenziario sardo ebbe benevoli accoglienze dal papa. - Io sono pronto, disse Pio IX, rispetto alle

(51) Istruzioni del ministro guardasigilli Boncompagni al cavaliere Bertone di Sambuv, Torino 29 ottobre 1851.

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cose religiose del reame sardo d'impartire le mie benedizioni sul presente e sul futuro, sotto la clausola che, a farmi dimenticar il passato, agli articoli da concordare preceda un preambolo per il quale siano salvi i principii che sono fondamento ai diritti della Chiesa, e venga riconosciuta l'inviolabilità dei concordati. Non intendo però suscitar inciampi al Governo di Vittorio Emanuele, e neanco voglio dar argomento alla dignità del Piemonte di risentirsi offesa; lascio quindi del tutto aperto il campo alla discussione per trovare su ciò che intendo si faccia la formola meglio convenevole e accetta. - Discorso onesto sulle labbra d'un papa, ma che addirittura poneva la negoziazione da intraprendersi per una via, nella quale al primo passo tornava scabrosissimo l'accordarsi.

Non tardarono a sopragiungere nuovi inciampi e urli.

La proposizione del plenipotenziario sardo di negoziare intanto e solo intorno alle decime, non fu aggradita. Il cardinale Vincenzo Santucci, al primo abboccarsi col Sambuv, gli fece sentire che il desiderio del papa era che le trattative, anzi che da principio restringersi alle sole decime, si allargassero al segno da comprendere gli affari ecclesiastici di tutto il regno. Il Gabinetto di Torino con troppa scorrevolezza di procedere si lasciò prendere a questa proposta, la quale mirava in realtà a conoscer a fondo le intenzioni sue, e ad aprire il campo al plenipotenziario pontificio di contrapporre un progetto di concordalo consentaneo alle massime della Curia romana. Il nuovo ordinamento ecclesiastico che i consiglieri della Corona sabauda proposero si dovesse impiantare nel reame dietro l'assenso della Santa Sede, comprendeva i capi seguenti: nuova circoscrizione delle diocesi, restringendo alquanto il numero de' vescovadi: soppressione d'alcune Corporazioni religiose, dì alcuni Capitoli, di alcuni benefizi, e di altre fondazioni ecclesiastiche non aventi cura d'anime;

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fissazione d'un massimo e d'un minimo nel trattamento da accordarsi ai vescovi sui beni delle mense episcopali; passaggio nell'amministrazione dell'economato regio apostolico di tutti i beni delle Corporazioni religiose soppresse a prò del clero più povero, e a sgravare lo Stato delle spese di cullo; riduzione del numero delle feste religiose; stanziamento fisso per parte dei Comuni d'una somma annua per i curati delle parrocchie in sostituzione dei diritti di stola, clic erano a carico dei fedeli; e creazione di Consigli di fabbriceria per l'amministrazione delle somme assegnate alle spese di culto.

Erano domande assai discrete in confronto del concordato francese del 1801, e delle leggi in materie ecclesiastiche vigenti nel Piemonte sotto il dominio napoleonico. Tuttavia non ebbero buona accoglienza. Il plenipotenziario pontificio contrappose loro un progetto di concordato che, abbracciando pressoché tutto il diritto pubblico ecclesiastico del reame, rimetteva in campo le proposte che fin dal 188 erano state rifiutate dal Governo di Torino. Scorta l'impossibilità d'un accordo per questa via, Sambuv tentò di ricondurre la negoziazione al solo argomento dell'abolizione delle decime, com'eragli stato prescritto da prima; ma trovò nel Santucci un oppositore irremovibile. Gli fu forza entrar quindi nello spinoso campo apertogli, ove alla fine pervenne a stabilire d'accordo col plenipotenziario pontificio le basi seguenti, che doveano servire di argomento per successive discussioni: Nomina d'una commissione mista ad apparecchiare un progetto d'una più equa distribuzione delle rendite ecclesiastiche, mediante la soppressione di alcuni benefìzi, di alcune Corporazioni religiose, e di altre riforme che la Santa Sede e il Governo del re avrebbero indicato ai commissari; esclusione dal negoziato della

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discussione sul numero delle feste che s'avrebbero a togliere, da che, dietro una domanda diretta dall'oratore sardo al Santo Padre, egli avrebbe accordato un Breve a tal fine; impegno di lasciar in disparte l'argomento dei vescovi da nominare alle sedi vacanti, volendo il papa trattare su ciò direttamente col negoziatore sardo; redazione d'un preambolo fatto in modo da poter essere accettato dalla Santa Sede, pel quale il Governo piemontese attesterebbe di riconoscere l'inviolabilità dei concordati.

II porto non spariva lontano. Il papa e il ministero avevano approvato il preambolo redatto dal Sambuv: era stata tolta ogni difficoltà al ritorno di monsignor Marongiu alla sede di Cagliari: le due podestà si erano intese per la nomina di monsignor Charvaz alla diocesi di Genova: il Santo Padre erasi piegato ad assentire che il re scegliesse e con suo aggradimento un vescovo ad amministratore apostolico per la diocesi di Torino (52).

Ma la speranza di prossimi accordi fu di breve durata.

Nell'animo del papa entrò pungente il sospetto che il Governo piemontese non fosse di buona fede nelle negoziazioni intraprese, come vide ch'esso continuava a prendere provvisioni, le quali a' suoi occhi erano contrarie ai diritti della Chiesa e agli obblighi assunti dal Piemonte verso la Santa Sede per gli anteriori concordati.

Ond'egli ritolse il suo assenso per la nomina d'un amministratore apostolico nella diocesi di Torino, e il suo plenipotenziario consegnò a Sambuv un capitolato preceduto da un preambolo inaccettabili, stando nei termini degli ordini costituzionali. Alle osservazioni fatte in proposito dal legato sardo, il cardinale Santucci rispose:

(52) Corrispondenza Sambuy, Ruma dicembre 1831, gennaio e Febbraio 1852.

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È una necessità chieder tali cose dopo che il Governo sardo ha proclamato la violabilità dei concordati, ha abbattuto il fòro ecclesiastico, ha intentato procedimenti giuridici contro vescovi, ha violata l'immunità degli asili sacri (53). - Per intorbidare maggiormente le cose il plenipotenziario pontificio in pari tempo riassunse in una nota i reclami della Corte di Roma contro le riforme che dal 188 in poi s'erano fatte nel reame sardo al diritto pubblico ecclesiastico. A mettere a nuovo cimento la periclitante negoziazione, sopravveniva il fatto della presentazione al Parlamento sardo d'una irgge sul matrimonio civile. Bensì il ministro guardasigilli nel presentarla aveva tenuto un linguaggio ossequioso alla Chiesa, e nel compilarla erasi mantenuto in termini più ristretti di quelli raggiunti dalla legge francese, pur rivelando il filosofico principio che il matrimonio ha forza dalla propria natura, regole e forma dalla società. Il papa, come ciò seppe, si dichiarò offeso personalmente; e il cardinale Antonelli incolpò il Governo sardo di mancata fede.

Dava appiglio a quest'acerba accusa un'imprudenza commessa dal marchese Spinola. Egli aveva lasciate conoscere al segretario di Stato del papa alcune istruzioni confidenzialissime, mandategli da Torino per solo uso suo, nelle quali era detto che il Governo non avrebbe presentato legge alcuna sul matrimonio civile all'insaputa della Santa Sede.

Il marchese di Sambuy non riuscì ad attutare gli sdegni insorti e le fatte accuse col dichiarare che, avendo lo Spinola agito arbitrariamente e in contraddizione agli ordini ricevuti, non si poteva legalmente dare alla sua

(53) Lettera confidenziale Sambuy a monsignor Santucci, Roma 10 febbraio 1852. - Nota uffiziale di monsignor Santucci, Roma 28 febbraio 1852. - Lettera confidenziale dello stesso al marchese di Sambuy, 28 febbraio 1852.

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comunicazione il valore d'un formale impegno preso dal Governo sardo. Che se anche quesla ipotesi, la quale si rispingeva, si dovesse ammettere, pur sempre i ministri di Vittorio Emanuele erano inappuntabili di mancata parola dopo che si erano messi d'accordo colla Santa Sede di non fare argomento di negoziazione una legge sugli effetti civili del matrimonio (54).

Ignari com'erano dell'operalo dello Spinola, i ministri sardi provarono rammarico di questo contrattempo; e a toccare l'estremo limite dell'arrendevolezza, incaricarono l'orator loro in Roma di far noto al papa ch'essi erano pronti a spendere gli influssi proprii onde portare alla legge quelle modificazioni che potessero renderla più gradita alla Santa Sede prima ch'essa fosse discussa in Senato e sanzionata dal re (55). Ad agevolare all'orator suo l'opera di ammorzar lo sdegno svegliatosi nei curiali romani, il ministero sardo si volse a sollecitare' i buoni uffizi del Governo francese. Ma il campo era preoccupato. Il nunzio aveva preso a sbalzo l'occasione della presentazione al Parlamento della legge sul matrimonio civile per far breccia sugli animi dei governanti francesi; e fin a un certo segno v'era riuscito, dappoiché, anzi che conseguire promesse di franca cooperazione, il legato sardo in Parigi di nuovo udì posta in dubbio la lealtà del Piemonte rispetto alle sue negoziazioni con Roma, ed ebbe a scrivere a Torino che il Gabinetto francese consigliava a indietreggiare anziché a proseguir oltre (56).

All'inaspettato consiglio il ministero contrappose la necessità in cui si trovava di non assentirvi per fuggire

(54) Nota Santucci, Roma 12 luglio 1832. - Lettera confidenziale Santucci al Sambuy, Roma 20 luglio 1852.

(55) Dispaccio Lamarmora, Torino 11 luglio 1852.

(56) Dispaccio Doria, Parigi 26 luglio 1852.

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il pericolo d'un qualche politico stravolgimento; perocché faceva d'uopo rammentare innanzitutto che il Piemonte aveva sopportato per trent'anni le pressure del partito politico clericale, e ad ogni costo voleva liberarsene. Ove il Governo in questa impresa legittima non capitaneggiasse il paese con senno e moderazione, turbolenti passioni sorgerebbero a signoreggiarlo. Il Governo del re offriva alla Corte di Roma da lungo tempo i modi di venire ad equi accordi, sempre pronto a scendere a tutte quelle arrendevolezze che fossero compatibili colla dignità e gl'interessi dello Stato. Se, ciò non ostante, la rigidità dei propositi della Corte pontificia continuasse, darebbe segno manifesto d'essere indirizzata a spargere semi di discordie nel Piemonte. Nel fare queste dichiarazioni il legato sardo doveva porre sott'occhio al ministro francese sopra gli affari esteri lo stato sincero delle cose, e sollecitare in appresso i suoi buoni uffizi per indurre la Santa Sede ad assentire al Piemonte una parte delle concessioni accordate a molti re cattolici (57).- I richiesti uffìzi furon fatti dal conte di Revneval; ma non approdarono a nulla. Le pretensioni pontificie aumentarono in modo superlativo. Santucci fece osservazioni tali alla legge sul matrimonio civile, che l'accettarle significava lacerarla. Egli uscì fuori inoltre colla pretesa che il Governo di Torino, se voleva proceder oltre nella negoziazione, facesse dichiarazione esplicita di riconoscere l'inviolabilità dei concordati conchiusi anteriormente colla Santa Sede. Per soprasello domandava che i ministri di Vittorio Emanuele s'impegnassero a far rispettare la religione e il clero dalla stampa quotidiana; che riconoscessero alla Chiesa il pieno diritto d'acquistare e di possedere, sotto titolo d'inviolabilità: che nelle

(57) Dispaccio confidenziale Lamarmora, Torino 5 agosto 1852.

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scuole pubbliche e private del reame ammettessero solo quell'insegnamento che era conforme alle dottrine della religione cattolica; che accettassero la sopravveglianza dei vescovi sulla istruzione universitaria e secondaria, la censura ecclesiastica su tutto ciò che si volesse stampare rispetto al domina, alla disciplina della Chiesa, alla morale pubblica; che promettessero di prestar braccio forte ai vescovi ogniqualvolta lo chiedessero a tutela delle cose di Chiesa; che abolissero l'appello regio detto per abuso; che togliessero ogni vincolo alla libera comunicazione dei vescovi, del clero, dei fedeli del regno colla Santa Sede; che in ultimo volessero prender tosto l'impegno solenne di attenersi nell'avvenire alle regole stabilite dalla Chiesa cattolica, apostolica, romana in tutte le cose ecclesiastiche per le quali non si scontrasse provvisione alcuna vuoi nei concordati antecedenti, vuoi in quello che si dovea negoziare (58). Era quanto dire ai governanti piemontesi: Lacerate Io Statuto, e tentale la ristaurazione dell'antico ordine di cose. Ma se essi non erano uomini da ciò, si affannavano tuttavia ornai troppo di soverchio a cercare un aggiustamento con Roma. E da che il re pure sentiva fastidio delle contese colla Santa Sede, e ne bramava la fine, rimase stabilito che egli con lettera di mano propria accompagnasse al pontefice una memoria che versava intorno ai diritti della podestà statuale d'ordinare gli interessi civili del matrimonio. Fu un passo non abbastanza misuralo, da che forni argomento al papa di fare pubblica dichiarazione della dottrina della Chiesa cattolica in ordine al matrimonio.

Fin qui Pio IX fece il dover suo di supremo gerarca: ma nella sua lettera di risposta al re, sconvenientemente resa

(58) Lettera confidenziale di monsignor Santucci al marchese di Sambuy, Roma 29 luglio 1852. - Nota Santucci, Roma 29 luglio 1852.

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pubblica per le stampe, si tolse dalle serene regioni del suo apostolato spirituale. Una parte del clero piemontese, ed era la men buona, la meno sapiente e la più faziosa, macchinava tuttavia le ruine della libertà del suo paese.

Per ottenere più facilmente il suo ignobile intento, quotidianamente in ispudorati diarii malignava e perfidiava contro la persona augusta del re, contro l'onestà e l'onoratezza de' suoi ministri, contro i cittadini più egregi e intemerati, stuzzicando le passioni volgari dei pinzocheri e degli zotici. Vittorio Emanuele nella sua lettera aveva chiesto al papa una parola solenne di riprovazione per costoro; e il papa non solo avevala negata, ma s'era lascialo trascorrere a qualificare ingiusta e parziale l'onesta domanda del re (59).

Poco prima il cardinale Antonelli, a meglio ringagliardire l'opposizione, che l'episcopato faceva alla legge sul matrimonio approvata dai deputati, aveva scritto all'arcivescovo di Ciamberì, che il Santo Padre si sentiva soddisfatto e consolato di vedere l'episcopato piemontese contrariare concorde una legge colpita dalla sua disapprovazione. Il segretario di stato aggiungeva che il voto favorevole dato dai deputati a colai legge, era ingiurioso alla Chiesa, e indegno d'una nazione cattolica (60). Questa lettera era stata buttata a pubblico pascolo delle concitate passioni popolari. Il ministro francese Drouyn de Lhuys l'aveva qualificata a meraviglia con dire: - Essa è olio gittato nel fuoco per un fine politico, anziché religioso (61). - Nulladimeno Azeglio rimase immobile nella sua longanimità, piuttosto unica che rara.

(59) Lettera di Pio IX a Vittorio Emanuele, Roma 19 settembre 1852.

(60) Lettera del cardinale Antonelli a monsignor Alessio Billet arcivescovo di Chambery, Roma 14 agosto 1852.

(61) Dispaccio Doria al ministro degli affari esteri in Torino. Parigi 29 agosto 1852.

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Non era freddezza d'animo per i diritti dello Stato e la dignità del paese, ma si conseguenza della sua politica, che a non turbare l'azione del tempo egli voleva mantener cauta, tacita, moderatissima. Però allo sfregio ingiurioso del cardinale non oppose alcun pubblico o privato rabbuffo, e si contentò di farne risaltare per la via diplomatica in termini ammisuratissimi la sconvenienza. Dappoi egli scrisse all'ambasciatore sardo in Vienna nei seguenti termini:

Ove il re si fosse lasciato trascorrere in balia del giusto risentimento eccitato nell'animo suo da un linguaggio cotanto offensivo alla nazione piemontese e al Parlamento, egli sarebbe stato nel suo pieno diritto di protestare altamente presso il Pontefice contro un giudizio così sconveniente, quale era quello che erasi fatto lecito di profferire il cardinale segretario di Stato di S. S. intorno a un atto d'amministrazione interna del nostro paese, e contro la proclività che in quella sua lettera egli lasciava travedere d'eccitare fra noi malcontento e disobbedienza. Ma Sua Maestà non ha voluto minimamente togliersi dalla via di moderazione e di conciliazione che ha deliberato di proseguire nelle sue relazioni colla Santa Sede, e conseguentemente non ha voluto suscitare in tale occasione una discussione, la quale avrebbe condotto a funeste conseguenze. Ella si è limitata a far conoscere al governo pontificio la sua sorpresa, e si è contentata della scusa assai poco credibile che le è stata data, che cioè la lettera del cardinale dovea rimanere affatto confidenziale, e che era stata pubblicata all'insaputa della Santa Sede. Comunque sia andata la cosa, rimane frattanto manifesto gli occhi di tutti che di nuovo rimane a carico della Corte di Roma il ritardo posto alle negoziazioni in corso. Noi certo non faremo sorgere ostacoli senza legittimi motivi; ma alcuno non si deve meravigliare se, dopo un atto pubblico così sconveniente, il Governo del re non porrà nell'inviare il signor di Sambuy a Roma quella sollecitudine che avrebbe posto se non fosse avvenuto un incidente tanto disgustoso (62),

(62) Dispaccio A.eplio al cmite di Revel in Vienna, Torino 22 settembre 1852.


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Ma il risultato maggiore che la Corte di Roma si era prefisso colla pubblicazione delle lettere sovramenzionate, era stato conseguito. I clericali le avevano usate a potentissimo impulso per rinforzare l'opposizione che in Senato era sorta contro la legge del matrimonio, per istuzzicare maggiormente gli scrupoli di coscienza dei cattolici più timorati e ombrosi. I liberali le avevano prese ad argomento per accusare il ministero di mancare alla propria dignità continuando a trattare colla Sede apostolica. I mali umori si erano allargati nei seggi della Rappresentanza nazionale in guisa da rendere tentennante il movimento del Governo costituzionale. L'astro di Massimo d'Azeglio, visibilmente impallidito, piegava rapido al suo tramonto. Né erano soddisfatti i liberali più focosi, nò erano lieti i clericali più arrabbiati. Egli era troppo oculato per non accorgersi del vuoto che all'intorno del suo ministero era avvenuto; era troppo onesto e buon cittadino per non abbandonare spontaneo il Governo in tale stato di cose. Ciò ebbe luogo sullo scorcio dell'ottobre del 1852. Se la storia non vuol essere ingiusta, non incolpi più a lungo quest'egregio uomo di Stato d'aver posto a principio regolatore della sua politica il dire e il far niente per la libertà e per l'Italia. I documenti che abbiamo tolto dal segreto degli archivi, attestano solennemente al contrario che Massimo d'Azeglio, primario ministro di Vittorio Emanuele, molto disse, molto fece per salvare la libertà in Piemonte quando pressoché in ogni parte d'Europa il dispotismo insolentiva, per serbare in tempi difficilissimi l'indipendenza del regno e della corona contro gagliarde pressioni di grandi potentati, per rinfrancare il credito ruinato del Governo subalpino nei concetti della diplomazia. Giammai egli svio la mente dal pensiero supremo d'Italia, e soltanto procedette con quella circospetta prudenza che modera i passi con cautela, obbedendo alla forza ineluttabile delle cose.

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Nondimeno egli camminò sì bene da lasciare a Camillo Cavour radicati in terreno fruttifero i germi della politica, che preparò e fece l'indipendenza della nazione. Di fronte a questi meriti incontrastabili scompaiono, senza aver lasciato traccie dannose, i pochi errori commessi da Massimo d'Azeglio nel suo governo. Se nella questione religiosa egli potè mancare qualche volta di risolutezza e di previdenza, non mai difettò di moderazione e probità. E a coloro che dopo lui venivano a prendere il maneggio supremo della cosa pubblica, e a continuare la lotta con Roma, lasciava di compiuto le giurisdizioni ecclesiastiche svelle, le decime abolite, le manimorle interdette a possedere di nuovo, l'albagia clericale fiaccata, e di iniziato la legge sul matrimonio civile, l'ingerimento legittimo dello stato nei beni ecclesiastici, la proclamata libertà religiosa delle coscienze, la domandala riduzione de' vescovadi e dei conventi, il sollecitalo disgravio per l'erario delle spese di culto. Di più egli era pervenuto a capacitare la diplomazia che il Piemonte avea fatto di tutto per un accordo equo, Roma nulla per scendere a conciliazione, tutto per sospingere i ministri di Vittorio Emanuele a mancar di fede alle franchigie costituzionali del regno.

IV.

Vittorio Emanuele, come abbiamo accennato, a pieno compartecipava al desiderio di Massimo d'Azeglio di trovare un pronto e pacifico scioglimento alla questione religiosa. Fermo in questo suo concetto, lo manifestò al conte Camillo Cavour nel dargli l'incarico di ricomporre il ministero. - Maestà, rispose il conte, di fronte alle pretese esorbitanti della Corte pontificia non mi sento in grado d'entrare secolei in arrendevolezze.

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- Il re stette un istante pensieroso, poi soggiunse benevolo: - Non prenda su due piedi una tal decisione, e veda di parlare con monsignor Gharvaz tornato testé da Roma. - Cavour assentì, e mosse al nuovo arcivescovo di Genova queste due domande: - Crede ella probabile un accordo con Roma? crede ella che, ove l'intendersi sia conseguibile, potrà ottenersi da un ministero da me presieduto? - Monsignore rispòse: - Da Roma si possono sperare concessioni intorno i fatti compiuti, ma non una sanzione totale; converrà quindi ritoccare le fatte leggi relative alle cose e alle persone della Chiesa, e di più assentire compensi. Alla Corte pontificia non riuscirebbe poi gradita la presidenza del ministero data al conte Camillo Cavour, in seguito ad alcune sue aringhe tenute alla tribuna del Parlamento. - Dietro queste dichiarazioni Cavour si portò dal re per ritirarsi dall'incarico ricevuto. Charvaz fu messo di nuovo in moto (63). Per incarico regio egli si portò dal conte Cesare Balbo onde offrirgli il mandato di costituire un ministero. All'accettazione successero due lunghe conferenze col re, nelle quali Balbo propose e ottenne che alla formazione del suo ministero precedessero due fatti, cioè l'ingresso del conte di Revel nel ministero delle finanze, e l'assicurazione conseguita dalla Santa Sede di credibili e pronti accordi. Per venire in chiaro di questo secondo punto si pensò prima all'abbate Roberti, incaricato d'affari pontificio in Torino; ma poi venne prescelto il marchese Centurione, incaricato degli affari della Sardegna in Roma. Il cavaliere Bertone di (tgt;3) Delia vita del conte Cesare Balbo, rimembranze di Ercole Ricotti.

Questo illustre scrittore si è reso grandemente benemerito alla Diplomatica colla stupenda sua Storia della monarchia piemontese Sambuy assunse l'incarico di scrivergli.

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La commissione consisteva nel chiedere se un ministero Balbo tornava accetto al Santo Padre; ove si fosse costituito, se poteva avere fondata speranza di terminare prontamente le controversie in corso; e se frattanto il papa voleva impegnarsi a dare un amministratore alla diocesi di Torino.

Balbo chiedeva d'essere ragguagliato di ciò per iscritto a preferenza di mano propria del cardinale segretario di Stato.

Il marchese Centurione si portò dal papa al mezzodì del k novembre 1853; ma egli non potè tener lungo discorso. Pio IX ad ogni tratto venne troncandogli la parola pur favellando cortese e ammisurato intorno alle vicissitudini dei Governi liberi, e concludendo con dire che i Piemontesi soli fra tutti i popoli italiani erano atti a reggersi colle forme costituzionali. - Quanto al conte Balbo, il papa soggiunse, lo apprezzo per un buon cattolico, ebbi modo di parlargli a lungo in Gaeta, e in verità avrei grande fiducia in un ministero da lui presieduto. - Relativamente agli accordi desiderati, il papa entrò a esaminare tutte le difficoltà da vincere. Da questo discorso il marchese Centurione prese occasione per fargli osservare, come nelle pratiche d'aggiustamento fatte il plenipotenziario sardo avea cercato con studio indefesso di smuovere gli ostacoli, mentre il plenipotenziario pontificio erasi diportato in senso opposto. Il papa ascoltò calmo, ma non profferì una sola parola foriera di maggiore arrendevolezza nell'avvenire. Rispetto a monsignor Franzoni, Pio IX si studiò di far entrare nell'animo del marchese la persuasione che era nell'impossibilità di soddisfare il desiderio del re e di Balbo: - Mi si trovi, conchiuse, un mezzo termine, si faccia sentire in qualche modo a monsignor Franzoni la convenienza del suo ritiro, si veda d' indurlo a cedere,

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ed io profitterò d'una sola sua parola per accogliere la sua rinunzia, e ne avrò piacere. - Pur volendo giungere a smuover l'animo del papa, il legato sardo si fece a pennelleggiare a neri colori le condizioni del Piemonte, ove, ei dicea, i nemici del trono e della Chiesa trionfassero. Pio IX non si mostrò commosso, e - Mia, egli disse, non sarà la colpa. Che se anco non si verrà a un accordo, il Governo piemontese sa per prova ch'io non vengo meno nel provvedere al bene dei fedeli, e che non abbandono alcuno. - Partito dall'udienza del papa a mani vuote, il marchese Centurione sperò di mandare a buon termine la commissione affidatagli facendo far leva dall'ambasciatore francese da prima sull'animo del cardinale Antonelli, poi del papa. Il conte di Rayneval accolse festoso il legato sardo, che a lui si presentò con una lettera del cavaliere Sambuy.

Letta ch'ei la ebbe, disse: - Questa volta la Corte di Sardegna si è messa nella buona via. Non vedo grandi difficoltà per un accordo, purché l'una e l'altra parte si diano a cercarlo con buona volontà. L'osso duro da infrangere sta in ciò che riguarda monsignor Franzoni; vi lavorerò intorno con tutte le mie forze; bisogna pensare a qualche mezzo termine per indurre l'arcivescovo a rinunziare: conto per ciò di scrivere al cardinale di Bonald, accordato ch'io mi sia col cardinale Antonelli. - Nella conferenza che ebbe luogo tra l'incaricato sardo, il ministro francese e il segretario di Stato pontificio, il succo del prolisso discorso di quest'ultimo fu il seguente: - che il Governo di Torino accomodi a modo nostro l'affare delle decime, e in breve tutto il resto si potrà assestare; altrimenti badi bene che non vedrà mai il fine della negoziazione in corso. Nulla si sperasse di conseguire su quanto si chiedeva sul conio di monsignor Franzoni:

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bensì sviziate che fossero dell'attuale loro forma, le altre cose controverse potevano esser concordate. In quanto al conte Balbo, proseguì Antonella io fo gran conto di lui come cittadino e come uomo di governo; ma clic egli non si riprometta da noi qualche slancio solenne pel suo trionfo. Non è così che noi accogliamo coloro, che ci rendono servizi grandi e fedeli. Il conte Balbo è filosofo troppo esperto per non essere su ciò ammaestrato a pieno. - Bavneval più non fiatò, Centurione si ristrinse a chiedere che gli si volessero dare per iscritto le risposte fattegli dal papa e dal suo segretario di Stato. - A domanda a voce, rispose Antonelli, non posso rispondere per iscritto; soltanto lo farei, pur tralasciando la mia firma, a modo di memoriale, ove avessi comunicazione delle interpellanze mosse al Santo Padre per iscritto. - Così la segreta pratica sfumò. E ben tosto nell'animo del Balbo si dileguò pure la concepita speranza di giungere, anche senza il concorso di Revel, a formare un ministero. Cavour nella sua villa di Leri aspettava confidente questo risultato, prevedendo che il re ben tosto, meglio conosciuto lo stato morale de' suoi popoli, volgerebbe le spalle a coloro che lo sospingevano a pratiche d'aggiustamento a ogni costo colla Corte di Roma (Gk). Così avvenne. Intanto che i clericali, più del consueto baldanzosi, andavano sfringuellando pubblicamente che il pio principe, smosso dai consigli materni, erasi messo di pieno accordo col Santo Padre, addì k novembre 1852 uscì fuori la notizia festosamente accolta dall'universale che il nuovo ministero era composto così: conte Camillo di Cavour presidente del consiglio e ministro delle finanze,

(64) Lettera particolare Sambuv al marchese Centurione, Torino 29 ottobre 1852. - Lettere Centurione allo stesso, Roma 3 e 4 novembre 1852. - Lettera Cavour, Leri 28 ottobre 1852.

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generale Giuseppe Dabormida ministro delle cose esterne, conte Gustavo Ponza di San Martino ministro dell'interno, Cibrario passava dalla finanza all'istruzione pubblica, erano ritenuti ai loro dicasteri Della Marmora, Paleocapa e Boncompagni.

V.

I tempi volgevano men aspri per il costituzionale Piemonte, che stati non fossero i trascorsi dalle sventure di Novara. Ma tuttavia conveniva procedere con prudenza e scaltrezza onde vieppiù spianar il corso durevole e tranquillo al rinnovamento civile che dovea fecondar le speranze del riscatto italiano. Gli andamenti per anco retrivi della politica europea e le condizioni dei partiti nell'interno del regno consigliavano massime di mantenersi verso la Corte pontificia in termini di molta moderazione. Il cardinale Antonelli persisteva a volere dar corso a due sue note, rifiutate dall'Azeglio, l'una delle quali portava domanda al Governo del re di porre un freno alla stampa quotidiana ne' suoi oltraggi alle cose e alle persone della Chiesa, l'altra conteneva una protesta contro la vendita fatta dal demanio dei beni dei Gesuiti (65). Il nuovo Consiglio dei ministri deliberò di accettare le due note, pur riservandosi di rispondervi con dignità e fermezza. Intanto risolse che il marchese Centurione dovesse saggiar l'animo del cardinale Antonelli per sapere se egli farebbe buona accoglienza al conte di Pralormo come nuovo negoziatore d'accordi per

(65) Processo verbale del Consiglio dei ministri, 28 novembre 1832.

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la Sardegna (66). Il segretario di Stato pontificio continuava a destreggiare di diplomatica scaltrezza. Al rincrescimento manifestatogli dal Governo francese per la pubblicazione della lettera all'arcivescovo di Ciamberì, Anlonelli a tagliar corto aveva risposto ch'egli era più di tutti dolentissimo di quella imprudenza, massime che quel suo scritto era stato pubblicato svisalo e smozzicato: anzi che esser voglioso di suscitare nuovi imbarazzi al Gabinetto di Torino, sarebbe ben lieto di dargli amica mano a toglierlo da quelli in cui trovavasi per la questione religiosa (67). Queste medesime cose nella sostanza egli ripetè all'incaricato della Sardegna, come gli tenne discorso dell'intenzione del nuovo ministero di continuare le negoziazioni per l'opera del conte di Pralormo (08).

Tosto che il nuovo oratore fu partito alla volta di Roma, il ministro degli affari esteri indirizzò il seguente dispaccio circolare agli agenti diplomatici della Sardegna presso le primarie Corti estere:

Il conte di Pralormo ha lasciato testé Torino per portarsi al suo posto in Roma. Egli sarebbesi recato colà anche prima, ove non avesse dovuto condursi a Berlino per mettervi in assetto gli affari suoi particolari. Le modificazioni che i nostri rapporti colla Santa Sede hanno dovuto subire in seguito della presentazione al Parlamento delle leggi sul matrimonio e sullo assegno da accordarsi al clero sardo per l'avvenuta soppressione delle decime, hanno consigliato il Governo del re a nominare il signor conte di Pralormo soltanto incaricato d'affari, riservandosi di munirlo in appresso dei pieni poteri necessarii a proseguire le negoziazioni intavolate dal cavaliere Sambuy, tosto che egli giunga a far accettare le nuove basi che la forza delle circostanze e l'interesse reciproco delle due podestà consigliano di addottare.

(66) Processo verbale del Consiglio dei ministri, 27 novembre 1832.

(67) Dispaccio confidenziale Azeglio all'ambasciatore sardo in Vienna, Tonno 2 ottobre 1852.

(68) Dispaccio Centurione, Roma 30 novembre 1852.

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Il plenipotenziario pontificio essendo rimasto fermo nel subordinare lo svolgimento delle pratiche alla redazione d'un preambolo accordabile difficilmente coi poteri limitati di un Governo costituzionale, ne sono provenuti stiracchiamenti e lungaggini, che hanno impedito alle due Corti di mettersi d'accordo. Ad ovviare a questo inconveniente, e a porre il conte di Pralormo in misura di conseguire il risultato che noi desideriamo, il Gabinetto di Sua Maestà si è studiato di togliere dalle istruzioni date a questo incaricato d'affari tutto ciò che poteva inciampare il corso delle negoziazioni, e porre un ostacolo ad un accordo terminativo colla Corte di Roma. A tal fine il Governo del re ha prescritto al signor di Pralormo di chiamare tutta l'attenzione della Santa Sede sul nuovo indirizzo che a comune vantaggio si dovrebbe dare alle trattative. Perciò egli deve spendere ogni suo studio per conseguire che ciascheduna delle materie controverse sia esaminata a parte, e rimanga concordata in conformità della sua indole sia per leggi dello Stato, sia per Bolle pontificie. Noi amiamo promettere che la Corte di Roma voglia fare buon viso alle nostre aperture, tanto più che esse si collegano, rispetto all'isola di Sardegna, a pratiche per lo innanzi pressoché condotte a buon fine.

Affinché il conte di Pralormo abbia modo più facile d'operare il ravvicinamento della Corte di Roma e quella di Torino, il Governo di Sua Maestà lo ha incaricato d'intavolare tre altri negoziati, i quali mentre presentano maggior facilità di riuscita per essere affatto estranei alla materia ecclesiastica, sono di vantaggio reciproco per i due paesi. Essi hanno per oggetto una convenzione postale, un trattato di commercio, e un accordo per assicurare nell'uno e nell'altro Stato a vicenda la punizione dei reati comuni (69).

Il conte di Pralormo trovò in Roma accoglienze freddissime; onde, a non compromettere la dignità del suo Governo, gli fu forza d'assumere un contegno riserbatissimo in aspettazione d'una occasione migliore per dare in iscritto le sue proposte. Se non che la Corte di Roma fieramente s'inalberò come il re ebbe sancito il

(69) Dispaccio circolare Dabormida, Torino 1 febbraio 1853.

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decreto relativo agli assegni suppletivi temporariamente stabiliti per il clero dell'isola di Sardegna (70). Ai nuovi protesti pontificii non fu risposto, e Pralormo ebbe ordine di mantenersi pazientemente silenzioso.

Ciò non era per nulla gradito alla Curia romana, che volea vedere il Governo di Torino negoziar seco, onde tenerlo possibilmente in freno nelle riforme ecclesiastiche, o almeno cavarne argomento per incolparlo di doppiezze e di svogliatezze calcolate presso i cattolici fervorosi e la diplomazia avversa agli ordini liberi di governo. Pertanto il cardinale segretario di Stato uscì in campo con una nota al Pralormo per chiedergli ragione delle pretermesse pratiche, rese tanto più necessarie a proseguirsi, in quanto che appariva manifesto che nel reame della Sardegna volevasi ridurre la religione e la Chiesa all'estremo avvilimento (71). Pralormo rispose ch'egli era fornito dei necessari poteri per negoziare; l'avvenuta tardanza doversi ascrivere in parte al desiderio giusto del Governo del re di apparecchiare buoni e maturi studi intorno al patrimonio temporale della Chiesa sarda onde le pratiche relative si svolgessero senza inciampi, in parte alla lentezza posta dal plenipotenziario pontificio nel rispondere alle proposte del cavaliere Sambuv (72). Antonelli, nel far conoscere all'oratore sardo che il cardinale Santucci era investito della plenipotenza pontificia a riassumere e a continuar seco le trattative, le quali, avvertisse bene, se erano rimaste incagliate, dovevasi ascrivere alla ripugnanza del plenipotenziario sardo nell'accettare una base, che era condizione essenziale d'ogni pratica ulteriore. - Qual è questa base? - chiese Pralormo.

(70) Nota Aulouelli, Roma 11 aprile 1853.

(71) Nota Antonelli, Roma 5 aprile 1854.

(72) Nota Pralormo, 8 maggio 1854.

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- È, rispose il cardinale, una dichiarazione relativa all'inviolabilità dei concordati, che tanto più rigorosamente si esige in quanto che intorno ad esse il cavaliere Sambuy si era posto d'accordo con monsignor Santucci. - Il legato sardo si contentò d'osservare che un tale asserto sembravagli infondato, come in realtà era (73). Ma pur volendo avvisar le pratiche, fece al plenipotenziario pontificio questa proposta: si lasciasse frattanto in disparte qualunquesiasi discussione intorno i diritti della Chiesa e l'inviolabilità dei concordati, e si negoziasse soltanto intorno al patrimonio temporale della Chiesa nelle relazioni sue coi bisogni del clero del reame sardo (74).

Gli fu risposto che la volontà del Santo Padre era che le pratiche si riprendessero dal punto in cui aveale lasciate Sambuy (75).

Negli intendimenti e nelle opere della Corte pontificia nulla era mutato: tutto ciò che di ostile e di malagevole poteva farsi al Governo piemontese, si riproduceva senza esitanze. Una delle controversie nella quale le due Corti s'erano trovate più prossime a intendersi, era quella relativa alla presentazione del calice d'oro. Nell'anno 1853 il cardinale Antonelli aveva formalmente garantito che il papa non avrebbe protestato contro la non avvenuta presentazione nella festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (76): di più egli aveva sbugiardato, favellando con Pralormo, un diario clericale di Francia, che avea detto che il papa erasi contentato di farlo a bassa voce (77).

(73) Corrispondenza Pralormo, Roma maggio 1854.

( 1) Nota Pralormo, Roma 2 giugno 1854.

(75) Nota Santucci, Roma 18 giugno 1854.

(76) Nota Antonelli, Roma 30 giugno 1853.

(77) Dispaccio circolare confidenziale Dabormida, Torino 22 agosto 1853.

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Nel 1854 Pio IX si tolse da ogni riguardo, da ogni reticenza, e nel dì sacro ai due Apostoli in modo solenne protestò contro il re di Sardegna, che rifiutavasi di soddisfare a un tributo dovuto alla Santa Sede. I ministri piemontesi tollerarono anche questo sfregio, e proseguirono zelanti nel sollecitare accordi con Roma. Nel settembre di quell'anno Pralormo ebbe l'incarico di dichiarare all'Antonelli che il Governo di Torino, purché non gli si chiedessero cose contrarie ai diritti inalienabili della Corona, alla dignità dello Stato e alle franchigie costituzionali, era dispostissimo a piegare a tutte le concessioni desiderate dalla Santa Sede, purché essa volesse venir tosto a un accordo sul patrimonio temporale del clero. Se non che questa domanda tirò addosso al Pralormo un fiero rabbuffo del Santucci, il quale gli venne rammentando che badasse a non spingere tropp'oltre le sue domande, e a riflettere che si trattava di concessioni della Santa Sede al Piemonte, non di questo a quella (78). Il plenipotenziario pontificio, così ammonendo, per verità non eccedeva i limiti delle massime fondamentali su cui poggia la dottrina della Corte di Roma intorno alla materia dei concordati. Per essa nelle cose onninamente spirituali soltanto hanno ragione di mera largizione; nelle cose miste, eli sola condiscendenza pontificia. Un Governo che ne solleciti qualcheduno dalla Santa Sede e l'ottenga, assume l'obbligo perenne di procurarne l'esecuzione completa. Il principe che entra in cotali negoziati e li conchiude, è un suddito del papa negli ordini spirituali, e la sua podestà laicale è inferiore all'autorità del capo supremo della Chiesa. La quale poi, nella certezza d'avere la sconfinata rivendicazione di quanto il laicato le usurpa,, non ammette ai suoi danni prescrizione di tempo.

(78) Nota Pralormo al cardinale Santucci, Roma 14 settembre 1854. - Nota Santucci al conte di Pralormo, Roma 30 ottobre 1854.

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Stando così le cose, e vedendo che a nulla giovavano le sollecitazioni diplomatiche, furono tentate per parte del re, assenzienti i consiglieri della sua Corona, le istanze d'alcuni vescovi come mezzo d'indurre la Corte di Roma a un pacifico e onorevole fine di tutte le controversie. Ma da questo tentativo balenò appena un raggio di speranza, ben tosto seguito da amaro disinganno. Saputo che il ministero era in sul presentare al Parlamento una legge sulle Corporazioni religiose, l'arcivescovo di Genova e i vescovi di Annecv e di San Giovanni di Morianna da Roma scrissero al re, che non solo essi non potevano più far nuove sollecitazioni, ma ove il progetto di legge fosse stato presentato in Parlamento, si troverebbero nel dovere d'unirsi ai loro confratelli nell'episcopato per far udire rimostranze le più legittime, da che era affatto contrario alla dottrina cattolica che lo Stato possa a piacer suo sopprimere Ordini religiosi, e fare suoi i beni della Chiesa. Essi pertanto confidavano che il re vorrebbe interdire a' suoi ministri di dar corso a un progetto di legge, che susciterebbe nuovi scandali, nuove discordie, nuovi danni fra un popolo cosi schiettamente cattolico (79). lt; - Da tutte parti si addensavano i nugoli d'una grossa tempesta. I ministri piemontesi di mano in mano erano venuti nella persuasione che la Corte romana co' suoi modi intrattabili di procedere tendeva a osteggiare direttamente la libertà e l'indipendenza del Piemonte, anziché leggi le quali erano volte a introdurvi con misura moderata un ordine di cose, che da un mezzo secolo esisteva senza sfregio e danno della religione presso tutti

(79) Lettera del 26 novembre 1854.

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gli altri Stati cattolici (80). D'altra parte amari risentimenti e tormentosi sospetti andavano cacciando via dal cuore di molti liberali le speranze e la fiducia concepite per l'entrata di Urbano Rattazzi nel ministero Cavour, dappoiché erasi fatto interminabile l'infruttuoso negoziare con Roma, usando modi che parevano offensivi alla dignità dello stato. Inoltre non rimaneva più che uno spazio di tempo molto limitato a trovare nelle forme costituzionali i mezzi di sopperire al sussidio per il clero, radiato dalle spese pubbliche. Stretto da queste necessità, il Gabinetto di Torino per mezzo del conte di Pralormo lasciò intendere al cardinale Antonelli che, ove in tempo utile non avesse luogo un accordo colla Santa Sede per provvedere al sostentamento dei parrochi poveri, vi si sarebbe rimediato con modi che sono di piena competenza della podestà civile (81). Roma nulla avendo proposto di accettevole, il ministro Rattazzi sulla fine del novembre del 1854 presentò al Parlamento un progetto di legge, con cui si domandava l'abolizione degli Ordini religiosi che per voto non attendevano all'istruzione pubblica, all'assistenza degli infermi, e alla predicazione, la soppressione di certe inutili manimorte ecclesiastiche, l'aggravio per altre d'un contributo destinato, colle sostanze degli Ordini soppressi tratte nelle casse dell'Economato ecclesiastico, a provvedere con riparti equi alle spese del culto. Il clero traeva da' suoi beni l'annua rendita di sedici milioni, e lo Stato di sopprappiù dava ancora pel culto pressoché un milione; e tuttavia buona parte dei parrochi era retribuita poveramente,

(80) Lettera Cavour, Torino 3 gennaio 1853. - Lettera Dabormida del 6 agosto 1853 al marchese Salvatore Pes di Villamarina ambasciatore sardo in Parigi.

(81) Dispaccio confidenziale Dabormida, 22 ottobre 1854. - Lettera Dabormida al marchese Villamarina, Torino 29 dicembre 1851.

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intanto che l'episcopato aveva per sé annualmente quattro milioni centoventiduemila lire, e un milione secentonovantaduemila i canonici. - Noi, scriveva il ministro degli esteri, sosterremo la discussione di questa legge in una maniera degna, calma, dignitosa. Le nostre parole da un lato attesteranno il nostro rispetto per la Santa Sede, il nostro desiderio di conciliazione, gli sforzi da noi fatti per raggiungere questo fine, gli intendimenti nostri di garantire alla religione l'ascendente e gli influssi che le appartengono nella società. Elleno d'altra parte mostreranno la risoluzione del Governo di mantenere tutti i diritti della podestà civile sui Corpi morali e sulla esistenza civile degli Ordini religiosi (82). - Il ministero procedeva fedele a queste dichiarazioni nel difendere la proposta legge alla Camera dei deputati, come uscì fuori un monitorio del papa nel quale i consiglieri responsabili della corona di Vittorio Emanuele erano chiamati in colpa, e condannati per cotal legge come favoreggiatori delle perverse sètte dei socialisti e dei comunisti, dopo aver calpestata la fede dei trattati, bistrattata l'autorità dell'episcopato, violata la libertà della Chiesa.

Il pontefice in pari tempo ammoniva tutti coloro, i quali nel reame sardo avesser dato appoggio o intendessero di darlo a leggi e provvisioni contrarie all'autorità suprema della Santa Sede e ai decreti della Chiesa, di badare che sul loro capo gravitavano tremende le censure e le pene stabilite dai sacri Concilii contro gli invasori e i profanatori delle cose sacre, contro gli usurpatori dei diritti della Chiesa e della Santa Sede, contro i violatori della libertà e podestà ecclesiastica (83). - Era il linguaggio antico usato dai papi ogniqualvolta

(82) Lettera Dabormida al marchese Villamarina, Torino 29 dicembre 1854.

(83) Allocuzione di Pio IX nel Concistoro del 22 gennaio 1852.

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giudicavano offesi dalla podestà laicale i diritti e gli interessi spirituali affidati al supremo loro ministerio.

Ma fu un linguaggio non ricavato dalle massime fondamentali dell'accorta diplomazia pontificia quello che in pari tenne per le stampe lo Antonelli, il quale inoltre gittò nel campo nemico le migliori armi di difesa col pubblicare una serie di documenti relativi alle negoziazioni passate tra la Corte di Roma e quella di Torino.

Cavour era troppo accorto per non afferarle di sbalzo (84). - È doloroso spettacolo, uscì fuori a dire per le stampe Massimo D'Azeglio, vedere una cancelleria di Stato accecarsi nel dispetto d'una impossibile vittoria al punto di non scorgere che nel proprio interesse giammai deve un Governo dimenticare le formole consacrate dalla convenienza fra gli Stati cristiani: che le ignobili parole slealtà, mala fede non sono parole che suonino bene sul labbro di chi parla in nome d'uno Stato ecclesiastico, Vi era un concordato fra noi e la Corte di Roma: ma l'osservarlo in tutte le sue parti metteva a cimento lo Stato. L'abbiam pregata, come il debitore della parabola, di farci patti accettabili; l'abbiamo scongiurata in nome della pace; e non trovammo che ambagi, non avemmo che rifiuti.

Sia giudice Iddio, lo sia il mondo, poiché ne invocate la sentenza, tra Roma e Piemonte, fra il cardinale Antonelli e Massimo D'Azeglio. A Roma più che altrove la coscienza artificiale soffoca la coscienza naturale, la giustizia del diritto canonico soffoca il senso d'equità posto da Dio nel cuore di tutti (85) - Lo scritto di Massimo D'Azeglio, che conteneva queste e altre consimili dichiarazioni vestite di sfolgorante forma sdegnosa,

(84) Esposizione corredata di documenti sulle incessanti cure della Santità di N. S. Pio IX a riparo dei gravi mali da etti è afflitta la Chiesa cattolica nel regno di Sardegna, Roma 1855.

(85) Il Governo di Piemonte e la Corte di Roma, scritto di Massimo d'Azeglio, pubblicato nella Gazzetta Piemontese, N. 42, 15 febbraio 1855

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in breve fece il giro d'Europa, cercato e lodato con grande scapito della buona riputazione della Curia romana in un tempo, nel quale non aveva fama di liberale chi non era col partito avverso al clero.

Il ministero piemontese da prima avea deliberato di pubblicare un memoriale da contrapporre all'esposizione romana; ma compilato che l'ebbe, lo mise in disparte, meglio riflettendo che gli argomenti più acconci per giustificare il contegno del Governo del re presso tutti gli uomini politici, favoreggiatori anche temperantissimi dell'indipendenza della podestà civile dall'ecclesiastica, stavano riposte nell'esposizione documentata del segretario di Stato pontificio. Perciò Cavour, fattala ristampare in grande quantità di esemplari, la sparpagliò in Francia, nel Belgio, nell'Inghilterra e in Germania, invitando gli agenti diplomatici della Sardegna a farne argomento di studio per richiamare l'opinione pubblica intorno allo stato vero delle cose. Nel dispaccio circolare, scritto a tal fine, egli diceva:

Io raccomando alle S. V. di leggere diligentemente le diverse scritture firmate ora dal cardinale segretario di Stato, ora dal plenipotenziario pontificio, notando e ponendo mente alle massime, alle pretese ed ai principii in essa professati; ed ella scorgerà di leggieri come vengano da Roma posti in contestazione i fondamenti più inconcussi del diritto pubblico interno degli Stati, e negati i più essenziali attributi della sovranità. Ella ravviserà inoltre che non solamente si osteggiano le recenti riforme da noi introdotte, ma eziandio, e direi quasi più accesamente, le leggi antichissime della monarchia, le pratiche secolari dei nostri magistrati, e le tradizioni della patria giurisprudenza. Ora siccome queste leggi e queste pratiche non sono tanto particolari del nostro regno, che non lo siano molto più dei maggiori Stati d'Europa, io m'affido che la nostra causa parrà collegarsi, come veramente si collega, con quella di tutti i Governi civili. Laonde il Gabinetto sardo non può non sa per grado alla Santa Sede d'aver pubblicati cotesti atti, dai quali mentre risulta autenticata la moderazione delle domande della Corte di Sardegna,

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congiunta colla più sincera deferenza verso la suprema podestà ecclesiastica, consta parimenti della repugnanza da ogni partito conciliativo e della rigidezza inflessibile del Vaticano. Ed in verità, se il ministero del re che ho l'onore di presiedere, ha sempre resistito al desiderio, che pure era in lui naturale, di provocare il pubblico giudizio dando alla luce il testo delle negoziazioni, il fece per riguardo particolare verso la persona del Santo Padre, e perché le già rimesse speranze d'amichevoli componimenti non venissero per fatto nostro troncate.

Commettendo pertanto al senno di V. S. quelle induzioni che sorgono spontanee dalla lettura dei documenti, io mi ristringerò per ora a due avvertenze, concernenti l'una la materia, l'altra il processo dei negoziati. La S. V. considererà primieramente che fin qui le trattative versarono tutte intorno a materie giurisdizionali, soggette di lor natura alla podestà civile, su cui per conseguenza era lecito al Governo di fare liberamente le necessarie provvisioni senza l'intervento di Roma; d'onde appare che l'aver avuto ricorso alla Sede apostolica vuoisi ritenere come testimonianza di riverenza e di affetto verso il Capo della cattolicità, e come prova del desiderio da noi costantemente nudrito di procedere di buon accordo con esso nella riforma delle temporalità ecclesiastiche. In secondo luogo la S. V. porrà speciale attenzione sul controprogetto di monsignor Santucci del 18 settembre 1852, che forma il nodo di tutto il negoziato; e scorgerà quali fossero le condizioni veramente incredibili poste dal plenipotenziario pontificio, e come per noi non si potessero per alcuna guisa accettare se non si voleva far getto delle più preziose prerogative della Corona, lacerare le antiche e le nuove leggi dello Stato, violare infine lo Statuto. Prendendo notizia dalle nostre repliche, ella vedrà che gli uffizi indefessi e le istanze più vive degli inviati di S. M. furono spesi indarno per espugnare coteste pretensioni; e di tal forma le sarà aperto sovra chi debba ricadere la responsabilità del presente stato di cose.

Io le faccio facoltà, anzi le raccomando di dare la maggiore pubblicità ai documenti in discorso (86).

(80) Dispaccio circolare Cavour, Torino febbraio 1855.

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Se' questo procedere tornava sufficiente a salvaguardarsi dalle infondate accuse della Corte romana al di fuori, non appariva bastevole riparo a fermare nell'interno del regno il corso delle conseguenze funeste, che potevano nascere da nuovi assalti violenti della Curia pontificia. La natura delle circostanze era tale da consigliare di cercar modo d'ammorbidire, almeno temporariamente, gli sdegni che bollivano nel Vaticano, onde assicurar meglio la buona riuscita a un progetto di legge voluta dalla civiltà dei tempi e dalle strettezze della finanza, domandata per petizione da centodiciasette Consigli comunali, da novantotto Consigli delegati, e da oltre ventimila cittadini. Il re, sopraffatto da un cumulo di domestici dolori per la morte, a breve intervallo l'una dall'altra, della madre e della sposa, mentre il fratello suo per incurabil morbo stava sul limitare dell'eternità, potea piegar l'affranto animo arrendevole ai consigli di coloro che, per indurlo a interporre l'impero proprio a salvare i minacciati Ordini monastici, erano trascorsi fino a sussurrargli minacciosi all'orecchio che la mano di Dio si aggravava terribile su lui e la sua casa a dappoiché disobbediva al pontefice. In Senato eravi un forte nucleo di timorati cattolici, non tutti amici sinceri degli ordini liberi, i quali per paura delle minaccie delle censure pontificie potevano mettere impedimento al pieno trionfo della legge desiderata dall'universale. Dietro queste fondate supposizioni Cavour scrisse confidenzialmente all'ambasciatore sardo in Parigi nei termini seguenti: - Il monitorio pubblicato dal papa è una vera requisitoria contro i principii dell'89 con tanta cura e vigoria salvaguardati dalla Francia, e contro le massime che dal Codice civile di Napoleone I sono passate a fondamento delle leggi di tutti i paesi civili. Il principal fine per cui è stato pubblicato preci pitevolmente, è quello di far breccia sull'animo del re, abbattuto per i recenti suoi tutti domestici. Sua Maestà è tuttavia salda nel proposito


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di mantenere inviolati i diritti della sua corona e della nazione. Nulladimeno importa di non sconoscere che la minaccia delle censure ecclesiastiche, e i modi coi quali viene presentato il processo delle negoziazioni fatte, potrebbero fornire in Senato una poderosa arma all'opposizione, e toglier alla legge voti sinora favorevoli per essa.

E poiché io sono persuaso che il Gabinetto di Parigi è del nostro avviso nel pensare che convenga fermare la Corte di Roma sulla via delle violenze in cui è entrata, e per la quale, qualunque sia il risultato finale che essa possa conseguire, lo sarà sempre con grande scapito della religione e con grande iattura di quell'autorità spirituale che noi siamo desiderosi di conservare alla Chiesa; così penso che il Governo imperiale renderebbe un servizio vero alla religione, e compirebbe un'opera degna dei legittimi influssi, che i numerosi titoli ch'esso ha alla riconoscenza della Santa Sede, gli danno il diritto di esercitare, se facesse intendere consigli di moderazione e di saggezza alla Curia romana, e le segnalasse i gravi inconvenienti del suo procedere verso il Piemonte (87). - A questo riguardo Villamarina non doveva inoltrare alcuna formale istanza, ma restringersi a far comprendere a Drouyn de Lhuys tutto il prezzo che il Gabinetto di Torino poneva a cotal dimostrazione d'amicizia (88). Se non che l'ambasciatore sardo in Parigi avendo abilmente tasteggiato l'animo del ministro francese sulle cose esteriori, si persuase che si poteva inoltrarsi fino a presentare una nota verbale, la quale in effetto diede i migliori risultamene, essendosi Drouyn de Lhuys impegnato per iscritto a prestare i buoni uffizi del Governo imperiale al Gabinetto di Torino per aiutarlo ad uscire con vantaggio e decoro

(87) Dispaccio confidenziale Cavour, Torino 3 febbraio 1833.

(88) Lettera Cavour, Torino 4 febbraio 1855.

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dalle scabrose difficoltà in cui avevanlo posto le rimostranze di Roma (89).

Frammezzo ai narrati uffizi diplomatici ebbe luogo un segreto tentativo d'accomodamento, non per anche noto a sufficienza nella sua genuina integrità storica. Il chericato piemontese di quel tempo sarebbe mal conosciuto e mal giudicato, ove si prendessero a norme dei suoi modi di pensare e d'operare le cose rabbiose e schifose che s'incontrano stampate in alcune effemeridi che si vantavano di rappresentarlo sino da bel principio dell'avvenuta trasformazione politica. La parte più dotta dell'episcopato non aveva tardato a comprendere che, anzicchè logorare l'autorità e il credito del clero per salvare privilegi colpiti da irreparabile caducità, conveniva riflettere che la Chiesa aveva secondo i tempi e i bisogni mutate le proprie relazioni cogli Stati, e che il meglio era pertanto di far volgere a profitto della religione il nuovo ordine di cose. Il corso di queste salutari tendenze era stato turbato dalle sopravvenute contestazioni con Roma, e per esse era divenuto tutt'altro che piano innanzi agli occhi il sentiero del dovere per questi vescovi zelanti della monarchia, della patria e della religione. Ondeggianti tra doveri egualmente sacri, tra sentimenti egualmente cari, essi non tralasciarono di dare a Roma e a Torino consigli di prudenza e di moderazione. Nelle intenzioni dei vescovi che la idearono, scaturiva da cotali sentimenti la proposta che monsignor Calabiana fece in Senato nel corso della discussione della legge per la soppressione degli Ordini religiosi. Essa consisteva nell'offerta in nome dell'episcopato piemontese di novecentomila lire annuali onde lo Stato si liberasse dalle spese di culto,

(89) Nota Drouyn de Lhuys, Parigi 12 febbraio 1855.

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sotto le clausole che il Governo non toccasse i beni degli Ordini religiosi, che facesse rinunziare alla Corona i redditi de' benefici vacanti, e che il regio Economato apostolico prestasse un adeguato concorso per le spese dell'esercizio pubblico de' riti cattolici. I vescovi che primi vennero in questo concetto, avrebber voluto condurlo a termine per accordi segreti col Governo regio, riservandosi di farlo ratificare da Roma a fatto compiuto. La proposta era in questi termini, quando Cavour ne fu informato privatamente. Egli non solo fece animo a tentare la prova, ma in due conferenze a sera inoltrata discusse i modi di raggiungerla con maggior facilità. Ma ben tosto il pensiero di tener occulta la pratica alla Santa Sede parve troppo ardimentoso e pericoloso; onde fu abbandonato. Per saggiar l'animo del papa, uno dei vescovi scrisse a un personaggio, che godeva la piena confidenza del Santo Padre (90). Egli rispose che veramente non aveva creduto di far parola al papa della proposta; che, conforme il suo modo personale di vedere, i vescovi e tutti i buoni cattolici di maggior credito in Piemonte dovevano con ogni più diligente cura adoperarsi a stogliere il re dal dare la sua sanzione sovrana alla legge sulla soppressione degli Ordini religiosi; e soltanto quando si fosse scorto che non eravi più altro mezzo efficace per impedire questo nuovo danno alla Chiesa, si poteva ricorrere a simili espedienti (91). Susseguirono altre calorose instanze, dietro le quali il papa fece una risposta benevola, benché accompagnala da alcune clausole giudicate da lui necessarie a tutelare i diritti e gli interessi della Chiesa. Gli accordi allora tra i vescovi camminarono spediti al segno di presentare

(90) Lettera del 23 marzo 1833.

(91) Lettera del 27 marzo 1855.

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al re la sovramenzionata proposta, che monsignor Calabiana avrebbe fatto in Senato. In quella lettera era che i vescovi degli stati sardi, devoti alla maestà del re ed ossequiosi al suo Governo, ma nello stesso tempo e per affetto e per debito sacro indeclinabilmente legali alle prescrizioni inviolabili della Chiesa, presentivano in cuor loro, non senza grave angoscia, le conseguenze funestissime che trarrebbe seco la legge sulla soppressione degli Ordini religiosi, qualora i Poteri dello Stato la adottassero e sanzionassero (92). Cavour era stato tenuto a giorno di tutto, e non aveva fiatato una parola in contrario; onde monsignor Calabiana allibbì di meraviglia come l'udì in Senato che, bensì la fatta proposta era una prova dei sentimenti di patriottismo che animava l'episcopato del regno, ma che il ministero aveva bisogno di tempo per esaminarla: da che poi a lui essa sembrava una vera proposta pregiudiziale, giudicava si dovesse intanto sospendere la discussione della legge (93). Cavour era già divenuto un grande sperimentatore politico, abilissimo nel tentare, colla stessa franchezza per obliqui e per diritti sentieri, con sicura mano in un sol giorno cento prove diverse, guidato nello sceglier le une, Dell'abbandonare, le altre da un squisito senso quasi instintivo dell'opportunità. Egli aveva fatto buon viso alla proposta dei vescovi, perché gli sarebbe tornata grandemente utile ove si fosse svolta sino al suo termine all'infuori dell'assenso e all'insaputa di Roma. Perduta questa speranza, non l'aveva arrestata perché gli importava di passare agli occhi della vigile diplomazia francese sempre per inclinevole agli accordi colla Corte pontificia, mentr'essa si mostrava violentemente intrattabile.

(92) Lettera del 24 aprile 1835.

(93) Atti del Parlamento subalpino, seduta del 27 aprile 1855.

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Fatta ch'essa fu in Senato, si tirò in disparte, consigliò il re a prender altri ministri per tentare di raggiungere i termini della conciliazione, prevedendo che, dietro cotal prova infruttuosa, egli ripiglierebbe il maneggio della cosa pubblica con maggior credito e potenza di prima. Cosi avvenne. La proposta di monsignor Calabiana fu giudicata inaccettabile da preclari magistrati, chiamati a esaminarla dietro la volontà del re. I vescovi alla loro volta dichiararono di non poter accettare una controposla, presentata loro come ultimo termine di conciliazione possibile dal generale Giacomo Durando, al quale era stato affidato dalla Corona l'incarico di formare un nuovo ministero. L'ordine pubblico in Torino s'era trovalo compromesso per isdegno e timore che per danaro si trafficassero i diritti dello Stato. Perciò, tornato Cavour presidente del Consiglio dei ministri, la legge dei conventi, benché mitigala d'alquanto, fu approvata dal Senato e sanzionata dal re. Per essa perdevano la personalità civile trecentotrentaquattro case religiose; rimanevano in piedi ventidue Ordini religiosi, con duecentosettantaquattro case; i beni dei soppressi conventi doveansi amministrare a parte, per sopperire ai bisogni del clero e del culto.

Il papa fece quanto avea minacciato di fare, sentenziando addi 27 luglio 1855; in concistoro segreto di scomunica maggiore tutti coloro, i quali avevano promosso, approvato e sancito questa legge; tutti coloro che prestassero mano al suo attuamento, come fautori o come consultori ed esecutori, incorsi quanti erano nelle censure e nelle pene ecclesiastiche statuite dai canoni apostolici e dai decreti dei Concilii generali. Inefficaci censure, perché dai più considerale quale impotente voce iraconda, uscita dalle tombe del medio evo. Era una dura prova per la quale il Piemonte doveva inevitabilmente passare se voleva conservare e assodare i suoi ordini liberi di governo.

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Una discrepanza profonda e incapace di transazione e di conciliazione esiste Ira i principii fondamentali degli stati retti;i franchigie costituzionali e le massime del giure romano. La libertà, come s intende oggi e si pratica dalla maggior parte degli Stati europei, per la Chiesa romana è fonte perenne di ruina morale e di pervertimento civile. Questo perpetuo contrasto, che vieppiù pone in giacitura ostile da una parte la religione dall'altra la libertà presso le nazioni cattoliche, possa esser tolto dalla Provvidenza, che ad intervallo si manifesta nella storia per vie che sfuggono alle previsioni e ai calcoli delle corte menti umane.

CAPITOLO TERZO

Sommarlo

Mutamento di governo in Francia - Come accolto dalle maggiori Potenze - Condizioni pericolose del Piemonte - Consigli della diplomazia francese sulla libertà della stampa e sui fuorusciti politici ospitati in Piemonte - Timori d'una invasione austriaca - Cautele diplomatiche prese da Massimo d'Azeglio - Calorose pratiche del legato sardo in Londra - Risposte ottenute - Ammonimenti del Governo francese al Gabinetto di Torino - Come accolli - Provvedimenti presi Urbano Rattazzi presidente della Camera dei Deputali e la diplomazia - Disaccordo tra ì ministri Azeglio e Cavour - Ricomposizione del ministero - Soddisfazione manifestata dalla diplomazia - Nuove querele dei Gabinetti di Vienna e di Parigi relativi alla stampa e ai fuorusciti in Piemonte - Acerbe rimostranze del legato francese in Torino - Come accolte - Invio in Parigi d'un nuovo rappresentante della Sardegna: sue istruzioni - Osservazioni d'Azeglio sulla libertà della stampa quotidiana - Questione di Montone e di Roccabruna - Opinione di Palmerston su di essa - Risposta d'Azeglio - Opposizione del Governo francese all'annessione di Mentono e di Roccabruna al Piemonte - Proposta di buoni uffizi accettata - Risultato - Proclamazione dell'impero in Francia - Come riconosciuto dal Piemonte - Come dalle maggiori Potenze - Soddisfazione dei Governi retrivi italiani per questa mutazione di stato.

I.

I narrali contrasti colla Corte pontificia non furono i maggiori né i più pericolosi che la diplomazia piemontese ebbe a sostenere per tutelare la dignità della corona, l'indipendenza dello Stato e le libertà del paese nel tempo decorso dalla fine del 1850 alla guerra di Crimea. Al principio di questo breve periodo di tempo, che fecondò nel suo grembo fortune di secoli, era manifesto che in Francia la repubblica volgeva irreparabilmente a ruina. Giganti a parole, fanciulli nelle opere, i democratici più caldi e sinceri mancavano delle virtù civili necessarie per salvare lo stato popolare dalle insidie che lo minacciavano. Coloro che avevano perdute due

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monarchie, si arrovellavano per rialzare l'abbattuto trono, e riporvi un re di Gasa Borbone. Il presidente Napoleone aspettava qualche occasione propizia per recarsi in sua mano l'autorità delle leggi. Egli, spalleggiato dall'esercito, vinse nel dicembre del 1831, e data per un plebiscito virtù legale all'usurpazione, augurò il nuovo stato al di fuori per una notificazione per cui i Governi europei venivano istrutti che, a salvare la Francia e l'Europa dall'anarchia, erasi trovato costretto ad assumere la dittatura.

La Corte d'Inghilterra avea desiderato il trionfo degli Orleanisti, coi quali lord Normanby, ambasciatore britanno in Parigi, aveva intime dimestichezze. Riuscito in vece il colpo di Stato del 2 dicembre, Normanby chiese al suo Governo se doveva sospendere le sue relazioni officiali col nuovo ministero francese. Nell'aspettare la risposta si tenne solitario nel suo palazzo. Questo contegno svegliò sospetti pungenti nell'Eliseo; onde l'ambasciatore francese in Londra ebbe l'incarico di conoscer tosto le vere intenzioni del Gabinetto inglese.

Palmerston si mostrò aperto e franco con Walewski: - Una lotta, ei gli disse, era divenuta inevitabile tra il Presidente e l'Assemblea; meglio per tutti chela vittoria sia rimasta all'uomo che è capace di dare alla Francia quiete e stabilità di governo. - E tosto scrisse a Normanby che, a guadagnare il tempo e l'influenza perduti, trovasse modo di mostrarsi benevolo al Presidente e ai suoi ministri. Ma al suo ritorno da Broudlands Palmerston ebbe una lettera di Russel. nella quale eragli detto che la regina avea trovato ben singolare il suo modo di procedere coll'ambasciatore francese. Il ministro per gli affari esteri rispose che non aveva pensato punto a impegnare il Governo, avendo manifestata a Walewski la sola sua opinione personale. Una seconda lettera di

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Russel avvisò Palmerston che la regina avea deliberato di togliergli i sigilli del ministero sugli affari esterni. Era una grave disgrazia per la causa della libertà, minacciata per tutto. Il pericolo s'aggravò per la sopravvenuta uscita di Russel dal ministero. I Tory ripigliarono il maneggio della cosa pubblica senz'essere abbastanza sostenuti da una maggioranza sicura di voti al Parlamento; onde l'andamento del governo parlamentare si fece tentennante e difficile nel paese che eragli culla, mentre si trovava minacciato nei pochi paesi del continente che l'avevano adottato. Nello stesso tempo fra gli uomini di Stato inglese apparvero marcate tendenze di riaccostarsi alle tradizioni, per cui l'Austria era tenuta per la più naturale e necessaria alleata dell'Inghilterra.

La Corte di Vienna aveva accolto le mutazioni avvenute in Francia con lieto animo. L'imperatore fece le sue felicitazioni al principe Napoleone nei più lusinghieri modi. Schwarzemberg si prese cura di persuadere i ministri di Berlino e di Pietroburgo della convenienza somma di mettersi tosto nei migliori termini d'amicizia col nuovo Governo francese, solo capace e voglioso di schiacciare il capo all'idra della rivoluzione. I! Governo prussiano, dopo essersi rifiutato di spalleggiare le macchinazioni orleaniste, tosto s'accostò al gabinetto di Vienna per riconoscere vantaggioso il nuovo ordine di cose stabilitosi in Francia. Così fece Io czar, riconoscendo e dichiarando che grandi erano veramente i servizi resi dal Bonaparte all'ordine europeo (1).

Mentre che, con piena soddisfazione della Russia, della Prussia e dell'Austria, la libertà veniva allacciata con dure ritorte in Francia, e l'Inghilterra governata dai

(1) Corrispondenza diplomatica sarda, dicembre 1851, gennaio e febbraio 1852

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conservatori guardava con compiacenza il ristauro sul continente degli ordini ristretti di governo, pericoli gravissimi sovrastavano alle franchigie costituzionali nel Piemonte, rimasto pressoché nell'isolamento politico. Una sola imprudenza di governo, una sola arrendevolezza soverchia alla diplomazia che da ogni parte premeva, poteva trarre danni irreparabili sullo stato.

Venti giorni appena dopo il colpo di Stato, uno dei ministri del principe Napoleone si portò dall'ambasciatore sardo in Parigi, e gli tenne il discorso seguente: - Ascoltatemi di grazia con benevoglienza; intendo parlarvi con cordialità amichevole, quantunque non vi possa dire tutto che mi è palese. Renderete un servizio segnalato al vostro paese se insisterete onde il vostro Governo prenda pronti e serii provvedimenti sul conto de' fuorisciti politici. Questo è il vostro lato debole: ve lo debbo dire e ripetere, in esso vi si possono fare ferite mortali.

Importa che evitiate che ai vostri danni sorgano coalizioni d'interessi, se volete che il Governo francese, senza contraddire alle sue massime, vi possa proteggere.

E nell'interesse della Francia di tutelare l'indipendenza del Piemonte, e credo che sia pure negli intendimenti del presidente; ma dal lato vostro fa d'uopo che i vostri avversari non siano posti in grado di trarre argomento per nuocervi dai pericoli che presenta il vostro sistema di governo. L'Austria è destra, e sa tirar partilo dai generosi vostri sentimenti politici per incolparvi di debolezza imperdonabile, e quasi di connivenza coi rivoluzionari. Non lasciate ingrossar la tempesta, provvedete in tempo utile, non addormentatevi al suono di moderate parole, che potrebbero coprire grandi perfidie (2). -

(2) Dispaccio confidenziale riservato Gallina al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, Parigi 28 dicembre 1851.

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Nello stesso tempo il conte Walewski, ambasciatore francese in Londra, dicea al legato sardo presso quella Corte: - La nuova vostra legge sulla stampa è molto savia, ma non è sufficiente. Bisogna che il vostro Governo pensi da senno ai fuorusciti politici. È venuto il momento in cui fa mestieri che prendiate una deliberazione rispetto loro, che serva di garanzia all'Europa. Voi né potete nà dovete credere che i Potentati maggiori, tutti d'accordo nel chiedere al Governo inglese efficaci rimedii contro alle macchinazioni dei fuorusciti sul suolo della Gran Bretagna, siano poi disposti a lasciar libero il campo ai rivoluzionari di cospirare nel vostro paese. - Due giorni dopo, essendosi temporariamente allontanato da Londra il marchese Emanuele D'Azeglio, Walewski ricalcava su questo argomento col marchese Oldoini, favellando cosi: - Ho parlato con Russel sulla supposizione che le Corti del nord siano nell'intenzione di costringere il Piemonte a modificare la sua costituzione. Egli mi ha risposto che non lo credeva; ma relativamente alla stampa e ai fuorusciti mi ha detto: È da lungo tempo ch'io pure ho consigliato alla Sardegna di dare lo sfratto a tutti gli emigrati pericolosi. - Poi l'ambasciatore francese ripigliò il suo discorso cosi: - È sano che non vi facciate la minima illusione d'avere l'appoggio della Francia e dell'Inghilterra nelle questioni relative alla stampa e ai fuorusciti.

In quanto ai vostri ordini costituzionali, è un altro affare.

Ove fossero minacciati, la Francia non rimarrebbe indifferente ai soprusi delle Potenze nordiche. Noi desideriamo che il Piemonte rimanga costituzionale, essendo che così rimane di necessità nostro alleato, mentre diverrebbe amico dell'Austria retrocedendo. Ma è appunto dietro questo nostro desiderio che vi consigliamo a cedere intorno a questioni che interessano l'Europa. Riflettete: la questione dei fuorusciti ha sbalzato Palmerston

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dal seggio ministeriale in un paese che è uno dei maggiori Potentati europei; e come poter credere che si voglia tollerare che il Piemonte tenga testa ai reclami di tutti pei trascorsi della sua stampa quotidiana, e per le macchinazioni dei fuorusciti ospitati? In quanto alla prima delle due questioni, la legge presentata è una iniziativa felice: bisogna fare lo stesso per la seconda questione. Voi dovete questa guarentigia indispensabile al punto a cui siam giunti: non si deve badare a quello che si desidera, ma a prevenire i pericoli sovrastanti.

Non aspettate i reclami che vi saranno fatti, ma prendete il passo innanzi, piegate a diritta, fate delle giuste concessioni per salvare il regime costituzionale (3). - Ove questi consigli fossero stati accolti ad occhi chiusi, avrebber sospinto il Governo piemontese inevitabilmente per il pendìo irrefrenabile della riazione: ma d'altra parte era imperiosa la necessità d'agire con estrema circospezione.

Le Corti di Roma e di Vienna apertamente cospiravano per abbattere le libertà piemontesi. Il principe di Schwarzemberg alto andava gridando e insistendo, spalleggiato dalla Russia e dalla Prussia, che a metter l'Europa in quiete bisognava col ferro alla mano ridurre in silenzio i liberali della Svizzera e del Piemonte, e che il gabinetto di Vienna aveva legittimi motivi di rompere le ostilità contro il Governo sardo, mancatore dei patti stipulati nella pace di Milano. Dato il caso d'una invasione austriaca nel Piemonte, a qual partito s'appiglierebbero Francia e Inghilterra? Era un quesito che a Massimo d'Azeglio conveniva vedere sciolto colla maggiore sollecitudine e precisione. Un suo dispaccio ai legati sardi presso i Governi di Parigi e di Londra ne aprì la ricerca

(3) Dispaccio confidenziale Oldoini al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, Londra 25 dicembre 1851.

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Il re, era detto in esso, il suo Governo, il paese, l'esercito sono vivamente e sinceramente affezionati alle istituzioni costituzionali, e le difenderanno sino agli ultimi estremi.

Piuttosto che piegar il capo all'Austria e subire le sue ingiuste pretensioni, noi siamo determinati a correre gli estremi pericoli, ad affrontare i più duri sacrifizi. Vorrà la Francia lasciarci in abbandono? Essa opererebbe in contraddizione a' suoi interessi, alle sue promesse, e comprometterebbe irreparabilmente i suoi legittimi influssi sulle cose italiane. Lo stesso è a dirsi dell'Inghilterra. Pare che, nel caso d'una invasione austriaca in Piemonte, il Governo francese si tenga pronto a occupare Nizza e la Savoia. Ma questo espediente non impedirebbe all'Austria di tentare la distruzione delle nostre libertà, e anzi che tornarci di un qualche soccorso morale e materiale, varrebbe a gettare lo scoraggiamento nelle nostre popolazioni e nel nostro esercito. perché gli aiuti della Francia potessero realmente riuscire efficaci, ove le minaccie austriache dovessero effettuarsi, bisognerebbe che una sua flotta con ventimila soldati da sbarco gittasse le ancore nel golfo della Spezia. Il soccorso inglese potrebbe operare dal lato di Genova. - Azeglio concludeva: - Noi non ci dissimuliamo che la necessità più dura che un paese possa subire, è quella d'una occupazione straniera; e quindi vedremmo con infinito dolore attuate tali misure per parte della Francia e della Inghilterra. Ma non vi è sacrifizio che noi non siam risoluti di fare a preservar il nostro paese dal dominio austriaco. La presenza dei soldati imperiali sul nostro territorio cagionerebbe la ruina delle nostre libertà, e sarebbe il principio d'un vergognoso vassallaggio,

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che ci muove a ribrezzo al solo pensarvi (4). - L'ambasciatore sardo a Londra tenne a Grenville, a Russel, a Normanby, a Palmerston il discorso seguente: - Noi siamo in tali circostanze da poter giudicare del valore pratico dell'alleanza inglese.

Vorrà il Gabinetto di Londra ora, o da qui a poco tempo, prendere una attitudine ferma e risoluta nelle cose italiane; oppure lascierà che la sua influenza ruini del tutto nella nostra penisola? La scelta spetta agli uomini di stato inglesi. Noi in Italia siamo i soli che possediamo il buon diritto di fare assegnamento sull'amicizia inglese; e chiediamo pertanto che il Governo della regina ci presti un soccorso franco e positivo. Se i Governi che ci sono ostili, giungono a capacitarsi che il Piemonte può fare assegnamento sul solo aiuto morale della Gran Bretagna, questo palladio si rivolgerà ai danni nostri, da che al di là di questo limite noi rimarremo esposti a subire l'imperio della forza brutale. La monarchia sabauda potrà soccombere in una lotta impari, e contro un più gagliardo nemico. Ma essa fino all'estremo si difenderà con onore; e se il suo destino fosse di soccombere, soccomberebbe con gloria. Un paese caduto vinto in tal modo, è sicuro di rialzarsi, poiché si è serbato onorato presso gli altri popoli. Ma in tal caso l'Inghilterra avrebbe a incolpare se stessa di un delitto politico. Il re e ciascheduno dei suoi sudditi sono deliberati a salvaguardare i diritti del paese; e se è necessità ineluttabile, piuttosto subiremo l'invasione straniera, anzi che ricattarsene con vergognose concessioni (5). - Le risposte degli uomini di Stato inglesi furono benevoli, ma accompagnate da quelle reticenze che provenivano da una massima tradizionale nella politica inglese, ferma nel mantenersi svincolata da

(4) Dispaccio confidenziale Azeglio, 20 gennaio 1852.

(5) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Londra, 13 gennaio 1852.

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tutti gl'impegni preventivi per scegliere e operare soltanto dietro fatti compiuti o sul compiersi.

Da Parigi continuarono a giungere notizie sconfortevoli e presagi tristi. Giacinto Collegno, invialo al principio del 1852 ad assumere l'uffizio di ambasciatore sardo presso il Governo del principe Napoleone, nel primo suo colloquio col ministro degli affari esteri lo udì manifestare la speranza che il Piemonte spontaneo si facesse a mettere i suoi ordini politici in maggiore corrispondenza con quelli che reggevano la Francia.

In una seconda conversazione, avendo Collegno accennato all'arrivo in Milano di trentasei battaglioni d'autriaci, Turgot per risposta gli disse: - Ebbene, dal vostro Governo non si è per anco fatto nulla sul conto della stampa e dei fuorusciti politici (6). - Era un chiodo, sul quale il ministero francese non ristava di battere a replicati colpi di martello. - Sappiate bene, Turgot diceva a Collegno in colloqui susseguenti, e più volte 10 dissi al conte Gallina, la Francia vuole l'indipendenza territoriale del Piemonte; conseguentemente vogliamo che nessuno si trovi in grado di muovergli contro reclami fondali. Se una Potenza volesse prender guarentigie a mano armata sul vostro conto, la Francia alla sua volta dovrebbe prendere le sue precauzioni, e il Piemonte si troverrebbe condotto in condizioni ben tristi.

Sono lieto pertanto che il vostro Governo sia venuto nel concetto di procedere con energia verso la cattiva stampa: così posso dire ai vostri nemici, che voi siete amici dell'ordine, e capaci di tener in freno i rivoluzionari.

L'Austria non aspetta che un pretesto per assalirvi (7). - Il gabinetto parigino massime era impensierito dei fuorusciti,

(6) Dispaccio Collegno, Parigi 21 gennaio 1852.

(7) Dispacci confidenziali Collegno, Parigi 21 e 29 gennaio 1852.

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e andava fino a proporre al Governo piemontese di trasportare a Cajenna coloro di essi che erano più turbolenti e pericolosi. Collegno intanto scriveva da Parigi replicatamente: - II concetto dominante in questi ministri è quello di vedere nei paesi finitimi alla Francia soppressa la libertà della stampa e della tribuna (8). - In mezzo a preoccupazioni così gravi e a pericoli così prossimi e minacciosi, il ministero D'Azeglio si tenne per la via seguente. Pochi cospiratori di provata pervicacità furono espulsi dal territorio sardo; ma Azeglio fece sapere al Governo francese che non assentirebbe giammai alla proposta di far trasportare a Cajenna Italiani fuorusciti. Nessun di loro era da paragonare ai socialisti e ai demagoghi francesi, che in quella inospitale terra erano stati relegati a scontar eccessi di sangue e di sovversione.

Gli Italiani che avevano cercato asilo nel Piemonte, erano uomini, i quali con onore si erano mescolati nelle faccende politiche del proprio paese; i più sopportavano l'esilio con tranquilla dignità, rispettosi alle leggi del paese che aveali ospitati. Fosse anco diversamente, i principii professati dal ministero sempre gli avrebber reso ingrato e inattuabile il pensiero di trasportarli a Cajenna. Al Governo parigino tornava increscioso che fuorusciti francesi soggiornassero nel Piemonte? si mostrasse benevolo di perdono a coloro di essi che volessero Spatriare, impegnandosi di vivere da tranquilli cittadini; sorvegliasse alla sua frontiera per impedire il passo ai fuggenti sul territorio sardo; non si rifiutasse di munire d'un passaporto gli irrequieti meritevoli d'essere espulsi dal regno (9). Rispetto alla stampa il ministero propose

(8) Dispacci confidenziali Collegno, Parigi 4 febb. e 6 aprile 1852.

(9) Dispacci Azeglio all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 2 gennaio e 8 marzo 1852.

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una legge, che il Parlamento approvò, e che toglieva alla cognizione del magistrato d'appello congiunto ai giudici di fatto i reati di stampa per offese ai sovrani e ai capi di Governi stranieri, per attribuirli a quella dei tribunali ordinari, sotto la condizione della richiesta della parte offesa, affermata ma non esibita dall'accusatore pubblico.

Promulgata questa legge, Azeglio indirizzò alle legazioni sarde una circolare, nella quale era dello: Il Governo del re non intende portare il minimo attentato alla libertà della stampa, che egli riconosce essere il fondamento di tutte le altre libertà, e una delle più preziose guarentigie civili. Molto meno poi egli pensa a vantaggiare le opinioni dei proprii amici politici per accuse e giudizi di stampa a danno de' suoi avversari. Ciò che vuole, è di reprimere eccessi contro i quali si ribella la coscienza d'ogni uomo onesto; e in tale compito procederà con quella maggiore risolutezza di modi che è reclamata dai danni gravissimi che questi eccessi recano alle franchigie costituzionali, che siam deliberati di serbare intatte (10).

Nella discussione della legge sulla stampa, gli accordi concertati in segreto tra i due centri del Parlamento, capitanato l'uno da Camillo Cavour, l'altro da Urbano Rattazzi, si fecero palesi, e poco dopo vennero confermali dall'elezione del secondo a presidente della Camera legislativa. La diplomazia a questi fatti s'agitò querula, sospettosa e sdegnata, appuntando il ministero piemontese di disegni pericolosi alla pace europea: - Sono voci, rispondeva Azeglio, messe in giro dai nostri nemici, i quali ben sanno che, col far credere che pieghiamo a sinistra, ci tolgono la confidenza dei Governi amici. La repressione pronta ed energica della rivoluzione di Genova, la pace conchiusa coll'Austria, lo scioglimento della Camera legislativa nel 1849, gli sforzi assidui e felici spesi

(10) Dispaccio circolare Azeglio, Torino 23 maggio 1852.

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per il riassodamento del principio monarchico, le diligenti cure usale per attorniare di rispetto e d'amore la persona del nostro giovane re, la legge ultimamente promulgata sulla stampa, sono tali pegni dati dal ministero in favore della causa delle monarchie e dei veri principii de' Governi costituzionali, da togliere ogni sospetto fondato che un Gabinetto, il quale gli ha così francamente professali, voglia abbandonarli

oggi per appigliarsi ad altre massime di governo in opposizione agli andamenti della politica europea (11). - Queste dichiarazioni erano accolte colla maggiore freddezza a Vienna e a Parigi. Il ministro Turgot iva ripetendo: - La nomina di Rattazzi alla presidenza della Camera ha prodotto un effetto deplorabile. Per essa è andato perduto tutto il lavoro da me fatto negli ultimi cinque mesi per giungere a persuadere il Gabinetto di Vienna che il Piemonte non desidera di meglio che vivere tranquillo e dimenticato. La Francia era pervenuta ad ottenere dall'Austria di non pretendere dal Governo piemontese alcuna guarentigia di pace e d'ordine pubblico, dando la propria. Ma dopo la debolezza manifestala dal ministero nella nomina del Rattazzi, noi ritiriamo la parola data a Vienna; la Sardegna attenda quindi dall'Austria pratiche dirette su tal proposito. La Francia è ben lontana dal pretendere d'ingerirsi nei voti del Parlamento piemontese; ma ha il diritto di valutarne le conseguenze.

Noi ci sentiamo incapaci di persuadere ai Gabinetti del nord che la scelta del Rattazzi non abbia un valore politico. Se poi è vero che per essa Azeglio abbia offerte al re le sue dimissioni, il rimedio sarebbe peggior del male.

(11) Circolare Azeglio alle Legazioni sarde a Parigi, a Vienna e a Berlino, Torino 14 marzo 1852. - Dispaccio Azeglio all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 5 aprile 1852. - Lettera Azeglio a Giacinto Collegno, Torino 8 aprile 1852.

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Se l'Europa può ancora credere che vi sia uomo capace di governare il Piemonte, quest'uomo è Azeglio. Se egli rimane, se giunge a scegliere colleghi nel governo seguaci leali della sua politica, potranno svanire le tristi impressioni nate dalla nomina del Rattazzi, e la Francia farà ogni suo possibile per far ricredere il gabinetto di Vienna sul conto della Sardegna (12). - Il desiderio di Turgot s'avverò. Il re con istanze calorose pregò Azeglio di rimanere ministro, lasciandogli piena libertà di rinnovare i colleghi. Da che egli aveva date le sue dimissioni per avere Cavour a sua insaputa favoreggiato la nomina di Rattazzi alla presidenza della Camera, era inevitabile l'esclusione del ministro delle finanze dal nuovo gabinetto. Rimasero in uffizio Pernati, Della Marmora e Paleocapa; al Cibrario vennero affidate le finanze, al Boncompagni i sigilli e temporariamente l'istruzione pubblica. I gabinetti di Parigi e di Londra si mostrarono soddisfattissimi della permanenza d'Azeglio a capo dei consiglieri responsabili di re Vittorio Emanuele II (13). I Tory che tenevano nell'Inghilterra il governo, diedero solenne testimonianze nel Parlamento di questa loro soddisfazione, alla quale anche con maggior calore partecipavano gli uomini di maggior credito tra i Whighs. Palmerston l'avea più a cuore di Malesburg, e non lo tacque a Cavour portatosi a quei dì in Londra (14). Onde di là egli scrisse: - Sarebbe dannosissimo al nostro paese e alla causa della libertà organizzare una opposizione contro Azeglio, da molti considerato come il più fedele rappresentante

(12) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Parigi, 13 maggio 1852.

(13) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Parigi, 20 maggio 1852. - Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Londra, 25 maggio 1852.

(14) Lettera Cavour a

Michelangelo Castelli,

Londra 12 agosto 1852.

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di quella politica moderata e pacifica che l'Inghilterra promuove con ogni mezzo (15). - Tuttavia il nuovo ministero piemontese non si trovò innanzi un cammino men aspro da percorrere. Sino all'ultimo giorno in cui Massimo D'Azeglio rimase ministro, la diplomazia gli tenne sul capo una corona di spine. Per l'avvenuta morte del principe di Schwarzemberg era venuto meno un implacabile nemico al Piemonte costituzionale. Ma nel maneggio della politica esteriore dell'Austria eragli succeduto il conte Buol, che nutriva un'avversione istintiva ad ogni libertà. Ond'egli non lardò a tempestare contro al Governo di Torino, acremente incriminandolo d'apparecchiare all'Europa nuovi guai colle sue imperdonabili debolezze verso la libertà della stampa e le macchinazioni dei fuorusciti (16). Il Governo francese non aveva per anco finito di tener bordone all'austriaco sopra questi due punti; anzi alcuna volta toccavagli con maggiore acerbità di modi, massime per la rude mano del legato della Repubblica in Torino. Nella città di Nizza marittima stavano alquanti fuorusciti francesi. Il Governo facevali sorvegliare con tale minuta accuratezza, da poter guarentire che erano infondate le imputazioni fatte loro di cospirare. Pure, per deferenza alle insistenze della legazione francese in Torino, alcuni di essi vennero internati. De Butenval, anzi che mostrarsi soddisfatto, fece più insistenti e aspre le sue domande, associando alle sue querimonie sui fuorusciti altre sulla stampa.

Stava per finire il settembre del 1852 com'egli si portò da Azeglio, e a dare maggior peso alle sue parole,

(15) Lettera Cavour al conte Ponza di San Martino, Londra 15 agosto 1852.

(16) Nota Appony ad Azeglio, Torino 23 maggio 1852. - Dispacci Revel al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 23 maggio e 1 giugno 1852.


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dettogli da prima che di recente aveva a lungo conferito col Presidente della Repubblica sugli affari del Piemonte, gli tenne il seguente discorso: - Voi senza dubbio vi rammenterete che, quando avvenne il 2 dicembre, dichiarai altamente che il colpo di Stato non doveva punto essere considerato con un atto reazionario, come un colpo portato alla libertà degli Stati costituzionali. Vi dissi che la Francia avea fatto ciò che giudicava necessario al proprio interesse politico, ma che essa punto non intendeva mescolarsi negli affari proprii dei suoi vicini. Ciò che vi dissi allora, ve lo confermo adesso.

Noi amiamo il Piemonte costituzionale, noi anzi preferiamo che sia tale; ina vi debbo prevenire d'una cosa: il vostro giornalismo s'abbandona a continui attacchi contro il capo del nostro Governo. Ciò ci dispiace; e se questo stato di cose continua, ne risulteranno freddure nelle nostre relazioni. Voi mi risponderete: il giornalismo è un affare al tutto interiore. Siamo d'accordo; noi non ci vogliam punto mescolare nelle cose che si fanno in casa vostra; ciò non ci riguarda. Ma vi ripeto, attendetevi di vedere le nostre relazioni col vostro Governo prendere un contegno freddo e riservato. - A dare maggior valore a queste ultime frasi De Butenval le accentò fortemente. Azeglio rispose: - Noi più che qualunque altro ci doliamo degli sviamenti della nostra stampa; ma ciò dipende dallo stato attuale delle nostre leggi, e noi non siam punto nell'intenzione di modificarle. Vi debbo però osservare che in Prussia, nel Belgio, nella Svizzera e nella Gran Bretagna giornalmente avvengono i fatti, sui quali meco vi querelate; per me credo, e lo ricavo dall'esperienza mia personale, che le armi migliori per combatterli sono il disprezzo e la noncuranza. Tuttavia le vostre osservazioni sono di troppa importanza perché mi possa trattenere di comunicarle,

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non solo ai miei coi leghi nel Governo, ma al re pure, al quale spetta la maggiore delle responsabilità (17). - Portata la cosa nel Consiglio dei ministri presieduto dal re, per concorde avviso venne posto in disparte addirittura il partito della presentazione d'una legge più rigorosa sulla stampa. Ma De Butenval, così favellando, aveva poi realmente riportato il genuino pensiero del ministero francese? Bisognava innanzitutto venire in chiaro di ciò, giacché, ove la cosa fosse realmente così vi doveva essere un disegno nascosto e ben grave del Gabinetto parigino per accennare, quasi minacciando, a un atteggiamento, che non poteva trovar ragione sufficiente nell'intemperanza d'alcuni diarii. Il presidente del Consiglio ebbe l'incarico di fare innanzi tutto questa indagine, non tralasciando di lasciar conoscere che, dietro l'indole del re e dei piemontesi, non si doveva avere il mìnimo dubbio delle determinazioni che verrebber prese nel caso che l'indipendenza del paese fosse compromessa o minacciata in qualche modo.

Frattanto Butenval non quietava. Oggi, seguitando il filo di documenti i più segreti, si può scorgere il recondito fine a cui egli mirava. Egli lavorava e si credeva sicuro di scavalcare Azeglio dal ministero, per vedervi il conte di Revel a capo dei rigidi conservatori. L'arco fu teso al punto da correr prossimo pericolo d'essere spezzalo.

Tornato sull'argomento dei fuorusciti francesi in Nizza, Butenval indirizzo ad Azeglio una lettera altiera e minacciosa. Il presidente del Consiglio dei ministri la respinse coll'avviso che mai l'avrebbe accettata. Il legato francese rimandò la lettera d'Azeglio accompagnata dalla dichiarazione che, fino a un ordine nuovo del suo Governo, egli sospendeva ogni relazione con il Governo

(17) Lettera Azeglio a Giacinto Collegno in Parigi, Torino 3 ottobre 1852.

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sardo, all'infuori di quelle che fossero d'estrema urgenza (18). Azeglio non era uomo da indietreggiare, ma neanco di cadere nel laccio di trascorrere. Egli scrisse alla legazione sarda di Parigi dispacci che, letti dal ministro francese sugli affari esteri, lo indussero a disapprovare il contegno assunto da Butenval, e ad accomodare la cosa con piena soddisfazione del ministero piemontese. Ma in pari tempo Drouyn de Lhuys non lasciò di toccare il solito tasto della stampa, e ripetè ciò che innanzi aveva detto al marchese Doria in tono benevolo sì ma abbastanza significativo: - Che il Governo di Torino non cessi di vegliare sulla stampa e sui fuorusciti, da che io sono deliberato a salvaguardare ad ogni costo l'Europa da una nuova rivoluzione, e quindi prendere misure energiche e immediate per estinguerne le prime faville ovunque si manifestino (19). - Collegno, sconfortato di vedere le cose prendere una colai piega, aveva chiesto d'essere richiamato dall'ambascieria di Parigi. Importava di sostituirlo con un diplomatico destro, non attaccato all'impiego per danaro o per ambizione, di provata devozione al re, al paese e alla causa liberale. Azeglio prescelse il marchese Salvatore Pes di Villamarina, che stando legalo sardo in Firenze, scontrammo in questa storia vigile custode degli interessi italiani. Il nuovo ambasciatore teneva dalle istruzioni sue l'incarico d'adoperarsi a migliorare quanto più gli fosse tornalo possibile le relazioni tra i due paesi, badando a mantenere intatte e rispettate le massime di liberale governo che il ministero intendeva praticare. Drouyn de Lhuys non tardò a venire col nuovo legalo sardo sull'argomento della stampa,

(18) Dispacci Azeglio al marchese Doria in Parigi, 13, 21 e 23 ottobre 1852..

(19) Dispacci riservati Doria al ministro degli affari esteri in Torino, Parigi 24 agosto e 22 ottobre 1852.

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usando però termini di squisita cortesia e benevoglienza. Azeglio prese argomento da questo contegno delicato e leale del ministro francese per aprirgli alla sua volta tutto l'animo suo in una lettera particolare, che Villamarina ebbe l'incarico di fargli leggere.

La sostanza n'era questa: - II Principe presidente e il suo Gabinetto dichiarano di preferire che il Piemonte sia costituzionale. Questo vuol dire che è nei calcoli e nell'interesse della Francia che tale forma di governo si mantenga. Ciò ammesso, si trova contraddizione tra una così esplicita dichiarazione e i consigli datici di compier alti, i quali porrebbero le nostre istituzioni libere in pericolo, o, ad esser più esatti, probabilmente le riverserebbero. Il ministero attuale non potrebbe né vorrebbe falsare il suo programma presentando al Parlamento leggi repressive. Se quindi una pressione straniera ponesse il paese in pericolo, dovrebbe rassegnare i suoi poteri; e supponendo, ciò che torna difficile a credere, che il re si l'assegnasse a subire stranieri influssi nell'esercizio della sua sovranità, non avrebbe altro partito se non quello d'affidare la formazione del nuovo ministero a qualcheduno dell'estrema destra. Quest'amministrazione non potrebbe sostenersi per otto giorni colla Camera legislativa attuale; quindi dovrebbe scioglierla. Ma il paese, oltraggiato nel suo onore e nella sua libertà, sceglierebbe i suoi rappresentanti nella parte liberale più avanzata.

Una nuova necessità quindi di sciogliere la Camera entro una quindicina di giorni. Dopo ciò, l'incognito, le ordinanze reali, lo scompiglio ovunque. Quale frutto ne ricaverà la Francia? quello d'aver gittato il Piemonte in balia d'un partito che si gitterebbe tosto nelle braccia dell'Austria. In tal guisa l'influsso francese in Italia verrebbe cacciato dal suo ultimo asilo. Il signor Drouyn do Lhuys ci porla l'esempio della casa del vicino in fuoco

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per renderci capaci de' suoi consigli. Ma, colla mano alla coscienza, è lecito affermare che il Piemonte è in fiamme? Noi abbiamo il basso giornalismo detestabile; siamo d'accordo. Vi è lotta tra i clericali e i liberali; è anche vero.

Ma dov'è il disordine, dove la rivolta, dove la rivoluzione, l'incendio? Mi si mostri un altro paese in cui, dopo disastri sì grandi e commovimenti civili sì profondi, l'ordine e la tranquillità siano stati meglio e più prontamente ristabiliti, ove le industrie e i commerci abbiano fatti più rapidi progressi, ove gli odii delle parti politiche si siano più presto attutiti, dove in fine il principio monarchico abbia conseguito un più pieno trionfo.

È per avventura un tale stato di cose che si vorrebbe pareggiarlo a un incendio minaccioso ai vicini, e che essi quindi debbono sollecitarsi a spegnerlo ad ogni costo? (20) - Il ministro francese sugli affari esteri accolse benevolo queste osservazioni, non trovò ragioni valide da apporvi, ma tornò sul ripetere: - Badate alla stampa, badate ai fuorusciti; è nel comune interesse dei nostri paesi di rimanere amici (21). -

II.

Da più anni era in corso un negoziato, nel quale la diplomazia piemontese non avea potuto trovar modo di riuscire a verun buon risultamento per le contrarietà e gli inciampi posti dai Gabinetti di Londra e di Parigi.

Meschino argomento per se stesso, ma alzato alla dignità di venir menzionato dalla storia per le proposizioni e le

(20) Lettera Azeglio al marchese Salvatore Pes di Villamarina, Torino 20 ottobre 1852.

(21) Lettera Villamarina a Massimo d'Azeglio, Parigi 30 ottobre 1852.

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massime di giure pubblico poste innanzi nel trattarlo.

Nell'anno 1848 gli abitanti delle terre feudali di Mentone e di Roccabruna, scosso il duro giogo del principe di Monaco, s'aggregarono al Piemonte. Contro questo fatto, onde si cancellava uno strano rimasuglio di feudalità, nel 1851 sorse zelante e tenace l'opposizione dei Governi di Parigi e di Londra. Palmerston diceva: - La questione di Mentone e di Roccabruna è l'ultimo avanzo delle ebrezze politiche del 1848. La Sardegna in quel tempo, Dell'aggregarli a sé, commise un'ingiustizia solenne; e ha il doppio torto d'aver mantenuta questa violazione del diritto delle genti, e d'essersi aperta così la via a subirne le conseguenze. Essa mise in pratica la legge del più forte, senza badare che si poneva nel caso di subir la legge del taglione. Che stia in guardia su Nizza, che badi alla Savoia, che non si dimentichi che l'Austria e la Russia potrebbero da un altro lato applicarle quest'ultima legge (22). - Guidato da queste massime, Palmerston opinava che il re di Sardegna dovesse restituire al principe di Monaco Mentane e Roccabruna, assicurandosi prima d'una piena amnistia per tutti coloro che si erano compromessi nel 1848, e d'un mite governo avvenire. Il ministro inglese sulle cose esteriori rafforzava i suoi argomenti colla dichiarazione che il Governo della Gran Bretagna non poteva riconoscere come principio di diritto pubblico che un popolo, per ragioni di sola sua utilità, abbia il diritto di sottrarsi dalla sudditanza del suo Governo legittimo per annettersi a un altro Stato. Massimo d'Azeglio degnamente gli rispose:

-

Il criterio più saldo della verità e della giustizia d'un principio sta nello

(22) Dispacci dell'ambasciatore sardo in Londra, 10 febbraio e lo giugno 1851.

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scontrarlo invariabilmente fornito di queste due doti.

Non si può ammettere in effetto che verità e giustizia appaiano e scompaiano nelle attuazioni d'un solo identico principio. Se è quindi una verità assoluta che a verun popolo sia lecito sottrarsi al proprio Governo legittimo per aggregarsi a un altro stato, essa deve applicarsi sempre in qualsiasi caso, per non essere costretti ad ammettere due giustizie e due verità in luogo d'una giustizia e d'una verità sola. Ma innanzi a questa conseguenza i miei dubbii cominciano. Frequenti esempi mi si affacciano alla mente, nei quali il principio addotto da lord Palmerston non è stato applicato, né valutato come fornito di giustizia assoluta dalle maggiori Potenze, compresa l'Inghilterra. Quando le colonie spagnuole si emanciparono dalla madrepatria, la Gran Bretagna rifiutò di prendere verun impegno per ritardare a riconoscerne l'indipendenza. La rivoluzione della Grecia trionfò per il patronato di tre grandi Potenze.

La rivoluzione francese del 1830, la creazione del regno belga, l'elezione di Leopoldo a suo re, costituiscono un gruppo di fatti che si trova in aperta contraddizione col principio posto da lord Palmerston. Mi si risponderà: questi esempi si riferiscono a grandi interessi, riguardano l'operalo di grandi popoli. Ma alla mia volta domanderò: quante migliaia d'uomini fanno d'uopo perché un atto, che sarebbe ingiusto, divenga giusto? Sommetto al savio discernimento di lord Palmerston la interrogazione seguente: il principio, ch'esso propugna, acquisterebbe per avventura la qualità di assolutamente giusto soltanto ammettendo come assolutamente giusto del pari un altro principio che lo controbilanciasse? In tal caso, questi due principii si potrebbero formulare così: 1° l'Europa non riconosce in alcun popolo il diritto di sottrarsi al proprio Governo legittimo per

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qualsivoglia sua convenienza; 2° l'Europa non riconosce in alcun Governo il diritto di violare le leggi della giustizia, della morale e del diritto naturale. Ma se non è sperabile di togliere dal diritto pubblico positivo quest'ultima lacuna, a quale partito converrà appigliarsi? A quello che hanno sempre praticato i Governi savi e rischiarati, qual è l'inglese, di riconoscere cioè nell'interesse della giustizia eterna la necessità di modellare le teoriche più stabilmente generali alle esigenze di questa stessa giustizia, e in conseguenza di applicare con equo discernimento il principio della immutabilità degli Stati e dei Governi. Con ciò intendo dire che, pure negando in massima generale ai popoli il diritto di sottrarsi di proprio arbitrio ai propri Governi legittimi per entrare in un'altra famiglia politica, nulladimeno si debbono riconoscere tali fatti per legittimi quando siano manifeste le sofferenze che gli hanno cagionati. In questo solo modo, cosi almeno la penso io, si corregge col fatto quanto nelle massime del diritto pubblico positivo v'ha d'ingiusto nella discrepanza tra i diritti dei Governi e dei governati.

Unicamente entrando per una tal via, si giunge, senza legittimare il principio di ribellione, a piegar il capo al cospetto della legge eterna, la quale ha sovranamente stabilito che la giustizia sia l'elemento conservatore degli Stati, e che l'ingiustizia al contrario sia il germe della loro distruzione. Procedendo per l'opposto cammino, anzi che soffocare la rivoluzione, la si alimenta. L'Italia disgraziatamente offre troppi esempi della verità di questa osservazione per ispendervi attorno molte parole, massime con un uomo di Stato della levatura di lord Palmerston. Ben gli domando, perché vuole verso gli abitanti di Mentone e di Roccabruna usare un peso e una misura, diversi da quelli da lui usati colle Colonie spagnuole, colla Francia, col Belgio? Domando alla sua giustizia se

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un Governo, la cui riputazione di onestà è, grazie a Dio, così riconosciuta, e il quale, se per verità non può far sì che la sua amicizia sia di molta utilità all'Inghilterra, tuttavia non ha mai tralasciato di manifestarne il più vivo interesse, debba trovare nel Gabinetto inglese un giudice così severo ed ingiusto di chiamare spogliazione una conseguenza inevitabile nel gran moto europeo del 188? Se non si possono fare obbiezioni serie alle ragioni che rispetto alla giustizia il Piemonte ha in suo vantaggio in tal questione, del pari nulla di serio gli si può obbiettare ove la si consideri dal lato del diritto feudale. Se nel 1815 le grandi Potenze riconobbero la sovranità del principe di Monaco, riconobbero pure il suo vassallaggio alla Corona di Sardegna per i feudi di Mentone e di Roccabruna.

La questione adunque assume un carattere per lo meno misto, cioè in parte internazionale, in parte feudale.

Sotto il secondo aspetto è una quistione meramente interna: nel primo essa è da risolversi per un negoziato, nel quale la Sardegna è pronta a entrare offerendo al principe un equo indennizzo. Ove le Potenze segnatario dei trattati del 1815 non intendessero d'appoggiare questa soluzione, bisognerà rifare a Mentone e a Roccabruna la spedizione di Roma. Ma un tal procedere violento sarà difficilmente giustificabile, sin tanto che non venga pure applicalo alla repubblica di Cracovia e al principato di Neuchatel. Se si prendessero dei concerti europei per costringere la Sardegna a operare nelle due terre feudali la ristaurazione del governo del principe di Monaco, s'aprirebbe il varco a dissidii e a torbidi, da cui risulterebbero danni gravissimi alle nostre libertà costituzionali. Nell'uno e nell'altro caso io dovrei tosto rimettere in altre mani l'alto indirizzo degli affari pubblici del paese Non è a un alto ingegno, non è a una profonda scienza politica,

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ma alla sola lealtà e onestà di procedere ch'io debbo i risultati di governo da me ottenute attraverso a difficoltà gravissime. Ho preso un impegno; se vi mancassi, se accennassi soltanto a transigere, guasterei l'opera intiera della mia vita, mi spoglierei d'ogni forza morale, non potrei più essere d'alcuna utilità al mio re e al mio paese (23). - Erano nobili parole che il primo ministro del re del piccolo Piemonte faceva suonar alto all'orecchio di chi guidava la politica esteriore d'una nazione, cui la provvidenza sembrava avesse affidato, in compenso di benefizi incomensurabili, il dovere di proteggere ovunque la causa della giustizia e della libertà. Ma effettivamente non fu mai cosi. Sempre e per tutto l'utile della Gran Bretagna è la guida indeclinabile, è il termine prefisso della politica esteriore di quegli uomini di Stato. Palmerston a quei giorni aveva abbandonata la politica di Canning per abbracciare quella di Castlereagh con uno zelo degno d'un austero tory, perché era nell'interesse dell'Inghilterra di mettersi nei migliori termini coi Potentati nordici, mentre l'Impero napoleonico s'approssimava a rendere col suo ristauro, più che dubbioso, oscuro l'avvenire per la pace europea.

Il Gabinetto di Londra contrastava al Piemonte il possesso definitivo di Mentone e di Roccabruna per dar prova all'Austria e alla Russia del suo rispetto verso i trattati del 1815; il Gabinetto di Parigi andava difilato sulla stessa via per l'identica ragione. Nel 1848 il Governo repubblicano aveva assentito che nei porti francesi le navi mercantili mentonasche fossero pareggiale a quelle della Sardegna, purché ne inalberassero la bandiera:

(23) Dispaccio Azeglio all'ambasciatore sardo in Londra, Torino 11 luglio 1851.

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ma nel 1851 i ministri parigini dichiaravano che non potevano più a lungo lasciar correre questa concessione, dappoiché il Piemonte erasi impossessato di Mentone colla violenza e contravvenendo alla legge comune europea (24). La leva per sollevare questa opposizione era stata posta in moto massime dai conti Montalambert e De Merode, uniti in stretti legami di parentela col principe di Monaco, e desiderosi di suscitare imbarazzi di ogni sorta al Piemonte in lotta con Roma (25). Correvano giorni, ne' quali il presidente della Repubblica usava le maggiori blandizie al partito cattolico per averlo docile strumento a' suoi fini dinastici. Non cessavano quindi le sollecitazioni della Francia alla Sardegna, onde rimettesse le cose del principato di Monaco nello stato fatto loro dai trattati del 1815. Azeglio ordinò all'ambasciatore sardo in Parigi di portarsi dal ministro sopra gli affari esteri per manifestargli l'alta meraviglia che pròvava il Gabinetto di Torino nell'udire dal Governo della Repubblica posto in dubbio il valore del suffragio universale. Dopo le testimonianze di buon vicinato date alla Francia così nelle cose politiche come nelle cose commerciali, il ministero del re Vittorio Emanuele non si sarebbe aspettato mai di vedere il Gabinetto parigino risuscitare la questione di Monaco. Ma da che avevalo fatto, sapesse che il ministero era deliberato a rassegnare le sue dimissioni anziché prestarsi a ricacciare sotto un pessimo governo una popolazione, che per liberarsene aveva invocala e conseguita la protezione del suo alto Signore (26). Visto che stando del tutto sul tirato non si veniva ad alcun risultamento, il Gabinetto di Parigi

(24) Dispacci Gallina, 2 aprile e 12 giugno 1851.

(23) Dispaccio Collegno, Parigi 21 marzo 1852.

(26) Dispaccio del presidente del Consiglio dei ministri all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 17 marzo 1852.

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propose si aprisse un negoziato, pel quale la Francia offriva la sua mediazione, sotto la clausola che gli abitanti di Mentone e di Roccabruna fossero chiamati a un plebiscito. La mediazione venne declinata, giudicandola troppo pericolosa agli interessi della Sardegna; si accettarono bensì i buoni uffizi della Francia. La proposta del plebiscito venne accolta, purché rimanesse ristretta alla scelta o del re di Piemonte o del principe di Monaco (27).

Il negoziato s'intavolò in Parigi. Giacinto Collegno, incaricato d'aprirlo per la Sardegna, offrì per l'acquisto di tutto il principato di Monaco novantamila lire italiane di reddito annuale, inscritte nei registri del debito pubblico sardo. Questa somma poteva essere aumentata di trentacinquemila lire, se il proposto contralto prendeva una buona piega. Il principe di Monaco rispose che non intendeva per qualunque prezzo spogliarsi della sua sovranità. Ciò udito, il Gabinetto di Parigi, spalleggiato da quello di Londra, si pose a caldeggiare un negoziato ristretto alla cessione di Mentone e di Roccabruna. Per il possesso di questi due Comuni la Sardegna fece l'offerta di settantacinquemila lire annue di rendita al principe; il quale, assentendo in massima, portò le sue pretensioni al di là d'ogni equa misura. Scartate le inammessibili, quali erano la rinunzia del diritto di tenere presidio in Monaco, e il distacco d'una parte del territorio di Roccabruna per rimetterla sotto il giogo antico, il Governo piemontese, ridode le altre a termini di convenienza, le comunicò al principe. Egli nulla rispose, ma mostrò di non mirare a buon giuoco coll'indirizzare alle Potenze segnatarie dei trattati del 1815 una protesta contro le usurpazioni della Sardegna a suo danno. (27) Dispacci in cifra all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 28 marzo e 11 aprile 1852.

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I ministri francese e inglese in Torino la comunicarono al Governo, chiedendo spiegazioni; le quali manifestamente miravano a premere onde le trattative si riprendessero con un'altra offerta di maggior compenso di danaro al principe per la cessione de' territorii di Mentone e di Roccabruna (28). Tuttavia la pratica rimase interrotta fin oltre la metà dell'anno 1854.

III.

Degli Stati costituzionali sorti dal grande moto di libertà manifestatosi in Europa nel 1848, al chiudersi del 1850 il solo Piemonte rimaneva in piedi; ma i pericoli gli si addensavano attorno da poiché addì 2 dicembre di quest'anno ogni insegna di repubblica scompariva dalla Francia, che per via di plebiscito inaugurava l'Impero. Drouyn de Lhuys notificò ai Governi europei quel fatto per una circolare, nella quale era detto che la Francia, nello scegliere il governo che era il più proprio alle sue tradizioni, a' suoi costumi, al posto che occupava nel mondo, non intendeva di mutare politica nelle sue relazioni internazionali. L'imperatore riconosceva e approvava tutto ciò che il presidente della Repubblica avea riconosciuto e approvato nel corso degli ultimi quattro anni. Il Governo imperiale, geloso de' suoi diritti, rispetterebbe appieno i diritti di tutti gli altri Governi, e porrebbe tutto il suo impegno alla conservazione della pace (29). Era un avvenimento di un'importanza colossale,

(28) Note Collegno, Parigi 1 e 30 aprile 1852. - Nota Turgot, Parigi 10 giugno 1852. - Nota Collegno, Parigi 12 luglio 1852. - Processo verbale della seduta 19 novembre 1852 del Consiglio dei ministri.

(29) Nota circolare Drouyn de Lhuys, Parigi 1 dicembre 1852.

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ma che non giungeva impreveduto. Azeglio pertanto aveva in tempo utile istruito l'ambasciatore sardo in Parigi per impedire che la tardanza del Piemonte nel riconoscere il nuovo Stato in Francia suscitasse dubbii e sospetti, che conveniva impedire. Villamarina, nel giorno in cui l' Impero fosse proclamato, doveva testimoniare la soddisfazione piena del re di Sardegna e del suo Governo per un avvenimento che, assicurando un governo stabile alla Francia, era una guarentigia di tranquillità per l'Europa (30). Il legato sardo così fece con parole dignitose. Fu ottimo consiglio far subito ciò che pure far si doveva, senza tenersi al suggerimento che l'Inghilterra aveva dato d'aspettare che i maggiori Potentati si mettessero d'accordo. Il Gabinetto di Londra infatti piantò, sul più bello dei segreti concerti, i Gabinetti di Vienna, di Berlino e di Pietroburgo, come da un lato ebbe l'assicurazione che Napoleone III accettava coi loro atti tutti i Governi esistiti dal 1814 in poi, e dall'altro lato la dichiarazione che i rapporti internazionali tra la Francia e l'Inghilterra verrebbero rotti ove quest'ultima, nello spazio di ventiquattr'ore, non riconoscesse l'Impero. Abbandonate inopinatamente dall'Inghilterra, le Corti nordiche tralasciarono ogni accordo preventivo, e soltanto fecero le loro riserve relativamente alle conseguenze del plebiscito. Personalmente l'imperatore Francesco Giuseppe si mostrò assai soddisfatto di vedere Napoleone III entrare nel consorzio dei sovrani. - L'Austria e la Francia, egli disse all'ambasciatore imperiale, ornai debbono aver in comune la grande opera di conservare la pace all'Europa; perciò l'uria ha bisogno dell'altra; da parte mia procederò colla migliore schiettezza,

(30) Istruzioni confidenziali riservato Azeglio, Torino 11 ottobre 1852.

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e confido che tale sia l'intenzione dei nuovo monarca francese (31). - Napoleone, per agevolarsi la via di salire al trono, aveva accennato a cangiamenti nelle relazioni tra lo Stato e la Chiesa di grande vantaggio all'autorità ecclesiastica.

Divenuto imperatore, per tirare Pio IX in Parigi a incoronarlo, gli aveva fatto balenare agli occhi la speranza di modificazioni nel senso cattolico alla legge sul matrimonio. Il papa era proclive a seguir l'esempio di Pio VII; ma prevalse il parere contrario del cardinale Antonelli (32). La politica francese avea lasciato libero il corso alla preponderanza austriaca nella Toscana (33); tornò caro pertanto a Leopoldo li la riappariziooe dell'impero napoleonico. La Corte di Modena dal 1830 in poi riconosceva Enrico V di Borbone solo re legittimo eli Francia e di Navarra: il duca Francesco V persistette in questo proposito all'elezione di Napoleone III. Il Governo napoletano a quei dì era in aperta rottura col Piemonte (33). Il rifiuto di Ferdinando lì di patteggiare la lega austro-italica, aveva raffreddate le sue relazioni colla Corte di Vienna. Le lettere pubblicate da Guglielmo Gladstone, l'invio delle medesime fatto da Palmerston alle primarie cancellerie europee, la violenza usata da questo ministro inglese nel rispondere alle rimostranze napoletane per un tal procedere, le riparazioni domandate per gli sfregi ricevuti e non conseguite al ministero Tory, avevano svegliato amare dubbiezze nel Governo napoletano

(31) Dispacci Revel al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 1, 9 e 10 dicembre 1852, 4 e 10 febbraio 1853. - Dispaccio Buol alla Legazione imperiale in Parigi, Vienna 23 dicembre 1852.

(32) Dispacci Bargagli al ministro degli affari esteri in Firenze, Roma 5 novembre 1852 e 4 marzo 1853.

(33) Lettera Baldasseroni al Granduca, Firenze 15 luglio 1852.

(34) Circolare Azeglio alle Legazioni sarde, Torino 22 marzo 1852.

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intorno alle intenzioni dell'Inghilterra sulla Sicilia (35). Condotto da questo complesso di fatti, a cercar modo di gratificarsi l'uomo che da padrone paleggiava i destini della Francia, Ferdinando li volle precedere tutti gli altri sovrani nel riconoscere l'impero. In effetto esso non anco esisteva di fatto, quando l'ambasciatore napoletano in Parigi presentò le sue nuove credenziali. I timori e i sospetti di macchinazioni murattiane tuttavia non lardarono a sorgere crucciosi nell'animo di Ferdinando e de' ministri suoi. Lord Aberdeen avea scritto al re che il principe Luciano Murat era in grande favore nella Corte imperiale, e che non celava l'ambiziosa sua speranza. L'incaricato diplomatico in Torino avvisava che i fuorusciti napoletani e siciliani teneano frequenti e segreti convegni con alcuni uffiziali francesi in via per portarsi ad assistere in Napoli alle grandi manovre militari comandate dal re. A tener lontani questi ospiti sgraditi, il Governo borbonico ricorse al volgare spediente di porre in quarantena la nave che portavali, dietro il pretesto che aveva merci provenienti dall'Inghilterra, ove erasi manifestato il cholèra morbo. Il Governo imperiale, punto sul vivo, chiese una immediata riparazione dell'atto scortese, altrimenti verrebbero interrótte le relazioni diplomatiche fra i due paesi. Non ottenutala, l'ambasciatore francese partì da Napoli; ma tosto vi tornò dietro le scuse e le sollecitazioni del Governo di Ferdinando (36). I germi di cospirazione murattiane in realtà erano sin d'allora diffusi nelle terre napoletane, benché con circospezione estrema, da segreti agenti francesi. Come vi attecchissero per nuovi umori fecondanti, Io vedremo a suo luogo.

(35) Dispacci del principe di Castelcicala al ministro degli affari esteri in Napoli, Londra 22 e 28 ottobre 1852.

(36) Dispacci in cifra del ministro degli affari esteri di Napoli al marchese Antonini in Parigi, 3 e 29 novembre 1853.

CAPITOLO QUARTO

Sommario

Politica esteriore del nuovo Gabinetto piemontese - Nuove proteste dell'Austria contro la stampa quotidiana subalpina - Istanze dell'ambasciatore imperiale in Torino, come accolte - Dichiarazioni del ministro Pabormida - Rimostranze della Francia conforme a quelle dell'Austria - Aperte dichiarazioni degli uomini di Stato viennesi per abbattere la costituzione nel Piemonte - Nobili dichiarazioni del re e del generale Dabormida - Pratiche per avere l'appoggio dell'Inghilterra Colloquio del marchese d'Azeglio con lord Claicndon - Osservazioni - Principio della questione dei sequestri - Ragioni addotte dal Gabinetto di Vienna - Risposte del Gabinetto di Torino.- Osservazioni - Nuovi argomenti del conte Buol - Intromessione dei Gabinetti di Londra e di Parigi fino a qual punto spinta, fino a qual punto accettala - Deliberazioni del ministero piemontese - Suo memorandum - Suoi effetti e come accolto dalla diplomazia - Pressioni diplomatiche dell'Austria sulla Svizzera - Blocco alle sue frontiere - Inconsulto contegno del Governo elvetico verso il Piemonte - Dichiarazioni relative del legato sardo in Berna - Buoni uffizi del Gabinetto di Torino verso la Svizzera - Controversia per domanda di estradizione non assentita tra le Corti di Modena e di Torino - Ripresa della questione di Mentone e di Roccabruna - Segrete proposte eventuali per mettere sul trono di Spagna il duca di Genova - Risposta del ministero piemontese.

I.

Nel novembre del 1852 Massimo D'Azeglio lasciò con benevola spontaneità la presidenza del Consiglio dei ministri al conte Camillo Cavour (J). Era tempo che un moto progressivo succedesse nella politica interiore del Piemonte. Il capo del nuovo ministero vi diede il primo impulso con previdenza e coraggio, staccandosi dai conservatori indugiatiti o soprastanti per associarsi ai democratici, che con saviezza volevano lo sviluppo regolare

(1) Lettera Cavour al conte di San Martino, Parigi 25 settembre 1852.

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e progressivo dello Statuto largito da Carlo Alberto. Ma negli andamenti della politica esteriore non successero mutazioni notevoli. A dirigerla fu chiamato il generale Giuseppe Dabormida il quale, come sacro deposito accolse le massime di giustizia, di lealtà, d'indipendenza e di dignità nazionale che Azeglio aveva proclamato e praticato, guadagnando per esse al Piemonte la riputazione nell'Europa di un paese che, se non voleva violare il diritto altrui, era risoluto agli ultimi sacrifizi piuttosto che cedere il suo proprio.

I crucci e i pericoli del di fuori erano tutt'altro che diminuiti, e primeggiavano pur sempre le questioni spinosissime della stampa e de' fuorusciti. Intemperanze, calunnie e scurrilità andavano realmente in giro per la stampa quotidiana; ma erano opera di pochi diarii repubblicani, ai quali mancava la coscienza di quel decoro, senza cui la libera parola cessa d'essere efficace potenza educatrice. Ma non erano meno intemperanti e virulenti alcuni diarii clericali nello screditare il re, i suoi ministri, il Parlamento. A questa oscena battaglia di pochi, è anche vero, alcune volte s'aggiungeva lo sdegno scandescente della buona stampa quotidiana contro l'Austria e contro i principi vassalli suoi; ma erano crudeli opere di sangue o insolenti oltraggi al sentimento nazionale che facevanlo scattare. Nel novembre del 1852 una cospirazione, rimasta nel limite di un chimerico disegno, diede materia in Mantova a un giudizio statario, onde cinque Italiani furono appesi alle forche, altri gittati negli ergastoli. Alla sanguinosa tragedia la stampa costituzionale piemontese unanime alzò un grido di riprovazione. Il Gabinetto di Vienna chiese tosto al Governo di Torino che volesse fare pubblica dichiarazione d'indignazione e di orrore per le diatribe scagliate dai diarii piemontesi contro l'imperatore e il suo Governo

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per le eseguite sentenze di Mantova (2). La risposta fu ventilata nel Consiglio dei ministri, e fu deciso di dare all'Austria una nuova prova di moderazione. Il ministro degli affari esteri ebbe l'incarico di manifestare al conte Appony il dolore del Governo del re per l'abuso che alcuni diarii facevano della libertà della stampa; e il ministro delle cose interne venne incaricato di far stampare nell'effemeride ufficiale uno scritto, nel quale, serbato il silenzio intorno alle sentenze di Mantova, si manifestasse il rincrescimento del Governo su intemperanze dannose a una delle più care libertà del paese. Il conte Buol non si tenne per soddisfatto, e per desistere dalle rimostranze, chiese che il ministero piemontese prendesse l'impegno solenne di uscir fuori a far solenni riprovazioni ogniqualvolta i diarii del regno mancassero di rispetto alla persona dell'imperatore Francesco Giuseppe. Quando Apponv fece questa proposta, Dabormida gli rispose: - La libertà della stampa nel nostro paese realmente è fondata su basi assai larghe; ma i suoi sviamenti possono sempre essere colpiti dalla legge. Per le offese dei capi de' Governi esteri il ministero pubblico intenta un processo semprecchè abbia l'istanza della parte offesa. Io non voglio discutere ora le ragioni per le quali il Governo imperiale non si appiglia a questo partito legale; ma è dover mio d'osservare che, procedendo in tal modo, i ministri imperiali ci póngono nell'impossibilità di punire la colpa, e di rendere coll'esempio della condanna più corretta la stampa quotidiana. La proposta fattaci condurrebbe a un risultalo opposto al desiderato. Noi tuttavia vogliamo mostrarci condisccndevoli all'Austria sino all'ultimo limite del possibile. Indirizzateci una nota officiale

(2) Dispaccio Buol al conte Appony Vienna 5 gennaio 1853.

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redatta in termini convenevoli, e noi risponderemo del pari con una nota officiale che il Governo del re altamente disapprova gli assalti violenti della nostra stampa quotidiana contro la persona dell'imperatore, e gli eccitamenti suoi alla ribellione (3). - Buol declinò il partito della nota, e rispose che l'imperatore pazienterebbe ancora, il suo ministro rimarrebbe in Torino, ma verrebbe senz'altro richiamato ove alle prime intemperanze d'un qualche diario il ministero, come s'era impegnato, non le colpisse d'una pubblica nota di condanna (4). Dabormida s'accorse della gherminella, e a svincolarsene subilo notificò al Gabinetto di Vienna che egli aveva soltanto promesso di reprimere con operosità gli eccessi della stampa, ma ben inteso sempre entro i limiti delle leggi (5). Il cattivo giuoco dell'Austria era palese. Essa querelavasi aspramente contro la stampa quotidiana piemontese, riversava la responsabilità de' suoi eccessi sul Governo regio, e in pari tempo rifiutava d'associarsi al medesimo per la loro legale repressione che ad ogni costo chiedeva e pretendeva. Attanagliandolo fra questa impossibilità tormentosa e la necessità politica di non prendere un'attitudine ostile verso il suo potente vicino, mirava a spingere il Governo piemontese per la via delle restrizioni alla libertà della stampa, e quindi sul pendìo inevitabile della reazione. La speranza del Gabinetto di Vienna era rafforzata dalla cooperazione della Francia. E vero che i ministri parigini dicevano e scongiuravano che i loro consigli muovevano dal desiderio sincero di mantenere al Piemonte salve le sue libertà; ma,

(3) Dispaccio Dabormida al conte di Revel in Vienna, Torino 17 febbraio 1853.

(1) Dispaccio Buol al conte Appony, Vienna 25 febbraio 1853.

(5) Dispaccio Dabormida al conte di Revel in Vienna, Torino 1 marzo 1853,


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come abbiamo avvertito altrove, accolti che fossero stati, le avrebbero minate.

Mentre Appony faceva le narrate insistenze, De Butenval si presentava a Dabormida per leggergli un dispaccio di Drouyn de Lhuys. Tre argomenti v'erano posti in campo, la questione di Monaco, le controversie colla Santa Sede per le abolite decime nell'isola di Sardegna, gli sviamenti della stampa quotidiana. Rispetto a Monaco, il ministro francese diceva che il tardato accordo col principe produceva un sinistro effetto. Dabormida rispose a De Butenval che egli doveva rammentarsi che, dietro le istanze amichevoli del Governo francese, il Gabinetto di Torino avea fatto delle proposte al principe di Monaco, alle quali costui non peranco aveva risposto; la tardata soluzione della controversia non doversi pertanto ascrivere al Piemonte, sempre volenteroso di un equo accordo.

Per l'avvenuta abolizione delle decime nella Sardegna Drouyn de Lhuys lamentavasi che non si fosse aspettato di venire a un accordo preventivo colla Santa Sede. - Ma se non è stato possibile, dietro le pretese e gli inciampi sollevati dalla Corte di Roma, - osservò il ministro piemontese. De Butenval non replicò nulla su questo argomento, e portò il suo discorso sul punto cardinale del dispaccio. Il ministro francese degli affari esteri non palliava punto che le sue osservazioni e i suoi consigli sulla stampa quotidiana nel Piemonte provenivano dalle dichiarazioni fattegli dall'ambasciatore austriaco in Parigi, che a lui aveva ripetuto ciò che Appony aveva detto a Dabormida. Ripassati che questi ebbe a Butenval tutti gli argomenti addotti ad Appony per capacitarlo dell'impossibilità in cui era il Governo piemontese d'acconsentire alle domande dell'Austria, conchiuse così: - Lasciatemi manifestare tutta la mia sorpresa, tutto il mio scoraggiamento nel vedere il Governo francese, cui noi

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ci studiamo di porgere di continuo sincere prove d'amicizia, venire in aiuto delle istanze dell'Austria, e servirle d'ausiliario, direi quasi, nelle sue ostilità contro la libertà d'un paese che ha confidato sull'appoggio della Francia. Noi siamo deliberati d'agire di buona voglia nel reprimere gli scarti e le intemperanze della stampa quotidiana, e massime contro gli attacchi ingiuriosi ai capi dei Governi stranieri; ma sempre entro i termini delle leggi esistenti. Ove una pressione straniera dovesse condurre a restringere la legge attuale sulla stampa, il ministero si dimetterebbe, e per la forza naturale delle cose di concessione in concessione si entrerebbe in un ordine di fatti, che avrebbe per conseguenza inevitabile di gittare il Piemonte nelle braccia dell'Austria. - II ministro francese non entrò nel midollo della questione, si restrinse a certificare che il Gabinetto di Parigi nel P intromettersi nelle controversie tra l'Austria e la Sardegna non aveva che il solo pensiero, non mirava che all'unico fine di tutelare a quest'ultimo le sue libertà. - Intanto, replicò Dabormida, l'appoggio che la Francia concede alle esigenze dell'Austria, sia pure a noi benevolo il pensiero che la induce a far ciò, ricondurrà nondimeno il Piemonte sotto gli influssi che dovette subire prima degli avvenimenti dell'anno 188. - Villamarina ebbe l'incarico di ripetere queste cose a Drouyn de Lhuys, coll'aggiunta di capacitare il ministro parigino che, tra i grandi interessi permanenti della politica della Francia, stava quello di tenere il Piemonte svincolato dall'alleanza dei potentati nordici e suo alleato operoso e fidato (6). Drouyn de Lhuys lasciò questa osservazione senza risposta, bensì fece un lungo e caloroso discorso per provare che i consigli e i suggerimenti della Francia

(6) Dispaccio confidenziale Dabormida, Torino 1 febbraio 1853.

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erano i soli salutari per il. Piemonte (7). Erano cose dette e ridette a sazietà, dalle quali in realtà l'Austria cavava continuo argomento ad imbaldanzire vieppiù contro il Piemonte. I suoi diplomatici ornai favellavano fuor d'ogni reticenza. Hubner, incontratosi in Parigi col duca di Guisa, dopo essersi destreggiato a guadagnarsene l'animo, gli disse: - La Lombardia non sarà tranquilla, il Piemonte non sarà felice, se non nel giorno in cui voi e il conte Appony vi porterete dal re per dichiarargli che è tempo che egli dia un calcio alle istituzioni liberali, le quali non hanno radice alcuna nel paese. - Dabormida raccontò questo colloquio a Vittorio Emanuele, il quale se ne mostrò irritatissimo. - Voi sapete, generale, egli concluse, che io non ambisco altra gloria all'infuori di quella di rendere felici i miei popoli; voglio che la storia dicadi me: fu un re galantuomo; però nel giorno in cui mi fosse vietato di far il bene e di mantenere i miei impegni e le mie promesse, scenderei spontaneo dal trono. - Alla nobile e generosa parola del re facea degno seguito quella del suo ministro sugli affari esteri. Dabormida, nel ragguagliare l'ambasciatore sardo in Parigi di tutto ciò, scriveva così:

In questi giorni di reazione generale, in un tempo nel quale gli interessi materiali soffocano ogni generoso sentimento, non ho la temerità di affermare che usciremo illesi dalla crisi.

Il giorno in cui i due nostri potenti vicini si mettessero d'accordo per imporci la legge dei più forti, e l'Inghilterra ci consigliasse di fare delle concessioni, le condizioni nostre veramente diverrebbero difficili. Ma senza menar vanti, abbiamo la convinzione che salveremo sempre il nostro onore. Porteremo la difesa sino ai limiti estremi, e cederemo solamente quando non sarà possibile di fare altrimenti. Parlo di crisi, perché ho piena fede nell'avvenire delle nazioni, perché sono convinto

(7) Lettera particolare Villamarina al generale Dabormida, Parigi 9 marzo 1853.

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che la presente reazione così minacciosa non può essere di lunga durata. I progressi materiali, le facilità aperte al contatto vicendevole dei popoli, a parer mio, rendono impossibile il ritorno durevole e tranquillo dell'assolutismo. Noi siamo minacciati da un uragano; ma il tempo bello tornerà, e felici i governi, felici i popoli che non avranno mancato di fede alla libertà (8).

Il peggio era che, ove l'uragano fosse scoppiato, il Piemonte doveva calcolare di far assegnamento soltanto sulle sue forze per tentare di tenersi in piedi, da che era ornai d'uopo smettere la speranza d'aiuti efficaci per parte dell'Inghilterra. A fare un altro tentativo per conseguirlo il marchese Emanuele d'Azeglio disse a Clarendon: - La Gran Bretagna è minacciata dall'alleanza delle potenze nordiche; e intanto non debbo dissimularvi, o milord, che la politica che il Gabinetto di Londra pratica attualmente in Italia, non potrebb'essere più ruinosa pei suoi interessi. Noi non serbiamo la minima illusione. Il mio Governo è tenuto a giorno di tutte le disposizioni vostre a suo riguardo. Siamo sempre disposti a rendervi giustizia e ad esservi grati per i segnalati servizi che ci avete reso presso la diplomazia; ma non aspettiamo da voi alcun sostegno materiale nel giorno del pericolo. La nostra condizione è ben dura. Ponetevi, milord, per un istante al nostro posto a osservare il contegno dei Governi assoluti verso i loro alleati. Basta imporre a un paese un Governo detestabile, per esser sicuri di ottener danaro e soldati. Ne è prova l'iniquo Governo di Napoli, ne è prova l'assurdo Governo del papa, e lo certificano i Governi vessatorii e tremebondi di Modena, di Parma, di Firenze. Mentre essi tutti possono fare assegnamento d'essere difesi e guarentiti dall'Austria al prezzo del loro vassallaggio,

(8) Lettere Dabormida al marchese Salvatore Pes di Villamarina in Parigi, Torino 26 e 29 aprile 1853.

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re Vittorio Emanuele, onorato e leale principe, il suo Governo, fedele alle franchigie costituzionali, se chiedono ai propri alleali l'appoggio di cui abbisognano per procedere, non incontrano che risposte evasive e consigli di cedere, - Clarendon con tristezza rispose: - Avete ragione. - Il legato sardo riprese con calore di parola: - Ben lo so che ho ragione, ma essa non basta a trarci d'impiccio. - Ad Azeglio era balenata in mente una speranza, della quale avea informato il suo Governo, che avevagli risposto di coltivarla. Risguardava la formazione d'una alleanza delle potenze occidentali con a capo la Francia e l'Inghilterra. Azeglio prese l'opportunità di questo colloquio per parlarne a Clarendon.

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Facciamo, gli disse, tacere tutte le piccole gelosie, e poniam fine alle diffidenze per salvaguardarci in comune dalle insidie e dagli assalti aperti dei nostri nemici. Mostriamo di volere e saper fare quanto di meglio pe' suoi interessi vuole e sa fare il despotismo. Bisogna togliere agli avversari il vantaggio delle nostre discordie per indebolirci e vincerci l'un dopo l'altro. Quando i piccoli stati occidentali saranno schiacciati, cadranno vinti i grandi. Dopo che le maggiori potenze avranno sacrificalo i proprii amici al loro egoismo, si troveranno esse pure senza amici. - Alla mente del ministro inglese si affacciarono tosto due grosse difficoltà, la demagogia e il nuovo Stato in Francia. - Noi, osservò, avremmo sulle braccia tutti i rivoluzionari dell'Europa. - Ma no, replicò Azeglio; noi dobbiamo addirittura romperla a visiera alzata con i repubblicani ei demagogi, e alzare ben alto la bandiera costituzionale. - In quanto alle condizioni nuove, nelle quali era entrata la Francia, Clarendon non aveva fede sulla stabilità loro; onde nel suo concetto la lega mancava di base. Nel corso della conversazione il ministro inglese avea detto:

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- Voi sapete che l'Inghilterra fa più di quanto promette. - A cui Azeglio sorridendo: - Per verità so questo che siete dominati dal timore che una promessa d'aiuto materiale ci faccia agire con troppo di temerità. - Un sorriso sfiorò pure le labbra di Clarendon, susseguito da queste parole: - Veramente temo che in Torino siasi troppo diffusa la voce che l'Inghilterra vi sosterrà checche avvenga. - Invece si crede il contrario: ma di grazia, milord, è vero che la flotta inglese svernerà nel porto di Genova? - A questa domanda di Azeglio Clarendon rispose: - Non saprei dirvelo, - e a mezza bocca aggiunse: - Ma in ogni caso non sarà lontana di molto (9). - Le cose così procedendo, camminavano tutt'altro che propizie al Piemonte; e se l'Austria fosse stata meno intemperante ne' suoi disegni, e più franca e previdente nei suoi calcoli politici, avrebbe potuto suscitare a questo suo odiato nemico travagli all'estremo dannosi. Ma da che essa si fece a pretendere non soltanto il superlativo, ma l'iniquo, si voltò contro l'opinione pubblica dell'Europa, e colle sue mani tagliò i nervi agli aiuti che avevanle prestato la diplomazia inglese e francese. Dopo tanta mutazione di condizioni politiche oggi si sente un calmo interesse storico nel tener dietro a questo ruinoso gioco.

II.

Un delirio di fidanza mazziniana, addì 6 febbraio del 1853, dava luogo in Milano a una sommossa in un subilo vinta. Il Governo piemontese aveva avuto qualche sentore delle pratiche dei cospiratori, e quindi non era rimasto colle braccia incroccichiate.

(9) Rapporto riservato Azeglio al ministro degli affari esteri in Torino, Londra 16 marzo 1853.

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Lungo le frontiere del Ticino vennero scaglionati drappelli di soldati a impedire che bande armate dal Piemonte portassero aiuti alla rivolta; fu ordinato l'immediato imprigionamento di tutti i fuorusciti, che senza plausibile motivo avesser lasciati i luoghi delle ordinarie loro dimore; vennero espulsi dal regno coloro degli esuli che avevano partecipato alle pratiche de' cospiratori (10). Questo procedere apparve così franco e leale al Gabinetto di Vienna, da fornire argomento al conte Buol di ringraziamenti e di profferte di ricambi di buon vicinato al legato sardo in Vienna (11).

Il Gabinetto di Parigi se ne mostrò del pari soddisfatto, e Drouyn de Lhuys disse a Villamarina: - Poiché in circostanze così delicate il contegno del Governo piemontese è stato mirabile, bisogna cogliere questa buona occasione, nel quale è rifulso lo spirito di lealtà e d'ordine del Piemonte, per appianare le difficoltà relative alla stampa. Ho scritto pertanto a La Cour di portarsi tosto dal conte Buol per agire in questo senso (12).

Il ministro francese cullavasi in isperanze vanissime.

Con un editto imperiale venne per sequestro tolto l'uso delle proprie sostanze a tutti i fuorusciti veneti e lombardi. Dabormida fece chieder tosto se il provvedimento comprendeva gli esuli delle provincie italiane dell'Austria, divenuti sudditi del Piemonte. Se così fosse, Revel doveva protestar tosto contro cotale violazione palpabile di un recente trattato e del diritto internazionale. L'ambasciatore sardo in Vienna a far ciò non aveva aspettato istruzioni. Buol da prima cercò di schermirsi dal dare una risposta esplicita; ma posto alle strette, dichiarò chiaro e tondo che, se l'atto del sequestro era illegale,

(10) Dispacci Dabormida, Torino 8 e 9 febbraio 1853.

(11) Dispaccio Revel, Vienna 16 febbraio 1853.

(12) Dispaccio Villamarina, Parigi 12 febbraio 1853.

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era però necessario per la sicurezza della monarchia (13).

Non tardarono a giungere in Torino solenni dichiarazioni diplomatiche in questo senso. In esse il ministro austriaco sopra gli affari esteriori favellava aspro e sdegnoso: - I principali macchinatori delle passate ribellioni giammai hanno fatto un minimo passo per esser perdonati. Essi si sono stanziati in prossimità delle nostre frontiere per ispiare ogni buona occasione a tradurre in atto i loro disegni ostili all'Austria. Il tentativo di sommossa, manifestatosi ultimamente con ferocità accanita, si deve ascrivere in buona parte al contegno colpevole dei fuorusciti che si appellano prudenti. Il Governo sardo, fattosi protettore degli esuli, alzava la sua voce per favorirli. Ma era lecito di chiedergli con quali espedienti avea curato di porre un limite alla colpevole operosità dei proscritti ai danni dell'Austria, con quali provvedimenti si era studiato di frenare un'abbominevole stampa quotidiana alimentata dal danaro dei facoltosi esuli lombardi, e assidua nell'eccitare a ribellione i sudditi italiani dell'impero. Indarno le autorità austriache avevano chiesto alle piemontesi di dare lo sfratto dal regno a cospiratori pericolosissimi: indarno avevano domandato, dietro patti convenuti, la consegna di accusati di perduellione.

Ridotto alla necessità di fare soltanto assegnamento sulle proprie forze, il Governo austriaco aveva esercitato il diritto della legittima difesa, e aveva trattato comeIo meritavano sudditi divenuti suoi nemici implacabili.

Distinzioni e eccezioni tra fuorusciti e fuoruscili non so ne dovevano fare; tutti erano colpevoli: i più disperati erano gli strumenti attivi delle sommosse; i più cauti attendevano per profittare delle violenze dei figli perduti della rivoluzione.

(13) Dispacci Revel, Vienna 1 e 7 marzo 1853.

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Nella pienezza della sua sovranità l'imperatore avea decretato staggite le proprietà dei fuorusciti, e non riconosceva in alcun Governo straniero il diritto di chiedere le prove autentiche della reità dei colpiti. Non si trattava di sentenze giuridiche; il sequestro era un provvedimento di pubblica sicurezza, diretto a impedire che i beni non fossero usati contro la tranquillità e l'esistenza dello stato ov'erano posti. Esso sino a un certo segno servirebbe di pegno sul contegno avvenire dei fuorusciti, e compenserebbe i danni sofferti dallo Stato per le loro settariche macchinazioni (14). - Il ministero piemontese si trovava sull'orlo d'un tranello, e a precipitarvi entro sarebbe bastato un solo passo imprudente. Se ne accorse di sbalzo Dabormida, e confidenzialmente scrisse a Revel: - Il Gabinetto di Vienna si gitta dietro le spalle promesse iterate fatteci nel negoziare la pace di Milano, annulla l'amnistia accordata nel 189, revoca gli effetti del decreto imperiale del 29 dicembre 1850, disconfessa le sue leggi, viola trattati solenni; l'Austria con tutto ciò vuole sospingere il Piemonte per una via, nella quale sorgerebbero tali complicazioni, da darle libera la mano di esercitare su noi una pressione pericolosa. Non vi ci lascieremo condurre, ma non verremo meno ai nostri doveri e ai nostri diritti (15). - Tracciatasi questa linea di condotta, il ministro piemontese sugli affari esteri da abile schermitore mandava a vuoto i colpi dell'avversario col rispondere alla nota di Buol: - La personalità giuridica dei fuorusciti lombardi divenuti sudditi sardi è una condizione essenziale del trattato di pace di Milano. Il rescritto imperiale del 29 dicembre 1850 ha spogliato dei diritti ed ha svincolato dai doveri della sudditanza austriaca tutti i fuorusciti che

(14] Nota Buol, Vienna 9 marzo 1853.

(15) Dispacci confidenziali Dabormida a Revel, Torino 17 marzo e 1 aprile 1853.

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nel triennio fissalo non erano ripatriati, o avevano chiesto la facoltà di ciò fare. Tutti coloro pertanto che erano in colai condizione, ed avevano ottenuto la naturalità della Sardegna, si trovano verso il Governo austriaco nel diritto comune agli altri stranieri possessori di beni nella Lombardia. Di più il trattato di commercio del 18:ji tra la Sardegna e l'Austria assicura ai sudditi della prima il pieno e tranquillo possesso delle proprietà loro sul suolo lombardo. Conseguitarne che per tutti i fuorusciti, che erano in possesso delle prerogative di suddito sardo, a sequestrarne i beni bisognava che nelle forme regolari procedessero e sentenziassero i tribunali. La dignità nostra rimane ferita per il solo fatto di sentirci chiamati a purgarci da accuse che offendono quella lealtà di procedere, che non abbiamo dato il diritto a chicchessia di contestarci. Pure, a togliere un pretesto politico ad un atto illegale, faremo breve risposta. Il Piemonte è designato per un focolare di cospirazioni contro l'Austria; ma ben più nella Lombardia e negli altri Stati italiani si agitano irrequieti gli elementi rivoluzionari, e lavorano le sette cospiratici. Veniamo incolpali di non tener l'occhio abbastanza attento ai cospiratori; mentre scacciamo dallo Stato a centinaia i fuorusciti che si apparecchiano a dar mano ai ribelli di Milano. Veniamo recriminati per la non fatta consegna di rei politici; e non si bada che nella negoziazione di Milano si fecero aperte dichiarazioni che, nel rimettere in vigore il trattato per la consegna dei malfattori, facevasi la riserva per gli imputati di crimine politico. L'accusa portata al Governo di lasciar libero il freno agli eccessi della stampa quotidiana, è contraddetta dai fatti. Sono stati espulsi dal regno i fuorusciti che avevano usato con intemperanza della libertà della stampa: e a tenerla meglio in freno sul conto dei capi de' Governi stranieri, si è promulgala una legge apposita.

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Indarno abbiamo sollecitato il conte Buol a fornirci i modi di porre sotto processo un diario, che aveva scagliato insulti al suo Sovrano. Ciò che non possiamo e non vogliam fare, è di attentare la libertà della stampa essenziale al Governo costituzionale, che abbiam giurato di conservare (16). - Letta questa nota Buol disse a Revel: - Ben comprendete che non posso risponder subito; ho bisogno di consultarmi co' miei colleghi, e di rileggerla colla dovuta attenzione, - Poi tornò sopra agli argomenti addotti a pretesto dei sequestri, aggiungendo che essi erano soltanto una misura transitoria di precauzione.

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Ma se è così, osservò il legalo sardo, si faranno processi giudiziarii, e verranno restituiti tosto i loro beni ai fuorusciti riconosciuti innocenti. - Buol schivò di rispondere, e terminò il colloquio con assicurare che la risposta alla nota consegnatagli giungerebbe ben tosto a Torino.

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Sarà bene, notò Revel, da che le mie istruzioni non mi permetterebbero d'aspettarla a lungo; anzi v'è previsto un caso, che avverandosi, dovrei congedarmi (17). - Il Governo austriaco avea fondato un delitto sopra un fallo ipotetico; per questo delitto aveva applicata una pena all'infuori delle forme consuete della legge comune della monarchia, aveva usato di questa pena senza citatoria individuale, senza citatoria per editto, senza intervento dell'autorità giudiziaria, a danno duna intiera classe di cittadini, calpestando le guarentigie che tutelano il diritto di proprietà presso le nazioni civili. I sequestri sui beni de' fuorusciti lombardi divenuti sudditi sardi era un'aggressione di Potenza a Potenza, che nulla avea

(16) Nota Dabormida al conte di Revel in Vienna, Torino 20 marzo 1853.

(17) Dispaccio Revel, Vienna 27 marzo 1853.

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provocato, nulla poteva giustificare; era per parte dell'Austria una violazione volontaria di trattati solenni rogati col Piemonte. Onde per il Governo sardo la questione era impomata sull'attentato portato al diritto internazionale, sulla violazione di un trattato, sul valore legale della naturalità accordata a uomini che l'Austria avea svincolalo dalla qualità di sudditi suoi, e che avea riconosciuto in possesso dell'emigrazione legale. La cancelleria austriaca, non potendo trovar ragioni giuridiche a vantaggio proprio, si trincerò dietro la dottrina rivoluzionaria dei sospetti politici; onde Buol scriveva ad Apponv: - Noi possiamo deplorare il disgusto che per avventura sentiranno per un tale provvedimento coloro de' fuorusciti che potrebbero non essere compartecipi di tali macchinazioni, e vorrebbero soltanto lasciar covare nell'interno dell'animo Podio da essi nutrito contro il proprio Sovrano. Ma questa considerazione non può farci indietreggiare innanzi a una necessità imperiosa, essendo le cose progredite a segno da rendersi minacciose all'ordine legale e alla vita dei sudditi fedeli all'imperatore (18). - Ma la suprema ragione della necessità di tutelare la sicurezza dello Stato scompariva alla prova dei fatti, da che il moto di Milano era stato opera di pochi, tosto oppressi tra Io stupore dei cittadini inerti. Portassero pure in cuore odio irreconciliabile all'imperatore i fuorusciti lombardi divenuti cittadini sardi; il monarca austriaco si era spogliato volontariamente del diritto di sindacarne le opinioni e qualunque modo politico di pensare e di operare al di là della cerchia de' suoi dominii.

I Gabinetti di Parigi e di Londra non poteano rifiutare per una causa così giusta di prestare al Piemonte i buoni

(18) Nota Buol, 9 marzo 1853.

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loro uffizi, reclamali a tutela del gius internazionale. Clarendon nello scrivere a Vienna voleva porre addirittura l'interpellanza su questo terreno; ma non ebbe l'assenso degli altri ministri, mossi dal desiderio di mantenersi in buoni termini coll'Auslria. Lord Westmoreland ebbe quindi l'incarico di manifestare in termini benevoli il disgusto provato dal Gabinetto di Londra. Buol rispose altiero, che la misura dei sequestri era d'ordine interno, e che su di essa il Gabinetto di Vienna non chiedeva né riceveva consigli da verun altro Governo. Susseguirono gli usati artifizi (19). Il legato austriaco in Londra si pose a simulare la maggior moderazione; disse a Clarendon che i decretati sequestri erano una misura soltanto difensiva, e ove i fuorusciti colpiti giungessero a metter in chiaro la propria innocenza nella sommossa di Milano, n'avrebbero l'uso libero delle loro proprietà. Ma intanto Golloredo consegnava al ministro inglese un memoriale della cancelleria imperiale onde provare la complicità de' più doviziosi lombardi, divenuti cittadini sardi, al moto mazziniano di Milano (20). E a meglio sviare la questione tornavano in campo le accuse contro gli andamenti rivoluzionari del Governo sardo negli ultimi quattro anni decorsi. Clarendon rispondeva: - Non voglio erigermi a giudice dei buoni e dei cattivi portamenti del Piemonte verso l'Austria; ma mi sento in dovere di dichiarare che negli ultimi fatti di Milano il contegno del Governo sardo è stato onorevole e leale. Il compenso che n'ha ottenuto, non lo incuorerà certo a fare altrettanto in altri simili casi (21). - Ma l'azione del Gabinetto inglese a vantaggio del Piemonte era resa languida e incagliala dalla questione d'Oriente che ingrossava.

(19) Dispacci Azeglio, Londra 22 e 31 marzo 1853.

(20) Dispaccio confidenziale Azeglio, Londra 20 marzo 1853.

(21) Dispacci Azeglio, Londra 22 marzo e 17 aprile 1853.

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Clarendon propendeva a consigliare il Governo sardo di venire a qualche composizione amichevole. Ma Dabormida scriveva ad Azeglio: - Se per il desiderio di facilitare un accordo si credesse di subordinare l'appoggio che abbiam reclamato a condizioni, a sacrifizi, che la nostra dignità e la nostra indipendenza c'imponessero il dovere imperioso di rifiutare, amiamo meglio di non sollecitare uno scioglimento immediato della questione da che siamo nella l'erma fiducia che il tempo non tarderà a mettere in piena evidenza i nostri diritti, e a dissipare tutte le apprensioni sulle condizioni interiori del nostro paese e sul nostro modo di governarci (22). - Il Gabinetto di Parigi per l'identico motivo desiderava, pur mostrandosi benevolo al Piemonte più del Governo inglese, che la questione dei sequestri si troncasse all'amichevole. Il Ministero piemontese non ricalcitrava, ma vi poneva la condizione indeclinabile che rimanessero integre le ragioni di diritto che militavano a favore della Sardegna. Nel fondo poi del suo pensiero comprendeva perfettamente che, per le condizioni in cui versava la politica europea, i Gabinetti di Londra e di Parigi non potevano essere di grande aiuto al Piemonte (23). Così Dabormida scriveva: - Noi non abbiam punto la pretensione che la Francia e l'Inghilterra subordino i loro interessi ai nostri. Essi hanno bisogno dell'Austria; non debbono quindi scontentarla per noi. In quanto ai consigli amichevoli, sappiano qual caso ne faccia questa potenza, alla quale per nulla ripugnano le simulazioni e i tradimenti (23). - Era tempo di prendere un partito onde troncar pratiche, che tornando inutili e disprezzate offendevano l'onore e la dignità del paese. Appigliarsi all'argomento supremo

(22) Dispaccio Dabormida ad Azeglio, Torino 18 aprile 1853.

(23) Dispaccio Dabormida, 10 aprile 1853.

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delle armi sarebbe stato una follia: entrare nella via delle rappresaglie era prendere il cammino che l'Austria desiderava: restava il partito di sospendere le relazioni internazionali colla Corte di Vienna, e di protestare in cospetto dell'Europa. Preso che fu quest'ultimo partito (24), Dabormida scrisse all'ambasciatore sardo in Parisi confidenzialmente:

Vi comunico i dispacci del conte di Revel, nei quali rende conto de' suoi colloquii col conte Buol. Voi scorgerete con pena che noi non possiam conservare la minima speranza che l'Austria voglia ritornare a sensi di equità: le promesse da lei fatte alla Francia e all'Inghilterra, appaiono spoglie di sincerità. Mentre in effetto i suoi legati presso le Corti di Parigi e di Londra fanno supporre che il Gabinetto di Vienna intenda di modificare il decreto dei sequestri in modo che colpisca i soli colpevoli, il conte Appony in Torino sta fermo nel dichiarare che è impossibile al suo Governo di fare la minima concessione su ciò ch'egli chiama nostre esigenze. Noi non siamo punto bindolati da questo maneggio, e abbiamo troppa confidenza nella chiaroveggenza degli uomini di Stato dei due nostri potenti alleati, per credere che essi si lascino ingannare. Dopo una discussione lunga e profonda alla presenza del re, il Consiglio dei ministri ha deciso d'ordinare al conte di Revel di presentare il memorandum e di venire a Torino.

Non dubito punte che il signor Drouyn de Lhuys non approvi il nostro contegno. A qual fine consumare il tempo in un interminabile corso di note e di contronote, se l'Austria rifiuta di portare la questione sul terreno legale? come negoziare, quand'essa respinge con isdegno i nostri reclami, e quando, in luogo di far giustizia alle nostre domande, c'insulta? Noi abbiam pensato che, continuando con tale sistema, la questione poteva invelenirsi; noi abbiamo fretta che l'Europa ci giudichi. Il nostro contegno non può essere appuntato d'imprudenza. Noi protestiamo; è il meno che si possa fare quando si è trattati con modi così brutali.

(24) Processo del Consiglio dei ministri, 23 marzo 1853.

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Conosciamo a sufficienza lo stato degli animi in Europa per non fare passi che ci potrebbero togliere la benevolenza de' nostri alleati; saremo prudenti: ma l'Austria non otterrà da noi il minimo atto di bassezza. Essa evidentemente mira ad abbattere le nostre istituzioni liberali; ma noi non siamo punto disposti a farle questo sacrifizio. Noi non invidiamo punto le felicità godute dagli altri Stati italiani, non vogliamo tornare vassalli dell'Austria (25).

Il conte di Revel presentò il memorandum del suo Governo, e io pari tempo annunziò al conte Buol d'esser richiamato a Torino, rimanendo aperta in Vienna la cancelleria sarda per lo sbrigo delle faccende di minore importanza. Il ministro austriaco con breve discorso disse che non farebbe risposta, non riconoscendo nella Sardegna il minimo titolo di protestare contro provvedimenti di politica interiore fatti dall'Austria (26). L'accennato memoriale, che è uno dei documenti diplomatici più belli dell'età presente, fu redatto dal ministro Luigi Cibrario. I particolari della vertenza, i procedimenti illegali dell'Austria, l'insulsaggine delle sue accuse al Piemonte, la temperanza e l'assennatezza del Gabinetto di Torino nel tutelare i propri diritti, le violazioni patenti del Governo viennese della legge comune e di trattati antichi e moderni, vi sono esposti con sobrietà dignitosa e con lucidezza severa. Il concetto di tener saldo lo Statuto vi campeggia con nobile fierezza; né vi è taciuto che al Piemonte la libertà significava indipendenza. Sollevandosi alla regione della giustizia eterna, in quel protesto era detto che giammai la sicurezza interiore d'uno Stato poteva autorizzar l'uso di provvedimenti illegali, giammai poteva dare facoltà all'Austria d'attentare al diritto delle genti, di strappare una pagina del proprio codice civile, di sconfessare promesse

(25) Lettera Dabormida al marchese Salvatore Pes di Villamarina, Torino 10 aprile 1853.

(26) Dispaccio Revel, Vienna 15 aprile 1853.

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solenni, di misconoscere diritti acquisiti, di annullare un recente trattato rispettato dalla Sardegna con fedeltà scrupolosa, di praticare massime rivoluzionarie, che qualunque Governo regolare era nel dovere di combattere da che scalzavano le fondamenta della società civile (27).

Il memorandum sardo percorse l'Europa suscitando contro l'Austria una fiera tempesta. I diarii più accreditati lo riprodussero e lo commentarono, largheggiando in lodi verso il Piemonte, in biasimi verso il Governo imperiale. A Costantinopoli l'ambasciatore sardo raccolse dalla bocca del Granvisir queste parole: - Ogni Governo giusto e umano dev'essere con voi in una causa così giusta e cosi nobilmente difesa. Vi felicito del vostro contegno fermo ed onorevole: sappiate mettervi d'accordo cogli Svizzeri, e caccierete gli Austriaci dall'Italia (28). - Il Governo francese diede la più onorevole ed esplicita approvazione al protesto sardo. Più di tutte notevole è la nota inglese; Clarendon vi favellava fuor d'ogni reticenza cosi (29):

Il Governo inglese ha posto tutta la sua attenzione sopra un documento non meno rimarchevole per la moderazione di linguaggio, di quello che lo sia per giustezza di principii e per abile maneggio di argomenti. Il Governo di S. M. pensa che il Gabinetto di Torino, nell'interesse dei sudditi del re di Sardegna che legalmente hanno cessato di essere sudditi dell'Austria, sia nel pieno diritto d'inoltrare rimostranze contro un decreto onde vennero messe sotto sequestro le proprietà poste nei dominii imperiali di tutti i fuorusciti senza eccezione,

(27) Memorandum del Gabinetto di Torino sul conflitto elevatosi tra il Piemonte e l'Austria a proposito del sequestro messo da questa ultima Potenza sui beni degli emigrati lombardo-veneti divenuti cittadini sardi dopo avere ottenuto dal Governo imperiale l'emigrazione legale.

senza riguardo alla innocenza o colpabilità loro, senza badar punto alle condizioni dietro le quali espatriarono.

(28) Dispaccio Tecco al ministro degli affari esteri in Torino, Costantinopoli 25 aprile 1853.

(29) Nota Drouyn de Lhuys, Parigi 13 giugno 1853.

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Il Governo inglese provò una penosa sorpresa nel vedere fatto pubblico ed esecutorio un tale decreto, da che sembravagli impossibile che senza processo giudiziario di sorta si potessero sentenziare colpevoli intiere classi d'uomini, e che un Governo grandemente interessato, quale è quello dell'Austria, a conservare inviolabili i principii di giustizia e di legalità, potesse all'infuori dell'opera dei tribunali infliggere una pena così dura.

Il Governo sardo ha proceduto con dignità e con moderazione nei passi fatti per indurre il Governo austriaco a revocare o a modificare siffatto decreto. Il Governo di S. M. ha impiegato i suoi sforzi per lo stesso fine. Con suo grande rincrescimento ha trovato il Gabinetto di Vienna irremovibile nel giudicare l'atto dei sequestri come una misura d'ordine interno, sulla quale gli altri Gabinetti, qualunque fossero i buoni rapporti che seco mantenessero, non avevano nulla da vedere e da osservare. Ma il Governo di S. M. non ammette punto che la salvezza pubblica d'un paese possa servire d'argomento a giustificare atti manifestamente ingiusti; e rimane nella persuasione che, senza intromettersi negli affari interiori dell'Austria, era nel diritto di manifestare la sua opinione sul contegno d'una grande potenza, la quale verso un'altra potenza relativamente più debole si era diportata in guisa tale da praticare massime che scalzano le fondamenta della società. La questione sollevata dal Gabinetto di Vienna non solo comprende principii di diritto pubblico e di diritto internazionale, ma seco porta gravi pericoli per la tranquillità dell'Europa. Se il Governo sardo avesse proceduto con minore moderazione, se avesse ricorso all'espediente delle rappresaglie, ne sarebbe per avventura uscita la guerra, onde vermi Governo poteva restare indifferente a un contegno che poteva condurre a sì funesti risultati.

Ove eziandio la opinione pubblica, alla quale i Governi stessi di maggior potenza non possono restare indifferenti, non si fosse per tutto dichiarata contraria ai sequestri, il Governo di S. M. tuttavia avrebbe sperato di non vederli praticati. Ma da che si è posta troppa ostinazione nel mantenere in vigore un decreto pubblicato con troppa fretta, il Governo di S. M. confida che lo spirito di giustizia finirà per prevalere nei consigli dell'Austria, e gli innocenti troveranno la dovuta riparazione d'una pena non meritata.

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Dietro questa speranza il Governo di S. M. crede dover suo di raccomandare al Governo di S. M. sarda di attendere con calma l'esito finale degli avvenimenti, evitando, come ha fatto sin ora, ogni motivo di maggiori contrasti col perseverare nella nobile fermezza e nella dignitosa moderazione che gli hanno valso la stima universale, e che hanno grandemente rafforzato il posto che il Piemonte occupa nella famiglia degli Stati europei (30).

Visibilmente principiano ad apparire buoni e succosi i fruiti della politica seguita dal Piemonte dall'anno 1850 in appresso. Nel concetto dei Governi e delle nazioni di maggior credito la diffidenza si era mutata in fiducia, la noncuranza in rispetto. Sino sulle rive del Gange e nell'impero de' Birmani era giunta la fama di un italiano re galantuomo e intrepido difensore dei diritti del suo popolo (31). La diplomazia subalpina veniva proclamata benemerita della pace europea, e tutrice dignitosa del diritto delle genti contro le esorbitanze austriache. L'opinione pubblica era assicurata al Piemonte nelle sue controversie colle Corti di Roma e di Vienna. Rimaneva in tal guisa posta la base più sicura per acquistare alleanze utili e durevoli.

III.

Da lungo tempo l'Austria viveva crucciosa verso la Svizzera, a' suoi occhi colpevole d'essersi svincolata dagli inciampi imposti dagli arbitri del 1815 alle sue libertà interiori, e per la larga ospitalità accordata ai fuorusciti politici di tutte le nazioni. Fu verso la metà dell'anno 1852 che questi risentimenti si fecero acerbi per sgropparsi violenti nei primi mesi del 1853. A sentenza della cancelleria viennese, il Governo svizzero era carico di colpe

(30) Nota Clarendon al marchese Emmanuele d'Azeglio, Londra 16 maggio 18.j3.

(31) Rapporto del viceammiraglio De Virv al ministro della marina.


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internazionali: primeggiavano la compartecipazione presa da un drappello di guerriglieri elvetici alla rivoluzione lombarda del 1848, il rifiuto di consegnare alle autorità imperiali alcuni fuorusciti reclamati, lo scacciamento dal Canton Ticino di otto cappuccini, le riforme introdotte nei collegi di Pollegio e di Arona, l'aiuto dato da cittadini svizzeri al tentativo mazziniano in Milano nel febbraio del 1853. A emenda l'Austria chiedeva venisser cacciati dalla Svizzera tutti i fuorusciti più pericolosi; si sequestrassero le armi depositate in prossimità della frontiera lombarda; si vietasse a qualunque siasi profugo politico di soggiornare nel Canton Ticino; si procedesse giudiziariamente contro gii Svizzeri che avevano dato mano alla sommossa milanese; si riparasse al malfatto verso gli espulsi frati d'origine lombarda; si reintegrassero nelle loro prerogative sui seminari di Poleggio e di Arona gli Ordinarii di Como e di Milano. A fare tutto ciò vennero assegnati quindici giorni di tempo, colla minaccia di sfrattare dalla Lombardia tutti i Ticinesi che vi dimoravano, ove non si ottemperasse alle chieste soddisfazioni.

Il Consiglio federale, di fronte a questa aggressione diplomatica, procedette con estrema moderazione. Diede prove solenni di non esser venuto meno ai doveri di buon vicinato; offerse documenti a testimoniare le severe provvidenze praticate verso i fuorusciti turbolenti; chiarì infondati i gravami imputati al Canton Ticino: internò i rifugiati caduti in sospetto di macchinazioni settariche: fece chiudere l'officina tipografica di Capolago. E da che l'Austria, a rafforzare le sue pretensioni presenti, aveva rinvangato il passato, il Consiglio federale rimbeccavala rammentandole la fomentata e aiutata ribellione dei sette Cantoni svizzeri nell'anno 187, la benevola tolleranza delle autorità governative verso i fuorusciti svizzeri

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macchinatori di cospirazioni in Milano ai danni del Governo elvetico, le vituperose e iterate calunnie pubblicate in Vienna contro la Confederazione.

Il Gabinetto di Vienna non volle udir ragioni d'accordo. La frontiera lombarda dal lato della Svizzera venne militarmente chiusa. Trascorsi otto giorni, seimila innocenti d'ogni colpa politica, per essere Svizzeri vennero cacciati dalle terre lombarde, gli uni entro tre giorni dall'intimazione, i più nel corso di ventiquattro ore. Il bando imperiale ordinava che i renitenti fossero trascinati alla frontiera dai soldati, e ove si riprendessero venissero sottoposti a un tribunale militare. Costoro dovettero a precipizio abbandonare opifìzi industriali e commerciali, case arredate con tanti risparmi, beni acquistali con lunghi travagli. L'inverno incrudeliva, e fra questi infelici stavano orfani fanciulli, donzelle clesianti indarno la compagnia dei cari parenti sepolti in terra lombarda, donne nei tutti della vedovanza con pargoletti al seno, vecchi cadenti. Nel concetto degli uomini di stato austriaci cotale valanga d'ira e di miseria precipitando sulla Svizzera doveva suscitarvi il turbinìo della civile discordia, che facilmente avrebbe aperto la porta alla reazione. E perché a questo fine l'irritazione degli spiriti meglio s'infocasse, il Gabinetto di Vienna dichiarò che il blocco che affamava e impoveriva la Svizzera, verrebbe tolto quando il Consiglio federale avesse soddisfatto a pieno ai suoi doveri verso l'Austria (32).

Ma l'intento primo e occulto di tale minacciosa aggressione andò fallito. I Ticinesi scacciati, toccando il

(32) Note della Legazione d'Austria in Berna, 12 dicembre 1852, 22 gennaio, 18 febbraio, 14 e 21 marzo, 13 aprile 1853. - Note del Consiglio federale svizzero alla Legazione austriaca in Berna, 3 gennaio, 7 e 22 febbraio, 21 marzo e 4 maggio 1853. - Dispaccio Dabormida all'ambasciatore sardo in Vienna, Torino 23 marzo 1853.

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terreno natio, non ebbero che un solo grido, quello che innanzi tutto si salvasse l'onore e l'indipendenza della patria: e la patria gli accolse e soccorse come meglio potò. Il tentativo di ribellione in Val di Coria, preparato coll'oro dell'Austria, fu tosto soffocato. Le opere sovvertitrici dei segreti agenti austriaci nel Cantone Ticino, da che vennero scoperte in tempo utile, tornarono a vergogna di coloro che le ordirono. I maneggi per isbalzare il partito liberale dagli scanni governativi del Ticino, non riusciti, ve lo fortificarono.

Il Piemonte si trovò mescolato in queste contese. Fra i cappuccini espulsi dal Ticino eranvi tre sudditi sardi.

D'altra parte il Gabinetto di Parigi aveva insistito affinché in tale questione l'azione del Governo sardo si associasse a quella del Governo viennese. I ministri subalpini rimasero saldi nel rifiutarsi ad agire d'accordo col l'Austria, e alla Svizzera dichiararono che si riservavano a negoziare con essi all'amichevole, terminate che fossero le sue vertenze colla Corte di Vienna (33).

Per i due liberi paesi era comune l'interesse di spalleggiarsi a vicenda contro l'Austria. I governanti svizzeri tuttavia inconsultamente scartarono questa via; essi con modi sgarbati si posero a sofisticare intorno ad accordi presi sui fuorusciti (34), e nel rispondere alle imputazioni dell'Austria slanciarono parole di biasimo alla Sardegna (35). Per questi fatti, che tornarono disgustosi assai al Gabinetto di Torino, il legato sardo in Berna sermonò chi reggeva il dicastero politico elvetico con

(33) Dispaccio confidenziale del ministero degli affari esteri all'ambasciatore sardo in Parigi, Torino 16 luglio 1852. - Dispacci confidenziali dello stesso alla Legazione sarda in Berna, 22 gennaio e 15 luglio 1853.

(34) Note del Consiglio federale del 1 e 11 marzo 1853.

(35) Nota del Consiglio federale del 27 marzo 1853.

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questo sodo e nobile discorso: - Voi mi dite che non fa mestieri di prendere corrucci per la questione dei fuorusciti. Ma in tal caso perché avete voi reclamato con modi così sconvenevoli? Se vi foste aperto meco in via confidenziale, se mi aveste informato delle pratiche che intendevate di fare, vi avrei parlato coll'usata mia franchezza, amichevolmente vi avrei distolto dal presentare una nota per nulla convenevole. Sono d'accordo con voi che sia d'interesse comune precisar meglio il valore degli impegni che i nostri Governi hanno preso rispetto ai fuorusciti; ma io avrei preso l'iniziativa presso il mio Governo, e ora voi non sentireste il dispiacere dell'effetto cattivo prodotto da parole che il mio Governo dovea alla sua dignità d'appuntare senza togliersi dalla via di un'equa conciliazione. Il Consiglio federale, nel difendersi contro le accuse dell'Austria, ha detto che, se le incolpazioni fatte al Cantone del Ticino erano infondate, così non si poteva affermare d'un paese vicino. Da che era impossibile non riconoscere il Piemonte in questo paese, mi concederete che questo procedere non è d'amico, o che per lo meno è un contegno d'un amico pericoloso.

Fortunatamente noi siamo in condizioni di tenere tali insinuazioni per inezie, possedendo fatti palesi da contrapporvi. II Consiglio federale, rimanendo sul terreno proprio, aveva un largo margine per difendersi, come lo ha dimostrato. Avendo operato diversamente, si potrebbe credere che ha cercato di sortire dai limili della difesa legittima per operare una diversione a danno d'un alleato antico e meritevole di un ben diverso trattamento. Nella questione dei cappuccini fummo noi i primi a manifestare il voto che si sciogliesse all'amichevole, mentre potevamo appellarci con vantaggio ai nostri trattati colla Svizzera. In circostanze gravissime per la Confederazione noi non siamo ristati dal farvi comunicazioni confidenzialissime

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e utilissime sulle tendenze della politica francese negli affari elvetici. Vi abbiamo dato un'altra prova di benevolenza, facilitando il passaggio nel Piemonte di operai ticinesi espulsi dalla Lombardia. In quanto a me, seguendo le istruzioni del mio Governo, mi sono sempre adoperato con zelo a restringere i legami della vecchia amicizia fra i due paesi. Il Gabinetto di Torino non si è tolto da questa via per il proceder vostro; si è ristretto a manifestare la sua sorpresa e il suo legittimo disgusto.

Per scusarvi dite che, se il Consiglio federale avesse potuto prevedere le complicazioni susseguite ai sequestri, avrebbe usato alla Sardegna maggiori riguardi. Ma noi non abbiam bisogno d'alcun riguardo, da che non abbiamo nulla da rimproverarci. Voi ci avete tradotti, per così dire, al tribunale dell'Austria: almeno la lealtà chiedeva che denunziaste fatti chiari, all'infuori d'ogni reticenza, e senza inviluppi atti ad aprire il varco a commenti esagerati (3C). - Ma non era tempo di trascorrere in dispetti e in recriminazioni eccessive. Adoperandosi fin dove si poteva a salvaguardare l'indipendenza territoriale e governativa della Svizzera, si servivano a meraviglia i maggiori interessi del paese. Ciò che l'Austria avea fatto verso il Canlon Ticino chiudendo militarmente la propria frontiera, la Francia si mostrava vogliosa di farlo nel ÌSjh col Cantone di Ginevra per i comportamenti dei fuorusciti francesi. Il Gabinetto di Torino riuscì a meraviglia a stornare dalla Svizzera questa nuova disgrazia co' suoi uffizi amichevoli in Parigi e a Berna (37). Appianata siffatta difficoltà, ben tosto ne sorse una maggiore.

(36) Dispaccio De Launay, Berna 23 aprile 1853.

(37) Dispaccio confidenziale Dabormida al cavaliere Jocteau a Berna, Torino 18 agosto 1854. - Dispaccio in cifra dello stesso allo stesso, 5 settembre 1854.

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Scoperto un complotto settarico per suscitare una rivoluzione sulle rive del Lago Maggiore, architettato dai mazziniani nella Svizzera, il Gabinetto di Vienna ne prese argomento d'istanze caldissime al Governo francese onde accordarsi a indurre il Piemonte a prender parte a un blocco rigoroso ai confini svizzeri. Se non che Villamarina in Parigi, Dabormida in Torino si maneggiarono con tale scaltrezza da parare alla Svizzera questo nuovo colpo senza disgustare di troppo il Gabinetto parigino, che aveva fatto buon viso alla proposta austriaca (38).

Il Governo svizzero aveva consentito d'intavolare in Milano un negoziato per assestare la questione dei cappuccini espulsi. Ma il Governo austriaco, che di giorno in giorno aspettava la caduta del Governo liberale ticinese, non ristava nel porre fuori esigenze strane a prolungare la pratica. Ma perduta la speranza di vedere il partito retrivo padroneggiare la politica della Repubblica ticinese, nell'aprile del 1855 il Gabinetto di Vienna piegò ad un accordo, che le due parti rettificarono in breve (39).

Il Governo piemontese aspettò il termine di questa lunga controversia per chiedere ragione all'amichevole pei diritti lesi dei tre cappuccini sardi espulsi dal Canton Ticino. La pratica si chiuse coll'offerta, accettata, di seimila lire italiane. Il presidente della Confederazione nel farla osservò in una nota officiale che, se essa non concordava appieno coi risultati della convenzione di Milano, il Governo sardo coll'accettarla avrebbe mostrato di saper apprezzare, meglio del Governo austriaco, le offerte dettate dall'equità (40).

(38) Dispaccio confidenziale Villamarina, 27 agosto 1854. - Dispaccio Dabormida, 6 settembre 1854. - Dispaccio Jocteau, Berna 12 settembre 1854.

(39) Dispacci Jocteau, Berna 1 e 16 marzo e 28 aprile 1854.

(40) Nota del presidente della Confederazione al cavaliere Jocteau, Berna 30 maggio 1854.

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IV.

Mazzini fantasticava pur sempre sollevamenti popolari, e colle sue macchinazioni fallite in sul nascere forniva potenti argomenti ai Governi che retrogradavano, d'incrudelire in casa, e di muover querele e domande inaccettabili al Piemonte. Nel 1854 era la Lunigiana che prima doveva alzar la bandiera repubblicana; s'ebbe al solito, inanità di tentativo, seguita da incarceramenti, esigli, giudizi statari. I condannati per perduellione, se erano rifuggiti sul territorio piemontese, più spesso venivano reclamati dai loro Governi in forza di vecchie convenzioni.

Cosi fece il Governo di Modena nel luglio del 1854: allegando la convenzione conclusa colla Sardegna nel febbraio del 1817, le chiese la consegna di due sudditi modenesi, l'uno condannato a morte, l'altro ai lavori forzati a vita (41). La risposta non poteva essere che negativa, per la massima invalsa fra le nazioni più civili, e massime fra quelle rette a ordini liberi, che la estradizione si debba limitare ai delitti comuni (42). Il Governo modenese rispose che gli ordini politici mutati dall'uno dei due contraenti non potevano servire di norma direttiva all'interpretazione d'un atto bilaterale, stipulato trentanni prima; soltanto si poteva invocare dal contraente medesimo per motivare la denunzia dell'atto stesso, e per tenersi sciolto dalle obbligazioni che ne scaturivano dal giorno della fatta denunzia; sino a quel momento l'altro contraente era in diritto di veder assentite le domande fatte corrispettivamente agli obblighi assunti;

(41) Nota Forni, Modena 6 luglio 1854.

(42) Nota Sauli, Firenze 29 luglio 1854.

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ma poiché la Sardegna arbitrariamente sviava dai patti stipulati, il duca Francesco V si trovava astretto a considerare la convenzione del 3 febbraio 1817 del tutto cessata, lasciando al Governo di Torino tutta la responsabilità delle dannosissime conseguenze per la giustizia punitiva dei due Stati limitrofi (43).

A impedire questa grave alterazione di cose, il ministro sardo in Firenze si portò a Modena. Da prima tentò indarno di conseguire dal duca l'assenso di modificare la lettera del trattato. Riuscì bensì a indurre il Governo estense a ritirare la nota, colla quale dichiarava scaduta la convenzione del 1817. La controversia si chiuse col ritiro da ambedue le parti delle note scambiate, dietro la dichiarazione della Sardegna che i due profughi richiesti non erano sul territorio piemontese, e l'impegno preso dal Governo modenese che nell'avvenire non chiederebbe estradizioni per delitti politici (44).

Frattanto la questione di Monaco era tornata in campo dietro le istigazioni dell'Austria. Il suo ambasciatore in Parigi, spalleggiato dal legato prussiano, chiedeva nientemeno che la Francia si associasse alle Corti di Vienna e di Berlino per indurre il Piemonte a restituir Mentone e Roccabruna al principe di Monaco (45). A toglier di mezzo questa dura proposta, Drouyn de Lhuys ordinò al ministro francese in Torino di sollecitare per via officiale il Governo a riprendere le negoziazioni, indicandone lo basi (46). Dabormida, Dell'accettare i buoni uffizi della Francia, offerse centoventicinquemila franchi di reddito

(43) Nota Galvani, Modena 18 agosto 1854.

(44) Dispaccio Sauli al ministro degli affari esteri in Torino, Bagni di Lucca 15 settembre 1854.

(45) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 16 aprile 1854.

(46) Nota del duca di Guiohe al generale Dabormida, Torino 16 giugno 1854.

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annuale per la cessione di tutto il principato, e di novantamila lire per tentone e Roccabruna (47). Questa offerta non tornò accetta né al Gabinetto di Parigi né a quello di Londra. Clarendon appuntava la Sardegna perfino di grettezza; ma Dabormida notava a buon diritto: - Clarendon è ministro d'un paese costituzionale, e deve quindi sapere che bisogna spendere con giustizia e parsimonia il danaro pubblico. Sarebbe condannevole che il Piemonte, per mantenere le esigenze d'un principe, il quale ha dissanguati i suoi sudditi, gli pagasse il danaro che egli non può più toglier loro da che, spinti dalla miseria, gli si sono ribellati (48). - Maggiori difficoltà per essere accettate, presentavano le proposte che il Governo parigino inoltrò per terminare la controversia dietro i suoi buoni uffizi: la Sardegna doveva rinunziare al diritto di presidiare la città di Monaco, e assentire all'imperator dei Francesi d'occuparla con soldati suoi temporariamente, fino a che il principe avesse una milizia propria; il principato di Monaco acquistava tutti i privilegi di uno stato libero, indipendente, svincolato da ogni protettorato sardo; il Governo di Vittorio Emanuele dovea pagare al principe, per il possesso di Mentone e Roccabruna, quattro milioni nello stesso giorno dello scambio delle ratifiche, senza attendere le deliberazioni del Parlamento (49).

Mentre il ministero piemontese ricalcitrava a far buon viso a simili proposte, ecco spargersi improvvisa e accreditata la voce che, ad istigazione della Russia, il principe di Monaco era entrato in un negoziato segreto

(47) Nota Dabormida, Torino 23 giugno 1854.

(48) Lettera Dabormida, 3 agosto 1854.

(49) Nota del duca di Guiche, Torino 18 settembre 1854.

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col Governo degli Stati Uniti per la vendila di Monaco.

Ove ciò fosse stato vero, avrebbe aggiunto un nuovo intrico alla già arruffata matassa della politica europea per la guerra d'Oriente cominciata. E da che nel concetto dei Gabinetti di Parigi e di Londra conveniva impedire ad ogni costo che gli Americani prendesser possesso di Monaco, ben tosto posero in disparte gli scrupoli così tenacemente manifestati sul rispetto dovuto al diritto positivo europeo onde non giudicar valido per se solo il voto manifestato dai terrazzani di Mentone e di Roccabruna d'unirsi alla Sardegna. Clarendon e Drouyn de Lhuys consigliarono, ove si fosse resa palese l'urgenza d'agire, che il Governo piemontese con un colpo di mano s'impossessasse di Monaco, decretasse aggregato al regno tutto il principato, salvo a fatti compiuti d'aprire un negoziato per istabilire un compenso al Governo spodestato (50). Dabormida inviò alle Legazioni sarde di Parigi e di Londra la seguente risposta:

Noi non prestiamo fede a un negoziato fra gli Stati Uniti e il principe di Monaco. Tuttavia, poiché soventi volte sopragiungono fatti non giudicati probabili, staremo in guardia, e non lascieremo occupar Monaco senza resistenza, ben convinti che non saremo lasciati in abbandono dalle due grandi potenze marittime, le quali sono più di noi interessate a impedire agli Americani di stabilirsi sul Mediterraneo, e far concorrenza di commercio e di propaganda politica. Frattanto l'inquietudine che la supposizione di tali negoziazioni ha svegliato nei Gabinetti di Londra e di Parigi, fa sentir loro la necessità di scioglier tosto la questione di Mentone e di Roccabruna, il che è per noi un risultato assai utile. Ma è indispensabile che Drouyn de Lhuys e Clarendon facciano un esame serio delle ridicole pretese del principe e delle nostre eque proposte, per convincersi che none punto dalla nostra parte che faccia difetto la buona volontà d'un ragionevole accordo,

(50) Dispaccio dell'ambasciatore sardo in Londra, 2 ottobre 1854.- Lettera confidenziale Villamarina, Parigi 3 ottobre 1854.

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e che quindi, invece di consigliarci sacrifizi non solo ingiusti ma d'impossibile attuamento, essi debbono ridurre alla ragione il principe.

Quando i Gabinetti di Londra e di Parigi avranno perduta ogni speranza di ridurre a equi temperamenti il principe di Monaco, quando saranno ben certi della realtà d'un negoziato segreto cogli Stati Uniti, noi allora soltanto seguiremo il consiglio datoci dell'annessione violenta del principato agli Stati del re.

Sarebbero gravissimi gli inconvenienti che seguirebbero un tal colpo di Stato, fatto immaturamente; la Francia e l'Inghilterra non ci sarebbero grate d'aver seguito con precipizio un consiglio dato in un istante di malumore; il nostro contegno inoltre avrebbe in sé qualche cosa di sleale sul sistema di dirittura politica che finora abbiam seguito; e tutto ciò per l'acquisto di tre piccoli Comuni.

Benché io sia profondamente convinto che la politica fondata sul rispetto della legalità sia sempre la migliore, riconosco che vi sono casi ove l'audacia e la violenza stessa son necessarie; ma almeno fa d'uopo che il fine da conseguire sia così abbagliante, da far chiudere gli occhi ai pericoli e ai biasimi che si incontrano. Pertanto noi non seguiremo il consiglio datoci, che nel caso estremo indicato. I ministri di Francia e d'Inghilterra a mente calma renderanno giustizia alla nostra moderazione (51).

Nulla eravi di serio sulla pratica segreta per la vendita del principato agli Stati Uniti; e svanito, il sospetto, i Gabinetti di Londra e di Parigi tornarono sul favoreggiare il principe di Monaco. Sarà nel 1856 che riscontreremo la questione di Mentono e di Roccabruna rimessa in campo per accordi presi dalle Corti di Parigi, di Londra, di Vienna e di Berlino, coll'intento di salvaguardare in essa i trattati del 1815.

Ora la ragione cronologica ci chiama a rivolgere la narrazione per breve intervallo alle cose spagnuole. Nell'anno 185 la Spagna più che mai era ingolfata nel brullo spettacolo che dà di sé all'Europa da sì lungo tempo.

(51) Lettera Dabormida, Chambery 7 ottobre 1854.

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Dalla parte dei governanti rigettato o calpestato ogni procedimento costituzionale, non rimaneva che la dittatura soldatesca a padroneggiare il paese; dalla parte dei governati non restava che la rivoluzione a non essere padroneggiati. In tal guisa la forza era divenuta l'arbitra dei destini della Spagna. Nella lotta violenta che susseguì, la rivoluzione rimase vittoriosa; ma i suoi risultamenti immediati si manifestarono ricolmi d'incertezze e pericoli. La dinastia e la monarchia erano poste in discussione, l'anarchia serpeggiava nel paese, tutti i partiti erano in moto per incavalcarsi a vicenda, le Cortes nate con poteri illimitati abbattevano gli ordini politici, gli ordini amministrativi, gli ordini giudiziari, senza sostituir nulla, il Governo in sé discorde, impotente a frenar le passioni sovversive, a guidare la rivoluzione, lasciava tutto distruggere per non essere abbattuto. Poteva succeder prossima l'abdicazione volontaria della regina Isabella, o la sua violenta cacciata dal trono. Chi raccoglierebbe la corona di Spagna? o verrebbe essa costituita a repubblica? Erano quesiti, alla soluzione dei quali i Gabinetti di Londra e di Parigi non potevano rimanere indifferenti.

Fra le diverse soluzioni che essi andarono ventilando intanto che i disordini sovrammenzionati bollivano, quella vi fu di suggerire e d'appoggiare la candidatura alla corona di Spagna del principe Ferdinando di Savoia duca di Genova, ov'essa dovesse passare a una nuova dinastia.

Merita d'esser conservata la risposta data dal ministro Dabormida d'accordo co' suoi colleghi alle aperture fatte su tal proposito in via privala (52). Eccola: - Educato alle tradizioni gloriose della sua famiglia, dotato d'un coraggio e d'una abnegazione d'animo a tutta prova, il principe Ferdinando senza dubbio accoglierebbe con piacere il concetto di potersi consacrare alla felicità di un popolo.

(52) Lettera Villamarina, 22 ottobre 1854. - Lettera d'Azeglio, 25 ottobre 1831.

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Posso aggiungere senza adulazione che egli possiede tutte le qualità di mente e di cuore necessarie per giustificare la preferenza a suo riguardo nei desiderii delle due Potenze occidentali, e per indebitarsi degnamente dell'alto incarico cui verrebbe chiamalo. I suoi principii, il contegno tenuto nell'infelice guerra combattuta per il suo paese, sarebbero guarantigie certe della politica che seguirebbe ove fosse re eletto della Spagna. La sua amicizia per l'imperatore Napoleone III non è men calda e sincera di quella del re suo fratello. Ma le risoluzioni del principe Ferdinando e le decisioni del Governo del re non potrebbero lasciarsi guidare soltanto dalla prospettiva brillante d'un trono, o da considerazioni d'interessi personali. I nostri sguardi in pari tempo si debbono portare sulle peculiari condizioni della nostra dinastia, sullo stato presente della Spagna, e massime intorno ai mezzi che converrebbe impiegare a conseguire il fine propostoci.

«La Casa di Savoia ha preso posto da secoli fra le dinastie italiane, anzi n'è la più antica; onde i suoi interessi come i suoi doveri s'immedesimano essenzialmente all'Italia. Le attuali condizioni della Penisola esigono che tutte le sue cure, tutta la sua azione siano indirizzate e raggruppate sul Paese, nel quale la sua potenza si è svolta. La cooperazione in ciò di tutti i membri della famiglia è per la Casa di Savoia d'un valore incommensurabile per assodare la propria potenza in Italia. Non sarebbe quindi senza dispiacere che noi vedremmo rotto il fascio della forza morale, che la nostra dinastia ricava dal suo seno per esser tutta rivolta a un solo fine. Ove una parte del prestigio che ora la circonda si portasse sopra un'altra corona, essa rimarrebbe indebolita in Italia. Si comprende come una dinastia, posta a capo d'un grande stato, possa trovare il suo interesse di stendere i suoi rami fuori del suo paese a formar sode alleanze.

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Ma rispetto a Casa di Savoia, è da temere che ramificandosi fuori d'Italia essa non rimanga svigorita, e non comprometta l'avvenire che l'attende. Questi timori sarebbero tanto più fondati, in quanto che lo stato presente della Spagna lascia poco a sperare di costituirvi un ordine di cose regolare e durevole. Il principio monarchico vi è scosso profondamente. Il fatto stesso che renderebbe possibile un'altra dinastia, porterebbe a questo stesso principio un nuovo rude colpo. I partiti sì numerosi e sì avversi che coopererebbero alla caduta del trono della regina Isabella, probabilmente si unirebbero per riversare, prima che fosse saldamente costituito, il nuovo Governo. Le suscettibilità nazionali probabilmente aumenterebbero le difficoltà immense per mettere in assetto le scomposte amministrazioni dello Stato, e per tornare il credito a una forma di governo che gli errori passati e i trambusti rivoluzionari hanno spogliato in gran parte della sua buona riputazione. È vero che i pericoli e gli ostacoli che incontrasse nella sua via, non impedirebbero al coraggioso duca di Genova di procedere con risoluto passo per raggiungere la felicità del suo popolo. Tuttavia la prudenza imporrebbe sempre al Governo del re il dovere di far un calcolo minuto delle eventualità del successo onde risparmiare al principe l'umiliazione d'un esito infelice, e imbarazzi gravi alla nostra dinastia e al paese. Tuttavia, non ostante queste considerazioni, se il trono della regina Isabella fosse vacante, se la corona di Spagna venisse offerta solennemente al principe Tommaso dal libero voto della nazione coll'assenso delle grandi Potenze, noi potremmo consigliare al re e al principe di assentire a una chiamala così onorevole, per la quale il diritto e l'autorità del nuovo re si fonderebbero sopra basi larghe e solide.

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Ma queste condizioni non esistono; al contrario siamo lealmente avvertiti dai Gabinetti di Parigi e di Londra che essi fanno tutti i possibili sforzi per salvare il trono alla regina Isabella. Non sarebbe che nella supposizione poco probabile che i Borboni divenissero impossibili, che la Francia e l'Inghilterra appoggierebbero all'aperto la candidatura del duca di Genova.

Ci conviene quindi attendere, giacché non entreremo mai nella via degli intrighi. A questo modo di procedere non saprebbe adattarsi né il principe Ferdinando, né il Governo del re. Una corona acquistata a tal prezzo non potrebbe in alcun modo convenire a un principe di Casa Savoia. Per parte nostra, ripugnerebbe ai nostri sentimenti e alle nostre convinzioni più intime di smentire con un tale contegno quei principii di lealtà e di giustizia che hanno sin qui informato la nostra politica, e che noi abbiam invocato così spesso come il più valido titolo alla confidenza dei Governi stranieri. 1 nostri intrighi nella Spagna darebbero diritto alle potenze di revocare in dubbio la sincerità della nostra politica, e a giudicare l'apparente nostra probità un artifizio per eludere la vigilanza dei Governi sopra maneggi segreti.

Non vogliamo essere cospiratori né in Spagna né in Italia (53). - Delle ragioni addotte dal ministro piemontese, quelle che si riferivano all'Italia furono trovate le meno valide.

- Dopo avere discusso lungamente su questo punto, scrisse Villamarina, non ci è stato possibile metterci d'accordo. Essi fanno nei loro calcoli una completa astrazione della questione italiana, e degli interessi e dei doveri che vi si annettono essenzialmente.

(53) Lettera Dabormida, Torino 22 ottobre 1851.

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Ma la casa di Savoia con un contegno indipendente, fermo, leale e nobile deve tener fisso di continuo l'occhio sull'Italia.

In Francia non si comprende a sufficienza questa suprema convenienza politica (54). - Ben lo comprendevano a meraviglia gli illustri uomini di stato piemontesi di quel tempo!

(54) Dispaccio confidenziale riservato Villamarina, Parigi 10 novembre 1854.

CAPITOLO QUINTO

Sommario

Disegni ambiziosi dello czar Nicolò - Concetti di Napoleone III per contrariarli - Alleanza delle due maggiori Potenze occidentali colla Turchia - Loro pratiche per associarsi l'Austria - Intendimenti e maneggi di questa Potenza - Pratiche dei Gabinetti di Londra e di Parigi verso l'Austria e il Piemonte - Primi propositi del Gabinetto di Torino nella guerra d'Oriente - Prime pratiche della Francia e dell'Inghilterra per tirarlo nell'alleanza - Condizioni poste dalla Sardegna - Come accolte - Nuove pratiche - Modi co' quali il Piemonte entrò nella lega contro la Russia - Contegno degli altri Stati italiani verso la Francia, l'Inghilterra e la Prussia negli esordi della guerra d'Oriente.

I.

Al principio dell'anno 1853 l'imperatore Nicolò stimò venuto il tempo propizio per soddisfare le ambizioni secolari, che Io czarismo da Pietro il Grande in poi aveva coltivato con indefesse cure. Le condizioni dell'Europa facevano sperare allo czar che, operando con ardimento gli tornerebbe facile d'abbattere l'impero ottomano, L'Austria era stata dalle armi russe salvata di rimaner vinta dall'Ungheria. Il protettorato russo padroneggiava di nuovo la politica degli Stati maggiori e minori della Germania. Tornava credibile che l'Inghilterra, paga di prendere per sé Cadice e l'Egitto, non vorrebbe darsi in balìa, per puntellare lo sfibralo impero turco, all'alleanza pericolosa e ingrata in guerra col ambizioso successore del gran capitano, ch'essa aveva combattuto per venti anni, e condannato a consumare la vita sullo scoglio di Sant'Elena.

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Napoleone III, senza alleati e colla Francia scontenta dell'essere ricondotta a reggimento pressoché assoluto, non porrebbe a rischio la sua mal ferma corona per sostenere coll'armi la Turchia. La quale lasciata a se sola, vedrebbe i popoli greci a lui soggetti al primo tuono di guerra prender l'armi, ed aprire il trionfale cammino per Costantinopoli al ristauratore dell'impero di Bisanzio. Dietro queste considerazioni reputando di muovere a impresa sicura, Nicolò gittò il dado della grande partita, in cui si dovevano giuocare sorti d'imperi, destini di popoli, fortune di secoli.

Più probabilmente lo czar non sarebbe rimasto al disotto in quella impresa, ove non avesse scontrato sul trono di Francia un uomo di mente acuta e vigorosa, e maestro espertissimo de' più sottili accorgimenti negli usi pratici della politica. Napoleone comprese a meraviglia che innanzi tutto importava d'imprimere alla contesa orientale il carattere e l'importanza di una questione di diritto e d'interesse europeo, e che conveniva persuadere che l'invasione della Turchia era uno dei modi di manifestazione, non il fine supremo della politica russa, minaccevole all'Austria dal lato del Danubio, della Servia e della Galizia, minaccevole alla Prussia per le frontiere nude di difesa dalla Vistola all'Oder, minaccevole alla Germania per i parentadi annodati coi principi e per l'impero acquistato nelle cose tedesche, minaccevole dal Battico alla Svezia, all'Inghilterra dal Mar Nero e dalle valli del Tauro, minaccevole alla religione, alla civiltà, ai liberi commerci di tutta l'Europa occidentale.

Trattandosi della difesa e della conservazione dell'equilibrio europeo, l'Inghilterra annodò ben tosto i suoi intendimenti e le sue opere ai concetti e alle azioni della Francia. Ma se queste due formidabili Potenze potevano assalire l'impero russo

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in tutta la distesa delle sue coste del Baltico e del Mar Nero; e se conservando il mare per base a ulteriori imprese, i loro eserciti potevano anco penetrare nelle sue provincie centrali, tuttavia, senza la cooperazione dell'Austria, non avevano piena libertà d'azione, e si trovavano non abbastanza tutelati al fianco. Coll'Austria alleata ne' campi di guerra Francia e Inghilterra avevano assicurato la vittoria. La neutralità della Corte di Vienna tornava a tutto vantaggio della Russia, e alle Potenze marittime rendeva la guerra oltremodo costosa, travagliata e pericolosa. Le armi austriache, unite alle russe sotto le bandiere della Santa Alleanza, facevano incerto l'esito finale della lotta divenuta europea. Pertanto tutti gli sforzi della diplomazia francese e inglese si diressero a staccar l'Austria dalla Russia per farsela alleata propria.

Gli uomini di Stato austriaci in quelle supreme contingenze dell'Europa volsero primieramente le proprie cure a sfruttare i vantaggi che all'Austria provenivano dalle peculiari condizioni in cui verso di essa trovavansi Francia e Inghilterra, pur badando a non compromettersi di troppo verso la Russia. Negli andirivieni della politica tortuosa in cui i diplomatici austriaci entrarono per raggiungere questo fine, essi raddoppiarono i colpi insidiosi per abbattere l'edifizio delle franchigie costituzionali del Piemonte. Come poteva l'Austria tirarsi sul capo l'inimicizia della Russia, quando alle sue spalle la rivoluzione si apparecchiava ad assalirla? Volevano le Potenze occidentali averla alleata in Oriente? cominciassero ad assicurarla in Italia da pericoli troppo gravi e manifesti per essere trascurati. I rivoluzionari, protetti dal Piemonte, e speranzosi di vedere l'Europa messa a soqquadro, lavoravano ad apparecchiare nuove ribellioni.

Volgessero Francia e Inghilterra lo sguardo alle intemperanze

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della stampa subalpina, studiassero le condizioni interiori del Piemonte, i diportamenti palesi de' fuorusciti ospitativi, le ree speranze fomentate nei Veneti e nei Lombardi; e poi dicessero se poteva esser prudente partito pel Gabinetto di Vienna, coll'altro pericolo sulle braccia di veder insorte le genti slave della monarchia, di gittarsi a capo chino in una guerra contro la Russia, che poteva avere per avventura sua alleata la Prussia.

Non bastava che gli uomini, i quali reggevano il Piemonte, fossero di guarentigia ai Gabinetti di Londra e di Parigi sulle intenzioni leali e pacifiche della Sardegna.

Essi da un istante all'altro potevano venire scavalcati, anzi verrebber gittati giù dagli scanni ministeriali dai democratici ogniqualvolta si mostrassero ritrosi a seguirli per la via della rivoluzione. Bisognava portare con franca mano la scure alle radici del male col togliere alla stampa subalpina l'impunità d'essere sovversiva, collo snidare dai loro covi nel Piemonte i rivoluzionari, coll'impegnare il Governo di Torino a dar guarentigie sicure d'ordine e di tranquillità. Il maresciallo Radetzky spingeva le precauzioni fino a pretendere l'occupazione temporanea della cittadella d'Alessandria (1).

Erano appigli, che bisognava toglier via senza usare i mezzi suggeriti dall'Austria. A lei furono date innanzitutto dai Gabinetti di Londra e di Parigi assicurazioni positive che, ove le armi austriache scendessero a combattere a difesa della Turchia cogli eserciti francesi e inglesi, le sue provincie italiane le verrebbero guarentite e difese da ogni assalto dal di fuori. Questo impegno non

(1) Dispacci Canofari al ministro degli affari esteri in Napoli, Torino 26 ottobre e 16 novembre 1833. - Lettera confidenziale Villamarina, Parigi 15 marzo 1854. - Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 28 marzo 1854. - Dispaccio riservatissimo Dabormida alla Legazione sarda in Parigi, Torino 4 marzo 1854.


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fu tenuto celato (2); e Drouyn de Lhuys ne diede la ragione a Villamarina cosi favellandogli: - Mentre l'impreveduto, condottovi dai più gravi avvenimenti, entra in campo, i rivoluzionari potrebbero far assegnamento sull'appoggio della Francia per suscitare moti, i quali indubitamente riuscirebbero dannosi all'Italia, e forse al Piemonte. I motivi che hanno determinato il Governo dell'imperatore a fare la dichiarazione del 22 febbraio, sono stati i seguenti. Si è voluto in primo luogo guadagnare alla Francia, che sta per impegnarsi in una lotta così colossale, le simpatie dei Governi conservatori, onde aprirsi la via a concludere le maggiori alleanze possibili.

In secondo luogo il contegno leale e aperto della nostra politica fin dal principio della contesa orientale, richiedeva che l'Austria fosse assicurata che, sintanto che essa fosse impegnata colla Francia nell'Oriente, non avrebbe a temer nulla per le sue provincie italiane, da che i nostri soldati all'uopo l'avrebber aiutata a difenderle.

Era prudente e ragionevole in terzo luogo far comprendere in modo al tutto chiaro ai fuorusciti d'ogni nazione raccolti nel Piemonte, che dovevano guardarsi dal fare alcun tentativo che dovesse compromettere un paese, il quale era loro sì generoso di ospitalità (3). - Mentre all'Austria davansi tali assicurazioni, e, a meglio tirarla nell'alleanza occidentale, le si facevano balenare agli occhi compensi territoriali, il Piemonte era a sua volta carezzato e lusingato (4).

Qui vuoisi innanzitutto avvertire, che la parte più mal condotta della politica esteriore della Sardegna, dopo gli avvenimenti degli anni 188 e 189, era stata quella relativa all'Oriente.

(2) Monitore francese del 22 febbraio 1854.

(3) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 6 marzo 1854.

(4) Dispaccio confidenziale Azeglio, Londra 24 febbraio 1854.

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La Turchia era la potenza colla quale, dopo l'Inghilterra, il Piemonte avrebbe dovuto adoperarsi a stringere stretti vincoli d'amicizia, non per i soccorsi diretti che da essa poteva sperare, ma perché si apriva la via a fare utile leva sotto le parti più vulnerabili dell'Austria, e perché esercitando in Costantinopoli larghi influssi, poteva con utili servizi meglio accaparrarsi l'appoggio efficace dell'Inghilterra. Era inoltre in Oriente che fecondavano i germi, e vieppiù s'intricavano gli interessi opposti, destinati a produrre lo scioglimento della pentarchia europea così gravosa agli Stati minori, e nemica implacabile alle ambizioni italiche della Casa di Savoia. Ma, anzi che in tempo utile infondere vigorìa e raggruppare in un fascio gli elementi favorevoli alla fruttuosa azione politica che la Sardegna poteva largamente esercitare nell'Oriente, si lasciarono inerti e sgonnellati; onde, quando sorsero gli albori della gran contesa, il Piemonte si trovò impreparato in Costantinopoli a giovare alla Turchia, e a fare con utilità gli interessi proprii per le vie diplomatiche. E per verità i ministri in Torino non si turbarono di questa deficienza d'azione alle prime soperchierie russe. Avendo Rescid bascià, d'accordo coll'ambasciatore inglese, sollecitato il legalo sardo in Costantinopoli di prendere un contegno diplomatico favorevole ai diritti della Porta ottomana, il barone Tecco ebbe dal suo Governo istruzioni contrarie, e più tardi ricevette l'ordine espresso di tenersi in un contegno affatto riservato e in una perfetta neutralità (5).

Divenuta prossima e inevitabile la guerra delle due grandi Potenze occidentali alleate della Turchia contro la Russia, il Piemonte incardinò la sua politica nel tener

(5) Dispacci confidenziali Tecco al ministro degli affari esteri in Torino, 13 aprile e 25 agosto 1853. - Dispacci di gabinetto Dabormida, Torino 29 agosto e 6 novembre 1853.

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l'occhio fisso agli andirivieni dell'Austria, nel curaro con ogni diligenza di mantenersi nei migliori termini d'amicizia colla Francia e l'Inghilterra, studiandosi di non dar loro la minima ombra di sospetti di praticare una politica contraria alla loro. Su questo terreno i ministri di Vittorio Emanuele intendevano d'aspettare, se pur si presentava, la favorevole opportunità di pigliar Tarmi. Ma dappoiché fin dal principio della lotta la Francia e l'Inghilterra sentivano il bisogno del soccorso dell'Austria, essi del pari comprendevano la convenienza di togliere al Gabinetto di Vienna il maggior pretesto del suo temporeggiare in una neutralità pericolosa.

Primi a esser toccati furono i tasti che mandavano il suono più gradito. In sui primi giorni del 1854 il Gabinetto di Parigi inviò a Torino Brenier. Il suo viaggio era nelle apparenze di diporto, ma teneva l'incarico segreto di tasteggiare le intenzioni di Vittorio Emanuele e dei suoi ministri in ordine alla questione orientale. Il re si tenne assai riservato; così Dabormida e Cavour; e la cosa passò come fosse stata una semplice conversazione (6). Poco tempo dopo il Gabinetto di Torino avendo chiesto spiegazioni intorno al senso recondito della dichiarazione pubblicata nel diario governativo francese addì 22 febbraio (7), ottenne in risposta le dichiarazioni più soddisfacevoli e lusinghiere. Drouyn de Lhuys disse a Villamarina: - Le frasi pubblicate nel Monitore non possono in alcun modo essere indirizzate al Piemonte, il quale dopo gli avvenimenti degli anni 1848 e 49 ha dato le prove più manifeste di possedere un Governo

(6) Lettere Dabormida al marchese di Villamarina, Torino 20 e 23 gennaio 1854.

(7) Dispaccio di gabinetto Dabormida, Torino 1 marzo 1854.

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forte, sagace, moderato, capace di dare solide guarentigie d'ordine all'interno e di sicurezza ai paesi limitrofi. Come mai si può credere che la Francia abbia voluto tenere un colai linguaggio verso un Governo ed un paese, i quali in mezzo alle maggiori sventure hanno saputo trionfare de' proprii nemici, e con tanta nobiltà, con tanto merito e buon successo sono giunti a superare difficoltà scabrosissime (8). - Il ministro francese sugli affari esteri non si appagò di queste parole; egli prese argomento da alcune domande fatte su questo punto dal generale Dabormida al duca di Guisa, per indirizzare a quest'ultimo una nota che togliesse ogni sospetto, e porgesse al Gabinetto piemontese ampie attestazioni dell'alta stima in cui era tenuto dal Governo francese (9). Il duca di Guisa ebbe quindi l'incarico di leggere alcuni giorni dopo al Dabormida un dispaccio di Drouyn de Lhuys, ove era scritto:

Nella piena indipendenza del nostro pensiero politico noi abbiamo giudicato che fosse cosa abile e doverosa di rendere pubblica una dichiarazione, la quale avesse il vantaggio di servire di solenne avvertimento ai rivoluzionari, e fosse all'Austria di ricompensa per ciò che essa ha già fatto in favore dell'alleanza della Francia coll'Inghilterra, e di incoraggiamento per procedere in una via, nella quale tutti gli Stati europei, amici del diritto e della civiltà, debbano tendere a incontrarsi per operare d'accordo a ripulsar le imprese della Russia. Il Governo sardo è troppo illuminato per adombrarsi d'una politica così aperta e cosi conforme all'interesse che oggidì deve dominare nei consigli dei Gabjnetti. E in vista di questo interesse superiore che, ove l'Austria venga a combattere con noi in Oriente, noi considereremo come una diversione ostile a noi stessi ogni movimento che il partito rivoluzionario provocasse in Italia.

Questa è, signor duca, la condotta che al presente ci viene prescritta dalla lealtà e dall'interesse della Francia. In quanto

(8) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 6 marzo 1854.

(9) Nota Drouyn de Lhuys, Parigi 6 marzo 1854.

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all'avvenire, esso è nelle mani di Dio. Tuttavia noi facciamo assegnamento sulla saviezza dei popoli e dei Governi per non comprometterlo. E se la crisi attuale dovesse terminare per un rimpasto della carta d'Europa in un congresso, 3i può esser sicuri che, adoperandoci alla conservazione o al ristabilimento dell'equilibrio europeo, noi difenderemo la causa dei nostri alleati con un zelo tanto più caldo, quanto più essi si saranno resi premurosi di secondare francamente gli sforzi che noi facciamo per scongiurare un pericolo comune (10).

Siamo al marzo del 1854. La guerra non era per anco dichiarata dalla Francia e dall'Inghilterra alla Russia, e i negoziati diplomatici ancora fervevano. Pure il ministro francese sopra gli affari esteri, mentre applicava tutti i suoi sforzi a guadagnarsi amica l'Austria, vezzeggiava il Piemonte favellando a Villamarina nel seguente modo: - A misura che l'Austria s'impegna in Oriente colle Potenze occidentali, essa di necessità deve pesar molto meno sull'Italia. Quanto più il Gabinetto austriaco si associa alla politica della Francia, tanto più l'influenza nostra si assoda in Italia, e ci pone in grado di poter essere più tardi utili al Piemonte. Noi andiamo in Oriente per difendere l'integrità e l'indipendenza dell'impero ottomano senza portarvi pensieri reconditi: ma chi può prevedere le complicazioni e le eventualità di una guerra così lontana? Supponiamo, caro marchese, che la Turchia soccomba; in tal caso vi sarebbero territorii molti da ripartire, compensi da dare. Può darsi che dalla lotta, nella quale ornai siamo impegnati, debba uscire qualche gran fatto da porgere i modi d'assettare l'Europa in conformità delle idee predominanti e secondo la nuova condizione di cose resa necessaria dagli avvenimenti degli ultimi anni trascorsi. - Villamarina ruppe il silenzio per osservare che la questione d'Oriente

(10) Dispaccio Drouyn de Lhuys al duca di Guisa, Parigi 11 marzo 1854.

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si era ingrossata al segno da venir in breve una grande questione europea. Drouyn de Lhuys colse la palla al balzo per soggiungere che in tal caso il Piemonte, al quale il Governo francese e personalmente l'imperatore portavano grande interesse, avrebbe trovato il conto suo a prendervi una parte attiva (11). - Addì 12 aprile la Francia e l'Inghilterra segnarono il trattato che consacrava la loro alleanza, e defluiva il fine propostosi per essa. S'impegnavano a ristabilire la pace tra la Russia e la Turchia sopra basi solide e durevoli, e a guarentire l'Europa nell'avvenire dalle complicazioni ond'era rimasta turbata la pace generale. Le due Potenze s'interdicevano a vicenda di negoziar la pace colla Russia senza accordi comuni preventivi; in pari tempo rinunziavano di ricavare alcun vantaggio particolare dagli avvenimenti che stavano per succedere. In ultimo Francia e Inghilterra dichiaravano a tutte le altre Potenze europee che si troverebbero ben soddisfatte d'averle alleate in quella guerra. La Sardegna rispose che essa riconosceva il dovere e il diritto che le grandi Potenze occidentali avevano d'opporsi agli invadimene della Russia, e di difendere l'impero ottomano contro una aggressione ingiusta; fin d'allora tutte le sue simpatie erano assicurate alla nobile causa che la Francia e l'Inghilterra avevano generosamente abbracciata, pur astenendosi frattanto di prevalersi della riserva stipulata nell'articolo 5° del trattato del 12 aprile (12).

Il Governo francese fece pubblicare nel suo diario officiale la risposta della Sardegna, e Drouyn de Lhuys disse a Villamarina: - Siamo al tutto soddisfatti della risposta del vostro Governo.

(11) Dispaccio confidenziale riservatissimo Villamarina, Parigi 7 marzo 1854.

(12) Nota Dabormida, Torino giugno 1854.

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Sta bene che intanto il Piemonte si tenga in una prudente riserva; ma non tralasci di prepararsi in silenzio a far fronte alle eventualità che possono sorgere. Se l'Austria viene con noi francamente e definitivamente, quand'essa sarà ben impegnata, e avrà dato guaranligie sode, il Piemonte potrà fare i suoi calcoli per vedere se gli conviene prestarci un concorso attivo onde avere il suo voto e la sua parte di compenso nell'assetto definitivo delle cose. Se l'Austria ci vien meno, tanto peggio per essa: la Sardegna avrà una occasione favorevole per riprendere una buona rivincila (13). -

II.

Di corta durata era stato il consiglio dato dall'Inghilterra al Piemonte di rimanere neutrale (14). Segnata che ebbe l'alleanza colla Francia, il Gabinetto di Londra volse tosto le sue cure a tirar la Sardegna negli interessi della lega. Il mese d'aprile 1854 aveva di poco travalicala la sua prima metà, quando il ministro inglese in Torino si presentò a Dabormida per comunicargli due dispacci in modo confidenziale. Il primo era stato scritto al suo Governo dal legalo inglese in Firenze. In esso sir Scarlett avvertiva d'avere fondali argomenti per credere che i tentennamenti dell'Austria a prender parte alla guerra contro la Russia in buona parte provenivano dalle inquietudini che inspiravanle Io spirilo rivoluzionario che serpeggiava in Italia, e la politica del Piemonte che lo fomentava. Egli osservava che, a parer suo, il Gabinetto di Vienna non farebbe alcun passo decisivo nel

(13) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 16 giugno 1854.

(14) Dispaccio Azeglio, Londra 26 gennaio 1854.

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l'alleanza offensiva contro la Russia, sintanto che non conseguisse dalle Potenze occidentali guarentigie sicure per i suoi possessi italiani. Il maresciallo Radetzky, concludeva, spingere le precauzioni fino a consigliare che si ottenesse d'occupare temporariamente la fortezza d'Alessandria. L'altro dispaccio era di Clarendon. Egli rispondeva a sir Scarlett, che il Gabinetto di Vienna non doveva né poteva avere motivi serii di supporre nel Piemonte intendimenti aggressivi e sleali; in ogni caso l'Inghilterra non permetterebbe mai che l'Austria occupasse una parte del territorio sardo, e molto meno Alessandria (15). A qual punto mirava questa comunicazione? Nella mente del ministro sugli affari esteri prevalse il pensiero che fosse indirizzata a impegnare vieppiù il Gabinetto sardo a tenersi prudente, riservato e alieno dal dare la minima ombra di sospetti e di timori all'Austria. Egli quindi l'accolse colla maggiore gratitudine d'animo, e rispose verbalmente a sir James Hudson che era un'assurdità troppo palese quella di pensare che il Piemonte volesse dar corso a disegni ostili all'Austria, mentr'essa era l'alleala della Francia e dell'Inghilterra. Ma Hudson mirava ad altro; egli si portò dal presidente del Consiglio dei ministri, e lettigli i due dispacci, e seco assentendo che i sospetti dell'Austria erano infondati, entrò nel discorso seguente: - Ove il Governo sardo volesse, potrebbe togliere questo pretesto al Gabinetto di Vienna coll'offerire d'inviare un contingente di soldati suoi in Turchia tosto che l'Austria rivolga le sue armi contro la Russia. Quando il Gabinetto di Vienna vedrà che v'impegnate ad allontanare dal regno una parte del vostro esercito, non oserà più rappresentarvi a lui permanentemente minaccievoli. - Cavour rispose: - Il giorno in

(15) Dispaccio confidenziale riservato Dabormida alle Legazioni sarde di Parigi e di Londra, Torino 4 maggio 1854.

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cui l'Austria prenderà parie in modo irrevocabile alla guerra d'Oriente, personalmente sarò inclinato di consigliare al re d'inviare in Turchia un contingente di quindicimila soldati. Ma non potrei dare questo consiglio se non dopo aver acquistata la convinzione che il soccorso dato non comprometterebbe menomamente gli interessi del Piemonte. - Hudson mostrò desiderio di partecipare al suo Governo queste inclinazioni favorevoli con un dispaccio officiale; ma, dietro le osservazioni di Cavour e di Dabormida, lo fece con una lettera privata a Clarendon. Nel concetto dei due ministri sardi era una conversazione privata, e nulla di più. Il Gabinetto di Londra cercò invece di darvi il valore d'un principio di impegno preso, e ne ragguagliò il Gabinetto di Parigi. Il quale, fatte le sue meraviglie che l'ambasciatore francese non fosse stato messo a parte delle dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri, manifestò il desiderio di conoscere se il Gabinetto di Torino partecipava al modo di vedere del suo capo. Dabormida dichiarò al duca di Guisa che, in tutto quanto era passato tra il ministro inglese e il conte Cavour, non eravi né una proposta fatta, né un impegno preso. - Il giorno, egli soggiunse, che ce ne venga inoltrata una, noi la discuteremo in Consiglio, prenderemo gli ordini del re, e delibereremo.

AI presente ci dichiariamo bensì che tutte le nostre simpatie sono per le Potenze occidentali, abbiamo in esse la maggior fiducia, ma non possiamo prendere un partito che c'imporrebbe sacrifizi gravissimi, e comprometterebbe la responsabilità del ministero verso il Parlamento e il paese, senz'avere presi gli ordini del re, e senz'aver acquistata la certezza che la deliberazione presa salvaguarderebbe in ogni eventualità i nostri interessi (16). -

(16) Dispaccio Dabormida sopracitato, Torino 4 maggio 1834.

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Dietro queste entrature, Dabormida inviò agli ambasciatori sardi in Londra e in Parigi le istruzioni seguenti: - Noi intendiamo di tenerci all'infuori della lotta fintanto che non vi saremo chiamati dai nostri interessi diretti.

Ove vi si facessero aperture, accoglietele e trasmettetele, assicurando che il Governo del re le esaminerà col più sincero desiderio di secondare le intenzioni delle Potenze occidentali. Non tralasciate nello stesso tempo d'assicurare che il re e il suo Governo rimarranno fermi nel contegno assunto, e sfuggiranno così all'interno come al di fuori tutto ciò che potesse divenire oggetto di maggiori complicazioni (17). - Ma i consigli e le sollecitazioni ora all'aperto ora palliatamente affinché il Piemonte togliesse dal cuore dell'Austria il pruno che essa simulava d'aver pungentissimo al segno d'impedirle la facoltà di muoversi, non cessarono (18). Da che manifestamente si procurava d'avere la cooperazione del Piemonte, il Gabinetto di Torino volle fissar le massime che dovevano dirigere la propria diplomazia in cosa di tanto momento. Esse, consegnate in segrete istruzioni ai legati sardi in Londra e in Parigi, davano questi sensi: - Il Governo del re non può determinarsi a inviar truppe ih Oriente finché l'Austria non siasi attivamente e irrevocabilmente impegnata contro la Russia. Cessato ogni pericolo per l'indipendenza della Sardegna, quando non si presenti probabilità d'una guerra in Italia, la cooperazione armata dell'Austria cogli eserciti francesi e inglesi contro la Russia non sarà per noi un incoraggiamento, un argomento per partecipare alla guerra, ma una condizione preliminare, all'infuori della quale non vediamo neanco la probabilità d'entrar a discutere

(17) Istruzioni Dabormida, Torino 4 maggio 1854.

(18) Lettera Azeglio al ministro Dabormida, Londra 29 maggio 1854. - Lettera Villamarina allo stesso, Parigi 30 maggio 1854.

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una proposta di soccorso per parte nostra. Fa d'uopo mettere innanzi anche un altro punto: bisogna che lo cose siano regolate tra il Piemonte e l'Austria in modo tale che, giunta l'ora d'unire le nostre armi alle sue, nulla vi sia da lasciar credere al nostro paese che il suo onore e i suoi interessi sono stati sacrificali da timidi consigli. Torna quindi impossibile il nostro concorso alla guerra finché l'Austria non chiarisca il proposito suo di rispettare i nostri diritti e le nostre istituzioni politiche. Sono condizioni indeclinabili: ov'esse venissero conseguite, tuttavia il nostro concorso armalo in Oriente dovrebbe dipendere da altre considerazioni non meno essenziali. Il Piemonte non ha interessi diretti di entrar in guerra contro la Russia; per comparteciparvi si richiedono adunque peculiari condizioni finanziarie e politiche, valevoli a giustificare agli occhi del paese i gravi sacrifizi, cui sarebbe chiamato in una lotta, della quale non si possono prevedere le vicende e misurar la durata. Massimamente interessa di non trascurare la eventualità che la guerra avesse a scoppiare anche in Italia: in tal caso sarebbe dovere imperioso per il Piemonte di parteciparvi con tutte le sue forze per combattere sui campi che sono stati testimoni de' suoi disastri. Importa frattanto che il Piemonte mantenga tutta la sua libertà d'azione, e quindi, pur manifestando le migliori simpatie per l'alleanza delle Potenze occidentali, si badasse a tenersi lontani da ogni principio d'impegni positivi (19). -

(19) Dispaccio riservato di gabinetto Dabormida, Torino 8 giugno 1854.

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III.

Se l'Austria non aveva aderito al trattato del 10 aprile 1854, pure non era rimasta nell'inerzia. Addì 20 di questo mese segnò colla Prussia una convenzione particolare, per la quale le due maggiori Potenze germaniche si guarentivano a vicenda i propri possessi territoriali, e s'impegnavano inoltre di proteggere i diritti e gli interessi della Germania. E da che questi interessi si trovavano compromessi dall'occupazione russa dei Principati danubiani, le due Potenze si accordarono a unire le proprie rimostranze per conseguirne prontamente lo sgombro. Che se al contrario lo czar decretasse che i Principati venissero incorporati alla Russia, oppure ordinasse a' suoi soldati di prendere il cammino dei Balkan; le armi prussiane e austriache avrebber preso l'offensiva contro l'esercito russo. Non riuscite le pratiche fatte dal Gabinetto di Vienna a Pietroburgo per lo sgombro dei Principati danubiani, addì ik giugno l'Austria segnò un trattato colla Porta, in virtù del quale, riconoscendo che l'integrità territoriale dell'impero ottomano era essenziale all'equilibrio europeo, s'impegnava, esauriti i modi di conciliazione, d'appigliarsi al partito delle armi per conseguire che i Russi sgombrassero la Moldavia e la Valacchia. Per questi trattati l'Austria usciva dalla neutralità, e si costituiva proteggitrice del territorio ottomano sulle rive del Danubio. Nei primi giorni d'agosto la Corte di Vienna fece un altro passo verso l'alleanza delle Potenze occidentali. Per alcune note scambiate tra essa, la Francia e l'Inghilterra vennero determinate le condizioni per il ristabilimento della pace, e le guarentigie che si dovevano chiedere alla Russia. Il rifiuto dello czar di assentire a queste condizioni

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non si fece attendere:

ma l'Austria non sorse a combatterlo; e a dar ragione del suo indugiare protestò presso i Gabinetti di Londra e di Parigi la probabilità di trovarsi sopraffatta dal maggior nerbo delle forze russe sulle proprie frontiere, col pericolo alla schiena della rivoluzione fomentata dal Piemonte.

Intanto il bisogno d'indurre l'Austria a metter fuori le armi facevasi maggiormente sentire dall'esser divenuta immensa la mole della guerra. Le ambagi della politica viennese crucciavano oltremodo i diplomatici inglesi (20); i ministri francesi n'erano pure dolenti; onde gli uni e gli altri bramavano di toglier via il pretesto del Piemonte col cercare d'averlo pronto compagno nei campi di guerra, e col persuaderlo che convenivagli frattanto mettere in disparte i suoi malumori e i suoi reclami verso l'Austria.

Erano le probabili eventualità della corona di Spagna pel duca di Genova, e della Lombardia per il re Vittorio Emanuele, le incitazioni più lusinghiere che si facevano brillare agli occhi dei ministri piemontesi. Ma poi bisognava imbavagliare la stampa, tenere in stretta sorveglianza i fuorusciti per render l'Austria calma e sicura.

In Parigi Villamarina rispondeva: - Conosco abbastanza il mio re e il mio paese per dirvi che essi si faranno schiacciare, ma non cederanno ove consigliar si volessero ad abdicare ai proprii diritti, alla propria indipendenza (21). - Azeglio in Londra iva dicendo: - Non ci favellate d'alleanza, senza darci prima sode guarentigie che l'Austria rispetterà la nostra indipendenza territoriale e le nostre libertà (22). - Dabormida scriveva: - Indubitatamente l'Austria conosce, quanto noi, le tranquille condizioni del nostro paese.

(20) Dispaccio riservato Azeglio, Londra 30 settembre 1854.

(21) Dispaccio riservato confidenziale Villamarina, Parigi 22 settembre 1854.

(22) Dispaccio confidenziale Azeglio, Londra 27 novembre 1854.

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Le speciose apparenze di pericoli che indica ai Gabinetti di Londra e di Parigi, sono espedienti per colorire le esitazioni sue, e per minare la nostra riputazione. Ove ella fosse deliberata davvero d'unirsi in pensieri e in opere alla Francia e all'Inghilterra, forse che il Piemonte sarebbe in condizioni da farle ombra? Posso ingannarmi, ma mi sembra di scorgere che non è punto per apparecchiarsi la via a una cooperazione attiva colle Potenze occidentali, che essa si maneggia per ottenere che facciano pressione sulla Sardegna, ma per rendere men pericoloso il suo rivolgersi alla Russia, ruinate le libertà nel Piemonte. Confido sulla lealtà e sul senno degli uomini di stato francesi; essi comprenderanno che il sacrifizio del Piemonte all'Austria riuscirebbe troppo pericoloso alla Francia (23). -

IV.

Fu addì 13 dicembre 1854 che il ministro inglese in Torino presentò a Dabormida e a Cavour due lettere particolari, l'una di Clarendon, l'altra di Russel, colle quali eragli prescritto di tasteggiare il Governo sardo per vedere se era disposto a mettere al soldo dell'Inghilterra un contingente di soldati, oppure d'inviarlo in Crimea per conto proprio, accedendo al trattato del 10 aprile.

Queste lettere erano state scritte fin dal 29 novembre; ma sviate da mano misteriosa, avevano qua e là vagato prima di giungere a Torino. Così avvenne che, il giorno appresso d'averle lette, Hudson e l'incaricato d'affari della Francia presso la Sardegna ebbero dispacci officiali,

(23) Dispaccio confidenziale di gabinetto Dabormida, Torino 19 novembre 1854.

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che prescrivevano loro di chiedere la formale accessione al trattato del 10 aprile.

Il Consiglio dei ministri presieduto dal re deliberò che la Sardegna prenderebbe l'impegno di fornire un contingente di quindicimila uomini contro la Russia alle condizioni seguenti:

1° l'Inghilterra assentisse alla Sardegna un imprestito di due milioni di sterline al tre per cento di mutuo, da rimborsarsi alla conclusione della pace dietro patti da stabilire di comune accordo:

2° le due Potenze occidentali dichiarassero che nel negoziare la pace si calcolerebbero i servizi resi e i sacrifizi sostenuti dal Governo sardo; 3° da che col sottoscrivere al trattato del 10 d'aprile la Sardegna entrava nel concerto europeo, dovesse partecipare al congresso indirizzato a ristabilire la pace e l'equilibrio politico dell'Europa: 4°

per articoli segreti la Francia e l'Inghilterra s'impegnassero a indurre l'Austria a togliere i sequestri sui beni dei sudditi sardi, colpiti dal decreto 13 febbraio 1853,

e inoltre a prendere in seria considerazione nel negoziare la pace lo stato dell'Italia. Il re volle che eziandio

si avesse una dichiarazione esplicita dai Gabinetti di Londra e di Parigi che nel trattato conchiuso coll'Austria addì 2 dicembre 1854 non eravi annesso alcun articolo segreto, contrario agli interessi morali o materiali del Piemonte

, o che in qualche modo potesse pregiudicare il miglioramento politico dell'Italia.

Portate queste proposte a notizia dei legati in Torino della Francia e dell'Inghilterra, essi lasciarono comprendere che, senza ferire la dignità dell'Austria, non potevasi dai loro Governi prendere l'impegno assoluto di far togliere i sequestri; la Sardegna si contentasse che rimanesse scritto che farebbero per ciò tutti i loro sforzi. In quanto alla dichiarazione che doveva comprenderei due articoli segreti, rimase inteso che verrebbe fatta prima

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della segnatura dell'adesione al trattato del 10 aprile.

Dabormida nel ragguagliare intorno a questi accordi il legato sardo in Parigi, gli scrisse: - Non avrete la minima pena a conoscere che, nel secondare i nostri sentimenti amichevoli verso la Francia e l'Inghilterra, prendiamo il solo partito valevole ad assicurare la nostra indipendenza, a salvaguardare le nostre libere istituzioni, a contribuire ad un miglior avvenire per l'Italia (24). - Ma il negoziato doveva camminar tutt'altro che liscio.

Il Gabinetto di Londra trovò che i due articoli segreti proposti erano un ostacolo per concludere il trattato. In quanto all'articolo relativo ai sequestri, disse Clarendon, esso ci espone a veder l'Austria restia a proseguire nella via in cui è entrata per il trattato del 2 dicembre; poi è in contraddizione agli impegni che abbiamo preso di non pretendere concessioni dal Gabinetto di Vienna; ripugna da ultimo al Governo inglese d'assumere per un articolo segreto un impegno intorno a un affare che presenta scarse eventualità di buon successo. - In quanto a prendere in considerazione lo stato d'Italia alla pace, proseguì il ministro inglese sugli affari esteri, per i termini usati o si domanda troppo, o si vuol far cosa che non ha significato di sorta. Certo non si pretenderà che dobbiamo battere in breccia l'Austria: non vi sarebbe mai l'assenso della Francia. Se si pensa d'usare questa domanda come un argomento favorevole all'alleanza innanzi al Parlamento, quale utilità se ne potrebbe cavare d'averlo stipulato in un articolo segreto? - Clarendon tuttavia lasciò trapelare, che egli non sarebbe stato alieno di sostituire agli articoli segreti due dichiarazioni sia per continuar ad agire per la levata dei sequestri, sia per prendere in considerazione lo stato dell'Italia (25).

(24) Dispaccio confidenziale Dabormida, Torino 15 dicembre 1854.

(25) Dispaccio telegrafico cifrato d'Azeglio, Londra 20 dicembre 1870.

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Dabormida rispose col dispaccio seguente, degno d'essere registrato dalla storia:

Le obbiezioni che mi avete notificate col vostro dispaccio telegrafico di ieri, mi hanno sorpreso. Se ci viene rifiutata ogni sorta di soddisfazione, a qual fine dovremo noi impegnarci a cosi gravi sacrifizi d'uomini e di moneta? perché i nostri soldati avranno da versare il proprio sangue? Non è egli tanto penoso quanto inesplicabile per avventura il veder un paese, il quale ha fatto tanti sacrifizi agli interessi dell'Europa, che ha subito con coraggio tante disgrazie, che ha dato tante prove di moderazione, chiamato dai suoi alleati a cooperare a una lotta per la quale non gli viene offerto alcun vantaggio nò mediato né immediato? Non è forse conforme alla giustizia che gli si debba tener conto dei pericoli che va ad incontrare mediante una riparazione fatta al suo onore, e per la guarentigia che le sue legittime speranze nell'avvenire saranno coordinate agli accordi che usciranno dalla guerra? Alla richiesta d'entrare nell'alleanza, e d'inviare in Crimea un corpo considerevole di truppe, esponendoci a spese e a pericoli incalcolabili, noi abbiamo risposto con una sollecitudine testificatrice delle nostre simpatie e dei nostri sentimenti generosi. Ma se non dobbiamo attendere alcun vantaggio, se al contrario abbiam motivo di prevedere risultati pregiudicievolì ai nostri interessi, crederemmo di mancare a tutti i nostri doveri verso il paese contraendo impegni che sarebbero a pura perdita. Le condizioni da noi poste, secondo la convinzione nostra, sono di stretta giustizia ed equità. Lo svincolo dei sequestri per noi è una clausola assolutamente indeclinabile. Se invece di esigerla in modo categorico, ci siam limitati a chiedere a tal fine gli sforzi comuni delle due Potenze, a far ciò siamo stati messi dalla confidenza compiuta che abbiamo della solerzia e dell'efficacità dei loro sforzi. È manifesto che il Piemonte non può diventare l'alleato dell'Austria anche indirettamente, ove essa prima non faccia cessare l'ingiuria sanguinosa ond'hanno avuto termine le loro relazioni politiche. In qual modo la Sardegna potrebbe sedere nel congresso destinato a regolare le condizioni della pace che verrebbe probabilmente aperto in Vienna; come, dico, essa potrebbe starvi vicina a una Potenza

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che ha calpestato sotto i piedi i suoi diritti, che le ha gittato il guanto di sfida per provocarla a guerra, o per dare al mondo lo spettacolo della sua umiliazione? Questa sfida dura tuttavia; e se il Piemonte punto non l'ha raccolta, l'ha fatto per l'amor suo alla tranquillità d'Europa, per l'avversione sua al principio rivoluzionario, e per motivi di prudenza che è inutile rammentare. Se l'Austria è di buona fede, deve riconoscere che i pretesti che adduceva ricavandoli dagli andamenti della politica piemontese, non hanno più alcun valore dopo che il Piemonte volontariamente manda in lontane regioni una parte considerevole del suo esercito, e abbraccia la causa per la quale essa si dichiara disposta a combattere. Se così dovrebb'essere, la sua persistenza nel mantenere i sequestri sarebbe mai una provocazione gratuita, un ostacolo che ella pone all'unione di forzo desiderata dagli alleati, e quindi un servizio reso alla Russia? Se le Potenze temono che, soddisfacendo i giusti reclami del Piemonte, possano allontanare da loro l'Austria, bisogna convenire che il legame che le tiene unite è ben fragile, e mostra che esse sono nella credenza che la loro nuova alleata non attenda che un pretesto per dar corso alle sue simpatie verso la Russia. In tal caso forsechè non è meglio che l'Austria si smascheri il più presto possibile, per togliere le due potenze occidentali dallo stato d'indecisione in cui fin ora sono state tenute dal Gabinetto di Vienna? In quanto al secondo articolo segreto, mi pare che il suo significato sia ben chiaro e moderato. Nel chiedere l'assicurazione che lo stato dell'Italia sia preso in considerazione alla conclusion della pace, non si domanda nulla di minaccievole per l'Austria. Il Piemonte non mira punto a soppiantarla nelle sue Provincie italiane; ma se le vicissitudini della guerra dovessero produrre dei rimpasti territoriali, è manifesto che la Sardegna non potrebbe assentire di rimanerne esclusa. È del pari evidente che i sacrifizi ch'essa va ad incontrare, per essere giustificabili, debbono produrre effetti utili al paese. Se alla pace tutti i combattenti rimangono nelle attuali loro condizioni territoriali, l'articolo segreto da noi chiesto non impegna per nulla le Potenze sotto l'aspetto materiale. In tal caso elleno non avranno che ad occuparsi che dei comportamenti dei Governi italiani; e l'Inghilterra non può disconfessare che vi è larga materia in tale argomento

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per esercitare una legittima influenza onde far scomparire con savie concessioni all'opinione pubblica e allo spirito dei tempi una causa permanente di malcontento e, gli incessanti pericoli di moti rivoluzionari.

Non prolungherò di più tal discussione, sia perché voi conoscete assai bene gli argomenti da addurre a sostenere le nostre ragioni, sia perché non dovete per ora addurli a lord Clarendon.

Come vi ho dichiarato col mio ultimo dispaccio telegrafico, ove il negoziato contemporaneamente si trattasse in Torino, a Londra e a Parigi, s'incontrerebbero intralciamenti inevitabili.

Le proposte sono state fatte a Torino dai rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra; e la discussione non può aver luogo che a Torino, per essere proseguita con unità di concetti, e per avere un pronto risultato. Laonde nel comunicarvi queste osservazioni, ho ceduto sovratutto al giusto dolore cagionatomi dalle obbiezioni di lord Clarendon, e ho inteso di convincervi viemmeglio che, non potendo voi negoziare, dovete evitare colla massima diligenza d'impegnarvi in discussioni, le quali potrebbero far credere che noi siamo disposti a rinunziare almeno in parte le basi essenziali che abbiam formolato (26).

Ma v'era un fatto che dava luogo a sperar poco. Nella bilancia con cui le due Potenze occidentali valutavano gl'interessi propri e i soccorsi cercati a vantaggiarli, il peso del Piemonte era di gran lunga minore di quello dall'Austria. - Noi siamo piccoli, scriveva a ragione Dabormida, e non ò che troppo vero che gl'interessi dei piccoli sono facilmente posti in seconda linea. - Tuttavia soggiungeva: - Dobbiamo tanto più badare al nostro onore, alla nostra dignità, da che ove una volta fossero compromessi, difficilmente avremmo il modo di ricuperarli.

(27). - Con questi antecedenti il negoziato camminava a stento, quando parve trovalo un termine di buona composizione (2tgt;) Dispaccio confidenziale Dabormida al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 21 dicembre 1854.

(27) Dispaccio confidenziale riservatissimo Dabormida all'ambasciatore sardo in Parigi, 21 dicembre 1854.


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Noi dobbiamo tanto più essere curevoli delle condizioni nostre, quanto meno ci troveremmo in grado di rialzarle se le lasciassimo scadere dietro la probabilità fatta scorgere dagli ambasciatori francese e inglese che l'affare dei sequestri sarebbesi potuto trattare a parte, e definirlo in una nota. Ma l'Austria vegliava sospettosa e irrequieta: essa aveva voluto conoscere le pratiche dei Gabinetti di Londra e di Parigi per l'alleanza sarda, che aveva sconsigliata come quella che avrebbe aumentato il credito del Piemonte, e datogli facoltà d'esercitare in Italia un'influenza pericolosa (28). La Francia e l'Inghilterra l'avevano contentata in così larga misura, da metterla a giorno non solo di ciò che chiedevano alla Sardegna, ma di ciò eziandio che essa domandava. Perciò a togliere ogni argomento di disgusto al Gabinetto di Vienna, che dichiarava: leverebbe i sequestri quando il Piemonte cessasse di farle la guerra (29), da Parigi e da Londra venne il rifiuto di assentire che avesse corso la speranza data di prender impegni in una nota sopra questo scabroso affare.

A togliere così grosso ostacolo, il Consiglio dei ministri deliberò d'inviare a Parigi il generale Alfonso La Marmora. Se non che l'ambasciatore francese non solo si dichiarò contrario a questo espediente, ma lasciò intendere che il generale sarebbe stato male accolto. Ornai bisognava prendere senza esitazione un partito reciso.

Per tal fine venne stabilita una conferenza, nella quale si trovarono presenti sir James Hudson, il duca di Guisa, e i ministri Cavour, Dabormida, Lamarmora, Rattazzi.

Furono ore ben tristi le trascorse da questi quattro consiglieri responsabili della corona di Vittorio Emanuele in tale conferenza, dalla quale uscirono colla persuasione dolorosa che bisognava rinunziare a un tratto

(28) Lettera particolare Villamarina al generale Dabormida, Parigi 10 dicembre 1834.

(29) Lettera particolare Villamarina a Dabormida, Parigi 19 dicembre 1854.

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alle condizioni poste come indispensabili all'alleanza, ovvero troncare le avviate negoziazioni (30). Ma quest'ultimo partito portava seco il ritiro del ministero, e tosto l'ingresso de' conservatori nei consigli della Corona, e quindi le libertà costituzionali poste sul pendìo d'essere smozzale ò d'andar perdute fra i trioni! dei clericali, i concordati con Roma, gli accostamenti coll'Austria, le macchinazioni ringagliardite de' rivoluzionari, lo scredito e lo scoramento della parte liberale moderata, e le irrequietezze sdegnose del paese, vistosi retrospinto nella riazione, mentre col generoso suo sangue sparso nei campi lombardi aveva acquistato il diritto d'essere guidato avanti al compimento de' suoi destini nazionali. La neutralità era l'isolamento, all'interno sbattuto da focose passioni di partiti irreconciliabilmente nemici, al di fuori utile all'Austria, gravoso al l'Inghilterra e alla Francia, bersaglio ai sospetti e agli sdegni universali. E gli eventi potevano ad ogni ora travolgere nel rapido loro corso la neutralità del piccolo paese trammezzante Austria e Francia, da che questa ultima per una convenzione segreta si era impegnala, ove l'Austria entrasse in lotta sul Danubio, a rafforzarla di sessantamila soldati, che sarebber calati dalle Alpi per traversare il Piemonte e la Lombardia (31).

Se questa unione d'armi succedeva quando già la Sardegna avesse concessi i suoi soldati all'alleanza occidentale, erasi sfuggito il pericolo che la Corte di Vienna si facesse compensare dalla Francia e dall'Inghilterra i servigi prestati loro a spese dello Stato italiano, rimasto libero dal vassallaggio imperiale. Ove all'Austria fosse mancato il coraggio d'operare francamente per difendere la legge comune,

(30) Lettera Cavour, Torino 11 gennaio 1855. - Lettera Dabormida 29 gennaio 1855.

(31) Lettera confidenziale particolare Villamarina al ministro degli affari esteri in Torino, Parigi 6 gennaio 1855.

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per isdebitarsi del suo mandato europeo di stare a baluardo dell'Occidente contro le ambizioni moscovite, si sarebbero raddoppiati i meriti del Piemonte accorso a combattere, senz'averne l'immediato dovere, per l'indipendenza dell'ordine europeo. Che se era scritto nei cieli che in quella gran lotta avesse a suonar l'ora della risurrezione de' popoli oppressi, l'Italia, vessilifero il Piemonte, avrebbe utilmente prestato il suo braccio, e bravamente si sarebbe guadagnata la sua indipendenza nei campi di guerra. - Andiamo dunque, disse risoluto Camillo Benso di Cavour agli altri ministri, andiamo ad ogni costo con ardimento per la via seguita dai padri nostri, indicataci dalle nobili tradizioni della Casa di Savoia, dalla sicurezza del presente, dall'antiveggenza del futuro, dappoiché il re si mostra pari alla grandezza degli eventi e alle virtù guerriere degli avi suoi; possiamo esser certi che la nostra bandiera, posta tra i gloriosi stendardi di Francia ed Inghilterra, si mostrerà degna di sì alta compagnia. - L'assenso degli altri ministri, meno quello degli affari esteri, fu pronto, benché a qualcuno di loro gravasse d'entrare nella alleanza senz'aver stipulato nulla di positivo a vantaggio del Piemonte.

Il generale Dabormida sino all'ultima ora in cui tenne l'uffizio di ministro sulle cose esteriori, si diportò degnamente. Indarno il re, indarno il conte Cavour e il generale Alfonso Della Marmora si adoperarono onde volesse rimanere nei consigli della Corona per lo meno qual ministro della guerra. Non valsero sollecitazioni, non valsero preghiere. Egli sapeva che, coll'uscire dal ministero, agevolava i modi di terminare il negoziato togliendo di mezzo la ruggine lasciata da un suo diverbio coll'ambasciatore di Francia; e non voleva menomar il credito della diplomazia sarda col fatto d'un ministro degli affari esteri che oggi lascia in disparte,

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nel segnare un trattato di capitale importanza, le clausole che ieri aveva dichiarate indispensabili a tutelare la dignità e gl'interessi del suo paese (32). Egli era un valente e onorato uom di Stato, quali solea produrne il vecchio Piemonte!

V.

Il conte Camillo di Cavour, succeduto al generale Dabormida nel ministero degli affari esteri, proseguì i negoziati. Innanzitutto addì 1° gennaio ebbe luogo una conferenza, nella quale le cose passarono nel modo seguente. Letto il trattato del 10 aprile, e l'atto col quale il re di Sardegna stava per darvi la sua adesione, Cavour disse: - Provo rincrescimento nel vedere che, dietro le istruzioni dei loro Governi, i ministri di Francia ed Inghilterra non possono sottoscrivere alcuna nota segreta o pubblica, per la quale i Gabinetti di Londra e di Parigi facciano promesse d'usare i loro buoni uffizi ad impegnare il Governo austriaco a levar i sequestri sui beni situati sul suo territorio e appartenenti a sudditi sardi.

Desidero sapere, prima che la Sardegna si unisca alla Francia e all'Inghilterra per un trattato di alleanza così intima, se una tale riserva sia stata motivata da un mutamento di politica susseguito a nuove occorrenze. - Sir James Hudson rispose per conto proprio e per il duca di Guisa: - I Governi alleati, lungi dal nutrire verso il Governo sardo sentimenti meno amichevoli che per lo passato, al contrario credono dargli una prova novella della loro amicizia invitandolo a collegarsi seco loro.

(32) Lettera Dabormida al marchese Villamarina, Torino 29 gennaio 1855. - Lettera Cavour allo stesso, Torino 11 gennaio 1855.

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Relativamente alla questione de' sequestri, per la quale soventi volte, benché invano, hanno interposto i loro buoni uffizi presso il Governo di S. M. l'imperatore d'Austria, torna evidente che, se i Governi di Francia e d'Inghilterra in un trattato pubblico o segreto colla Sardegna sottoscrivessero qualche patto che si rapportasse a cotesta questione, ferirebbero l'Austria nel suo onore, renderebbero pressoché impossibile lo svincolo dei sequestri, e così allontanerebbero forse per sempre il conseguimento del fine desiderato dal Governo sardo. È dalla sua alleanza colla Francia e coll'Inghilterra che sorgerà un insieme di circostanze, le quali forniranno il modo ai buoni uffizi delle Potenze di riprodursi con migliore speranza di successo (33). - Fatte queste dichiarazioni, si spacciarono le incombenze preliminari agli alti che dovevano regolar le condizioni, colle quali il Piemonte entrava nell'alleanza. L'atto di adesione al trattato del 10 aprile, sottoscritto addì 25 gennaio 1855, essenzialmente stabiliva che il re di Sardegna vi accedeva in quelle clausole, delle quali non si era ancora ottenuto il fine, e si obbligava specialmente a concertarsi, qualora occorresse, coll'imperatore dei Francesi e colla regina d'Inghilterra per procedere alla conclusione di accomodamenti particolari che regolassero l'impiego delle loro forze di terra e di mare, e determinassero le condizioni e il modo della loro cooperazione. Contemporaneamente si sottoscrisse altra convenzione nella quale si stabilì che il re di Sardegna somministrava per i bisogni della guerra un corpo d'esercito di quindicimila uomini sotto il comando di un generale sardo, obbligandosi di mantenerlo sempre alla stessa cifra coll'invio successivo e regolare

(33) Protocollo della conferenza del 10 gennaio 1855, sottoscritto Cavour, Guiche, James Hudson.

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de' necessari rinforzi. Col ministro inglese il conte Cavour sottoscrisse una convenzione particolare, per la quale rimase pattuito che la regina della Gran Bretagna, onde agevolare al re di Sardegna l'invio di quindicimila soldati in Crimea, avrebbe chiesto al suo Parlamento la facoltà di fare un imprestito al Governo sardo di venticinque milioni di franchi al quattro per cento, tre per interessi, ed uno per rimborso del capitale; e che se la guerra fosse durata più di un anno, sarebbero stati preslati alla Sardegna altri venticinque milioni alle stesse condizioni (34).

Conveniva domandare al Parlamento la sanzione della stretta alleanza. L'ottenerla riuscì scabroso assai. Alla 6ne, dopo otto giorni di lotta, il trattato d'alleanza fu approvato dalla Camera dei deputati con 101 voti favorevoli e 60 contrari. Nel Senato fu discusso vivamente dal 1 al 3 di marzo, ed infine approvato con 63 voti contro 27.

11 Governo inglese si mostrò assai soddisfatto dell'alleanza conclusa col Piemonte. Clarendon scrisse a Hudson: - Potete assicurare il conte di Cavour che il trattato è popolare in tutte le grandi città inglesi, direi quasi nei villaggi stessi; popolare ad un segno, di cui egli potrebbe appena farsi idea tra un popolo che generalmente non s'interessa gran fatto nelle cose de' paesi stranieri. Esiste in tutta quanta l'Inghilterra tanta ammirazione per la saviezza e il coraggio di cui la Sardegna die' prove in difficili circostanze, tanta simpatia pei fortunati sforzi fatti a stabilire una libertà razionale, che qualunque misura tenda a legare più strettamente i due paesi è accolla qui con un sentimento che s'approssima all'entusiasmo (35).

(34) Traitées de la Maison de Savove, tom. xiii.

(35) Lettera Clarendon, Londra 31 gennaio 1855.

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Il Gabinetto di Parigi, dopo avere assicurato il ministero piemontese che la Francia non erasi menomamente legata per patti segreti coll'Austria in alcuna cosa che potesse riuscire di nocumento al Piemonte e all'Italia (36), si fece premura di far conoscere la ragione principale che avevalo indotto a contrastare la domanda della Sardegna relativa ai due articoli segreti: non conveniva mettersi nel rischio di perdere il soccorso di duecento o trecentomila austriaci per assicurarsi l'aiuto di quindici o ventimila piemontesi (37).

L'alleanza stretta dal Piemonte colle Potenze occidentali, se tornò ingratissima all'Austria, spiacque pure alla Prussia (38). La Corte di Roma e i principi italiani vassalli dell'Austria provarono il ributtante sentimento di chi, mentre sta con sguardo ansioso a mirare un nemico odiato e temuto in sul punto di venire ingoiato nei vortici di acque gorgoglianti, lo vede al contrario sbalzar salvo alla riva, e rialzarsi più gagliardo di prima. Indarno la Francia aveva cercato che il papa con qualche atto pubblico facesse segno di adesione alla causa propugnata dagli Occidentali contro il nemico implacabile nell'Oriente della religione cattolica: la Corte di Roma deliberò e rimasta ferma nel partito preso di stare spettatrice silenziosa di quella guerra, sotto mano badando d'accostarsi vieppiù all'Austria (39). Il duca di Modena pregava a mani giunte che i cieli riversassero sugli occidentali combattenti nella Tauride tutte le sventure

(36) Dispaccio confidenziale Villamarina, 18 dicembre 1854.

(37) Lettera confidenziale Villamarina al conte Cavour, Parigi 10 gennaio 1855.

(38) Dispaccio De Launay al conte di Cavour, Berlino 19 gennaio 1855.

(39) Dispaccio San Giuliano al commendatore Carafa in Napoli, Roma 17 febbraio 1855. - Dispaccio riservato De Martino allo stesso, Roma 28 ottobre 1855.

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toccate ai soldati francesi dopo l'incendio di Mosca; e dimenticandosi ogni convenienza di linguaggio, egli chiamava brigante Napoleone III e birbi i Governi di Londra e di Parigi (40). Il paralitico Governo toscano per paura aveva provato spasmodici sussulti di nervi al vedere l'Austria inclinare verso la Francia e l'Inghilterra (41). Verso queste Potenze si mostrò poi restìo ad accettar le massime di neutralità marittima, che elleno avevano proclamato a utile dei commerci internazionali; e assentite che le ebbe, cercò di eluderle a profitto della Russia. Udita l'alleanza del Piemonte cogli Occidentali, il granduca la pose in canzonatura, e accolse festoso alla sua Corte il conte Potocki inviato straordinario russo presso il re di Napoli (42). Questi, allorché nel 1852 tra la Francia e la Russia maneggiavansi le pratiche diplomatiche relative ai luoghi santi di Palestina, avea fatto giungere allo czar una parola amica onde la questione si componesse senza turbar la pace europea. Ma come la contesa di religiosa si volse in politica, Ferdinando II si pose nel più stretto riserbo, e soltanto ordinò al suo ministro sopra le cose esteriori d'indirizzare alle legazioni napoletane all'estero una circolare, nella quale, facendo caldi voti per la conservazione della pace, si porgesse piena assicurazione ai Governi di maggior polso che nulla avevano a temere intorno alla quiete interiore delle Due Sicilie ove la rivoluzione tentasse d'alzar il campo in mezzo allo scoppio d'una grossa guerra

(43). Come la (40) Lettere del duca Francesco V di Modena al conte Forni, Pavullo 9 e 11 settembre 1855.

(41) Dispaccio Sauli al ministro degli affari esteri in Torino. Firenze 24 ottobre 1854.

(42) Dispacci confidenziali Cavalchini al ministro degli affari esteri in Torino, Firenze 29 gennaio e 3 marzo 1855.

(43) Circolare Carafa, Napoli 9 giugno 1853.

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Francia e l'Inghilterra si trovarono in prossimità di brandir le armi contro la Russia, elleno fecero attive e iterate pratiche per avere alleato il re di Napoli; ma scontrarono ripulse insopportabili (kh). Ove anco l'Austria si fosse dichiarata nemica aperta della Russia, Ferdinando II aveva deliberato di non rompere la neutralità (45). Ma i suoi istinti dispotici lo portavano a giovare possibilmente, senza compromettersi di troppo, la causa dello czar. A tal fine tentò di proibire l'esportazione degli zolfi dalla Sicilia; ma indietreggiò dal farlo dietro le minaccie di Clarendon e di Palmerston (6). Cercò disagiare gli approvigionamenti per gli eserciti degli Orientali colla assoluta proibizione del grosso bestiame di qua e di là del Faro. Che se da questo lato cede in parte dietro le vive rimostranze dell'ambasciatore di Francia in Napoli, tuttavia mantenne il divieto dell'esportazione dei grani e delle farine, malgrado le sollecitazioni dei Gabinetti di Londra e di Parigi. Astretto a vietare che il prestito russo si negoziasse nella Borsa di Napoli, se ne ricattò col far adesione da solo in Europa a un trattato marittimo concluso dalla Russia cogli Stati dell'Unione americana, pel quale, non disdetti i corsari franchi, si accordavano diritti superlativi ai neutrali in tempo di guerra.

Procedute le cose come abbiam narrato, in sostanza parteggiavano per la Russia i principi e i Governi che avevano tolto a fare in Italia assoluta signoria; era sceso in campo a combatterla il Piemonte, rimasto costituzionale.

(44) Dispaccio Antonini al ministro degli affari esteri in Napoli, Parigi 16 giugno 1853.

(45) Dispaccio in cifra del ministro degli affari esteri in Napoli al cavaliere Antonini in Parigi, 30 dicembre 1854. - Dispaccio Antonini 9 gennaio 1855.

(46) Dispacci confidenziali Azeglio, Londra 26 e 28 giugno 1854.

CAPITOLO SESTO

Sommarlo

Malumori della Porta ottomana verso la Sardegna: come appianali - Intrighi austriaci - Sdegni della Russia contro la Sardegna - Manifesto di guerra di questa Potenza - Osservazioni - Supposizioni del conte di Cavour - Pretese inglesi sui soldati sardi inviati in Crimea - Richiami della Sardegna - Malevoglienze dell'Austria verso di essa - Tentativi Sella Francia per appianare la questione dei sequestri - Procedimenti in proposito dei Gabinetti di Vienna e di Torino Controversia diplomatica tra la Sardegna e la Toscana - Intromessione in essa dell'Austria, della Francia e dell'Inghilterra - Modi tenuti nel comporta amichevolmente - Pratiche della Sardegna onde partecipare alle conferenze di Vienna: come accolte - Susseguente contegno assunto dal conte di Cavour - Pratiche del Gabinetto di Torino per guarantirsi la compartecipazione ai negoziali per la pace - Viaggio di Vittorio Emanuele - Considerazioni e cenni relativi al conte di Cavour e a Napoleone III - Memoriale di Cavour a Napoleone sui modi di preparare la ricostituzione dell'Italia - Ultimatum dell'Austria alla Russia - Considerazioni - Preliminari di pace - Nola Cibrario - Lettera Cavour a Walewski - Osservazioni - Desiderii e sollecitazioni del Gabinetto di Torino: come accolte dalla Francia e dall'Inghilterra.

I.

Come la Porta ottomana ebbe notizia dell'alleanza conclusa dalla Sardegna cogli Occidentali, se ne mostrò alquanto risentita. Benché all'amichevole, il granvisir disse al legato sardo in Costantinopoli: - Trattandosi di un soccorso militare da portare alla Turchia, non so capire il perché non abbiate pensato a un accordo preliminare con noi, come hanno praticato le altre Potenze alleale, compresa l'Austria. Tanto più m'aspettava questo procedere da parte vostra, in quanto che, come vi è noto, io instai onde il protocollo annesso alla convenzione del 12 marzo fosse redatto in modo da lasciare aperta la via al nostro ingresso nell'alleanza. -

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Il barone Tecco si studiò di persuadere il ministro ottomano che nulla eravi d'offensivo nella trascuranza d'una formalità di nessun valore, mentre la Sardegna dava alla Porta coi fatti una solenne testimonianza della sua amicizia (1). Ma la cosa in realtà era per se stessa importante.

Il Piemonte non era ancora l'alleato diretto del Sultano nelle condizioni identiche a quelle patteggiate dalle altre Potenze; ond'esso presentavasi in Costantinopoli come ausiliario in guerra della Francia e dell'Inghilterra, e nulla di più.

Cavour fu pronto al rimedio, ordinando al barone Tecco di rimettere al Sultano una lettera di Vittorio Emanuele, e di negoziare una convenzione col Governo ottomano (2). Anche qui la mano dell'Austria cercò d'intorbidare il negoziato, ma non riuscì nel suo intento. Il trattato fu segnato la sera del 13 marzo 1855.

Per dare alla Sardegna una singolare testimonianza di grato animo, il Sultano volle che per la prima volta il suo plenipotenziario ponesse la sua firma e il suo sigillo sotto l'esemplare del trattato scritto nell'idioma francese, mentre conforme gli usi della cancelleria ottomana il plenipotenziario turco doveva soltanto sottoscrivere e autenticare il foglio del trattato scritto nel proprio idioma.

Di più questo trattato fu pure sottoscritto dal granvisir per delegazione speciale del Sultano, in quella che, per regola comune, le convenzioni internazionali della Porta sono sottoscritte dal solo ministro sopra gli affari esteri (3).

Lo czar, ricevuta la notizia dell'alleanza della Sardegna cogli Occidentali, arse d'ira contro Vittorio Emanuele. Nesselrode inviò ai legati russi presso i vari

(1) Dispaccio Tecco al ministro degli affari esteri di Torino, Costantinopoli 23 febbraio 1855.

(2) Istruzioni Cavour al barone Tecco, Torino 28 febbraio 1855.

(3) Dispacci Tecco, Costantinopoli 1, 8, 13 e 15 marzo 1855.

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Governi una circolare, la quale diceva: - La Corte di Torino durerà fatica a conciliare la propria politica col sentimento nazionale del suo Stato, e non le tornerà punto facile mettere la sua condotta presente d'accordo colle memorie antiche di Casa Savoia. Consultando i propri annali, vi scontrerà l'esempio d'un esercito russo che valicò le Alpi, non per conquistare, ma per difendere il Piemonte. Allorché Casa Savoia venne rintegrata sul trono de' suoi avi, fu la Russia che ne' consigli dei Gabinetti europei prestò il suo fedele appoggio all'indipendenza della Sardegna. Se Genova fu unita al Regno sardo, ciò fu perché il Gabinetto di Pietroburgo conobbe la necessità di consolidare la prosperità commerciale e la potenza del paese, che le armi russe avevano cooperato a liberare dal dominio straniero. Ora la Corte di Torino, gittandosi dietro le spalle gl'insegnamenti del passato, prende un contegno ostile che la Russia ha la coscienza di non avere promosso.

L'attitudine che così prende il Governo sardo senza formale dichiarazione di guerra, ci lascia in dubbio riguardo al nome che debba darsi a soldati ausiliari, i quali debbono invadere le nostre terre sotto la bandiera d'uno Stato, con cui finora continuammo a vivere in pace.

L'imperatore crede dover dichiarare rotta la pace di diritto e di fatto per l'atto di flagrante ostilità, di cui tutta la colpa ricade sul Governo sardo. Malgrado di questa necessità, l'imperatore saprà ancora tutelare gli interessi privati de'

nazionali sardi che mantengono colla Russia legami antichi di commercio; né la colpa del proprio Governo cadrà sopra di loro.

Le proprietà loro saranno rispettate.

Un termine sarà fissato per la partenza dei bastimenti sardi, i quali potrebbero trovarsi attualmente nei porti dell'impero (4). -

(4) Circolare Nesselrode, Pietroburgo 17 marzo 1855.

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A questa imperiosa dichiarazione, per la quale la cancelleria moscovita mostrava di voler quasi prescrivere all'opinione pubblica dell'Europa di condannare come stolta, ignobile e sleale la politica della Sardegna, il Gabinetto di Torino contrappose un manifesto di guerra

per dichiarare quanto segue: - Da gran tempo l'Europa guardare con giusto e geloso sospetto nel continuo ingrandirsi della Russia in Oriente la progressiva applicazione del sistema, inaugurato da Pietro il Grande, naturato nella nazione più forse ancora che nei sovrani moscoviti, il quale tendeva con tutte le forze e occulte e palesi alla conquista di Costantinopoli, come a principio e a scala di nuove e più vaste ambizioni. Questi progetti della Russia, sovversivi dell'equilibrio europeo, minacciosi per la libertà dei popoli e per l'indipendenza delle nazioni, non essersi rivelati forse mai con tanta evidenza quanto nell'ingiusta invasione dei principati danubiani, e negli atti diplomatici che l'avevano preceduta e susseguita. A buon diritto quindi Francia e Inghilterra esser ricorse alle armi per sostenere l'impero ottomano contro l'aggressione del suo prepotente vicino. Dalla risoluzione della questione d'Oriente pendere i destini, non immediati, ma prevedibili dell'Europa e dell'Asia, e più direttamente e prossimamente quelli degli Stati contermini al mare Mediterraneo, i quali perciò non potevano rimanere spettatori indifferenti d'una lotta in cui si agitavano i loro più vitali interessi, in cui si contendeva per sapere se rimarrebber liberi e indipendenti, oppure vassalli, se non di nome, almeno di fatto, del colossale impero russo.

La giustizia della causa propugnata dai generosi difensori della sublime Porta, le considerazioni, sì potenti sempre sul cuore del re, della dignità e dell'indipendenza nazionale, l'avevano determinato ad accedere al trattato d'alleanza offensiva e difensiva stipulato il 10 aprile 1854

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tra l'imperatore dei francesi e la regina del regno unito della Gran Bretagna e dell'Irlanda. Ma assai prima che tale atto ricevesse l'indispensabile suo legai compimento mercé il cambio delle ratifiche, l'imperatore Nicolò, dopo avere con un linguaggio non scevro d'amarezza incolpato il Governo sardo d'essersi fatto violatore del diritto delle genti, e dopo aver accusalo il re d'ingratitudine verso la Russia, si era affrettato a dichiarargli egli stesso la guerra. La supposta violazione del diritto delle genti non poter essere che un errore di cancelleria. Alle antiche memorie di amichevoli corrispondenze tra le Corti di Pietroburgo e di Torino l'imperatore Nicolò avrebbe potuto contrapporre altre memorie più recenti e personali sul contegno da lui tenuto da otto anni in poi verso i re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele. Ma prima di tutto avrebbe dovuto persuadersi che il re di Sardegna si era accostato all'alleanza degli Occidentali, non per dimenticanza di antiche amicizie, né per risentimento di recenti offese, ma per ferma convinzione d'esservi spinto imperiosamente e dagli interessi generali dell'Europa e dai particolari della nazione di cui la divina Provvidenza aveagli affidato i destini (o). - La Russia aveva ragione di sentirsi scottata dall'ingresso del Piemonte nell'alleanza degli Occidentali, non per le forze militari che vi aggiungeva, ma perché era il primo riconoscimento pratico dell'importanza europea della guerra sostenuta dalla Francia e dall'Inghilterra, e inoltre rimaneva spezzato uno de' più gagliardi freni chetenevano l'Austria dal piegare del tutto dal lato delle Potenze occidentali.

(5) Manifesto del Governo di S. M. il re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, relativo all'accessione della M. S. al trattato 10 aprile 1854 fra la Francia e l'Inghilterra, Torino 4 marzo 1855. Fu sottoscritto dal conte Cavour come presidente del Consiglio e ministro degli affari esteri, ma avealo redatto Luigi Cibrario allora ministro della pubblica istruzione.

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Ma il conte di Nesselrode era dal lato del torto nel recriminare la Sardegna con modi così aspri e sdegnosi. Il tempo utile ad una formale dichiarazione di guerra alla Russia non era per anco trascorso per la Sardegna, mancando tuttavia al compimento legale del trattato conchiuso lo scambio delle ratifiche. E in ogni modo non è punto per una usanza internazionale fissa e positiva che le Potenze belligeranti ausiliarie abbiano il dovere di fare dichiarazioni formali di guerra.

Così nell'anno 1809 era avvenuto che la Russia, come alleata di Napoleone I, senza fare dichiarazione alcuna formale di guerra all'Austria, era entrala armatamano nella Galizia. I soldati russi erano stati sussidiati col danaro dell'Inghilterra nelle guerre del 1799, 1812, 1815.

Quanto all'ingratitudine, essa in politica è una merce di ben scarso valore. Poi il conte Buol, nel vederla alzata a così alto prezzo dalla nota del cancelliere moscovita, diceva con ragione al marchese Cantono: - La Russia segue sempre una politica d'interesse, e pretende che le altre Potenze a suo riguardo seguano una politica di sentimento (6). - E il ministro degli affari esteri della Sardegna in suo dispaccio circolare scriveva a buon diritto così: - In quanto ai rimproveri d'ingratitudine,

l'imperatore Nicolò, invece di rammentare le testimonianze d'amicizia che due suoi predecessori diedero anticamente alla Sardegna, avrebbe dovuto ricordarsi che nell'anno 1848, senza alcun motivo che gli fosse personale, egli richiamò il suo ministro dalla Corte di Torino, e inviò bruscamente i passaporti al legato sardo in Pietroburgo; avrebbe dovuto risovvenirsi che nel 1849 si rifiutò di ricevere la lettera

(6) Dispaccio Cantone al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 17 marzo 1855.

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colla quale il re Vittorio Emanuele annunziavagli il suo avvenimento al trono, mostrando con quest'atto sì ingiurioso e sì raro nella storia della diplomazia,

che egli era nella strana pretensione di mescolarsi negli affari interiori della Sardegna coll'affettare di non riconoscer punto le mutazioni legali avvenute negli ordini politici del nostro Stato (7). - Questo contegno ostile dello czar verso il re costituzionale del Piemonte erasi conservato tenace, per quanto la diplomazia sarda si fosse studiata a raddolcirlo (8).

Così operando Nicolò aveva creduto di assicurarsi meglio la cooperazione della Corte di Vienna pel trionfo della sua politica orientale: e al contrario in quei giorni egli morì di crepacuore vedendo che l'Austria venivagli meno, e minacciava di unire le armi sue a quelle degli Occidentali.

II.

Mentre il corpo d'esercito piemontese destinato alla guerra d'Oriente si stava raccogliendo in Alessandria, l'attitudine del Gabinetto di Vienna tornava ad offuscarsi.

In virtù dell'articolo 5 del trattato 2 dicembre 1854 Austria, Francia e Inghilterra s'erano impegnate, ove entro un mese la pace non venisse ristabilita, di concertarsi tosto sui mezzi da usare per conseguire il fine della alleanza. Ma poi il Gabinetto viennese, servendosi del pretesto di trovarsi in disaccordo coi suoi alleati nell'applicazione della terza guarentigia da ottenersi dalla Russia, aveva dichiarato che per allora almeno si teneva svincolato dall'obbligo contenuto nel suddetto articolo,

(7) Circolare 4 marzo 1855.

(8) Dispaccio Dabormida al conte Revel in Vienna, 2 gennaio 1853. Dispaccio Dabormida al marchese Villamarina in Parigi, Torino 17 febbraio 1853.

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e intendeva quindi restringere l'azione sua nell'occupare e nel proteggere i principati danubiani, senza prendere alcuna parte alle operazioni militari. Frattanto era enorme il soffrire dei soldati francesi e inglesi nella Tauride, e le difficoltà d'impadronirsi di Sebastopoli aumentavano anziché diminuire.

Da questo stato gravoso di cose Cavour ricavava tre supposizioni, che erano o la necessità per gli Occidentali di scendere a pratiche di pace, o di toglier l'Austria alla sua neutralità, o di gettarsi colla guerra in Europa, assalendo da prima quest'ultima Potenza. Ove le cose fosser venute a quest'ultimo termine, i soldati sardi avrebber reso servigi di gran lunga più utili all'alleanza rimanendo acquartierati in Alessandria e in Genova, che salpando alla volta della Crimea. Conveniva pertanto ritardarne la partenza? A questa domanda dovevano rispondere le investigazioni da farsi dal legato sardo in Londra. Al quale però Cavour raccomandava la maggior circospezione, essendoché v'era pericolo di far nascere il sospetto che realmente il Piemonte si maneggiasse a tenere tutte le sue forze raccolte in Italia per dar fuoco alla mina rivoluzionaria alla prima buona occasione. Dal che poteva nascere il danno gravissimo, che si facesse della Sardegna una vittima espiatoria all'alleanza austriaca (9).

Stava tuttavia in Londra rappresentante del re di Sardegna il marchese Emanuele Taparelli d'Azeglio, destro nel maneggiare i più sottili negoziati, e franco di parola sempre col suo Governo. Ond'egli si sdebitò a meraviglia dello scabroso incarico,

(9) Lettera Cavour al marchese Emanuele d'Azeglio in Londra, Torino 4 aprile 1855.

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e rispose chiaro al presidente del Consiglio dei ministri che non conveniva indugiare nel prender parte alla guerra di Crimea (10).

I soldati piemontesi salparono dunque il 21 aprile 1855.

Ne teneva il supremo comando Alfonso Della Marmora, soldato della vecchia stampa piemontese, egregio nell'integrità degli intendimenti e nella risolutezza dei propositi, devoto senza limiti all'onore della bandiera, alla riputazion del paese. I modi coi quali i Sardi dovevano agire in Crimea, erano stati concertati tra Napoleone e La Marmora; il Governo inglese avevali approvati. Ma ben tosto il Gabinetto di Londra pose fuori la pretesa che lord Raglan potesse disporre a piacer suo delle milizie piemontesi. Cavour telegrafò immantinente a Villamarina di portarsi a Londra onde, d'accordo con Azeglio, ribattere l'infondata domanda. L'uno e l'altro dicessero a Clarendon e a Palmerston con dignitosa fermezza di parole, che il Governo sardo contestava sì alla Francia come all'Inghilterra il diritto d'usare le milizie sue senza comune accordo. Esse andrebbero ove fosse di bisogno, ma non si presterebbero in alcun modo a cieco strumento d'uno dei comandanti supremi degli eserciti combattenti. I piemontesi voler essere alleati dei francesi e degli inglesi, e non ausiliari loro. Ove fossero considerati come tali, verrebbero richiamati (11).

Udito che Napoleone era di tal parere, i ministri inglesi assentirono in questo accordo, che i piemontesi, giunti in Crimea, agirebbero uniti ai francesi oppure agli inglesi, conforme giudicherebbe meglio il Consiglio di guerra.

Tuttavia lord Raglan, come se le milizie della Sardegna fosser giunte in Crimea ausiliarie dell'esercito inglese,

(10) Lettera d'Azeglio, Londra 9 aprile 1855.

(11) Lettere Cavour a Villamarina e ad Azeglio, Torino 10 e 23 aprile 1855. - Lettera Villamarina, 24 aprile 1855.

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di proprio arbitrio volle assegnar loro il posto da presidiare.

Ma La Marmora era tal uomo da non patire il minimo sopruso

, e - No, rispose, non sono qui in dipendenza d'alcuno; si raduni il Consiglio di guerra, e di comune accordo delibereremo ov'io debba alzare la mia bandiera d'alleato e non d'ausiliario. - Egli chiese e ottenne di prendere a custodire Kadikov, silo pericoloso, e che potea facilmente esser assalito dai Russi per aprirsi il varco a gittarsi negli accampamenti degli Orientali.

Non spelta a questa istoria narrare le gloriose gesta dei Sardi in Crimea. Basta rammentare che essi si mostrarono, con aumento d'onore e di gloria al nome italiano, veterani agguerriti frammezzo al serpeggiare del morbo asiatico, nelle aspre fatiche delle trincee, sotto il fuoco micidiale del cannone russo nelle resistenze memorabili della Cernaia, e al Bastione dell'Albero nella grande giornata della espugnazione di Sebastopoli. Gli alleati sin dal 1° luglio di quell'anno, meno la Sardegna, avevano rogato il modo di partire i trofei delle vittorie riportate per terra e per mare. Invitato ad accedere a questa convenzione, il Gabinetto di Torino aveva inviato al legato sardo in Londra i pieni poteri per sottoscriverla (12). Ma questa sollecitudine non aveva trovato corrispondenza d' agire negli alleati. Alla convenzione mancava tuttavia il suo legale compimento, presa che fu Sebastopoli. Anche da questo lato il Governo sardo volle trovarsi pari nei diritti alla Francia e all'Inghilterra; onde il ministro Cibrario scrisse a Villamarina in Parigi e ad Azeglio in Londra che l'onore e la dignità delle armi piemontesi reclamavano che, associate nei pericoli de' combattimenti alle armi francesi,

(12) Dispaccio Cibrario, 26 luglio 1855.

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inglesi e ottomane, lo fosser pure nel prender parte ai trofei conquistati sul comune nemico (13). La convenzione relativa venne ben tosto sottoscritta.


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III.

L'Austria aveva perdurato nella sua ingloriosa guerra diplomatica ai danni della Sardegna. Al chiudersi del gennaio 1855 il legato francese in Torino si portò da Cavour per ragguagliarlo d'un abboccamento del ministro di Francia presso la Corte di Vienna col conte Buol.

Il ministro austriaco sugli affari esteri alle insistenze amichevoli del barone di Bourquenev onde, tolto l'inciampo dei sequestri, si ristabilissero le relazioni regolari tra l'Austria e la Sardegna, aveva risposto che l'affare poteva trattarsi ove il rappresentante sardo in Vienna avesse la facoltà di prendervi parte diretta. Cavour rispose: - Il Governo del re non è animato da alcun sentimento ostile verso l'Austria, e quindi sarà ben lieto di ristabilire con essa buoni rapporti, massime che in un avvenire non lontano i due Stati avranno a trattar insieme interessi comuni.

Debbo però aggiungere che, dopo il rifiuto ripetuto dell'Austria di fare diritto alle giuste nostre reclamazioni, mancheremmo ai riguardi dovuti alla nostra dignità se da noi si prendesse l'iniziativa degli accordi. Così operando, sembrerebbe che da noi si reclamasse a titolo di favore ciò che ci è dovuto come giusta riparazione a una violazione manifesta del diritto delle genti. Ma se non posso dar ordine al marchese Cantono di prender primo la parola su quest'affare, bensì Io porrò in grado d'accogliere le entrature che il ministro imperiale vorrà fargli, sia in via diretta,

(i3) Dispaccio confidenziale Cibrario, Torino 13 ottobre 1855.

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sia per l'intromissione amichevole del ministro di Francia in Vienna. - Il duca di Guisa si mostrò soddisfatto di questa risposta, e si congedò dal presidente del Consiglio dei ministri dichiarandogli che il suo Governo raccomanderebbe al suo ambasciatore in Vienna di fare tutti gli sforzi possibili onde s'intavolasse un negoziato diretto tra il marchese Cantono e il conte Buol sull'affare dei sequestri.

Dietro questa eventualità Cavour scrisse a Cantono di tenersi alle istruzioni seguenti: - Il conte Buol ha dichiaralo che il solo argomento di scontentezza del Gabinetto di Vienna verso la Sardegna è il contegno della stampa quotidiana piemontese. Voi entrerete francamente in tal questione, ove vi venga posta innanzi. Innanzitutto porrete in disparte quanto si riferisce a discutere gli affari interni del nostro paese, da che il conte Buol non può aver la pretensione di mescolarsi nelle cose nostre. Tuttavia di passaggio farete osservare che questa slampa, sulla quale i nostri nemici menano tanto strepito, e che si piacciono di rappresentare come un ostacolo quasi insormontabile al regolare andamento della cosa pubblica, non ci ha punto impedito di procedere così savi e moderati, da guadagnarci la stima dei Governi meno disposti ad accordarcela. Rispetto al fatto che somministra al conte Buol il vero argomento delle sue rimostranze, e che è posto negli attacchi sconvenevoli che alcuni nostri diari si promettono troppo di sovente contro i sovrani stranieri, voi non esiterete a dichiarare che, se l'attuale ministero considera la libertà della stampa come un elemento essenziale del sistema costituzionale, e quindi se tiene per indispensabile all'andamento regolare delle istituzioni che governano il paese, che per mezzo dei diari pubblici abbia luogo la più larga discussione sugli affari interiori,

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egli però vede la convenienza di reprimere gli attacchi contro i capi dei Governi amici e alleati. A questo fine sin dal 1852 fu modificata la legge sulla stampa, promulgala dal re Carlo Alberto insieme allo Statuto. È vero che il conte Buol più volte ha obbiettato che non era conforme alla dignità dell'imperatore d'entrare in lizza con una effemeride. Ma vi sarà facile di mostrare che questo argomento non ha valore, da che le nostre leggi non esigono che il sovrano ingiuriato o il suo legato si presenti ai tribunali come parte civile, o in qualsiasi modo prenda parte al processo, bastando la semplice istanza fatta per iscritto o a voce al ministro sopra gli affari esteri. In quanto alla questione dei sequestri, credibilmente il conte Buol non vorrà portarla sul terreno della legalità, óve sarebbe troppo facile di ribattere i suoi argomenti.

Egli probabilmente volgerà le considerazioni sue sul diritto che uno Stato possa avere di dare la propria sudditanza a coloro i quali spettano per nascita a un'altra nazione. Voi farete osservare che il Governo del re non ammette in tale argomento la massima americana in tutta la sua pienezza. Noi ci limitiamo a pretendere che, quando un Governo ha dato la facoltà a un suo suddito di migrare, svincolandolo da suoi doveri di cittadino, ci sia concesso d'accordargli la naturalità sarda senza venir meno al minimo de' nostri doveri internazionali. L'Austria non può volere che coloro, ch'essa cessa di considerare come sudditi dell'impero, non abbiano la facoltà d'acquistare una nuova patria e un'altra nazionalità. È dietro siffatto incontestabile principio di diritto pubblico che noi abbiamo protestato contro i sequestri inflitti alle proprietà di lombardi divenuti cittadini sardi. Ove si giunga a intendersi sulla massima dell'accordo, converrà stabilire i modi per togliere l'ostacolo che si oppone al ristabilimento de' nostri rapporti coll'Austria.

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Vi sarebbe un modo il più degno d'una grande nazione e d'un sovrano generoso; cioè quello di decretare per bando imperiale tolti in una sol volta tutti i sequestri. Ma ove non sia possibile di conseguire quest'atto, il quale potrebbe venire considerato come una condanna dell'altro atto onde originarono i sequestri, proporrete al conte Buol un espediente, il quale benché sia meno soddisfacevole per noi, tuttavia ci farà conseguire il fine a cui miriamo con sincerità d'intendimenti. Abbiano corso tanti decreti speciali, quanti sono i sequestri fatti. Sarà un modo di procedere tanto semplice, tanto adatto a tutelare tutte le suscettibilità più esagerate, che ci pare impossisibile che il conte Buol si rifiuti di adottarlo se realmente è animato dai sensi di benevola riconciliazione indicatici dall'ambasciatore francese. Tolti i sequestri sulle proprietà di tutti i lombardi divenuti sudditi sardi, noi considereremo ristabilite le nostre relazioni colla Corte di Vienna, e invieremo presso di essa un nostro legato (14). - Cantono teneva l'incarico di leggere queste istruzioni agli ambasciatori francese e inglese in Vienna. Qui ne abbiamo riportata per intero la sostanza, onde porgere un documento certo della moderazione, con cui tuttavia il Governo di Torino procedeva dopo gli sfregi patiti e le arroganti ripulse avute dal Gabinetto di Vienna per asseslare una controversia, nella quale il diritto stava tutto manifestamente dalla parte sua.

Bourquenev non ommise di chiedere a Buol se egli era inclinevole ad abboccarsi con Cantono onde veder modo di soddisfare al desiderio comune di ristabilire le relazioni ordinarie Ira le Corti di Vienna e di Torino.

(14) Dispaccio confidenziale Cavour al marchese Cantono in Vienna, Torino 1 febbraio 1855.

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Il ministro austriaco mostrò d'annuire, e di più soggiunse che, dall'istante in cui il Piemonte aveva dichiarato la guerra alla Russia, aveva acquistato il diritto incontestabile d'essere rappresentato alla conferenza di Vienna, e che quindi faceva d'uopo rimettere i rapporti tra i due paesi sul piede antico onde convenevolmente il plenipotenziario sardo potesse sedervi a costa del plenipotenziario austriaco. Ma il dolce favellare si mutò ben tosto in acre, come Buol entrò a conferire con Cantone Tornarono in campo i lamenti intorno ai sentimenti ostili del Piemonte verso l'Austria per le sue provincie italiane, che la stampa quotidiana subalpina teneva di continuo irrequiete. Il legato sardo ripetè, a scarico del suo Governo, le cose che cento e cento volte innanzi la diplomazia sarda aveva detto a ribattere le recriminazioni austriache. Ma il Gabinetto di Vienna continuava a fare il sordo. Cantono entrò poi nella questione dei sequestri. Buol, ascoltatolo per un pò, uscì fuori con le osservazioni seguenti: - Ma il Governo di Torino tralasciò di mettersi d'accordo con noi intorno a coloro, ai quali voleva dare la naturalità sarda. Poi non ci avete mai comunicato l'elenco de' sudditi austriaci, fatti cittadini del vostro stato.

Quanti essi sono? non Io sappiamo. - Cantono rispose che, per pretendere a buon diritto cotali cose, bisognava averle regolate nel trattato di pace di Milano. Come se gli scottasse a proseguire la incominciata discussione, Buol sbalzò a parlare della controversia religiosa in corso tra il Piemonte e la Corte di Roma. Così il colloquio terminò (15). L'affare premeva di troppo al Governo francese per lasciarlo cadere. A tenerlo ritto Bourquenev tornò da Buol,

(15) Dispaccio confidenziale riservato Cantono, Vienna 9 febbraio 1855.

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ma lo trovò nel favellare assai più freddo di prima. Egli si mostrò bensì sempre inclinato a conciliazione, ma non volle prendere alcun impegno positivo apertamente, mettendo innanzi il sospetto che a Vienna si aveva che il Piemonte fosse entrato nell'alleanza degli Occidentali dietro la promessa di qualche vantaggio territoriale segretamente fatta. Uditosi rispondere che ciò era del tutto infondato, il ministro austriaco si fece schermo del pretesto che all'animo pio dell'imperatore sarebbe tornato troppo gravoso di venire a un accordo colla Corte di Torino, intanto che questa si teneva in aperta rottura colla Santa Sede. Tuttavia Canlono tornò da Buol: ma lo trovò più aspro di prima, lo udì incolpare la Sardegna d'aver inacerbita la questione col richiamo del suo ambasciatore da Vienna, e di nuovo irrompere in querele contro la stampa piemontese. E venuto sull'argomento de' fuorusciti politici, soggiunse: - L'Austria non è per nulla obbligala a riconoscere come sudditi sardi coloro ai quali il Governo sardo ha accordata la cittadinanza senza prima concertarsi seco.

Capisco che in tempo di guerra si possa passar sopra a questo accordo preliminare; ma trascurarlo in tempo di pace è un procedere sconvenevole tra Stati finitimi. Noi non accorderemmo mai la naturalità austriaca a un piemontese senza prima interrogarvi. - Ma tutti coloro che hanno conseguito il cittadinatico da noi, forsecchè, riprese Cantono, non ottennero dapprima dal Governo austriaco la facoltà legale d'espatriare? - Il ministro austriaco si schermì dal rispondere, e tagliando corto ogni discussione ulteriore soggiunse: - Basta, io debbo in questo affare consultare il ministro sopra gli affari interni, e ora egli ò infermo. Bisogna cercar il modo di mettersi d'accordo sul passato, e d'intenderci per l'avvenire.

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Desidero frattanto l'elenco dei fuorusciti lombardi divenuti cittadini sardi. Vogliate comunicarmi questa nota in via confidenziale; mi servirà di norma per deliberare sul da farsi (16). - Anche oggi che i tempi sono cosi profondamente mutati da rendere un'alleanza dell'Austria coll'Italia di vicendevole utilità, a stento l'animo del narratore e del lettore italiano può rimaner calmo nel tener dietro a questi inqualificabili procedimenti degli uomini di Stato austriaci. I rivoluzionari repubblicani si giovavano della alleanza del Piemonte colle Potenze occidentali per accusarlo d'aver disertata la causa italiana. E i governanti austriaci, mentre non cessavano di gridare ai quattro venti che la stampa quotidiana piemontese danneggiavali nel mantenere tranquille la Venezia e la Lombardia, si facevano poi, nei diari che stipendiavano, cooperatori ai mazziniani per toglier credito al Governo di Vittorio Emanuele nel concetto degli Italiani, e per turbare la quiete del Piemonte. - È finalmente giunto l'istante, stampava il diario governativo di Verona, nel quale la Sardegna ha rinunziato definitivamente a viste ingiustificabili che impedirono il buon accordo coll'Austria, e tanto costarono al paese. - Questo accordo era certo, soggiungeva l'altra effemeride ufficiale pubblicata in Milano; essendo che il Piemonte, alleato dei due potenti alleati di Vienna, converte un assioma di matematica in una evidenza politica: due cose uguali ad una terza, sono uguali fra di loro. - Nel Piemonte erasi svegliato un fiero rimescolamento di passioni al sospetto divulgatosi che, entrando nella lega, il Governo si era messo in forzata dipendenza della Francia e dell'Austria. - E certo che sì, dichiarava il diario governativo di Milano, così narrando: L'alleanza del 2 dicembre era un avvenimento di tale importanza che,

(16) Dispaccio riservato confidenziale Cantono, Vienna 18 febbraio 1855.

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se rendeva da un lato, oltreché vana, ridicola ogni dimostrazione di ripugnanza, impediva dall'altro ogni artifizio di simulazione e di doppiezza. La solidarietà della Francia e dell'Austria non soffriva impunemente né dilazioni, né maschere. Il ministero sardo si era accorto che una stessa Potenza di primo ordine, tramezzando i due imperi alleati, non avrebbe potuto tergiversare più a lungo senz'esser posta a tali distrette.

Consci dei rischi tanto più gravi ai quali sarebbe andata incontro la Corona sabauda, i suoi ministri avevano firmato il protocollo del 1° gennaio. - E a rincalzare di malevoglienza, l'altra effemeride governativa di Verona mandava in giro la novella che gli uomini di Stato piemontesi cercavano nell'Austria una specie di contrappeso alla protezione della Francia. E gli scrittori stipendiati dalle finanze austriache non ristavano dal vaticinare danni al Piemonte dall'essersi messo in guerra colla Russia, e dal seguire dietro il carro della Francia e dell'Inghilterra una politica onninamente contraria a' suoi interessi. Queste poche spigolature nel campo della stampa governativa austriaca, sottomessa a una severa censura preventiva, bastano per servire a utile corollario dei documenti diplomatici, dai quali possiamo ricavare con sicuro criterio la fisionomia della politica austriaca verso il Piemonte durante la guerra di Crimea. I suoi lineamenti sono sempre gli stessi: a Vienna tuttavia si cerca con sollecitudine indefessa di recare alla Sardegna i maggiori danni possibili.

Pur dovendo dare una risposta alle sollecitazioni della Francia e dell'Inghilterra sui sequestri, il conte Buol lasciò intendere che, ove si scartasse ogni questione di principio, verrebbero restituiti i beni a quei lombardi divenuti cittadini sardi, i quali chiedessero all'imperatore la grazia,

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e la conseguissero di rientrare ne' dominii austriaci. In quanto ai fuorusciti che si volessero riaccettare nella monarchia, si avviserebbe a quanto potrebbesi stabilire intorno alle loro proprietà tenute sotto sequestro. Relativamente poi agli spatriati dalla Lombardia e dalla Venezia, che rifiutassero di chieder grazia pel ritorno, purché s'impegnassero a vendere tutto ciò che possedevano sul territorio austriaco, sarebbe stato loro restituito. Il ministro imperiale, nel comunicare a Cantono questo progetto, gli dichiarò che l'Austria non poteva riconoscere frattanto come sudditi sardi i fuorusciti suoi che avevano ottenuta la naturalità piemontese.

Erano proposte inaccettabili. Tutto il diritto della Sardegna d'intervenire nella questione dei sequestri e di esigere una riparazione, fondavasi nell'attentato portato dall'Austria al diritto internazionale, nella violazione di un trattato di fresca data, e nella legittimità del cittadinatico, accordato a uomini stati solennemente svincolati dalla qualità di sudditi imperiali, e posti in possesso dal Gabinetto di Vienna dell'emigrazione legale. Pertanto ove il Gabinetto di Torino avesse fatto buon viso alle sovra menzionate proposte di Buol, implicitamente avrebbe ammesso che l'atto dei sequestri era stato legale, che non era avvenuta per esso violazione alcuna del diritto internazionale e di patti positivi scritti, e che perciò la Sardegna non era nel diritto di chiedere una riparazione dall'Austria.

Siffatte obbiezioni alle proposte di Buol erano troppo gravi per venir trascurate. Esse rendevano impossibile al Gabinetto di Torino d'entrare in una pratica d'accomodamento, che era a tutto vantaggio dell'Austria, e non dava alla Sardegna alcuna legittima soddisfazione. Nel far nota questa impossibilità ai Gabinetti di Londra e di Parigi, i ministri piemontesi vollero aggiungere

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che il Piemonte non intendeva tuttavia di suscitar imbarazzi a' suoi alleali, e si rassegnava ad aspettare, persuaso che essi valuterebbero convenevolmente la sua delicatezza di procedere e la sua abnegazione (17).

11 Gabinetto di Vienna intrinsecamente cercava di mantenersi in disaccordo colla Sardegna, da che questo stato di cose gli giovava per tenere lontano il Governo di Torino dal partecipare alle conferenze diplomatiche intavolate per veder modo di tagliare il corso alla guerra.

E poiché la Francia e l'Inghilterra sulla metà dell'anno 1855 si diedero a insistere vieppiù onde il Gabinetto di Vienna prendesse un partito sui sequestri che riuscisse accettevole al Piemonte, egli, per avere un pretesto di cavarsi d'impaccio, cercò di suscitare un'altra querela fra sé e il Governo di Torino, dove il maneggio degli affari esteri dalle mani del conte Cavour era addì 31 maggio di quell'anno 1855 passato in quelle del cavaliere Luigi Cibrario.

IV.

Volendo inviare a far parte della legazione sarda di Firenze un figlio del conte Gabrio Casati, il marchese Sauli fu incaricato di parlarne al duca di Casigliano.

Egli rispose: - Sta bene, il giovane Casati non è un emigrato. - Informatone poscia Baldasseroni, questi chiese se il conte Antonio Casati era un fuoruscito dall'Austria, e se aveva preso una parte rumorosa nella rivoluzione del 1848. Sauli alcuni giorni dopo riportò al cavaliere Fornetti,

(17) Lettera Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, 4 aprile 1855.- Lettera Cibrario al marchese Villamarina in Parigi, Torino 30 settembre 1855.

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segretario generale nel dicastero toscano degli affari esteri, che il Casati era cittadino sardo, e che nel 188 aveva appena raggiunto il suo diciottesimo anno. Ecco quanto basta al Baldasseroni, - gli fu risposto. Tasteggiato così il terreno e trovatolo al tutto favorevole, Sauli diede notizia ufficiale della nomina del Casati al presidente del Consiglio dei ministri toscani; e Baldasseroni rispose ringraziando, e fu largo di cortesi accoglienze al Casati come gli venne presentato. Sono minuti particolari non indegni d'essere memorati dalla storia, servendo a far scoprire sin dove il Governo granducale era disceso nel suo vassallaggio verso l'Austria. Mentre dunque sembrava che la cosa procedesse al tutto liscia, ecco mutarsi la scena come per incanto. Baldasseroni corse trafelato dal Sauli per dirgli: - Mi sono compromesso per un eccesso di condiscendenza. Il granduca, nella sua qualità d'arciduca austriaco, non può ricevere il conte Antonio Casati; procurategli tosto un congedo onde abbia più tardi un altro collocamento. - È impossibile, rispose il legato sardo: siatene persuaso, questa sarà la risposta del mio Governo. - Cibrario approvò il contegno assunto dal Sauli, e argutamente gli scrisse: - Vorrebbe forse l'Austria suscitare in favor suo la costituzione imperiale romana, che nei reati di stato proscriveva anche la famiglia e la discendenza dei colpevoli? Dico colpevoli dal punto di vista austriaco (18). - In via officiale poi il ministro sugli affari esteri incaricò il legato sardo a Firenze di manifestare al ministero toscano il giusto risentimento del Governo del re per la fattagli domanda, cui non si credeva di dar corso (19).

(18) Lettera Cibrario, Torino 30 luglio 1855.

(19) Dispaccio riservato Cibrario, Torino 23 agosto 1855.

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A meglio intorbidar le cose, il Gabinetto di Vienna aveva in pari tempo indotto il Governo toscano a chiedere i buoni uffìzi dei Gabinetti di Londra e di Parigi per ottenere che il Governo piemontese internasse e vegliasse due fuorusciti politici, designati come pericolosi alla tranquillità del granducato. Lamentandosi di questo procedere poco amichevole, Cibrario rispose che ogniqualvolta il Governo toscano chiedesse cose eque e conformi alle regole di buon vicinato, troverebbe facile ascolto; ma che ove le sue domande fossero di tal natura da non doversi accogliere, non varrebbe il cercato appoggio di altre Potenze a far sì che venisser assentite (20). Prima che queste istruzioni giungessero in Firenze, Baldasseroni, sospinto ad agire da Hugel, aveva con nota ufficiale chiesto al Sauli che il Casati avesse tosto un congedo, e quindi fosse mandalo altrove, avvertendo che il granduca non l'avrebbe ammesso in alcun modo alla sua Corte. Ben mutato era Leopoldo II, egli che aveva così largamente partecipalo al moto italiano del 188! E nella sua ignobile devozione all'Austria il peggio era che lo pedinavano servili ministri, che festosi avevano inneggiato ai tre colori d'Italia.

Non si voleva neanco per alcuni giorni tollerare in Firenze un addetto alla legazione sarda, mentre lo si era poco innanzi ricevuto officialmente, e se ne domandava l'allontanamento con modi perentori. Sauli agì come doveva operare: rimandò al Baldasseroni la sua nota verbale, appuntandolo di non essere stato neanco veridico nell'esposizione dei fatti. Il presidente del Consiglio dei ministri toscani sperò di scavalcare l'insorto inciampo a ottenere il suo intento collo scrivere direttamente al ministro Cibrario: ma come se non fosse già eccessivo quello che chiedeva,

(20) Dispaccio riservato Cibrario, Torino 23 agosto 1855.

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v'aggiunse la domanda che al Sauli venisse dato a reggere un'altra legazione.

Portato l'affare in discussione nel Consiglio dei ministri presieduto dal re, fu deliberato il richiamo di tutta la legazione sarda da Firenze. Ma si volle lasciare aperto l'adito a un facile accomodamento di cose; onde Gibrario scrisse a Baldasseroni: - Se il Governo del re non è mai disposto a transigere col proprio decoro, esso accetterà ben volentieri quei mezzi di conciliazione che gli venissero in seguito offerti, e che salvandone la dignità lo ponessero in grado di rannodare una corrispondenza stata lungo tempo amichevole e gradita (21). - Ma dappoiché il Gabinetto di Vienna desiderava in vece che là questione inciprignisse, Buol dichiarò al legato sardo in Vienna che l'Austria era grandemente interessata nella sollevatasi contesa tra la Toscana e la Sardegna, e che ov'essa per iniziativa di quest'ultima non venisse in breve tempo appianata, il Governo imperiale si troverebbe indotto a intromettervisi come in un affare che direttamente spettavagli (22). - Comunicatagli tale arrogante ingiunzione, Cibrario scrisse al marchese Cantono: - Poiché il conte Buol è trascorso all'infuori dei termini della prudenza e della moderazione che gli sono proprie, al segno di tenervi siffatto linguaggio, voi, signor marchese, dovevate fargli risultare ciò che eravi di offensivo nella forma, e d'inammessibile nella sostanza del suo discorso. Tra le altre cose voi avreste dovuto chiedergli se, malgrado i trattati e il diritto pubblico europeo, la Toscana abbia cessato d'essere uno Stato indipendente. Sarà vostra cura frattanto di leggere questo

(21) Lettera Cibrario al Baldasseroni, Torino 4 settembre 1855.

(22) Dispaccio confidenziale Cantono al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 3 ottobre 1855.

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dispaccio al conte Buol; e se egli persista nei modi pressoché minacciosi che ci hanno giustamente meravigliati, voi gli farete comprendere che le sue minaccie non avranno alcun peso sulle nostre deliberazioni per accomodarsi col Governo toscano. Sdebitatovi di questo incarico, profitterete dell'accordatovi congedo (23). - Il marchese Cantono non eseguì puntualmente questa commissione. Prima di abboccarsi col conte Buol, volle leggere il dispaccio ricevuto all'incaricato d'affari di Francia in Vienna, il quale lo persuase a non dargli corso prima d'aver chiesto nuove istruzioni da Torino.

- Vogliate, signor marchese, gli disse De Serre, riflettere che il conte Buol non ha nutrito il minimo pensiero di minacciare il vostro Governo, e che tale non è stato il vero significato delle espressioni un po' vaghe da lui usate con voi. In ogni modo se il Governo sardo dovrà fare un passo destinalo immanchevol mente a produrre l'interruzione delle sue relazioni col Governo austriaco, almeno conviene che i Gabinetti di Londra e eli Parigi ne siano informati in tempo utile per far conoscere la propria opinione. - De Serre lasciò intendere che l'incaricato d'affari inglese era dello stesso parere, e davagli gli stessi consigli (24). Ma il dispaccio era stato letto dal conte Buol.

Cibrario, presagendo ciò che era succeduto, avealo consegnato alla posta, che era quanto destinarlo a venir letto in segreto nella cancelleria imperiale. Perciò il ministro austriaco sopra gli affari esteri fece un passo indietro, destreggiandosi, senza scoprirsi di troppo, a indurre Cantono nella persuasione che gli bisognava apprezzar le parole

(23) Dispaccio confidenziale Cibrario, 9 ottobre 1855. - Lettere Cibrario al marchese Villamarina in Parigi e al marchese Azeglio in Londra, Torino 10 ottobre 1855.

(24) Dispaccio dell'Incaricato d'affari di Francia in Vienna, 15 ottobre 1855.

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udite come spoglie d'ogni minaccia e d'ogni risentimento malevolo verso la Sardegna. Effettivamente l'incaricalo d'affari della Sardegna riscrisse in questo senso a Torino (25). Cibrario gli rispose che, dappoiché al linguaggio del conte Buol non potevasi più dare il valore di prima, tralasciasse di dar corso al dispaccio, rimanendo salvato l'onore della Sardegna (26).

Rimossa l'intromessione dell'Austria, restava d'appianare la controversia colla Toscana. Il Governo sardo non contestava il diritto a uno Stato indipendente di rifiutare un agente diplomatico o consolare quando, per non ammetterlo, aveva argomenti legittimi; sì bene contestava il diritto di chiedere il richiamo d'un agente qualunque pochi giorni dopo d'averlo accettato, senza che un fatto nuovo fosse sorto a giustificar la domanda. Si erano interposti i buoni uffizi dell'Inghilterra, accettati dalla Sardegna. Sir James Hudson aveva proposto che l'accomodamento si basasse sopra i capi seguenti: 1° ritiro simultaneo delle note di Baldasseroni e di Sauli, onde era succeduta la sospensione delle relazioni diplomatiche; J ritorno del marchese Sauli in Firenze con tutta la legazione compreso il conte Antonio Casati, e destinazione contemporanea presso la Corte di Torino d'un ministro o d'un incaricato d'affari toscano; 3° richiamo del Casati da Firenze, trascorsi quindici giorni. Ma queste proposte, assentite dal Governo piemontese, vennero rifiutate puramente e semplicemente dal Governo toscano (27).

Per uno strano contrasto lord Normanby, ambasciatore inglese in Firenze, si era atteggiato ad avvocato

(25) Dispaccio confidenziale Cantono, Vienna 29 ottobre 1853.

(26) Dispaccio Cibrario, Torino 30 ottobre 1855.

(27) Dispaccio confidenziale Cibrario al marchese Villamarina, Torino 15 ottobre 1855.

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della Toscana e dell'Austria (28). Dietro questa infelice prova, il Gabinetto di Parigi si offerse alla Sardegna mediatore benevolo: ma gli fu risposto che, avendo la Toscana dissentito d'accettare le proposte d'Hudson, conveniva aspettare che essa alla sua volta proponesse i termini dell'accordo (29). Cosi avvenne. Ai primi del dicembre il Governo granducale per la via della legazione inglese in Firenze dichiarò che vedrebbe con piacere if ritorno di tutta l'antica legazione sarda, intanto che la Toscana considerava e pregava la Sardegna a considerare come non avvenute le note scambiate tra i ministri Baldasseroni e Sauli. Da che poi il Governo del re aveva manifestato il desiderio d'una legazione toscana in Torino, essa verrebbe inviata di buon grado. Il ministero piemontese aderì a queste proposte, avendo prima destinato alla legazione di Parigi il conte Casati (30).

V.

In questo periodo di tempo, ovunque eravi un interesse piemontese da "danneggiare, ovunque si presentava la possibilità d'infliggere un'umiliazione alla Sardegna, s'incontrava la mano dell'Austria.

Addì 15 marzo 1855 s'aprì nella città di Vienna una conferenza per concertare le condizioni indispensabili sulle quali doveva ristabilirsi la pace. Dappoiché il Piemonte aveva aderito al trattato del 10 aprile 1851, ed era entrato nell'alleanza delle Potenze occidentali, esso

(28) Lettera Cibrario al marchese d'Azeglio in Londra, 14 ottobre 1855. - Lettere Cavour ad Urbano Rattazzi, 27 ottobre 1855.

(29) Dispaccio Cibrario a Villamarina, Torino 23 ottobre 1855.

(30) Lettera Cibrario a Villamarina, Torino 4 dicembre 1855.

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trovavasi impegnato quanto lo erano la Francia e l'Inghilterra in questa suprema questione. La Sardegna era nel pieno diritto d'intervenire nel Congresso, in cui venti lavasi la continuazione della guerra o la conclusione della pace, dietro il rifiuto o l'accettazione per parte della Russia di condizioni determinate. Lo Stato che abbandona a' suoi alleati il diritto di deliberare la guerra o di concluder la pace all'infuori del suo assenso, rinunzia alla propria indipendenza.

Ma non era soltanto in virtù delle massime fondamentali del diritto delle genti che il Piemonte aveva acquistato il diritto d'avere un suo plenipotenziario alla conferenza di Vienna. I trattati del 10 aprile 1854 e del 12 marzo 1855 davano alla Sardegna non solo il diritto, ma le imponevano l'obbligo di prender parte alla conferenza di Vienna. In effetto essa aveva assunto l'impegno assoluto e formale di fare ogni suo possibile per il ristabilimento della pace tra la Porta ottomana e la Russia; e d'altra parte si era impegnata a non accogliere dalla Corte di Pietroburgo alcuna proposta speciale d'accomodamento. Onde ne conseguitava che il Piemonte non poteva negoziar la pace colla Russia senz'avere deliberato in comune co' suoi alleali. Ma per far ciò la presenza d'un plenipotenziario sardo tornava necessaria nella conferenza viennese. Né si poteva, per escluderlo, ricorrere al pretesto che le condizioni fondamentali della pace, discusse e formulate in quel convegno diplomatico, erano all'infuori della legittima pertinenza dell'azione politica della Sardegna. Al contrario, si trattava di prender accordi intorno ai Principali danubiani, ove il commercio piemontese dei cereali era in sommo credito. Si voleva sanzionare la libera navigazione sulle acque del Danubio, nelle quali le navi della Liguria frequentavano a preferenza di quelle di tutte le Potenze occidentali europee,

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Grande del pari era l'interesse che aveva il Piemonte di mettere un freno alla possanza russa nel Mar Nero, e d'intromettere l'opera sua officiosa a vantaggio dei cristiani sudditi della Porta ottomana, trovandosi investito d'un diritto speciale che né la Francia né l'Inghilterra né l'Austria possedevano, dopo che il sultano aveva riconosciuta la nazionalità d'origine degli avanzi delle antiche colonie genovesi. Ma il Gabinetto austriaco si era reso intrattabile: abusando delle necessità peculiari in cui i Gabinetti di Londra e di Parigi si trovavano per tenerselo amico, volle la Sardegna esclusa dalla conferenza di Vienna; e più tardi brigò e ottenne che lo stesso succedesse nella conferenza apertasi in Costantinopoli tra il ministro ottomano sugli affari esteriori e i legati di Francia, d'Inghilterra e d'Austria intorno a cose spettanti all'alleanza (31).

Di fronte a questo sopruso dell'Austria, Cavour ragionò così: Se noi insistiamo perché si faccia ragione al nostro diritto di prender parte alla conferenza di Vienna, noi scontreremo tenace l'opposizione dell'Austria, mentre la Francia e l'Inghilterra sono aliene dal mettersi in dissenso con essa. Col rimanere estranei ci guadagneremo maggiormente la benevoglienza dei Gabinetti di Londra e di Parigi, giacché gli daremo una testimonianza loro gradevolissima che ci asteniamo scrupolosamente dal metterli in peggiori imbarazzi. Tanto più possiamo appigliarci a questo partito, in quanto che difficilmente la conferenza di Vienna verrà a un qualche risultato terminativo.

La guerra continuerà, e noi cooperandovi lealmente, ci troveremo in grado di chiedere e d'ottenere più gagliardo l'appoggio della Francia e dell'Inghilterra a vantaggiar il Piemonte e l'Italia.

(31) Dispacci Tecco al ministro degli affari esteri in Torino, Costantinopoli 21 gennaio, 9 aprile e 9 agosto 1855.

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Onde per ora basta constatare diplomaticamente il diritto che ha la Sardegna d'intervenire nelle conferenze per la pace, riservandosi d'usarlo quando ci tornerà utile (32).

I Gabinetti di Londra e di Parigi, per quanto dichiarassero alla Sardegna che la riconoscevano nel possesso del diritto d'intervenire nella conferenza, tuttavia non si mostrarono a sufficienza curevoli dei riguardi che le dovevano. Il perno attorno al quale s'aggirava la politica di John Russel e di Drouyn de Lhuys, era la necessità della cooperazione armata dell'Austria. Signoreggiati da questo concetto, s'erano lasciati scivolare insensibilmente a dimenticarsi di troppo del Piemonte. Era tempo di favellare meno rimessamente, e Cavour lo fece col seguente dispaccio:

Il Governo del re non ha tralasciato di considerare come una questione d'onore e come un dovere imperioso verso il paese d'esser ammesso a esaminare, almeno per ciò che riguarda direttamente i suoi interessi, le condizioni che gli alleati giudicassero di stabilire per rimettersi in pace colla Russia, o i motivi che li determineranno a continuare la guerra.

L'opinione del Parlamento e del paese si è manifestata su questo argomento in modo così esplicito, che l'autorità del Governo si troverebbe compromessa ove si giungesse a credere che esso fosse stato escluso dai negoziati intavolati dalle Potenze colle quali ha comuni i pericoli della guerra.

Se circostanze speciali, derivanti dalle sue relazioni coll'Austria, non hanno permesso alla Sardegna di farsi rappresentare nella conferenza, le dichiarazioni de' suoi alleati le davano piena confidenza ch'essi avrebbero preso cura della sua dignità, e che, primachè le proposte delle Potenze impegnate nella guerra fossero state o accettate o rigettate, le sarebbero state comunicate. Conseguentemente il Governo del re ha visto con dispiacere che i suoi alleati hanno fatto

(32) Dispaccio confidenziale Cavour alle Legazioni sarde di Londra e di Parigi, Torino 22 marzo 1855. - Lettera Cavour al marchese Villamarina, Torino 10 aprile 1855.


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di pubblica ragione i documenti relativi alla conferenza di Vienna, senza che prima gli siano stati comunicati. Ciò riesce tanto più sgradevole, in quanto che dall'insieme di questi documenti sembra risultare che l'accettazione della Russia delle proposte fattele avrebbe dato alle medesime un carattere obbligatorio, onde la Sardegna sarebbesi trovata indotta in qualche modo ad accettare come un fatto compiuto la clausola che riguardavala. Confidando nelle buone intenzioni e nella giustizia de' suoi alleati, il Governo del re non dubita punto che non sia stato l'insuccesso delle negoziazioni il motivo che abbia lasciato creder loro che era superfluo comunicare alla Sardegna proposte, le quali non avevano più alcuna probabilità d'esser mutate in stipulazioni formali. Ma del pari esso è persuaso che ora che, per così dire, le conferenze sono chiuse, e che la guerra va a entrare in un nuovo periodo, nel quale sarà più spiccato il modo d'agire delle diverse Potenze, i suoi alleati vorranno tenere nel debito conto l'articolo 3 del trattato d'alleanza, e non tralasceranno di concertarsi seco e di renderlo informato delle pratiche diplomatiche che potranno aver luogo.

Noi tuttavia ci facciamo premurosi di render omaggio alla alta saviezza che ha presieduto alle proposte fondamentali per la pace, formulate dagli alleati. La Sardegna non saprebbe scontrare obbiezioni a farsi ai quattro punti. Essa a questo riguardo si trova di pieno accordo col modo di vedere le cose dei plenipotenziari francese e inglese. Ma mentre il Governo del re pensa che, innanzi di procedere a una stipulazione definitiva, i Gabinetti alleati non avrebbero tralasciato di porlo in grado di manifestare la sua opinione, fin d'ora non può trattenersi dal notare che l'art. 10 dell'annesso tredicesimo al protocollo N. II, non potrebbe essere accettato pel modo con cui è redatto né alla sua dignità, né ai suoi interessi. I Governi di Francia e d'Inghilterra comprenderanno con facilità che la Sardegna deve esser parte integrante del trattato di pace, poiché è entrata nella lotta, ed ha formalmente dichiarato la guerra alla Russia. Ma da che, dietro l'articolo indicato, essa non verrebbe che compresa nella pace, si verrebbe a giustificare l'opinione di coloro, i quali si compiacciono di rappresentare il nostro paese come un semplice ausiliario della Francia e dell'Inghilterra.

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Non basta inoltre di stabilire che le relazioni colla Russia verranno rimesse sul piede in cui si trovavano prima della guerra. I nostri alleati non ignorano punto che a quel tempo i rapporti della Sardegna colla Russia por il fatto stesso di questa Potenza erano assai poco amichevoli; e a renderli normali non valsero in seguito le pratiche fatte a diverse riprese dai miei predecessori nel ministero delle cose esteri. Perciò la Sardegna si crede in diritto di chiedere che il trattato di pace stabilisca formalmente che le relazioni tra essa e la Russia verranno rimesse sul piede più amichevole, riserbandoci, come l'occasione si presenterà, di formulare noi stessi l'articolo relativo.

I desiderii espressi, e gli argomenti sui quali si fondano, mi sembrano così giusti e così evidenti, che crederei di far torto alla benevoglienza e alla lealtà manifestateci le tante volte dai Gabinetti alleati, ove un solo istante dubitassi che le nostre osservazioni e le domande nostre non venissero accolte nel modo il più favorevole. Voi, signor marchese, le porterete alla conoscenza del conte Walewski nei modi che meglio giudicherete opportuni. Voi gli rinnoverete la promessa che il Governo del re non indietreggierà innanzi ad alcun sacrifizio per contribuire al buon successo della guerra nei limiti tracciati dal trattato del 26 gennaio. Ma in pari tempo gli farete comprendere che noi non potremmo fare assegnamento sul concorso del paese, ov'esso potesse aver timore che la Sardegna non occupa punto nell'alleanza il posto a cui le dà diritto la lealtà del suo procedere e la sollecitudine posta nel soddisfare agli impegni assunti (33).

Era di capitale interesse di spianar tutte le difficoltà che impedivano alla Sardegna di tradurre in atto il diritto di manifestare il suo modo di vedere negli affari dell'alleanza, onde non continuar a prestare ad occhi chiusi una così gravosa e costosa cooperazione senza neanco possedere la facoltà di poter apprezzare le ragioni che potevano consigliare a continuarla o a circoscriverla.

(33) Dispaccio confidenziale Cavour al marchese Villamarina, Torino 15 maggio 1855.

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Quest'era inoltre la sola via aperta per assicurarsi degni frutti ai sacrifizi che si incontravano, e che non potevano essere degnamente compensati ove un plenipotenziario sardo non prendesse parte alle deliberazioni degli alleati. I ministri sardi in Parigi e in Londra furono incaricati di condurre questo grave negozio.

Alle prime entrature di Villamarina Walewski rispose che fin da quando egli era ambasciatore a Londra, si era studiato di risolvere il punto controverso dell'ammessione della Sardegna alle conferenze; ma che d'accordo col Governo inglese erasi convinto che la cosa era assai delicata e difficile, primieramente per l'opposizione dell'Austria, e in secondo luogo perché, ammettendo la Sardegna, si apriva la porta alle domande d'altri minori stati della Germania e dell'Italia. Ma non si tratta, rispose recisamente il legato sardo, di un favore, sì bene d'un diritto acquisito dalla Sardegna per un trattato e pei sacrifizi dai quali essa si sdebita con tanta lealtà e con così grande disinteresse. Con qual diritto potrebbero i minori Stati italiani e tedeschi chiedere d'entrare nelle conferenze degli alleati? Chiamarveli sarebbe lo stesso che voler aiutare la Russia, spalleggiare la politica tortuosa dell'Austria; mentre la presenza della Sardegna non può che tornar utile alla Francia e all'Inghilterra.

Il ministro francese, posto al muro, si fece più maneggevole, e soggiunse: Le mie osservazioni riflettono soltanto le conferenze, nelle quali si discutono unicamente principii generali d'ordine e di equilibrio europeo. Questa parte, come si praticò in Vienna nel 1815, debb'essere riservata ai soli potentati di primo ordine. Ma è fuori di ogni dubbio che la Sardegna deve farsi rappresentare nelle conferenze, nelle quali i suoi interessi sono in giuoco; ed essa quindi deve prender parte nel determinare le condizioni della pace colla Russia, e nel segnarne il trattato come parte integrante. Anzi vado più innanzi di voi, e credo che questo diritto vi appartenga

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anche nel caso che si trattasse d'un rimescolamento territoriale, nel quale i vostri interessi si trovassero impegnati. In quanto alla conferenza di Vienna, in essa non erasi trattato se non che di preliminari; e la Sardegna sarebbe stata interpellata in tempo utile a dare il suo parere, ove le cose avesser inclinalo verso qualche soluzione positiva (34).

Ragguagliato di questo discorso del nuovo ministro degli affari esteri dell'imperatore, Luigi Cibrario inviò al legato sardo in Parigi le istruzioni seguenti:

Da che il Governo francese ha riconosciuto in principio il diritto che incontestabilmente spetta alla Sardegna di prender parte alle negoziazioni che possono continuare o venir riprese per la conclusione della pace, credo che uno scambio di note sia la forma più conveniente e più usitata a constatare la ricognizione di questo diritto. In seguito il re deputerebbe poi un plenipotenziario suo, il quale colla sua presenza nel Congresso mentre tutelerebbe gli interessi e la dignità della nostra nazione, e darebbe una dovuta soddisfazione alle legittime suscettività dell'opinione costituzionale che nel nostro paese si è mostrata cosi favorevole all'alleanza anglo-francese, sarebbe in pari tempo un ausiliario utile alle Potenze occidentali con cui abbiamo una causa comune e combattiamo per gli stessi principii. Il Governo del re pensa che non sia facile né conveniente definire preliminarmente l'estensione dei poteri del plenipotenziario sardo, e determinare i modi co' quali più o meno direttamente dovrà intromettersi nei negoziati conforme la natura delle questioni poste in discussione. Soltanto importa avvertire che tutto ciò che tendesse a stabilire una distinzione tra i plenipotenziari delle grandi Potenze e l'oratore sardo, porrebbe quest'ultimo in una positura ambigua e penosa, e produrrebbe pessimo effetto nel Piemonte. Penso che basti dichiarare che il Governo del re riconosce che il nostro diritto di prender una parte diretta ed efficace alle discussioni, dev'essere regolato dietro la misura degli interessi morali e materiali che ci concernono nelle questioni che verranno ventilate.

(31) Lettera Villamarina al conte di Cavour, Parigi 26 maggio 1855.

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Vi prego pertanto, signor marchese, di condurre a termine l'opera così ben cominciata, e d'insistere presso il Gabinetto francese per ottenere il più presto che sia possibile la formale ricognizione del nostro diritto. Siete autorizzato a leggere, e all'uopo lasciar copia di questo dispaccio al signor conte Walewski (35).

Villamarina, condensate in una nota tutte le migliori ragioni che militavano a favore della Sardegna, la presentò a Walewski (36). Questi dapprima cercò di tenersi a una risposta verbale, biasciando che facendola in iscritto poteva per avventura riuscire non troppo gradevole (37); ma incalzato a tenersi a una risposta scritta, la diede per ordine di Napoleone del tenore seguente: - L'imperatore accoglie favorevolmente la domanda della Sardegna di partecipare alle conferenze che ulteriormente s'intavoleranno tra le Potenze alleate e la Russia per trattare le condizioni della pace, a testimoniarle la sua amicizia e la sua piena soddisfazione per il concorso leale prestato dalle armi piemontesi alle Potenze alleate. Pertanto un plenipotenziario sardo prenderebbe parte in modo diretto e personale a tutte le discussioni nelle quali vi fossero impegnati gli interessi particolari della Sardegna. Inoltre i plenipotenziari francese e inglese avrebber cura di tenere a giorno il legato piemontese su tutte le pratiche d'interesse generale intavolate e discusse nel Congresso. Da ultimo il plenipotenziario del re di Sardegna sottoscriverebbe il trattato regolatore delle condizioni della pace (38). - Il Gabinetto di Londra dapprima si mostrò alquanto perplesso, a motivo delle esacerbazioni che esistevano tra le Corti di Torino e di Vienna. Il ministro Cibrario tornò sull'insistere, e scrisse al marchese D'Azeglio in questi termini: - Da che per effetto della nostra accessione al

(35) Dispaccio confidenziale Cibrario, Torino 1 giugno 1855.

(36) Nota Villamarina, Parigi 6 giugno 1855.

(37) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 13 giugno 1855.

(38) Nota Walewski, Parigi 17 giugno 1855.

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trattato del 10 aprile siamo in guerra colla Russia, noi ci troviamo nel diritto incontestabile di non restare estranei a qualsiasi negoziato, che le Potenze occidentali vorranno intraprendere per regolare le basi d'un futuro accordo. Il luogo ove il Congresso si insedierà, è una circostanza affatto secondaria, la quale non può in modo alcuno infirmare i nostri diritti. Posto questo principio, se la ben nota destrezza del Gabinetto austriaco, oppure la forza delle cose determinasse di nuovo le Potenze occidentali a sceglier Vienna per sede del Congresso, noi tuttavia abbiamo il diritto d'inviarvi un plenipotenziario, il quale in comune coi plenipotenziari delle Potenze occidentali discuta i nostri interessi, sia che le nostre relazioni diplomatiche colla Corte di Vienna vengano rimesse sul piede antico, sia che presso di essa continui a esservi accreditato un nostro incaricato d'affari. Non è per nulla necessario che il diplomatico, incaricato di rappresentare la Sardegna nel Congresso, sia lo stesso che la rappresenta in Vienna. Ove l'opposto sistema fosse assentito, basterebbero per se sole le abituali lentezze del Gabinetto austriaco per escluderci a perpetuità dal partecipare alle deliberazioni del Congresso. Ma da che questo sistema sarebbe assurdo e poco onorevole per la Sardegna, così essa giammai vi consentirà (39). - Azeglio si portò da Clarendon con una nota identica a quella presentata da Villamarina a Walewski. Egli gliela lesse come progetto di nota, pregandolo a volerla tenere presso di sé onde farla conoscere agli altri ministri. Il ministro inglese sulle cose esteriori si mostrò persuaso della giustizia della domanda della Sardegna, e lodò la moderazione colla quale veniva fatta. Il legato sardo, sentito spirare aura propizia,

(39) Dispaccio confidenziale Cibrario al marchese Azeglio in Londra, Torino 7 giugno 1855.

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prese a mostrare l'utilità grande che la Francia e l'Inghilterra potevano ricavare dalla cooperazione della Sardegna nelle negoziazioni diplomatiche. Clarendon stette per alcuni istanti impensierito, poi disse: - L'affare è grave, conviene trattarlo nel Consiglio dei ministri, e fa d'uopo mettersi inoltre d'accordo col Governo francese; non è dunque cosa la quale possa venire sbrigata da un giorno all'altro (40). - Palmerston si mostrò più esplicito nel dichiarare addirittura che la Sardegna doveva avere il suo plenipotenziario nel Congresso; soltanto avvertì che per allora non conveniva intavolare la questione della sua competenza (41). - Azeglio scrisse pure in via confidenziale a lord Russel per ragguagliarlo dei passi fatti presso Clarendon, e per dirgli che re Vittorio Emanuele e il suo Governo a buon diritto erano rimasti attristati della parte men che mediocre loro riservata nelle conferenze di Vienna. Russel, incontrato Azeglio, si mostrò impacciato nel rispondere sull'argomento delle conferenze di Vienna; ma riconobbe giusta la domanda della Sardegna d'intervenire nelle venture negoziazioni, pur notando che avrebbe convenuto regolare alcune questioni d'etichetta, come erasi fatto nel Congresso di Vienna. - Questo è un anacronismo, milord, - soggiunse sorridendo il legato sardo; e l'altro non vi ricalcò sopra.

Ricevuta la nota sarda in via officiale (42). Clarendon portò la questione a risolvere nel Consiglio dei ministri, ove fu deliberato che l'Inghilterra riconosceva il diritto della Sardegna di partecipare a tutte le conferenze future,

(40) Lettera d'Azeglio al presidente del Consiglio dei ministri, Londra 13 giugno 1855.

(41) Lettera d'Azeglio al presidente del Consiglio dei ministri, Londra 16 giugno 1855.

(42) Nota Azeglio del 15 giugno 1855.

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in cui il suo plenipotenziario prenderebbe una parte diretta e personale alle discussioni le quali toccassero in alcun modo gli interessi sardi; il plenipotenziario piemontese verrebbe informato dai plenipotenziari francese e inglese di tutte le proposte, di tutti i progetti che si dovessero discutere nelle conferenze, a cui egli non fosse chiamato; egli inoltre sottoscriverebbe il trattato di pace. Clarendon con una nota ragguagliò il ministro sardo a Londra di questa deliberazione (43).

In tal guisa i due Gabinetti di Parigi e di Londra s'erano intesi nello stabilire che il plenipotenziario sardo non dovesse partecipare a tutti i negoziati, ma avesse ingresso soltanto nelle conferenze, nelle quali si ventilassero questioni che interessassero direttamente il suo paese. II Governo piemontese non accettò e neanco respinse questa dichiarazione sul riflesso che in realtà non poteva sorgere questione alcuna nella quale, sia sotto l'aspetto politico, sia sotto l'aspetto commerciale la Sardegna non si dovesse trovar interessata nelle negoziazioni per la pace colla Russia. Eravi un'altra ragione potentissima per non mettersi troppo in sul tirato. Cominciavano a balenar di lontano promesse al Piemonte di compensi territoriali, se la guerra, come sembrava al tutto probabile, si faceva più grossa, e si portava nelle Provincie meridionali della Russia

(43) Nota Clarendon, Londra 19 giugno 1855.

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VI.

Questi primi albori di giorni men foschi fecero giudicare acconcio ai ministri di Vittorio Emanuele che il re si conducesse a Parigi e a Londra per uffizio di regale cortesia. Cavour avrebbe desiderato di non accompagnarlo, adducendo per ragione al ministro col quale si teneva in maggiore intimità di concetti, che per allora era immaturo il tempo di preparar il terreno alle future trattative per la pace, e che non conveniva mettere troppo in mostra d'andar in cerca d'accordi politici, i quali, probabilmente non riuscendo, approderebbero a scredito del paese. Bensì era utile che al seguito del re fosse Massimo D'Azeglio, per provare all'Europa che i governanti subalpini non erano infetti da labe rivoluzionaria (44). Azeglio assentì, ma poi anch'egli il presidente del Consiglio condiscese alle sollecitazioni de' suoi colleghi d'accompagnare il re. Quest'ultima risoluzione fu ottima per le cose che dobbiam narrare, chiedendo prima licenza al lettore d'entrare in alcune brevi considerazioni.

Quando, ne' futuri tempi remoti, gli Italiani celebreranno le feste natalizie del loro risorgimento politico, indubitatamente Camillo Benso di Caour apparirà circondato da una fulgida aureola di gloria, degno di vivere immortale nell'eletta schiera de' sommi uomini che, attraverso le tradizioni del passato, il culto civile dei tardi nepoti ossequia come fortunati fondatori d'imperi, sapienti restauratori di scadute fortune di popoli. E fin d'ora giova credere che su questa italiana terra non sorgeranno mai generazioni così ingrate o così di se stesse orgogliose, da porre in dimenticanza i benefìzi incommensurabili che la nostra nazione deve a questo suo grande cittadino.

(44) Lettera Cavour a Rattazzi, 12 settembre 1855.

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Ma la storia non deve idolatrare chicchessia; e se non vuol essere romanzo o panegirico, ha lo stretto dovere di dare a ciascheduno ciò che gli spetta, e nulla più. Ora qual parte davvero spetta a Camillo Cavour, qual parte a Napoleone III nel tirar le fila e nel tesser la tela diplomatica che condusse alla guerra memorabile del 1859?

Fu esso il caldo soffio della parola del ministro italiano che destò nel petto dell'imperatore dei Francesi la voglia sperimentata ne' giovanili suoi anni, lontano dalle speranze del trono, di francar l'Italia dalla dominazione straniera?

ovvero il nipote del capitano degli eserciti della Rivoluzione, afferrata pel crine la fortuna, pensò per impulsi spontanei dell'animo suo di usarla a incarnare il disegno d'abbattere il dominio dell'Austria in Italia?

E quali i concetti di Napoleone III per ricostituirla, quali quelli del conte di Cavour? E attraverso a che vicende passarono i loro accordi, e sin quando procedettero concordi, e qual via presero come furono sopraffatti dalla irrompente fiumana d'eventi inaspettati?

Dappoiché il governo personale di Napoleone III è cessato, Camillo di Cavour è morto, il vecchio Piemonte è scomparso dal novero degli Stati, e l'ultimo re di Sardegna, dopo essersi mostrato galantuomo e generoso principe e bravo soldato, è divenuto il primo re d'Italia, la storia, senza commettere imprudenze dannose o sleali, può squarciar il velame delle segrete cose, tanto da versare sopra i primari personaggi della grande epopea sprazzi di luce sufficienti a farne scorgere le vere fattezze senza orpello.

Ma per soddisfare questo interesse storico e politico in tempi di ardenti passioni partigiane, bisogna che le cose narrate siano accertale e palpabili, per così dire, onde esser credute; quindi la narrazione non può correre diritta e spedita la via prefissa, ma le conviene traccheggiare in particolari,

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che presi ciascuno di per sé, potrebbero parere indegni di storia, ma che non debbono esser trascurati da che dal loro insieme si ricavano i migliori criteri per avere sott'occhio la fisonomia degli uomini che si vogliono conoscere e studiare. Ci conviene adunque procedere con passo lento e faticoso, anzi, dar addietro d'alquanto, onde la giustizia della storia fin d'ora si compia.

II concetto di far la guerra all'Austria in Italia entrò nella mente di Napoleone sin da quando la fortuna principiò a mostrategli straordinariamente amica. Il primo suo disegno personale d'un intervento francese favorevole alla causa italiana, rimonta all'anno 189, vinto che fu il Piemonte a Novara (45). Nel 1853 Napoleone, divenuto imperatore, lasciava trascorrere parole con Alfonso La Marmora, con Camillo Cavour e con Urbano Rattazzi, le quali accennavano che nel suo cuore era caldo l'affetto all'Italia. E quando Giacinto Collegno, dietro il contegno malevolo del Gabinetto francese verso il Piemonte, gli lasciò intendere una parola di grande sconforto per l'avvenire del suo paese, l'imperatore rispondevagli: - Non vi turbate di troppo; queste nubi passeggiere si dilegueranno, e verrà giorno nel quale i due paesi si troveranno compagni d'arme per la nobile causa d'Italia (46). - Succeduto nel febbraio del 1853 il tentativo mazziniano di Milano, Napoleone chiamato a sè Villamarina, dicevagli:

(45) Lettera confidenziale del marchese Emanuele d'Azeglio al presidente della Repubblica francese, Parigi 31 luglio 1849. - Lettera confidenziale del marchese Vittorio di San Marzano a S. A. R. il Duca di Genova, Parigi 4 agosto 1849. - Lettera confidenziale del marchese Vittorio di San Marzano al cav. Massimo d'Azeglio presidente del Consiglio dei ministri, Parigi 4 agosto 1849.

(46) Lettera Collegno a Massimo d'Azeglio, Parigi 3 dicembre 1852.

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- Non potrei mai approvare o prestare il mio appoggio a piccoli stati, che si abbandonassero a simili eccessi. Bisogna aspettare che in Europa scoppi una grande guerra, o che un avvenimento qualunque fornisca un'occasione favorevole, per esempio una minaccia dell'Austria all'indipendenza del Piemonte

(47).

- Questa guerra scoppiava nel 1854.

Disgraziatamente per l'Italia, la Francia in essa aveva somme utilità da ricavare dall'alleanza coll'Austria; tuttavia Napoleone, chiamato a sé il legato sardo, gli favellò così: - Bisogna far ben comprendere al partito liberale in Piemonte e nel rimanente d'Italia che

la guerra d'Oriente ha per oggetto di respingere le invasioni russe, e che quindi si tratta di salvare la civiltà europea

; onde fa d'uopo che così i maggiori come i minori Stati si facciano alleati della Francia e dell'Inghilterra. Ma se mai l'Austria e la Prussia mi abbandonano, sono deliberato di richiamare i miei soldati da Costantinopoli, dal Mar Nero e dalla Bessarabia, onde portarli sul Reno e in Italia. So quanto l'affare da sostenere sia rude; ma dandovi entro con coraggio e perseveranza, vi riusciremo. Ad ogni modo non abbandonerò la partita se non se dopo aver fatto tutti gli sforzi possibili per vincere. Se alla fine della lotta la Svezia avrà ripresa la Finlandia, la Turchia, la Crimea, e l'Italia e la Polonia avranno ricuperata la propria indipendenza nazionale, voi vedete che l'avvenire della civiltà rimane assicurato. -

Villamarina aveva chiesto a Napoleone licenza di far noto al suo Governo questo discorso; e l'imperatore sorridendo avea col capo accennato che sì

(48). In quei giorni il concetto di assettare l'Europa in uno stabile equilibrio politico dietro il principio

(47) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 8 febbraio 1853.

(18) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 16 marzo 1854.

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di nazionalità, primeggiava nella mente dell'imperatore, che co' suoi più intimi ne favellava con grande compiacenza; e sul conto del Piemonte e di Gasa Savoia egli diceva col generale Partonneaux: - Bisogna considerare il Piemonte come l'antico regno d'Italia; e per averlo alleato utile e sincero, bisogna lasciargli la sua indipendenza. Casa di Savoia esercita un grande prestigio sugli Italiani: fa d'uopo di condursi in modo di conservarglielo nell'interesse comune. Mio zio, ancora generale, l'aveva compreso, e senza gli errori commessi allora dal Gabinetto di Torino, il re di Sardegna sarebbe rimasto sul trono co' suoi Stati aggranditi (49). - In questi concetti e sentimenti era l'imperatore Napoleone, quando il re Vittorio Emanuele e il suo primario ministro giunsero in Parigi il 23 novembre 1835.

L'uno e l'altro ebbero seco colloquii intimi (50), dai quali riportarono la lieta persuasione che sul trono di Francia stava un monarca, da cui credibilmente si poteva ripromettere qualche risoluzione favorevole all'Italia.

E una sera appunto l'imperatore, dopo il pranzo, conversando con Cavour e con Azeglio, uscì in questa domanda: - Che cosa si può fare per l'Italia? - Cavour destramente rispose: - La domanda è di troppa importanza e viene di tropp'alto perché io non debba pregare Vostra Maestà a concedermi di fargli una risposta per iscritto e pensata. - Sia pure, - riprese Napoleone. Diamo qui appresso il sunto di questa lunga memoria, lasciando al lettore il piacere di leggerla per intiero nell'Appendice di questo Volume.

== Non sarebbe difficile, ma riuscirebbe superfluo rispondere in un modo assoluto alla domanda dell'imperatore.

(49) Lettere confidenziali Villamarina al ministro degli affari esteri in Torino, Parigi 17 gennaio e 1 ottobre 1855.

(50) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 27 novembre 1855.

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È la realtà dei fatti che convien prendere a guida nello esaminare la questione italiana; quindi fa d'uopo di considerarla o dietro un accordo dell'Austria cogli Occidentali, o dietro la sua neutralità, oppure la sua alleanza colla Russia. Ma prima di valutare queste ire eventualità, bisogna stabilire alcuni pronunziati, onde la questione italiana si innesta alla questione generale degli interessi dell'Occidente. La lotta tra i vecchi principii e i nuovi generali dalla prima Rivoluzione francese, si è conservata sotto diverse forme non solo permanente, ma irreconciliabile sino al presente.

Se oggidì la Francia, l'Inghilterra e la Sardegna si trovassero in grado d'assalire colle armi la lega delle vecchie monarchie contro i principii del 89, il meglio sarebbe per avventura d'andar incontro per una grande ed energica iniziativa a un pericolo inevitabile. Ma ove questo rimedio estremo non si possa addottare, bisogna appigliarsi ad altri espedienti per discioglierla e per renderla impotente. Innanzitutto è egli sperabile di staccar l'Austria dalla Santa Alleanza? Sarebbe un tentativo di riuscita impossibile. Quale è la ragione d'essere dell'impero austriaco? perché l'Austria esiste? Certo non per i nodi d'unione politica, che provengono dal sentimento nazionale: certo non per il prestigio tradizionale del titolo imperiale sì potente da Carlo Magno fino a Giuseppe II: certo non per l'affetto di tutto un popolo verso una dinastia, mostratasi costantemente degna e benefica. L'Austria imperante sopra razze diverse per sangue, per lingua, per costumi, ostili le une alle altre, non vincolale da alcun interesse comune, ha bisogno per esistere d'un governo incentrato, assoluto: perciò il principio politico incarnato nella Russia, è la sua vita, la sola sua speranza di conservazione; Il principio liberale rappresentalo dalla Francia, è il suo più terribile nemico.













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