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STORIA DOCUMENTATA
DELLA

DIPLOMAZIA EUROPEA IN ITALIA
DALL' ANNO 1814 AL L'ANNO 1861
PER

NICOMEDE BIANCHI
VOLUME VII.
Anni 1851-1858
DALLA SOCIETÀ L'UNIONE TIPOGRAFICO EDITRICE
TORINO
Via Carlo Alberto, N° 33
casa Pomba 1870 NAPOLI (Deposito)
Strada Nuova Monteoliveto, N° 6



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Nel corso degli ultimi settantanni gli uomini di Stato austriaci mostrarono tenere questa verità a fondamentale criterio invariabile della propria politica; né è credibile che attualmente l'Austria voglia abbandonare le tradizioni d'un passato utile, ed entrare in guerra per abbattere il solo appoggio che le resta in Europa onde procurare il trionfo di principii che le sono mortali.

«Ammessa l'impossibilità di render l'Austria nemica della Russia, viene in campo la proposta di costruire una poderosa lega occidentale, la quale distruggendo il sistema politico cardinato sui trattati del 1815, s'opponga all'alleanza delle vecchie monarchie, e le tolga la prevalenza acquistata. È a questo punto che la questione italiana si rannoda alla questione degli interessi delle Potenze occidentali. L'Italia nel 1815 ebbe un assetto non conforme agli interessi dell'Europa, ma rispondente ai disegni ostili delle vecchie monarchie verso la Francia.

PARTE 2

Conseguentemente, mantenendola nelle attuali sue condizioni territoriali e politiche, essa rimane per lo meno del tutto inutile a rafforzare la lega dell'Occidente, mentre le è necessaria. Convien quindi pensare a ricostituirla.

Ma il nuovo edifizio non può aver a base che la nazionalità: tutto ciò che si pretendesse di fare in senso diverso, sarebbe tempo sprecato, sarebbe un apparecchio a nuove conturbazioni. Ciò posto come indiscutibile, sorge la questione dei modi pratici per conseguire il fine desiderato.

Se l'Austria si smascherasse amica armata della Russia, l'Italia diverrebbe uno de' campi di guerra, e la compiuta sua indipendenza sarebbe il meritato prezzo de' suoi sforzi,

e della saviezza e dell'energia di cui avrebbe saputo dar prove in una occasione così solenne.

Ma se l'Austria perviene a mantenersi nella neutralità sua dubbiosa, oppure si risolve a entrar in guerra alleata degli Occidentali,

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l'opera della diplomazia diventa assai scabrosa, e richiede non solo grande abilita, ma longanime perseveranza.

Entrando in questa via, il punto al quale convien sempre mirare è quello di rifare in senso contrario il lavoro per cui l'Austria del 1815 in poi si è impossessata dell'Italia.

«Ma si presenta una grande questione, la più difficile per avventura di tutte le altre, che oggidì pongono a dure prove le menti degli statisti. I problemi inestricabili che la questione romana inchiude, hanno sinora per la soluzione loro sfidati gli sforzi degli ingegni di maggior polso. E tuttavia ornai torna evidente la necessità di prender di fronte, per iscioglierla radicalmente, questa grande questione. Il governo temporale de' papi ha cessato virtualmente d'esistere dal giorno in cui ha dimostrato che a stare in piedi avea bisogno assoluto del puntello d'armi straniere. Ben si può chiedere perché la casta sacerdotale, la quale per un così lungo tempo si tenne signoreggiante, negli ultimi trentanni sia venuta di mano in mano nell'impossibilità di mantenersi tale. Ciò avvenne per la mutazione radicale succeduta nelle più intime compagini di questa casta, la quale ha perdute le qualità buone che possedeva, acquistandone delle pessime. Mentr'ebbe luogo questa trasformazione in peggio, accompagnata dalle sue conseguenze politiche, l'opinione pubblica, iniziata alle discussioni delle questioni politiche, si è gittata con ardore nella controversia, e il governo pontificio, le sue leggi, le tradizioni sue sono cadute lembo per lembo sotto il suo esame. Roma ha visto inaridire le sorgenti delle sue ricchezze, cadere il suo prestigio, dileguarsi l'aureola di riverenza che attorniava i suoi dignitari; gli errori della sua politica, l'acciecamento o la prevaricazione delle sue amministrazioni hanno svegliato all'intimo segno l'odio e il disprezzo de' suoi sudditi;

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i prelati sono oggi tenuti in conto di pubblici nemici, e il loro governo è considerato come una calamità. Ma non solo il dominio temporale dei papi ha cessato virtualmente d'esistere, che di più non ha in se stesso elemento alcuno che possa farlo rivivere. Se così è, e se non si può lasciar un paese civile in preda all'anarchia, fa d'uopo cercare di sostituire all'antico un governo nuovo.

La base di questo novello edifizio dev'essere la secolarizzazione dell'attuale governo pontificio. Ma si obietterà che, partendo da questa base, si perverrà alla compiuta abolizione del governo temporale della Chiesa.

Non si esita a convenirne. Le sollecitudini de' pubblicisti e degli uomini di Stato non debbono esser dirette a infonder l'alito della vita ad un corpo che essa ha abbandonato per sempre, ma bensì a cercar i modi più convenevoli a sbarazzarsi d'un cadavere. Ora l'espediente migliore si è quello di sostituire successivamente nello Stato romano i laici ai chierici nel regime della cosa pubblica. Questo cangiamento, in ogni modo inevitabile, si opererà senza disordini; e il vecchio edifizio anziché crollare a precipizio, verrà demolito pietra per pietra, e così farà risparmio del funesto intervento dell'opera rivoluzionaria. Una trista verità è ornai entrata nell'animo degli uomini più giusti e religiosi: il Governo temporale dei papi, questo grande focolare di corruzione, ha distrutto il senso morale, ha reso, è tristo a dirlo, impossibile il sentimento religioso, massime nel centro e nel mezzodì dell'Italia; senza il potere temporale molte piaghe della Chiesa verrebbero sanate. Torna inutile occuparsi della vecchia obbiezione, che cioè il capo della Chiesa, per possedere la libertà piena de' suoi atti, dev'essere principe temporale. In cospetto di una doppia occupazione straniera e dei mercerari svizzeri, l'addurre

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questo argomento sarebbe un'amara derisione. Giova piuttosto far osservare a coloro, i quali giudicassero esorbitante la pretensione di trasformare il Governo romano per l'introduzione dell'elemento laico, che essi dovrebbero al contrario essere ben contenti della buona riuscita di questo spediente. Un buon numero di pensatori valenti giudica probabile che, dietro la forza irresistibile delle cose, ben presto succederà che l'autorità pontificia si troverà ristretta entro le mura di Roma retta a ordini municipali, mentre che al mantenimento di quella Corte provvederanno le Potenze cattoliche per mezzo di una. Hanno essi torto? è il segreto dell'avvenire.

«Rimane ad esaminare una questione che, a corto andare potrà farsi flagrante. Essa è la questione della Moldavia, della Valachia e delle bocche del Danubio nelle loro relazioni cogli interessi dell'Occidente e colla ricostituzione politica dell'Italia. Per impedire permanentemente che la Russia non giunga ad attuare il suo disegno secolare d'abbattere l'impero ottomano, fa d'uopo render impossibile il cozzo dei due imperi, intramezzandoli con un corpo per se stesso solido a sufficienza da non essere riversato. Tale corpo non può essere che l'Austria. Ma ove questa Potenza padroneggiasse sul Danubio e sul Po, raddoppierebbe la sua forza; e l'Occidente, invece d'avere fondata sopra solida base la preponderanza del suo principio politico, si troverebbe dopo una guerra sanguinosa e dispendiosa più che mai minacciato dalla coalizione; e il Piemonte, in ricompensa del leale soccorso prestato all'Occidente, si troverebbe più debole, più minacciato. Dietro queste considerazioni, sembrerebbe che si dovesse rinunziare ad ogni concetto d'ingrandir l'Austria sul basso Danubio. Se il farlo fosse una necessità assoluta, il solo mezzo per iscongiurarc il pericolo

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d'un ingrandimento di questa Potenza minaccievole all'Occidente, è quello d'indebolirla sul Po di quanto essa guadagnerebbe sul Danubio.

Uno Stato potente in Italia, lungi dall'essere di nocumento, sarebbe di vantaggio agli interessi della Francia e dell'Occidente.

Se nel corso degli ultimi quarantanni non si fosse lasciato libero il passo all'Austria di piantare la bandiera della Santa Alleanza sui migliori punti strategici della penisola, se una savia previdenza avesse potuto leggere nell'avvenire, e avere il presentimento d'un tempo che tosto o tardi doveva arrivare, in cui i due grandi principii che si contrastano l'impero del mondo avrebber impegnata la suprema battaglia, oggi non sarebbero così grandi e molteplici le difficoltà da superare. Ma tutto può essere riparato nel giorno in cui i grandi potentati che stanno a capo dell'Occidente, convinti d'addottare un sistema politico che li liberi per sempre della vecchia preponderanza della lega nordica, entreranno risolutamente nella via, che sola può condurre allo scioglimento della questione italiana (51).==

Il conte Cavour non aveva per anco dato l'ultima mano a questo suo ragguardevole lavoro, che le condizioni della politica europea radicalmente mutavansi; grandi fatti di guerra erano avvenuti, e dietro di essi grandi accordi diplomatici. Dopo l'espugnazione di Sebastopoli, non era più lecito dubitare che, ove la guerra dovesse continuare, non si porterebbe in Europa. E poiché era ciò che l'Austria maneggiavasi sovra tutto a evitare, essa si trovò nella necessità d'atteggiarsi a un contegno risoluto onde imporre alla Russia la sua mediazione.

Addì 14 dicembre 1855 il Gabinetto di Vienna sottopose all'esame dei Gabinetti di Londra e di Parigi alcune condizioni,

(51) Cavour, Memoria sui mezzi proposti a preparare la ricostituzione dell'Italia.

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dalle quali dovevano partire le deliberazioni del Congresso per stabilire la pace; ove Francia e Inghilterra le avessero gradite, l'Austria si proponeva di chiedere alla Russia d'accettarle, senza aggiungervi o levarvi una parola sola, altrimenti la scontrerebbe nemica ne' campi di guerra.

Era l'Europa tutta congiurala ai danni dello czarismo, che minacciava d'assalirlo nelle sedi della sua potenza dal Baltico all'Eusino.

Un rifiuto alle intimazioni dell'Austria ingrata; e la Russia, che già aveva ricevuto colpi mortali alla sua potenza di terra e di mare, avrebbe dovuto sostenere un urto gigantesco con eserciti assottigliati e male vettovagliati, con popoli ammiseriti, con minati commerci, con industrie spente, con flotte distrutte e asserragliate.

Costretto a subire la legge della necessità, lo czar Alessandro, non riuscito il tentativo di mitigare alquanto le aspre proposte, le accettò dichiarandosi pronto a negoziar la pace dietro di esse.

Erano la neutralità del Mar Nero, il quale verrebbe chiuso ai legni da guerra, e aperto per ragion di traffico a tutte le bandiere; tolta facoltà alla Russia di costruirvi arsenali militari; la perdita per questa Potenza del privilegio d'esclusivo protettorato sui Principati danubiani, a cui sotto la supremazia della Porta darebbesi un nuovo ordinamento politico conforme ai voti e ai bisogni dei loro abitanti; la libertà per i commerci sul Danubio fino ai suoi sbocchi nel mare guarentita; il dominio russo retrospinto sulla riva sinistra di questo fiume, e circoscritto sulle frontiere della Valachia meridionale; la guarentigia dell'Europa per i diritti religiosi e politici dei cristiani sudditi della Porta, salva l'indipendenza e la dignità della corona del sultano.

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VII.

Il Piemonte bramava la continuazione della guerra; e come i suoi reggitori la videro in sul finire, non solo ne sentirono dolore per le speranze che si dileguavano, ma di più pei nuovi pericoli che minacciosi apparivano sull'orizzonte per l'avvenire della Sardegna. Nulladimeno come l'Italia era stata in cima dei loro pensieri ne' giorni in cui aveano negoziato per entrare in guerra, e all'Italia avevano pensato mentre ferveva la lotta, così i ministri di Vittorio Emanuele non dimenticarono la nazione a quello ingrato mutar di fortuna. Gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra in Torino avendo comunicato offìcialmente al ministro sopra gli affari esteri le accennale condizioni dall'Austria proposte alla Russia, il ministro Cibrario loro rispose:

Che la Francia e l'Inghilterra davano un nobile e raro esempio col mostrare d'essersi servito della guerra soltanto come d'un mezzo estremo onde conseguire il trionfo della causa della giustizia e della civiltà, e non come un istrumento d'ambizione.

Questo contegno faceva sperare alla Sardegna che, ove!e condizioni di pace venissero accettate dalla Russia, le Potenze alleate vorrebbero nell'interesse stesso della giustizia e della civiltà intraprendere un'opera anche più gloriosa, e per la quale rimarrebbe chiuso il varco a nuove conturbazioni politiche. Nelle conferenze prossime ad aprirsi la Sardegna confidava di vedere i suoi potenti alleati rivolgere le proprie cure a metter l'Italia in migliore assetto; confidava che, convinti dell'impossibilità di mantenervi un ordine di cose, il quale in alcuni punti ripugnava alle nozioni più semplici della giustizia e dell'equità, comprenderebbero la necessità d'alleviarne le sofferenze e di migliorarne le condizioni. Era una salutare opera, necessaria per soffocare germi di torbidi minaccievoli di continuo al riposo dell'Europa, e per guarentire a tutti gli Stati i benefìzi di una pace durevole.

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E poiché in definitiva l'Austria andava ad acquistare una grande preponderanza nell'Oriente, il tempo era venuto, in conformità pure degli atti del Congresso di Vienna, di porre un freno allo sregolato procedere di questa Potenza io Italia, se pure volevasi mantenuto l'equilibrio europeo per cui si erano prese le armi. Lo svolgimento del benessere morale e materiale delle nazioni reclamava una durevol pace per l'Europa. Ma per ottenere questo comune benefizio bisognava tagliar il corso radicalmente alla rivoluzione, che in un tempo più o men prossimo scoppierebbe in Italia lasciata nelle condizioni infelici in cui era, per allagare probabilmente in altri paesi (52).

Intorno poi alle proposte austriache che dovevano servir di base alla conclusione della pace, il ministro piemontese sulle cose esteriori aperse il suo modo di vedere, e diede le convenevoli istruzioni ai legati sardi in Parigi e a Londra nel seguente notevole dispaccio confidenziale:

Nel rispondere in nome del Governo del re alle comunicazioni fatteci dalla Francia e dall'Inghilterra intorno le proposte che fu concesso all'Austria di presentare alla Russia, ho creduto dover mio di restringermi a indicare, senza fermarmivisi sopra, quali sarebbero le conseguenze della pace rispetto all'Austria e all'Italia.

Credo ora che sia mio dovere di chiamare su questo argomento, il quale ha un interesse vitale non solo per noi ma per l'equilibrio europeo, l'attenzione dei Governi al più alto grado interessati, a che una guerra, la quale ha costato sforzi e sacrifizi inauditi, non produca un risultato fatale alla civiltà.

Le proposte austriache in ordine ai Principati danubiani stabiliscono: 1° la soppressione totale del protettorato russo, al quale verrebbe sostituita una specie di guarentigia e di protettorato collettivo dei maggiori potentati europei; 2° l'ingrandimento territoriale dei medesimi Principati per l'annessione d'una parte considerevole della Bessarabia, la quale includerebbe tutta la riva del Danubio fino al suo sbocco nel Mar Nero.

Queste proposte, considerate rispetto alle relazioni dell'Europa colla Russia, meritano a nostro avviso un'approvazione completa.

Allontanata dalle rive del Danubio e dal Buy, la Russia viene

(52) Nota Cibrario agli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra in Torino, 28 dicembre 1855.

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privata d'ogni comunicazione diretta colle popolazioni slave suddite della Porta ottomana, sulle quali essa esercita gagliardi influssi. Toltole il mezzodì della Bessarabria, la Russia trovasi retrospinta ben lungi dal punto obbiettivo delle sue ambizioni, e viene forzata a riedere al limitare della via percorsa in un secolo dagli ambiziosi successori di Pietro il Grande.

Ma ove si considerino le conseguenze che tali proposte debbono avere rispetto all'Austria, non si può disconoscere che esse sono tali da chiamare su di sé nel più alto grado l'attenzione delle Potenze occidentali.

Se al protettorato russo nei Principati danubiani si facesse succedere un protettorato collettivo dei maggiori potentati senz' alcuna prepondenza esclusiva, non vi sarebbe nulla da obbiettare. Ma le cose non andranno per questa via: i trattati potranno bensì stipulare questo diritto collettivo, ma in realtà, se rimarrà distrutta l'influenza russa, il nuovo protettorato sarà tutto nelle mani dell'Austria.

La Francia e l'Inghilterra non hanno relazioni dirette coi Principati danubiani, e appena vi mantengono deboli rapporti commerciali. La loro giacitura geografica e le clausole del trattato di pace le impediranno di approssimare i loro eserciti e le loro flotte alle frontiere di questi Stati. Andando le cose così, con quali modi Francia e Inghilterra potranno spiegare influssi reali ed efficaci sui Principati? L'Austria al contrario è finitima ai Principati con una frontiera estremamente estesa, e in qualche modo gli avvolge.

Sin d'ora le sue comunicazioni con essi sono guarentite per il maggior fiume europeo, e aumenteranno di gran lunga quando le ferrovie ungaresi e transilvane toccheranno Buckarest. Così situata, l'Austria acquisterà a sé tutto ciò che la guerra ha fatto perdere alla Russia. Si cadrebbe in una completa illusione ove s'imaginasse che i malumori, cagionati dal contegno tenuto dall'esercito austriaco nei Principati, sia per essere un ostacolo permanente ai fatti indicati.

I popoli sono naturalmente facili a dimenticare, ed è impossibile di riconoscere che, se i generali dell'Austria non posseggono il merito di cattivarsi la benevolenza delle popolazioni poste temporariamente sotto l'autorità loro, i suoi diplomatici sono eccellenti nell'arte d'acquistar predominio sugli Stati secondarii che hanno rapporti di dependenza colla Corte di Vienna. Giova non ingannarsi; come i Principati verranno sgomberati dai soldati imperiali, il Gabinetto di Vienna non tarderà punto a guadagnare a Jassy e a Buckarest, in virtù del protettorato di cui si tratta d'investirlo, la stessa influenza che esercita a Parma, a Modena, a Firenze, a Roma e a Napoli.

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Le stipulazioni diplomatiche rimangono sterili, e ben tosto divengono nulle, quando sono fatte per impedire ciò che è una conseguenza inevitabile della natura delle cose. Se si annulla l'influenza russa nei Principati, bisogna aspettarsi che l'Austria ne divenga l'arbitra assoluta, la vera sovrana. Qualunque sia la forma che si dia al trattato di pace, bisogna rassegnarsi a vedere il dominio austriaco prolungarsi su tutto il corso del Danubio fino al suo sbocco nel Mar Nero.

Ma questo accrescimento della potenza austriaca deve eccitare nel più alto grado nei Gabinetti di Parigi e di Londra le maggiori preoccupazioni, da che diventa non solo minaccievole all'equilibrio europeo, ma costituisce un pericolo permanente alla politica liberale di cui la Francia e l'Inghilterra sono le primarie rappresentatrici. Si voglia in effetto raffigurarsi nella mente l'Austria quand'essa eserciterà la sua incontestabile potenza dal Ticino al Mar Nero, da Ancona ad Ibrail, quando sarà padrona assoluta del corso del Danubio, come lo è di troppo del corso del Po, quando sovranamente dominerà l'Adriatico e tutta la frontiera settentrionale dell'impero turco. Certo che in tali condizioni l'Austria si troverà in grado d'esercitare a Costantinopoli influssi ben più gagliardi, ben più irresistibili di quelli che giammai la Russia abbia posseduto.

Ma non sarà la sola potenza materiale dell'Austria che avrà così grande aumento, se la pace viene conclusa dietro le basi proposte. La sua influenza morale si accrescerà immensamente sulla Germania e sull'Italia.

Ove in effetto la guerra attuale, alla quale l'Austria eia Germania sono rimaste pressoché estranee, e che non ha loro imposto il minimo sacrifizio, abbia per effetto di dare alla Corte di Vienna la padronanza assoluta del maggior fiume europeo, e di allargare in modo così considerevole l'azione politica dell'Austria, torna evidente che l'attuale prestigio che essa esercita sugli Stati secondari della Confederazione germanica, diverrà irresistibile. L'influenza prussiana rimanendo totalmente annullata per la politica tentennante e timida di re Federico, ne conseguita che l'imperatore Francesco Giuseppe diventa l'arbitro assoluto della Germania; onde sarà in poter suo soltanto di render reale il sogno dei patrioti d'oltre Reno l'istaurando l'impero germanico, che senza contrappeso di sorta nell'Europa si stenderà dalla foce del Danubio e dell'Os fin alle rive del mare del Nord e del Baltico.

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In quanto all'Italia, l'adozione pura e semplice delle fatte proposte di pace sarà la sua condanna di rimanere annessa in perpetuo all'impero austriaco. I Governi e i popoli di essa, come vedranno che tutti gli sforzi delle Potenze rappresentanti la causa del progresso e della civiltà hanno avuto per unico risultato di sostituire in Europa alla preponderanza russa la preponderanza austriaca, e di consolidare nella penisola la dominazione straniera; quando gli uni e gli altri potranno conoscere che, di fronte agli immensi vantaggi conseguiti dall'Austria, sono rimasti sterili i sacrifizi generosi del paese, che solo libero in Italia da ogni pressione tedesca, si era consacrato alla causa comune; si troveranno condotti a disperare delle proprie sorti, e a considerare il giogo austriaco ornai come una inesorabile necessità, a cui per fatai legge è forza rassegnarsi. E allora ogni influsso della Francia e dell'Inghilterra verrebbe meno in Italia, e l'Austria vi dominerebbe da sola, perocché rimarrebbe distrutto l'ostacolo ch'essa ora incontra alle sue voglie ambiziose. Il Piemonte in effetto, abbandonato da' suoi alleati, perderebbe ogni influenza nelle altre provincie italiane, e a stento avrebbe modo di salvaguardarsi dalle pressure ostili che il suo malevolo vicino si studierebbe d'esercitare sugli stessi suoi abitanti scorati e abbattuti. E questo dovrà essere il risultato che la Francia e l'Inghilterra possono volere d'una cosi gloriosa guerra, e la quale ha costato tanti sacrifizi? Noi non sapremo crederlo. Queste due potenze non possono assentire che la pace, che le loro vittorie le danno il diritto di dettare, abbia per unico risultato quello d'ingrandire l'influenza austriaca a speso dell'influenza russa, e di rendere per tal modo ancora più dolorose le sorti dell'Italia.

Se la pace colla Russia dev'essere stipulata in conformità delle condizioni dell'ultimatum presentato a Pietroburgo, se' la necessità di porre un valido freno ai disegni ambiziosi dello czar, esige l'allargamento della preponderanza austriaca fin alle sponde del Mar Nero, l'interesse delle Potenze occidentali, l'interesse di tutta l'Europa esigono da parte loro che la potenza dell'Austria venga limitata in Italia in proporzione dei vantaggi fattile in Oriente.

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Se per ragioni di prudenza non si crede di poter chiedere all'Austria sacrifizi territoriali, purché i Principati non sieno annessi all'impero, si deve esigere almeno in modo assoluto che la dominazione austriaca non si pieghi al di là della frontiera assegnata dal trattato di Vienna a limite dei possessi imperiali in Italia; conviene esigere che la riva diritta del Po non sia più governata da prefetti austriaci; si deve costringere la Corte di Vienna a sgomberare colle sue truppe dalle Provincie dello Stato pontificio, ove da otto anni vi domina permanentemente.

Il Governo del re confida troppo nella saviezza e nella equità dei Gabinetti di Londra e di Parigi per dubitare che essi non vogliano prendere ad attento esame le considerazioni tracciate, e che non siano determinati ad agire nelle conferenze che precederanno il trattato di pace relativamenie alle cose d'Italia nei modi reclamati dai principii della giustizia e dai veri interessi dell'Europa. Ove dovesse succedere altrimenti; se la guerra, alla quale il Piemonte ha preso parte attiva a vantaggio dell'Italia, servisse al contrario ad aumentarvi la potenza dell'Austria; noi lo diciamo con convinzione profonda e dolorosa, la pace consacrerebbe una grande ingiustizia, e sarebbe eminentemente immorale, da che Francia e Inghilterra accorderebbero una ricompensa enorme a una grande Potenza che ha rifiutato d'aiutarle, d'esser loro compagna nell'ora del pericolo, e nulla farebbe in vantaggio dell'alleato che non esitò a uscir in armi a favor loro quando la fortuna accennava per un istante di volerne abbandonare le bandiere. Esse lascierebbero questo alleato generoso e fedele, indebolito, spogliato della sua forza morale, in presenza d'un vicino ostile, aumentato di potenza, e divenuto indi più esigente. Ove ciò succedesse, qual lezione terribile per le Potenze di second'ordine! Ma la Francia e l'Inghilterra non lo permetteranno, no. Queste Potenze vorranno che l'esempio del Piemonte debba servire di salutare influenza sulle deliberazioni che gli Stati minori potranno esser chiamati a prendere nelle eventualità di grandi lotte europee (53).

(53) Dispaccio confidenziale Cibrario alle Legazioni sarde in Parigi e in Londra, Torino 29 dicembre 1835.

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Cavour non era uomo da stare frattanto colle braccia alla cintola.

Non solo per rimanere in credito e al maneggio della cosa pubblica gli bisognava solerte industria, ma nell'interesse suo e del paese conveniva che con lena infaticabile si adoperasse onde non tutte si dileguassero le speranze, che egli nel contrarre l'alleanza aveva fatto balenare agli occhi de' suoi concittadini. Il nuovo orizzonte che gli si apriva innanzi agli occhi, contribuiva a dargli maggior impulso ad agire con risolutezza.

Poco prima egli aveva credulo di scorgere gli albori dell'alba foriera del sospirato giorno della caduta prossima della potenza austriaca in Italia, e del progressivo crollo della sovranità temporale dei papi; e al contrario gli apparivano gli ingrati segni precursori d'uno straordinario ringagliardimento dell'Austria in intima alleanza colla Corte di Roma.

A non rimanere del tutto sopraffatti, bisognava quindi riprendere a lottare contro l'avversa fortuna con virile costanza; e il conte si pose all'opera, senza perdere un istante l'usata serenità di mente, per quanto si sentisse in cuore la pungente persuasione che il suo astro volgeva a rapido tramonto. L'essenziale era di proseguire sempre lo stesso fine, senza sviare dalla via retta, tenendo l'occhio fisso alle circostanze e alla potenza dei mezzi che si avevano a mano per agire. E da che questi si erano indeboliti, quelle si erano fatte men propizie, conveniva rallentar il passo, ed esser più ammisurati. Cavour innanzitutto scrisse a Villamarina in Parigi e ad Azeglio in Londra onde vegliassero con diligenza assidua gli andamenti dei Gabinetti francese e inglese, e si studiassero a capacitarli che i preliminari della pace contenevano semi di nuove discordie, di nuove conturbazioni per l'Europa, ove l'Austria favoreggiala così largamente sul Danubio

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fosse lasciata arbitra delle sorti d'Italia (54). Saputo poi per telegramma che la Russia aveva accettalo le proposizioni dell'Austria, il conte scrisse una lunga lettera a Walewski, pregandolo a volerla comunicare a Napoleone III. Con quello scritto il presidente del Consiglio dei ministri del re si proponeva di sottomettere all'imperatore un riassunto preciso di ciò ch'egli avrebbe potuto fare in vantaggio dell'Italia, segnati i preliminari e aperte le conferenze per la pace.

Eccone il sunto: - «Da che l'Austria aveva partecipato così largamente agli ultimi avvenimenti, e per una finzione diplomatica la si doveva considerare come grandemente benemerita degli interessi d'Europa, bisognava metterà base, che almeno per il momento non si poteva chiederle sacrifizi territoriali in Italia. Bensì l'imperatore, per l'alta influenza acquistata nei consigli della Corte di Vienna, poteva ottenere che essa facesse giustizia ai legittimi reclami del Piemonte, e adottasse un regime men oppressore più tollerabile nelle sue provincie italiane.

Dopo le prove date dalla Sardegna della sua devozione alla causa dell'ordine, l'Austria non aveva più neanco l'ombra d'un pretesto per violare a suo riguardo i principii dell'equità e gli impegni formali scritti in trattali recenti. La cessazione del governo militare che opprimeva da otto anni i lombardi e i veneti, sarebbe un benefizio reale per essi, senza esporre l'Austria, almeno per il presente, ad alcun reale pericolo. Ora, continuava Cavour, che questa Potenza sottoscrive una pace vantaggiosa, non può essere appuntata di commettere una debolezza nel fare delle concessioni, le quali se non varranno a rendere gli Italiani soddisfatti del Governo di Vienna, per lo meno serviranno a diminuire l'irritazione degli animi, e a rendere men precario

(54) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 26 dicembre 1855.Lettera Cavour al marchese d'Azeglio, Torino '20 dicembre 1855.

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lo stato delle cose nella Lombardia durante il periodo di pace o di tregua che si va a travalicare. Le concessioni che l'imperatore non può ottenere dall'Austria se non per consigli amichevoli, può imporle al re di Napoli, e con azione diplomatica rigorosa esigere che questo sovrano cessi di render odioso il principio monarchico con un contegno assurdo e violento.

Sarebbe una strana illusione quella di credere che il regno delle Due Sicilie giammai possa godere i benefizi d'un buon governo sotto lo scettro dei Borboni; ma l'imperatore può procurargli almeno un sollevamento ai mali che lo affliggono, forzando re Ferdinando a meglio rispettar le leggi della giustizia e dell'umanità.

«Le provincie pontificie situate tra gli Appennini, l'Adriatico e il Po, sono tuttavia nominalmente sotto il dominio della Santa Sede, ma di fatto appartengono all'Austria in contraddizione alla lettera e allo spirito dei trattati di Vienna. È d'interesse supremo della Francia e dell'Inghilterra di far cessare questa occupazione dell'Austria.

Ma in qual modo mi si chiederà? Sono troppo franco, soggiungeva il conte, per osar di consigliare l'imperatore di costringer l'Austria a far sgomberare da' suoi soldati le Legazioni e la Romagna, lasciandole nelle condizioni politiche e amministrative nelle quali si trovano. La partenza degli Austriaci sarebbe il segnale della ribellione, dell'anarchia; e noi non vogliamo disordini né anarchia in nessun luogo, e mollo meno in Italia che altrove. L'occupazione militare delle Legazioni e della Romagna è una conseguenza forzala del regime a cui queste provincie sono soggette; onde, se si vuol farla cessare, bisogna per necessità riformarne radicalmente il Governo.

Questa è una verità, che non deve sorprendere: ciò che i popoli moderni sopportano di meno, ciò che essi detestano di più, è l'immissione dei preti nella politica e nel

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governo della cosa pubblica:

ovunque si preferisce il regime della sciabola del soldato a quello della sottana del prete.

Pertanto il solo rimedio durevole, efficace sarebbe quello d'erigere un principato laico nelle Legazioni e nella Romagna; e da che non è bene aumentare il frastagliamento politico dell'Italia, converrebbe assegnare queste provincie pontificie sia al duca di Modena sia al granduca di Toscana, e così si rinverrebbe il modo di trovare un giusto compenso al Piemonte pei sacrifizi falli. Ove questo scambio di territorii incontrasse difficoltà insormontabili, a conseguir il fine che la Francia deve proporsi del ritorno delle truppe austriache sulla riva sinistra del Po, bisognerà che il governo delle Legazioni e della Romagna divenga affatto laico, lasciandole tuttavia sotto il dominio supremo della Santa Sede. Nel praticare questo espediente converrà impiantare un grande centro amministrativo a Bologna o a Ravenna o in una altra città del litorale adriatico, dando a queste provincie un ordinamento conforme a quello che si pensa di stabilire nei Principati danubiani (55)». -

Walewskv non fece troppo buon viso a queste proposte. Egli poco prima, alle calorose sollecitazioni di Villamarina, aveva risposto con piena franchezza: - Ora non è partilo savio né prudente d'aggiungere alla questione d'Oriente una nuova complicazione coll'agitare la questione italiana. Essa non è matura. Il Governo francese riconosce che le condizioni d'Italia sono sregolate; ma non ha per anco studiato a sufficienza i mezzi usabili a riordinarle. Rispetto alle Legazioni o alla Romagna, non è possibile di sollecitare che vi siano allontanali i presidii austriaci, come non è possibile che i Francesi sgomberino da Roma,

(55) Lettera Cavour al conte Walewsky in Parigi, Torino 21 gennaio 1855,

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da che non si potrebbero prevedere le conseguenze di questi due fatti in vista del contegno minaccioso del partito rivoluzionario, il quale da un momento all'altro potrebbe mettere in compromesso la tranquillità dell'Europa (56). - Cavour avea inoltre rivolto l'animo al progetto di metter innanzi nel prossimo Congresso la proposta d'assegnare i Principati danubiani alle Case regnanti in Modena e a Parma, onde annettere al Piemonte i loro Stati antichi (57). Ma avendo il legato sardo in Londra tastata su questo argomento l'opinione dei ministri inglesi, la trovò fredda, e s'udì rispondere che per cangiare il sovrano d'un paese, bisognerebbero ragioni ben più gravi e possenti (58).

Narrato come i Gabinetti di Parigi e di Londra non si mostravano benigni e facili ad accogliere le rimostranze e le proposte del Piemonte in prossimità del Congresso, ci rimane a raccontare con qual grado e autorità i suoi plenipotenziari vi furono accolti, e come vi si diportarono.

(56) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 5 gennaio 1856.

(57) Lettera Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 29 dicembre 1855.

(58) Lettera d'Azeglio al conte di Cavour, Londra 1 gennaio 1856.

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CAPITOLO SETTIMO

Sommario

Nuove difficoltà per la Sardegna di partecipare alle trattative per la pace - Pratiche relative del ministro Cibrario - Dichiarazioni del Governo francese - Contegno del Gabinetto inglese - Disposizioni d'animo del conte Cavour io prossimità del Congresso - Istruzioni ai plenipotenziari sardi - Prime pratiche di Cavour in Parigi - Le conferenze - stato di cose svantaggioso al Piemonte - Nota verbale dei plenipotenziari sardi - Come accolta dai plenipotenziari d'Inghilterra e di Francia- Osservazioni - Sottoscrizione del trattato di pace, sue clausole principali - Insistenze del conte Cavour onde nel Congresso si discutesse la questione italiana - Trattazione di essa - Dichiarazione sul diritto marittimo - Proposta di Clarendon - Osservazione del conte Cavour relativa ai governi di fatto e agli interventi armati - Propositi e dichiarazioni bellicose di Cavour come accolte da lord Clarendon - Colloquio del primo plenipotenziario inglese con Napoleone III - Osservazioni - Colloquio di Cavour coll'Imperatore - Osservazioni - Cavour in Londra - Trattato del 13 aprile - Secondo memoriale dei plenipotenziari sardi in Parigi - Osservazioni - Ultimo colloquio del conte Buol con Napoleone III e col conte Cavour - Considerazioni.

I.

Il lettore rammenterà come dietro alle sollecitazioni legittime del Piemonte di partecipare ai negoziati diplomatici, che accompagnavano la guerra d'Oriente, o dovevano susseguirla per conchiudere la pace, i Gabinetti di Londra e di Parigi avevano finito per assentire che un plenipotenziario sardo avesse ingresso nelle sole conferenze, ove si ventilassero questioni le quali interessassero direttamente il Piemonte. Il Governo di Torino non aveva accettata, ma neanco aveva respinta questa dichiarazione de' suoi alleati. Ma essi, senza badare più oltre, si diedero a praticarla come si fu in sull'accordarsi per fissare i preliminari di pace,


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cominciando di proprio arbitrio a determinare quali erano i punti, nei quali la Sardegna non aveva interesse diretto a intervenire. Così avvenne che in Costantinopoli essendosi i legali di Francia, d'Inghilterra e d'Austria riuniti in conferenza col ministro sopra gli affari esteriori del sultano per studiare i modi pratici meglio adatti a dar corso alla proposta relativa ai Principali danubiani, l'ambasciatore sardo si trovò escluso. Il barone Tecco protestò tosto contro questo procedere, lesivo ai diritti della Sardegna (i). Thouvenel, che a quei dì rappresentava la Francia presso la Porla, gli rispose che egli e lord Redeliffe non intendevano d'entrare nella questione senza aver prima interrogati i proprii Governi (2). Ben tosto l'ambasciatore francese a Torino si porlo dal ministro degli affari esteri perché volesse disapprovare la protesta del barone Tecco, appoggiando la sua domanda sulla dichiarazione fatta dai Gabinetti di Londra e di Parigi che la Sardegna verrebbe chiamata a partecipare alle sole conferenze, nelle quali i suoi interessi fossero direttamente impegnati il ministro Cibrario, rifiutato che ebbe d'assentire, entrò in queste dignitose e savie parole: - Signor duca, m'è impossibile di accettare il principio annunziatomi, e le conseguenze che se ne vogliono ricavare. Nelle conferenze tenute a Costantinopoli si ò trattato di cose, alle quali la Sardegna nò può né vuole rimanere estranea, sia per ragioni politiche, sia per ragioni commerciali. Essa prima di tutto deve annettere la massima importanza su tutto ciò che si rapporta al futuro politico organamento dei Principati danubiani. Resta in effetto a vedere se si vorrà creare uno stato autonomo e abbastanza forte per isfuggirc a ogni

(1) Nola Tecco, Pera 12 gennaio 1856.

(2) Lettera Thouvenel al barone Tecco, Pera 16 gennaio 1856.

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influsso straniero, oppure se si ha l'intenzione di sostituire al protettorato russo il protettorato dell'Austria, aumentandone in tal maniera la potenza di già così minacciosa alle libertà del Piemonte, e ostile all'indipendenza dei piccoli Stati della penisola. Inoltre tutto ciò che concerne la libera navigazione del Danubio, è d'interesse diretto e vitale per il nostro commercio, che in quelle contrade proporzionatamente è più vistoso di quello che vi tiene la Francia. Il posto della Sardegna nelle conferenze per la pace si trova determinato dalla natura delle questioni che vi si debbono trattare, e le quali tutte riguardano assai da vicino i suoi più cari interessi. Il paese rimarrebbe profondamente ferito se, dopo tanti sforzi sopportati così nobilmente, i nostri alleati ci contrastassero o volessero mercanteggiar l'onore di cooperare liberamente e senza restrizioni di sorta all'opera della pace. Il nostro diritto è sacro, e sorge dal fatto stesso della nostra alleanza, fortificato dal sangue che abbiamo versato per la causa comune (3). - Il duca di Gramont non insistette di più, ma alcuni giorni dopo si presentò di nuovo dal ministro sopra gli affari esteri per comunicargli un dispaccio del conte Walewsky relativo al posto che i plenipotenziari sardi avrebbero occupato nelle conferenze. Il dispaccio del ministro francese sugli affari esteri era scritto nei termini più benevoli, ma dichiarava che, tenuto conto dei precedenti di altri Congressi, e in vista dello stato attuale delle relazioni politiche, si reputava che fosse pericoloso lo stabilire in massima l'egualità perfetta tra i Potentati maggiori e gli Stati di sccond'ordine. Ma se non si credeva di proclamare un principio nuovo, la Sardegna volesse

(3) Dispaccio confidenziale Cibrario a Villamarina in Parigi e ad Azeglio in Londra, Torino 1 febbraio 1856.

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ben rimanere persuasa che i suoi plenipotenziari verrebbero accolti e trattati co' più squisiti riguardi, e che si avrebbero le maggiori cure perché essi si trovassero nel Congresso in condizioni onorevoli e soddisfacenti. Nulla si sarebbe trascurato per testimoniare in ogni circostanza Talla considerazione nella quale si tenea il Piemonte, che si voleva trattare non solo da buon alleato, ma da buon amico. Cibrario rispose: - Siamo grati ai sentimenti di stima e di amicizia, manifestatici dal Governo dell'imperatore. Noi non domandiamo una dichiarazione solenne di principio, ma crediamo, parlando praticamente, d'avere un interesse reale e diretto in tutte le questioni che, dietro le basi convenute, si dovranno discutere nelle conferenze.

I nostri plenipotenziari si porteranno al Congresso, fidenti nell'amicizia de' nostri alleati, e persuasi che coll'ammetterli senza restrizioni di sorta a tutte le discussioni la Francia e l'Inghilterra vorranno testificare degnamente il prezzo che annettono ai nostri sacrifizi, e i riguardi che ai loro orchi meritano l'onore e gli interessi della Sardegna. Ma se, al contrario di tuttociò che abbiamo ragion di sperare e di attendere, nelle conferenze le cose non dovessero procedere in modo convenevole alla dignità della corona del nostro re, non debbo dissimulare fin d'ora che i nostri plenipotenziari avrebber l'ordine di protestare e di abbandonare il Congresso (4). - Mentre che dal lato del Gabinetto di Parigi, rimanendo appena diciassette giorni d'intervallo dall'apertura solenne delle conferenze, i richiami della Sardegna non avevano per anco assicurato a' suoi plenipotenziari il grado d'autorità richiesto nel Congresso, la cosa aveva

(4) Dispaccio confidenziale Cibrario a Villamarina in Parigi, Turino 9 febbraio 1856.

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preso una miglior piega dal lato del Gabinetto di Londra.

Dietro i modi co' quali Napoleone III aveva condotto la questione d'Oriente in tutte le sue vicende, la Francia era pervenuta di nuovo all'apogeo della sua potenza politica e militare. I trattati del 1815, sì gravi alla nazione francese, rimanevano in parte infranti. La Santa Alleanza trovavasi disciolta, e dopo l'anno 181 per la prima volta le due maggiori Potenze tedesche si erano rinvenute discordi dalla Russia in una grande questione europea. L'orgogliosa e paventata Potenza moscovita era stata vinta e respinta nelle sue ambizioni secolari. L'onore delle armi francesi era stato largamente redento ne' campi della Tauride dei disastri sofferti al tempo del primo Impero.

Ma la Russia rimaneva debitrice alla Francia di non venire assalita e oppressa nel Baltico dall'Inghilterra. La quale in Crimea, scaduta di riputazione militare al paragone del valore e del senno francese, trovavasi costretta ad assentire alla pace, e lasciar perdere per sé una opportunità di predominio marittimo che difficilmente poteva sorgere di nuovo. Questo stato di cose, nel quale il Gabinetto di Londra sentiva la sua debolezza di fronte alla prevalenza francese, lo conduceva a cercar il modo d'ingagliardire la propria azione diplomatica nel prossimo Congresso. E poiché a questo fine giovava di gratificarsi la Sardegna, i ministri inglesi lasciarono intendere che s'impegnerebbero a procurarle il grado d'autorità richiesto (5).

Promisero inoltre d'intavolare nel Congresso la questione italiana.

L'incarico di recarsi in Parigi ministro e primo oratore per il Piemonte era stato offerto a Massimo D'Azeglio, che avevalo accettato sotto la clausola di non trovarsi in condizione inferiore a quella dei plenipotenziari delle maggiori Potenze.

(5) Dispacci confidenziali Azeglio, Londra 17 e 28 gennaio 1856.

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Non essendosi ciò potuto accertare, egli rimase irremovibile nella fatta dichiarazione: perciò il conte Cavour si sobbarcò all'ingrato incarico di portarsi al Congresso, onde col marchese Salvatore Pes di Villamarina rappresentarvi il Governo del re. Egli non aveva alcun presentimento dei vantaggi, che l'opera sua sagace, coraggiosa e sapiente doveva ricavare dal Congresso; onde visi conduceva coll'animo abbattuto, chiuso a ogni grande speranza, tormentato dal dubbio d'avere fallita la strada. La sua parola bensì si conservava dignitosa e calma, ma fuor dell'usato si manifestava trista e sconfortata. Addì 16 febbraio 1856 egli scriveva: - Noi chiederemo d'essere introdotti a trattare tutte le grandi questioni; ma se la nostra domanda non fosse a pieno soddisfatta, purché il diniego ci venga dato sotto le forme più benevoli, converrà rassegnarci. Ma se per tutto ciò che si riferisce all'impero ottomano, alla libertà della navigazione sul Mar Nero, alla limitazione della preponderanza russa, al predominio dell'Austria sul Danubio, si avesse la pretensione di contrastarci questo diritto, noi prenderemo atto della malevoglienza de' nostri alleati, ci rifiuteremo a qualsiasi discussione, e protesteremo. I plenipotenziari sardi non possono sperare di tener un posto luminoso in un Congresso dominato dallo spirito austriaco; essi debbono subire le conseguenze di una guerra, che non è durata a sufficienza; ma debbono comportarsi in modo da poter esclamare nell'uscirne: Tutto e perduto fuor dell'onore. - E poiché queste parole erano scritte a Villamarina, allora legato sardo in Parigi, Cavour soggiungeva: - Dopo questa missione io rimarrò sepolto politicamente. Sono ben soddisfatto di porre termino alla mia corriera diplomatica vicino a voi, persuaso che ne' miei ultimi momenti m'assisterete con l'affezione,

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della quale mi avete dato tante prove (6). - Le istruzioni consegnate dal ministro degli affari esteri ai plenipotenziari sardi prescrivevano loro di attenersi alle seguenti norme: - Era credibile che essi fosscr ammessi a intervenire in tutte le discussioni, nelle quali si trovassero impegnati gli interessi diretti o indiretti della Sardegna: ove ciò non si facesse, essi dovevano abbandonare il Congresso, dopo aver protestato. Intorno alle questioni commerciali, non si credeva utile di dare istruzioni dettagliate, da che il primo plenipotenziario n'era profondo conoscitore, e per la sua qualità di ministro del re per l'agricoltura e il commercio conosceva l'importanza dei traffichi della Sardegna sul Mar Nero, su quello d'Azow e sul Danubio. Il nucleo delle questioni politiche era riposto nel principio dell'equilibrio europeo, a difesa del quale le Potenze occidentali erano entrate in guerra.

Ma poteva tornar possibile di parlare in un Congresso d'equilibrio europeo senza parlare dell'Italia? Ov'essa fosse lasciata nelle condizioni in cui si trovava, non era sperabile di assodar la pace in Europa. Se i sacrifizi fatti dalla Sardegna non producessero altro effetto ali infuori di quello d'ingagliardire la preponderanza austriaca in Oriente; se l'Austria, senza aver preso parte alla guerra, e mantenendosi in un contegno più che dubbioso, continuerà in Italia nella sua politica aggressiva, ne' suoi interventi armati, nelle sue prepotenze verso il Piemonte; se il papa e il re di Napoli potranno continuare impunemente a governare con modi contrari alla giustizia e ai diritti della nazione; se tutto ciò si dovrà considerare come la conseguenza d'una guerra, dalla quale speravansi risultati cotanto felici;

(6) Lettera Cavour al marchese Villamarina, Torino 16 febbraio 1856.

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la parte rivoluzionaria prenderà il dissopra, e noi saremo condannali a deplorare disordini più gravi per avventura dei trascorsi.

I plenipotenziari dovevano aver cura di dar corso a siffatte osservazioni ogniqualvolta si presentasse il destro di farlo con buon successo. Ove l'Inghilterra avesse mantenuta la fatta promessa di porre in campo la questione italiana nel Congresso; ove l'imperatore non si fosse lasciato ritenere da ostacoli sormontabili a praticare per l'Italia i buoni uffizi promessi; era credibilmente sperabile che gli sforzi degli oratori sardi per giovare alle perturbate cose della nazione non sarebber rimasti compiutamente infruttuosi (7). -

II.

Cavour giunse a Parigi addi 21 febbraio 1856. La questione dell'ammessione degli oratori sardi al Congresso senza scapito di grado e di autorità era stata pressoché risoluta dapprima in modo favorevole,

per le cure zelanti e sagaci del marchese Villamarina e del generale La Marmora.

Il conte la terminò in breve, e dietro questo primo risultato felice egli tornò all'usata gaiezza. Ben tosto i suoi modi franchi e aperti di perfetto gentiluomo, di favellatore dotto, vivace e arguto, lo misero in facili e cordiali relazioni con i plenipotenziari dell'Inghilterra, della Russia, della Prussia e della Turchia. Fra il conte di Cavour e il conte Walewski gli accostamenti non si fecero mai confidenziali; l'uno nutriva per l'altro una

(7) Istruzioni del ministro Cibrario al conte di Cavour e al marchese di Villamarina plenipotenziario della Sardegna alle Conferenze di Parigi, Torino 8 febbraio 1856.

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marcata ripugnanza, originata massime dal modo discorde di vedere e di giudicare le scomposte cose d'Italia; onde, quando il primo plenipotenziario sardo lasciò Parigi, il ministro imperiale sugli affari esteri ebbe a dire all'incaricato d'affari della Toscana: - II conte Cavour ci ha suscitato imbarazzi al di là del bisogno. So che egli non è contento di me come di Clarendon; e me ne felicito (8). - Il primo plenipotenziario sardo non si era mostrato ne suoi dispacci più benevolo verso il conte Walewski. Questo contraggenio, che per istrano contrasto venne aumentandosi di mano in mano che si fecer più intime le relazioni tra la Francia e il Piemonte, vuolsi sin d'ora avvertire, da che è un fatto non trascurabile per avere servilo d'utile paratoio alla politica personale di Napoleone nel condurre a maturità la questione italiana d'accordo col conte di Cavour frammezzo a spinosissime difficoltà.

Ma per tornare alle cose del Congresso di Parigi, vi convennero a negoziar la pace plenipotenziari per la Francia il conte Alessandro, Walewski e il barone Francesco Adolfo Bourquenev, per l'Inghilterra lord Clarendon e lord Cowley, per la Prussia il barone di Manteuffel e il conte Hatzfeldt, per la Russia il conte Orioli e il barone di Brunnow, per la Turchia Alv Pascià Granvisir e Djemil bev, per la Sardegna il conte Camillo Cavour e il marchese Salvatore Pes di Villamarina, per l'Austria il conte Buol e il barone Hubner. Il primo di questi due ultimi plenipotenziari nel 188 si era trovato ambasciatore in Torino, e di proprio avviso aveva preso l'iniziativa di rompere le relazioni diplomatiche tra l'Austria e la Sardegna; onde in compenso il principe

(8) Dispaccio confidenziale Nerli, Parigi 19 aprile 1856.

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di Scwarzcnberg avealo nominato ministro plenipotenziario presso la Corte di Pietroburgo, Il barone Hubner erasi pure trovato in Italia alla scoppio della guerra nazionale del 1848: fatto prigioniero in Milano ove dirigeva la cancelleria diplomatica del viceré, vi era stato ritenuto per alcuni mesi come ostaggio. Agli ingrati ricordi del passato accoppiavasi nell'uno e nell'altro una avversione che si accostava all'odio verso il Piemonte costituzionale.

Dietro la proposta del conte Buol la presidenza del Congresso fu assegnata al Walewski. A sbrigar meglio il lavoro, venne stabilito che i cinque punti stipulali nel protocollo sottoscritto in Vienna addì 1° febbraio dovessero tenersi in conto di preliminari di pace. La maggior pietra d'inciampo stava nel regolare la neutralità del Mar Nero, da che dentro un seno di esso sulla riviera del Burg s'ergeva tuttavia formidabile la stazione marittima di Nicolaief. Ma di comune accordo fu smossa coll'assentire da una parte che quelle moli non venissero disfatte, e col promettere dall'altra parte che non vi si costruirebbero più grossi navigli da guerra. Quando si venne a deliberare se la Moldavia e la Valachia dovessero riunirsi in un solo Stato, si dichiararono di questo avviso i plenipotenziari di Francia, d'Inghilterra, di Russia e di Sardegna; ma in contrario senso favellarono i plenipotenziari di Turchia e d'Austria. Il conte Cavour s'industriò a spuntare la controversia, allegando che la riunione eventuale dei Principati era stata già anteriormente chiesta dai Valachi e dai Moldavi. Ma avendo Aly pascià dichiarato di non avere autorità per seguire la discussione su d'una tal via, e i plenipotenziari austriaci avendo soggiunto che su questa questione mancavano d'istruzioni, essa fu rimessa a ulteriore discussione, rimanendo frattanto convenuto che nel più breve spazio di tempo le

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Potenze contraenti concluderebbero una convenzione speciale sul regime politico e amministrativo dei Principati danubiani, fissandone però primieramente le basi nel testo del trattato di pace. Grave tornò oltremodo ai plenipotenziari russi di veder tolto il protettorato religioso che, più o meno vagamente scritto nel trattato di Kainardji, Io czarismo aveva esercitato con tanto frutto sopra i Greci soggetti alla Turchia. E dappoiché si trattava d'assicurare l'impero ottomano contr'ogni invasione od usurpazione avvenire, così si venne in sul discutere i modi d'ammetterlo nel diritto e nel concerto europeo, e di meglio regolarne eziandio le relazioni commerciali colle altre Potenze. Cavour, addentratosi con maestrevole discorso in tale argomento, mostrò che nessuna nazione aveva legislazione commerciale più larga della Turchia, e che l'anarchia che regnava nei rapporti degli stranieri soggiornanti nell'impero ottomano dipendevano da stipulazioni sorte da eccezionali condizioni di cose (9).

III.

Intanto s'approssimava il giorno della segnatura solenne del trattato di pace, e nel Congresso non solo nulla si era fatto, ma neanco nulla erasi detto dell'Italia. La speranza di giungere a uno scambio amichevole di territorii vantaggioso al Piemonte era svanita, dopo che il progetto posto innanzi da Napoleone d'aggregare alla Sardegna i ducati di Parma e di Piacenza avevano scontrato l'indeclinabile opposizione del

(9) Protocollo N° XIV, seduta del 23 marzo 1856.

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l'Austria (10). Aveva naufragato, del pari dietro le protestazioni calorosissime del nunzio, l'altra proposta dell'imperatore di far subentrare ai presidii francese e austriaco nello Stato pontificio la legione anglo-svizzera, costituita di recente per la guerra contro la Russia (11).

Rispetto al re di Napoli, Napoleone, che per gli occulti suoi disegni futuri voleva tirare a sé l'amicizia della Russia al tutto benevola a Ferdinando II, intendeva che le rimostranze che gli si dovevano fare, si ristringessero a indurlo a concedere un'amnistia politica (12).

Cavour aveva cercato che questo concetto s'allargasse a tutti gli Stati italiani, e per attuarlo aveva sollecitata per iscritto la cooperazione di lord Clarendon (13): ma la sua proposta era svanita dietro l'arcigno viso fattole dai plenipotenziari austriaci al primo sentore avutone. Intanto i maneggi per togliere al Piemonte il patrocinio di Napoleone fervevano, e si appigliavano a tutto. Persino con maligna scaltrezza si ponevano sott'occhio all'imperatore le sconcezze, le intemperanze, i vituperi, che a suo riguardo o sulla famiglia imperiale andavano pubblicando volgari diarii di Genova e di Torino (14). La grave questione dei sequestri, anzi che volgere a un onorevole scioglimento per la Sardegna, si era maggiormente inciprignita. Il Gabinetto di Vienna aveva cercato di porre un termine alle sollecitazioni dei Governi di Parigi e di Londra, appigliandosi a una risoluzione, la quale ricalcava l'offesa fatta in tal riguardo dall'Austria al Governo

(10) Dispaccio Cibrario al conte Cavour, Torino 26 febbraio 1856. - Lettera Cavour, Parigi 17 marzo 1856.

(11) Dispaccio in cifra Cavour ad Urbano Rattazzi, 22 febbraio 1856.

(12) Dispaccio in cifra Cavour, Parigi 19 febbraio 1856. - Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 20 febbraio 1856.

(13) Dispaccio Cavour, Parigi 31 marzo 1856.

(14) Lettera Cavour a Michelangelo Castelli, Parigi 27 marzo 1856.

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del re, onde il ministro Cibrario erasi trovato nel dovere di far rimostranze severe e dignitose all'incaricato d'affari austriaco in Torino (15). - Dietro un tal ordine di fatti non rimaneva più aperto il campo a larghe speranze. Ma dappoiché Napoleone e il ministero inglese aveano promesso che in qualche tornata del Congresso verrebbe messa in campo la questione italiana, i plenipotenziari della Sardegna vollero darvi una spinta poderosa, presentando ai ministri di Francia e d'Inghilterra un memoriale, col quale proponevano i modi più opportuni di condurre a ragionevole assestamento le cose della Romagna e delle Legazioni pontificie.

Essi dicevano: - Le Legazioni sono occupate dai soldati austriaci dal 189. Lo stato d'assedio e la legge marziale vi perdurano da quel tempo senza interruzione. II Governo pontificio non vi esiste che di nome, perché al di sopra de' suoi legati comanda un generale austriaco con autorità di governatore civile e militare. I fatti, tali quali si presentano, denunziano quindi il dominio austriaco in Italia esteso al di là dei limiti assegnatogli dai trattati del 1815, e l'impotenza del sovrano legittimo a governare un paese abbondantemente fornito di elementi conservatori. In queste provincie tutte le tradizioni, tutte le simpatie si riattaccano al Governo di Napoleone I, dacché sotto il suo regno esse in brevi anni raggiunsero un florido stato d'incivilimento. Il Governo pontificio alla sua ristaurazione non tenne verun conto del progresso delle idee e dei profondi cangiamenti che il regime francese aveva introdotto in questa parte de' suoi Stati. Da ciò una lotta tra il Governo e i sudditi divenne inevitabile, ed ha perdurato sino al presente.

La necessità di togliere questo scandalo per l'Europa,

(15) Dispaccio confidenziale Cibrario al conte di Cavour in Parigi, Torino 7 marzo 1836.

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e quest'immenso ostacolo alla permanente tranquillità dell'Europa, fu sentita potentemente dalle Potenze; ma i loro consigli sono venuti a infrangersi contro ostacoli insormontabili. Se vi ha un fatto che risulta chiaramente dalla storia di questi ultimi anni, è l'impossibilità di una riforma del Governo pontificio, che risponda a' bisogni del tempo e ai voti ragionevoli della popolazione. Ma se non si può sperare d'introdurre una vera riforma in Roma, ove i congegni dell'autorità temporale sono di ial guisa intrecciati con quelli della podestà spirituale, che non sarebbe dato di disgiungerli compiutamente senza correre pericolo di spezzarli, si può almeno provvedere per quella parte dello Stato pontificio che si mostra men rassegnata al giogo clericale, che è fomite perenne di turbolenza e di anarchia, che fornisce pretesto all'occupazione permanente dell'Austria, che suscita complicazioni diplomatiche e perturba l'equilibrio europeo. Per conseguire questo fine converrebbe formare un Principato apostolico sotto l'alta sovranità del Sommo Pontefice con leggi proprie, tribunali, finanza, esercito delle provincie dello stato romano situate tra il Po e l'Adriatico e gli Appennini dalla provincia d'Ancona sin a quella di Ferrara. Un vicario laico eletto dal papa per dieci anni governerebbe queste provincie, coll'assistenza di ministri e di un Consiglio di stato nominati dal vicario; oltre i Consigli comunali e provinciali un Consiglio generale delibererebbe le imposte, stanzierebbe e sindicherebbe le spese. La podestà legislativa ed esecutiva di questo Principato apostolico non potrebbe estendersi mai alle materie religiose, nò alle materie miste, che si dovrebbero preventivamente determinare, né inGne a checchessia di ciò che toccasse alle relazioni politiche internazionali. Il nuovo stato contribuirebbe raggungliatamente al mantenimento della Corte di Roma e allo aggravio del debito pubblico incorso.

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E in breve andar di tempo i soldati austriaci lascierebbero le Legazioni e le Marche, i Francesi Roma, alla custodia della quale non che delle altre provincie immediatamente soggette al papa provvederebbero gli svizzeri mercenari e le milizie paesane. I Francesi, prima di lasciare del tutto lo Stato pontificio, dovevano fermarsi nel Principato per un tempo prestabilito strettamentenecessario alla levata e all'ordinamento delle armi nazionali (16). - I plenipotenziari inglesi, che a bocca avevano anteriormente approvato questo disegno (17), vi diedero per iscritto ii proprio assenso impegnandosi di appoggiarlo nel Congresso (18). In quanto a Napoleone, Cavour si era accorto d'averglielo riproposto in mal punto. L'imperatore non voleva disgustar di troppo il papa, il quale in quei giorni tenevagli a battesimo il primogenito (19). Walewski pertanto, accettando in massima le proposte dei plenipotenziari sardi, fece un'ampia riserva per la loro applicazione. Ma si può conghietturare che in realtà Cavour non nutriva alcuna fiducia di vedere il Congresso metter davvero la mano a un cosi radicale rimescolamento di cose nello Stato pontificio: nulIadimeno tornavagli utile d'averlo proposto come impulso gagliardo per suscitare nelle conferenze la questione assai delicata degli interventi austriaci negli Stati indipendenti della penisola, e come primo addentellato a future pratiche diplomatiche in ordine alla sovranità temporale dei papi. Inoltre col memoriale, pel quale il Piemonte si

(16) Nota verbale dei plenipotenziari sardi ai ministri di Francia e d'Inghilterra, Parigi 27 marzo 1856.

(17) Lettera Cavour a. Rattazzi, 12 marzo 1856.

(18) Nota Clarendon, Parigi 3 aprile 1856.

(19) Lettera Cavour n Rattazzi. Parigi M marzo 1850.

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faceva patrocinatore di popoli italiani oppressi, il conte poneva una pietra angolare all'effettiva egemonia subalpina sulle cose italiane, e si metteva in serbo una valida leva a commovere, nel senso eh' ei voleva, le passioni politiche per tutta la penisola.

Il trattato di pace e le convenzioni particolari che vi erano annesse, furono definitivamente sottoscritti il 30 marzo. Degli accordi stabiliti i più notevoli erano la pace perpetua proclamata fra i Sovrani alleati e lo czar delle Russie, la Sublime Porta ammessa a partecipare dei vantaggi del diritto pubblico e del concorso europeo, la guarentigia comune dell'integrità dell'impero ottomano, le migliorie accordate dal sultano ai sudditi cristiani, la convenzione relativa alla chiusura del Bosforo e dei Dardanelli riveduta di comune accordo, la neutralità del Mar Nero, chiuso alle navi da guerra, aperto a tutte le navi mercantili di qualsiasi nazione, le franchigie e l'indipendenza della Servia confermate, la revisione degli statuti e il riordinamento definitivo dei principati di Valachia e di Moldavia commessi al voto delle popolazioni dotate d'un esercito nazionale per la difesa del territorio, la libertà della navigazione del Danubio resa parte integrale del diritto pubblico dell'Europa. Lo czar acconsentiva inoltre alla rettificazione della sua frontiera in Bessarabia: la novella frontiera doveva partire dal Mar Nero ad un chilometro a levante del lago BournaSoh, raggiungere perpendicolarmente la strada di Akemann, seguire questa strada sino al Vallo Trajano, passare ad ostro di Bolgrad, risalire lungo la riviera d'Inspruck sino all'altura di Lavatisika, e andar a terminare a Katamovi sul Pruth.

Gravi saranno le controversie che si svegleranno come si verrà a fissare questa nuova frontiera ne' suoi particolari; e vedremo la Sardegna in troni metter visi con veste pressoché di mediatrice per appianare difficoltà spinose

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onde periclitava l'alleanza della Francia coll'Inghilterra. Sottoscritto che fu il trattato da tutti i plenipotenziari, il conte Cavour chiese che si volesse levar in breve il blocco decretato dagli Occidentali durante la guerra.

Questa proposta tornò assai gradita ai plenipotenziari russi, e Clarendon assicurò che tosto la raccomanderebbe al suo Governo (20). Ma il primo plenipotenziario sardo portava pur sempre in cuore una spina pungente. Nel Congresso non si era per anco trattato delle cose italiane, ed egli andava dicendo e ripetendo che, ove si volesse rimanere in silenzio assoluto intorno alle medesime, andrebbe perduta irreparabilmente ogni fiducia negli Italiani verso l'azione diplomatica della Francia e dell'Inghilterra, la loro noncuranza verrebbe valutata come una tacita sanzione alle usurpazioni austriache negli Stati indipendenti della penisola, e che ove non apparisse più altro spiraglio di salute, serpeggierebbero di nuovo in Italia poderose le macchinazioni rivoluzionarie.

Queste quotidiane sollecitazioni non rimasero infruttuose: Napoleone ordinò al conte Walewski d'introdurre la questione italiana nella conferenza dell'8 aprile.

La storia contemporanea ha dei doveri, a quali deve tanto più ottemperare, in quanto che non le impediscono di mettere in luce il vero, ma solo d'entrare nella narrazione di particolari, che non sono la sostanza dei fatti.

Questo vuolsi avvertire dovendo proceder cauti intorno ai minuti ragguagli nel raccontar le cose che si passarono in quella memorabile conferenza, nella quale i plenipotenziari presero impegni di segretezza (21).

Primo a parlare fu il conte Walewski.

(20) Dispaccio Cavour, Parigi 29 marzo 1856.

(21) Il conte Cavour, in un lunghissimo dispaccio diretto al ministro Cibrario, riferì minutamente questa seduta del Congresso.

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In sostanza egli disse: - La Grecia è in condizioni deplorabili, e converrebbe che il Congresso volesse manifestare il desiderio di vedere le tre Corti protettrici di quel reame prendere in esame i modi di migliorarle onde sradicarvi i mali, al riparo dei quali le due grandi Potenze d'Occidente si erano trovate astrette ad intervenire in armi. Similmente era a desiderare nell'interesse dell'ordine europeo di vedere il Governo pontificio consolidarsi in modo forte e stabile, da permettere lo sgombro delle milizie forestiere dagli Stati della Chiesa senza incorrere perciò nei pericoli di nuove commozioni. A raffreddare poi nell'Italia l'ardore delle passioni rivoluzionarie, era cosa al tutto desiderabile che certi Governi della penisola chiamassero a sé per atti di ben accomodata clemenza gli animi traviati e non pervertiti, e smettessero un sistema, il quale andava direttamente contro il fine a cui era indirizzato, da che, invece di colpire i nemici dell'ordine, generava indebolimento ai Governi, e procurava partigiani alla demagogia. Il Governo napoletano avere un avviamento falso; e sarebbe un gran servizio resogli di ammonirlo. I benevoli avvertimenti movendo dalle Potenze rappresentate nel Congresso, non potrebbero tornare sospetti o ingrati al Gabinetto di Napoli. - Poi delle cose italiane balzando a quelle del Belgio, il primo plenipotenziario francese aggiunse: - L'unico desiderio del Governo dell'imperatore è di conservare i migliori rapporti col Gabinetto di Brusselle. Ma disgraziatamente esso si trova nell'impossibilità, dietro le leggi del paese, di reprimere gli eccessi della stampa; onde molto gioverebbero i consigli dei rappresentanti de' maggiori stati europei per animarlo a modificare la legge sulla stampa in modo da correggerne la soverchia franchigia. In tal guisa soltanto il Governo belga può evitare difficoltà internazionali e pericoli, che potrebbero essergli di nocumento gravissimo.

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- Per ultimo Walewski domandò che il Congresso volesse coronar l'opera sua col determinare le basi del nuovo diritto marittimo in tempo di guerra per quattro capi, cioè l'abolizione delle patenti ai corsari; franca la merce dei neutrali sotto bandiera amica, eccetto il contrabbando di guerra; franca la merce del nemico sotto bandiera neutrale; i blocchi resi obbligatori soltanto quando fossero effettivi (22).

Il primo plenipotenziario francese s'era mostrato manifestamente perplesso nel favellare del Governo pontificio; ma in quanto alle cose di Napoli, vi si era addentrato con aspra censura. Con maggior vivacità di parola entrò in campo Clarendon, il quale qualificò il Governo pontificio come il peggiore di tutti, e più aggravò la sua condanna sul Governo napoletano (23J. Sugli interventi stranieri negli Stati d'Italia, pur volendo ammetterli legittimi, il primo plenipotenziario inglese notò che non appariva men evidente la necessità di farli cessare, da che conservandoli si perpetuava un sistema che scemava credilo ai Governi, e aggravava i popoli senza che si togliessero le giuste cause di malcontento. - Secondo il mio parere, riprese Clarendon, a portare qualche sollievo alle condizioni infelicissime dello Stato pontificio e alla medesima sovranità del Pontefice, converrebbe raccomandargli di mutare il governo di ecclesiastico in laicale almeno nelle Legazioni, con ordini amministrativi e giudiziari separati, e con milizie paesane. Che se, a veder mio, il principio del non intervento negli affari interiori degli Stati indipendenti è un principio degno di rispetto per parte dì qualunquesiasi Governo, tuttavia l'eccezione a questa regola in alcuni casi determinati è

(22) Protocollo N° XXII , seduta dell'8 aprile 1856.

(23) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 10 aprile 1856.

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un dovere e un diritto. Il Governo napoletano per l'appunto ha conferito questo diritto, ha imposto questo dovere all'Europa. E poiché i Governi rappresentati nel Congresso sono tutti concordemente vogliosi di difendere il principio monarchico, e di osteggiare le rivoluzioni, essi debbono alzare la loro voce contro un sistema che alimenta nel seno delle moltitudini, anzi che maneggiarsi a spegnerle, le passioni rivoluzionarie. Noi vogliamo che non venga turbata la tranquillità dell'Europa; ma poiché non è possibile pace alcuna senza giustizia, è nostro dovere di far giungere al re di Napoli il voto del Congresso per il miglioramento de' suoi ordini governativi, e per chiedergli un'amnistia pei prigionieri politici. - L'oratore inglese pose fine al suo dire biasimando sì le sregolatezze della stampa nel Belgio, ma non assentendo a suffragare qualsi fosse coartazione. Approvò di lieto animo le proposte basi al nuovo diritto marittimo, purché ne rimanessero svincolati gli Stati cui non garbassero, I plenipotenziari russi, che volevano vedere scartata la proposta di Walewski sulla Grecia, che per gli intimi legami che passavano tra le Corti di Pietroburgo e di Napoli erano ritenuti dall'aggravare la mano sul Governo di Ferdinando II, e che inoltre dovevano usare speciali riguardi verso la Corte pontificia, colla quale la cancelleria russa aveva in corso delicate pratiche diplomatiche relative al concordato del 3 agosto 187, schermironsi di prender parte alla discussione, dichiarando di non avere mandato oltre gli accordi di pace.

II primo plenipotenziario austriaco si appigliò pure all'argomento, in realtà fondato, di non avere istruzioni né poteri per trattare la questione italiana, da che il Governo imperiale non n'era stato prevenuto prima dell'apertura del Congresso. Il conte Buol aggiunse, che sarebbegli del pari impossibile di fatto d'entrare a discutere le condizioni interiori

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di Stati indipendenti che non avevano rappresentanti al Congresso; e per le stesse ragioni, notò, si doveva astenere dal porgere schiarimenti sulla occupazione militare delle Marche e della Romagna.

A superare questo malizioso intoppo, Walewski osservò che non si trattava di prendere risoluzioni definitive o impegni formali, e che molto meno si era messa innanzi la proposta di mischiarsi direttamente negli affari interiori dei Governi rappresentati o non rappresentati nel Congresso. La cosa sola che si desiderava di fare, era quella di consolidare e di perfezionar l'opera della pace restaurata col rimediare preventivamente a quelle complicazioni che tuttavia perduravano, o sia per l'indefinito e non abbastanza giustificato prolungamento d'alcune occupazioni straniere negli Stati altrui, oppure per un sistema inopportuno ed impolitico di rigori governativi.

Queste osservazioni non ebbero alcuna forza sull'animo dei plenipotenziari austriaci: Hubner rispose arrongantemente che l'Austria richiamerebbe i suoi soldati dalle Legazioni, tostochè lo giudicasse opportuno.

Il barone di Manteuffel dichiarò che, anche privo come era d'istruzioni analoghe, tuttavia non rimarrebbe silenzioso. Egli assentiva ai principii proposti del nuovo diritto marittimo in tempo di guerra, e faceva adesione alla proposta del presidente del Consiglio di concertarsi sui modi d'infrenare la stampa sovversiva; ma avrebbe desiderato di vedere eziandio intavolata la questione del principato di Neuchatel, ove, in onta ai trattati, era disconosciuta l'autorità del re di Prussia. Non credeva poi di dover esaminare le condizioni dello Stato pontificio, e si restringeva ad esprimere il desiderio che il Governo romano fosse posto in grado di fare a meno delle armi straniere. In ordine alle pratiche per vantaggiare la tranquillità interiore del reame delle Due Sicilie,


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il primo plenipotenziario prussiano manifestò il dubbio che esse per avventura sortissero l'effetto d'eccitare la febbre rivoluzionaria.

Il primo plenipotenziario sardo esordì molto abilmente col riconoscere incontestabile il diritto di ciascun plenipotenziario di non discutere questioni non previste nelle istruzioni ricevute. Ma soggiunse: - Tuttavia opino che si debba registrare nel protocollo del Congresso, come cosa importantissima, l'avviso manifestato da alcune Potenze sulla occupazione degli Stati romani. Per parte degli Austriaci essa dura da sette anni, e vi piglia vieppiù carattere permanente. Perdurano pure le cagioni che la produssero, e le condizioni dei paesi occupati non sono migliorate per nulla. All'occupazione austriaca nelle Legazioni va congiunta quella del ducato di Parma; onde rimane distrutto l'equilibrio politico tra gli Stati italiani, e la Sardegna si trova quotidianamente minacciata. I plenipotenziari sardi si trovano pertanto nel debito di segnalare all'attenzione dell'Europa uno stato di cose tanto anormale, come quello che risulta dalla occupazione indefinita dei soldati austriaci di una gran parte dell'Italia. - Intorno alla questione di Napoli il conte di Cavour s'aggiunse pienamente alle dichiarazioni fatte da Walewski e da Clarendon, avvisando che importava al più alto grado di suggerire temperamenti valevoli a calmare in quel reame le passioni onde si renderebbe meno scabroso il procedere regolare delle cose anche negli altri Stati della penisola.

I plenipotenziari austriaci, che si dichiaravano non autorizzati a entrare in discussioni dirette a mettere io tranquillo le cose d'Italia, trovarono buono di favellare alto e iroso in risposta al discorso temperantissimo del primo plenipotenziario sardo. - Egli, disse il barone Hubner. ha favellato dell'occupazione austriaca;

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ma è rimasto silenzioso sullo stanziamento dello armi francesi negli Stati romani: pure le due occupazioni vennero fatte al medesimo tempo e per lo stesso fine. L'argomento addotto dal conte di Cavour relativamente alla continuazione dello stato d'assedio in Bologna, non è di qualche valore, da che, se quel regime eccezionale è tuttavia necessario mentre da lungo tempo è cessato in Roma e in Ancona, tutt'al più si può concludere che le condizioni politiche di queste due città sono assai meglio soddisfacenti di quelle di Bologna. Ma, oltre gli Stati della Chiesa, sono in Italia altri Stati presidiati da truppe straniere. La Sardegna da otto anni occupa i Comuni di Mentone e di Roccabruna, appartenenti al principe di Monaco: tra le due occupazioni non avvi che una sola differenza, ed è questa, che gli Austriaci e i Francesi furono chiamati dal sovrano del paese, intanto che le truppe sarde invasero il territorio del principato di Monaco in contraddizione alla volontà di chi lo regge, e vi si acquartierarono a dispetto dei protesti del sovrano del paese. - Cavour rispose ammisurato, che se egli desiderava di vedere cessata l'occupazione francese del pari che l'austriaca, tuttavia non poteva togliersi dal dichiarare che l'uria e l'altra non erano ugualmente pericolose per gli Stati indipendenti della penisola. Uno scarso numero di truppe, collocato a una grande distanza dalla Francia, non era minaccioso per chicchessia. Bensì riusciva argomento di legittima inquietudine il vedere l'Austria stendersi lunghesso l'Adriatico ad Ancona, poggiando su Ferrara e Piacenza, elio essa ringagliardiva di fortilizi in contraddizione allo spirito, se non alla lettera dei trattati di Vienna. Relativamente a Monaco, la Sardegna era pronta a richiamare i cinquanta soldati che occupavano Mentone, purché il principe si ponesse in tali condizioni di riprendervi il governo senza esporsi a gravi pericoli.

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A questo punto il protocollo stampato di quella conferenza ha una lacuna, la quale, se non in tutto, almeno in qualche parte può esser tolta senza commettere indiscretezze, propalando discorsi che i plenipotenziari deliberarono d'accordo di mantenere segreti. Come adunque il conte Cavour ebbe terminato il suo discorso, lord Cowley e lord Clarendon, passati in rassegna le cose dette e udite, si fecero calorosi sostenitori delle proposte fatte dal plenipotenziario sardo per mettere in quiete durevole lo Stato romano.

Il primo plenipotenziario inglese, nel parlare del governo del papa, Io chiamò un'onta per l'Europa, e mosse una vivace interpellanza al conte Buol sulle intenzioni che l'Austria nutriva rispetto alle cose italiane.

N'ebbe una secca e perentoria risposta, per nulla soddisfacevole; onde Clarendon, punto sul vivo, riprese a dire, che se il Gabinetto di Vienna in realtà non intendeva di fare promessa alcuna, gittando in siffatta guisa il guanto di sfida all'Europa liberale, badasse ai casi suoi, da che verrebbe raccolto, e la questione italiana si troverebbe appianata con mezzi più energici e vigorosi di quelli proposti nel Congresso. Buol rispose con vivacità così pungente che, terminata la burrascosa conferenza, Clarendon inviò Cowley da Hubner per dichiarargli che tutta l'Inghilterra rimarrebbe sdegnata dalle parole pronunziate dal primo ministro austriaco, come le avesse conosciute. Ma poi di comune accordo, dietro la proposta del Presidente del Congresso, fu deliberato che dal protocollo della conferenza ventiduesima fosse levato tutto ciò che maggiormente poteva tornare a scredito dei Governi censurati, ai quali ad ogni buon riguardo fu comunicato (24).

(24) Lettere Cavour a Rattazzi, Parigi 11 aprile 1856.

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Walewski chiuse la conferenza dichiarando che la discussione fattasi aveva posto in sodo: 1° che niuno dei plenipotenziari negava la necessità di migliorare le condizioni interiori della Grecia, e che le tre Corti protettrici ne riconoscevano l'urgenza: 2° che i plenipotenziari austriaci si erano associati a quelli di Francia nel manifestare il voto che i presidii stranieri sgombrassero lo stato romano, tosto che si potesse fare senza pericolo della sovranità pontificia; 3° che la maggior parte dei plenipotenziari non avevano punto disconosciuta l'efficacia di un sistema mite e clemente nei Governi italiani, e segnatamente in quello delle Due Sicilie; h° che tutti i congregati erano stati unanimi nel biasimare gli eccessi dei diari del Belgio, e quasi tutti avevano ammessa la necessità di frenarli; 5° che in fine la concorde approvazione alla proposta d'una nuova dichiarazione di principi! sul diritto marittimo, lasciava sperare che i plenipotenziari potrebbero in degno modo coronar l'opera intrapresa col sancirne i canoni prima di separarsi (25).

Il che essi fecero addì 16 d'aprile, con grande vantaggio della progressiva perfezione del diritto europeo. II Congresso di Vestfalia aveva consacrato la libertà di coscienza: il Congresso di Vienna aveva abolita la tratta dei negri, divenuta in principio del secolo decimosesto l'industria infame di tutti gli Stati europei che avevano colonie nell'Americhe: il Congresso di Parigi chiuse i mari alla pirateria, e scancellò dal diritto mercantile marittimo le pretese ingiuste ed oppressive onde i popoli più forti

- Dispacci riservati Nerli al presidente del Consiglio dei ministri in Firenze, Parigi 15 e 19 aprile 1856. - Dispaccio riservatissimo Antonini al ministro degli affari esteri in Napoli, Parigi 3 maggio 1856.

(25) Protocollo della Conferenza XXII, 8 aprile 1856.

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avevano per sì lungo tempo conculcati i diritti più sacri degli Stati più deboli.

Un altro fatto di somma importanza si compi nel Congresso di Parigi. Spetta a lord Clarendon il merito d'averlo iniziato col proporre nella conferenza del 14 aprile che, senza scemare l'indipendenza degli Stati, si allargasse a principio generale di diritto internazionale l'articolo 8 del trattato di pace, onde per qualsiasi controversia tra la Porta ottomana ed alcuna delle Potenze stipulanti si doveva appellarne alla mediazione delle altre. Questa proposta, così confacevole all'indole civile dei tempi e alle tendenze delle nazioni cristiane, fu tosto acconsentita da Walewski sotto la clausola che non s'intendesse vincolala per essa la libertà d'azione ai Governi. Vi aderì pure il primo plenipotenziario della Prussia, il conte Orloff la riconobbe savia, ma si astenne di suffragarla prima d'averne facoltà dal suo Governo. Il conte Buol dichiarò di accettarla, purché non vestisse la forma d'un impegno assoluto, capace di vincolare l'indipendenza del Gabinetto austriaco.

Il primo plenipotenziario sardo, a provocare una dichiarazione contraria al diritto d'intervento armato arrogatosi dall'Austria in Italia, chiese a Clarendon se il il voto che il Congresso era invitato a manifestare, s'intendesse di estenderlo alle intervenzioni armale di una Potenza contro i Governi di fatto. Il plenipotenziario inglese rispose affermativamente; e Walewski aggiunse che, trattandosi di manifestare un voto e nulla più, si poteva accettare la proposta in termini generali. Cavour, nel muovere la sua domanda, aveva accennato all'intervento armato dell'Austria nel regno di Napoli del 1821.

A quella frecciata Buol non si tenne tranquillo. - Il plenipotenziario di Sardegna, egli disse, in un'altra conferenza parlando della occupazione delle Legazioni per parte delle truppe austriache,

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ha dimenticato che altri soldati stranieri sono stati chiamati sul territorio dello Stato pontificio. Oggi parlando dell'intervento austriaco del 1821 nel regno di Napoli, dimentica che era stato deliberato dalle cinque grandi Potenze congregate a Lubiana. Nell'uno e nell'altro caso egli ha attribuito all'Austria il merito d'una iniziativa spontanea, che i suoi plenipotenziari non si arbitrano di assegnarle. L'intervento rammentato dal plenipotenziario della Sardegna ebbe luogo dietro le discussioni intavolatesi nel Congresso di Lubiana, ed entra quindi nell'ordine delle idee manifestale da lord Clarendon. E giacché casi identici potrebber succedere, non mi risolverei mai ad ammettere che un intervento armato dietro l'accordo preventivo delle Cinque grandi Potenze possa divenire argomento dei reclami d'uno Stato di second'ordine. - Accetto il principio,- rispose tranquillamente Cavour, rivolgendosi verso i plenipotenziari inglesi e francesi. Il giorno dopo Clarendon gli disse: - Vi ringrazio dell'osservazione fatta; essa sarà per noi un argomento di più per alzare la nostra voce ogniqualvolta un Governo vorrà intervenire negli affari interiori d'un altro paese. - Buol, conscio per avventura d'aver messo il piede sopra un terreno infuocato, da che conveniva falsar la storia per mantenere all'intervento austriaco del 1821 l'origine assegnatagli, pregò il Consiglio a non sollevare questioni irritanti, che al termine de' suoi lavori turbassero il pieno accordo fin a quel punto mantenuto tra i plenipotenziari.

Si passò pertanto alla deliberazione seguente: I plenipotenziari non esitano ad esprimere, in nome dei loro Governi, il voto che gli Stati, tra i quali si elevi un dissentimento grave, prima di fare appello alle armi, ricorrano per quanto le circostanze lo permettono ai buoni uffizi di una Potenza amica. Essi sperano che i Governi non rappresentati al Congresso

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si associeranno al pensiero che ispirò questo voto (26). - Lode e onore ai diplomatici che lo emisero, da che giova avvertire che tale interposizione è un atto d'indole affatto diversa da quella dell'intervento d'una nazione negli affari domestici d'un altra. Questo è riprovevole, come una intrusione dei più forti negli affari d'una comunità politica indipendente più debole; quello è non solo un atto legittimo in diritto, ma può essere altresì stretto dovere d'una nazione chiamata a esercitarlo per la propria salvezza. Nella mancanza di un tribunale supremo riconosciuto nella vita comune della grande famiglia degli Stati cristiani, sarà sempre una buona ventura che le cause giuste abbiano una via aperta di far rifulgere il proprio diritto prima d'esser costrette di ricorrere alla cieca prova delle armi; e sarà sempre conforme alla civiltà, per quanto sia progredita, che sulla guerra possibilmente predomini Io scioglimento pacifico delle controversie internazionali.

IV.

Nell'uscire dalla conferenza in cui era nato così grosso tafferuglio per le cose d'Italia, Cavour s'era accostato a Clarendon per dirgli: - Milord, voi ben vedete che nulla si può sperare dalla diplomazia. Sarebbe tempo di praticare altri espedienti, massime verso il redi Napoli.

- Sì, rispose il ministro inglese, fa d'uopo attendere alle cose del regno delle Due Sicilie, e ben tosto. - Dietro questa risposta significativa, il conte si portò da (26) Protocollo N. XXIII del Congresso di Parigi. Il plenipotenziario russo, che aveva preso riserva di riferirne alla sua Corte, vi aderiva ben tosto.

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Clarendon, e gli favellò io questi sensi: - Da tutto ciò che è avvenuto nel Congresso, si ricavano due conseguenze: la prima è che l'Austria si tien ferma nel proposito di persistere nel suo sistema d'oppressione e di violenza verso l'Italia; la seconda risguarda l'impotenza in cui la diplomazia si trova di porvi un efficace riparo.

Di fronte a questo stato di cose, il Piemonte trovasi in condizioni estremamente gravi. In presenza da un lato della irrequietezza sdegnosa dei partiti, e dall'altro lato dell'irrefrenabile arroganza dell'Austria, siamo al bivio o di entrare in una politica di riconciliazione colle Corti di Vienna e di Roma, o di porci in grado di fare la guerra all'Austria in un avvenire poco lontano. Se il primo partito è preferibile, al mio ritorno a Torino dovrò suggerire al re di chiamare nei consigli della Corona gli amici dell'Austria e del papa. Ma ove la seconda proposta fosse la migliore, vi garantisco, milord, che io e i miei amici non temiamo punto d'apparecchiarci a una guerra a morte, a una guerra a coltello. - Senza punto dare il minimo segno d'alterazione d'animo a sì grave conclusione, Clarendon rispose: - Avete ragione, versate in condizioni difficilissime; comprendo che un urlo violento si fa inevitabile; soltanto non mi pare che sia venuto il momento di parlarne troppo ad alta voce. - Cavour soggiunse: - Credo, milord, d'aver date prove sufficienti della mia prudenza e della mia moderazione; ma penso che in politica convenga mantenersi estremamente riservati nelle parole, per mostrarsi risolutamente deliberati nelle opere. Vi sono condizioni di cose nelle quali ò minor pericolo l'appigliarsi a un partito audace, che rannicchiare in una prudenza eccessiva. Con La Marmora sono persuaso che noi siamo in grado di cominciare la guerra; e per poco che essa duri, l'Inghilterra sarà forzala ad aiutarci. - Oh! certamente, riprese Clarendon

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con grande vivacità di parola; se voi vi troverete posti in gravi imbarazzi, potete contare su noi, e vedrete con quale energia noi verremo in vostro aiuto. ~ Dopo questo abboccamento con Cavour, il primo plenipotenziario inglese si portò da Napoleone 111 per dichiarargli che il contegno assunto dall'Austria collocava il Piemonte in condizioni così difficili, che era necessario di aiutarlo ad uscirne: conveniva massime aver presente che, ove la Sardegna si trovasse condotta a dichiarare la guerra all'Austria, la Francia e l'Inghilterra avrebbero dovuto necessariamente prendere le sue parti. li colloquio si prolungò per due ore. L'imperatore lasciò capire che intendeva ritirare i suoi soldati da Roma, e di costringer l'Austria a togliere i suoi presidii dalle Legazioni e dalla Romagna, parlando alto se conveniva di farlo. Accennò inoltre che si unirebbe di buon grado all'Inghilterra per indurre il re di Napoli a più mite governo, se era d'uopo colla presenza di navi da guerra nel golfo di Napoli.

Conchiuse dicendo che avrebbe parlato con Cavour.

Nel lasciar l'imperatore Clarendon si scontrò con Buol, al quale senza reticenze, dopo altro breve discorso, ridisse, che il Gabinetto di Vienna, colla sua tenace persistenza nel contraddire ai voti manifestali dalla Francia e dall'Inghilterra sulle cose d'Italia, faceva assai male i suoi conti, da che vi poteva essere qualche Potenza più che mai vogliosa di ricominciare la guerra. Nel ragguagliare Cavour di questo colloquio, il ministro inglese sugli affari esteri gli soggiunse: - Credo l'imperatore di buona fede. Se l'Austria non muta la sua politica verso l'Italia entro un anno, siatene certo, la Francia e l'Inghilterra ve la costringeranno, occorrendo, anche colle armi. - Tutto questo caldeggiare bellicoso del primo plenipotenziario inglese in realtà era arte finissima d'astuto diplomatico,

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che mirava a imbroccare un segno che non era quello posto in mostra. Indubitatamente lord Clarendon, nel suo libero cuore d'inglese, nutriva caldo e sincero il desiderio di veder migliorate le condizioni della travagliata Italia; e ove la sola intromessione pacifica del suo Governo fosse a ciò bastato, egli sarebbesi trovato lieto di usarla. Ma raggiungere questo fine col far pronta guerra all'Austria, non era né poteva essere ne' suoi calcoli: essi miravano ad altri risultati. Dietro gli accordi conchiusi di recente si dovevano mettere sul tappeto questioni, intorno alle quali il voto della Sardegna poteva far piegare la bilancia piti da un lato che dall'altro.

Per averlo dalla parte propria, era ottima preparazione mostrare l'Inghilterra pronta a spalleggiar il Piemonte ove entrasse in aperta lotta contro l'Austria. Vuoisi però aggiungere che questo artifizio era usato con precauzione; da che Clarendon dicea a Cavour: - Ma di ciò non bisogna ora parlar troppo alto, e conviene lasciare un anno di prova all'Austria. - Da un altro lato lo svegliare in questa Potenza timori e sospetti d'esser minacciala di guerra in Italia, serviva non solo di solida leva per cercar modo di smuovere la rigidezza dei Gabinetto di Vienna sulla questione italiana onde condurla a uno scioglimento pacifico, ma giovava pure ad allacciarselo a fidalo cooperatore nelle prossime soluzioni delle questioni orientali rimaste in sospeso, e nelle quali l'Inghilterra discordava dalla Russia e dalla Francia. E se vi era buon mezzo di scovare il segreto pensiero di Napoleone sulle cose italiane, e di venir in chiaro dei segreti maneggi che a farle camminare nel senso piemontese praticava il conte Cavour, era quello di mettersi innanzi da diplomatico destro in veste di zelante cooperatore.

Il primo plenipotenziario piemontese ripete all'imperatore, benché con maggior moderazione di parole, le cose dette a Clarendon.

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Fu ascoltato con benevolenza, ma si udì rispondere: - Spero di ridurre l'Austria a consigli più miti. Mi sono doluto col conte Buol di trovarsi coi l'imperatore Francesco Giuseppe in aperta contraddizione sul modo di valutare la questione italiana. Dopo questa mia dichiarazione, il plenipotenziario austriaco si è portato dal conte Walewski per testificargli che il maggior desiderio nutrito dal Gabinetto di Vienna era quello di compiacere in tutto il Governo francese.

L'Austria non aver più in realtà che una sola alleala, la Francia, e trovarsi quindi nella necessità di camminare in politica seco di pieno accordo. Mi gioverò di questa protesta d'amicizia, concluse Napoleone, per cavar concessioni dall'Austria. - Cavour si mostro incredulo della buona fede austriaca, e insistette sulla necessità d'assumere un contegno risoluto. - Per cominciare, soggiunse, ho preparato un protesto, che domani presenterò al conte Walewski. - L'imperatore parve esitar molto nel riprendere il discorso, che conchiuse così: - Andate a Londra, intendetevi bene con lord Palmerston, e al vostro ritorno tornate a vedermi (27). - Anche i grandi uomini di Stato pagano qualche volta il loro tributo alle debolezze inerenti alla natura umana, e allora essi hanno sminuito quel sovrano acume d'intelletto onde ordinariamente scorgono di sbalzo il vero aspello delle cose. Cavour erasi trovato in uno di questi stati transitorii nell'udire le iterate dichiarazioni bellicose di Clarendon; onde vi aveva prestato soverchia fede, e non le aveva convenevolmente ponderale con fredda ragione; quindi scrisse a Urbano Rattazzi: - Ella giudicherà quale sia l'importanza delle parole dette da un ministro,

(27) Lettere Cavour a Rattazzi, Parigi (senza data del giorno) aprile 1850.

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che ha fama d'essere riservatissimo e prudente.

L'Inghilterra, dolente della pace, vedrebbe, ne sono certo, con piacere sorgere l'opportunità d'una nuova guerra e d'una guerra cotanto popolare, come sarebbe quella che avesse per iscopo la liberazione d'Italia. perché dunque non profittare di queste disposizioni per tentare uno sforzo supremo a compiere i destini della Gasa di Savoia e del nostro paese ì (28). - Ma in lui non tarda a ricomparire lo statista, dotato d'un senso eminentemente pratico. Il conte subilo misurò con occhio sicuro la via perigliosa, e scorgendovi al fondo una questione di vita e di morte pel suo paese, riconobbe la necessità d'entrarvi con cautela grande; onde, prima di mettersi a percorrerla, volle portarsi a Londra per parlare con Palmerston e con gli altri ministri al fine di accertarsi se essi erano d'accordo con Clarendon. Cavour tornò a Parigi mal soddisfatto; ma il suo abboccarsi cogli uomini di Stato inglesi di maggior credito gli aveva giovalo a riassodarlo nella persuasione entratagli nell'animo, sin dalla presa di Sebastopoli, che l'avvenire felice dell'Italia in buona parte dipendeva dal consolidamento sul trono di Napoleone III (29). Egli aveva trovato bensì l'opinione pubblica in Inghilterra assai favorevole all'Italia senza distinzione di partiti; ma in quanto all'indirizzo vero della politica del Gabinetto di Londra, aveva compreso che, se si poteva fare assegnamento sul suo appoggio anche armato per impedire all'Austria di abbattere colla violenza il regime costituzionale nel Piemonte, non si poteva calcolare d'avere ausiliarie le armi inglesi in una guerra di nazionalità (30).

(28) Lettera Cavour sovracitata.

(29) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 13 settembre 1855.

(30) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi (senza data del giorno e del mese) 1856.

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V.

Dopo la conferenza dell'8 aprile l'Austria aveva scorto il rischio di rimanere nell'isolamento politico. A sfuggire questo pericolo gravissimo, essa si pose attorno a infondere una nuova vita al trattato del 2 dicembre 1854.

Per conseguire così desiderato fine, i ministri viennesi non tralasciarono fatiche e blandizie, le quali furono coronate di felice successo per il trattato del 15 aprile 1856, in virtù del quale i plenipotenziari di Francia, d'Inghilterra e d'Austria stipularono di dichiarare caso di guerra quasi fosse infrazione dell'indipendenza e della integrità dell'impero ottomano. Era facile di presentire che il Gabinetto austriaco si sarebbe giovato di quest'accordo, negoziato con grande segretezza, per rafforzare la propria azione politica verso la Sardegna, massime che le stipulazioni di permanente alleanza tra i maggiori Potentati assumono necessariamente caratteri di generalità.

Addì 16 aprile di quell'anno 1856 i plenipotenziari sardi consegnarono a lord Clarendon e al conte Walewski un memoriale, nel quale rappresentarono che nel Congresso bensì erasi manifestata la buona volontà delle Potenze occidentali verso l'Italia, ma l'opposizione dell'Austria aver intralciate le cose in guisa tale da impedire che venisse recato il minimo sollievo ai mali di questa parte d'Europa, o almeno che al di là delle Alpi si facesse trapelar un barlume di speranze valevoli ad attutare l'irrequietezza degli animi, e a far loro sopportar il presente con rassegnazione. Da un tal contegno ne seguitavano i più funesti effetti per l'Europa e per l'Italia e massime per la Sardegna, che da selle anni vedeva nella maggior

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parie della penisola le popolazioni mantenute in uno stato permanente d'irrequietezza rivoluzionaria per opere retrive e violenti di cattivi Governi. Ma questo non ò il solo pericolo, soggiungevano gli oratori di Vittorio Emanuele II, che minacci la Sardegna. Per essa uno ben più grave sta riposto nei mezzi praticati dall'Austria per comprimere nella penisola le serpeggianti commozioni rivoluzionarie. Chiamato dai sovrani de' minori Stati d'Italia a tenere nell'ubbidienza i loro sudditi, questa Potenza occupa militarmente la maggior parte della valle del Po e dell'Italia mediana. Di soprassello i suoi influssi gravitano in un modo irresistibile eziandio sopra gli Stati italiani, nei quali essa non tiene guarnigioni proprie. Appoggiate da un lato sopra Ferrara e Bologna, le sue truppe si estendono fino ad Ancona, e ben può dirsi che l'Adriatico è divenuto un lago austriaco. Dall'altra parte padrona di Piacenza, ch'essa occupa e va tramutando in una piazza forte di primo ordine in contraddizione allo spirito se non alla lettera dei trattati di Vienna, l'Austria tiene guarnigione in Parma, e si apparecchia a stendere le sue forze militari lunghesso tutto il territorio che dalla frontiera sarda si protende alla cima degli Appennini.

Queste occupazioni permanenti dell'Austria di paesi che non le appartengono, mentre la costituiscono padrona pressoché assoluta di tutta l'Italia, distruggono l'equilibrio stabilito dall'atto finale del Congresso di Vienna, e sono di continua minaccia al Piemonte. Pressoché circondato dalla Potenza austriaca, che sa essergli ostile; esso è mantenuto in uno stato permanente di timori e sospetti, che lo obbligano a star in armi, e metter mano a mezzi difensivi, i quali gravitano enormissimamente sulle sue finanze già oberate. Questi falli dover bastare per rendere apprezzabili i pericoli dello stato in cui trovasi il Governo del re di Sardegna.

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Si badasse che, turbato in casa propria dall'azione delle passioni rivoluzionarie che tutto all'intorno gli suscitano l'occupazione straniera e un sistema di violenta compressione, e minaccialo dell'allargamento della Potenza austriaca, questo Governo potrebbe da un istante all'altro esser forzato ad appigliarsi a un partito estremo, di cui era impossibile calcolare le conseguenze. Francia e Inghilterra rammentassero che la Sardegna era l'unico Stato italiano che aveva eretto uno steccato insuperabile allo spirito rivoluzionario, che aveva saputo rimaner indipendente dall'Austria, ed essere di contrappeso alla sua influenza invadilrice. Ma se essa, sfinita di forze, abbandonata dai suoi alleati, si trovi costretta a subire la signoria della Corte di Vienna, l'Austria avrà compiuta la conquista dell'Italia (31). - In questa guisa arditamente è accortamente favellando, i plenipotenziari sardi abbandonavano il Congresso, alto reclamando dalla giustizia e dall'interesse stesso della Francia e dell'Inghilterra che in Italia fosse posto fine a uno stato di cose, il quale mantenuto a solo vantaggio dell'Austria fecondava i germi di nuove rivoluzioni, contraddiceva la legge comune degli Stati europei, turbava l'equilibrio politico italiano stabilito dai trattati del 1815, contrariava il benessere dei popoli della penisola, avviluppava la Sardegna in una rete di pericoli e d'intrighi da sospingerla a strigarsene colla spada alla mano. II qual modo di procedere vuolsi tener presente da che, ove se ne fosse usalo un altro improntato di tribunesche declamazioni contro i trattati del 1815, e indirizzato a suscitare e favorire agitazioni immediate di popoli oppressi, di certo sarebbesi commesso un errore irreparabile.

(31) Nota rimessa dai plenipotenziari sardi a lord Clarendon e al conte Walewski, Parigi 16 aprile 1856.

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Lo scioglimento della questione italiana nel senso della libertà e dell'indipendenza della nazione non poteva uscire dal Congresso di Parigi, massime dappoiché era scomparsa la possibilità di materiali compensi. Gli uffizi diplomatici in esso fatti non dovevano essere se non di preparazione. La quale facendosi sotto la forma di legittima difesa dai maneggi, dalle prepotenze e dalle usurpazioni dell'Austria, portava seco rincommensurabile vantaggio di guadagnare alla causa del Piemonte l'opinione pubblica europea, e quella di coloro stessi che, versandosi nella diplomazia in buona fede, zelavano affinché da tutti si rispettassero le ragioni dell'equilibrio patteggiato nel 1815, l'indipendenza sovrana delle corone, e i principii della politica conservativa dell'ordine degli stati, I plenipotenziari austriaci lasciarono Parigi prostrati d'animo e malcontenti di tutti. Nell'ultima conferenza del Congresso il conte Buol, accostandosi sotto il vano d'una finestra a Cavour, e agli usati suoi modi cortesi accoppiando una singolare abbondanza di benevoli sensi, avevagli detto che l'Austria voleva vivere in pace col Piemonte, e che per nulla ne osteggiava le istituzioni liberali. Cavour aveva risposto di non essersene accorto nel corso delle conferenze, che egli lasciava convinto che le relazioni tra i due paesi rimanevano peggiorate. La conversazione a questo punto si riscaldò. Cavour la troncò, ripetendo che partiva da Parigi col rincrescimento di vedere sorti maggiori ostacoli per ristabilire un buon accordo tra le Corti di Vienna e di Torino, e concluse: - Ciò non toglie, signor conte, ch'io non speri che voi, al pari di me, conserverete grato ricordo delle nostre relazioni personali. - Buol gli strinse affettuosamente la mano, e - Lasciatemi sperare, soggiunse,

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che anche politicamente non saremo sempre nemici (32). - Era ornai impossibile di non esser tali fintantoché Casa di Asburgo e Casa di Savoia con opposte ambizioni fronteggiavansi in Italia.

Ai ministri viennesi maggiormente cuoceva d'aver visto intavolata nel Congresso la questione italiana, da che ben comprendevano che la cosa era passata dietro l'assenso esplicito di Napoleone III; il che bastava per capacitarli che egli nella cupa mente mulinava qualche disegno d'intromettersi da arbitro negli affari della penisola. A scovare dunque qualcosa, nella visita di congedo il conte Buol dichiarò all'imperatore che l'Austria non sarebbe del tutto aliena di concertarsi colla Francia per veder modo di dare una soddisfazione ai desiderii manifestati sull'Italia nel Congresso. Napoleone non accettò per nulla la discussione, ma tagliò corto col rispondere: - Ora è troppo lardi. Quanto sarebbe tornato meglio, signor conte, che nella conferenza del 18 aprile aveste dichiarato ciò che ora mi dite! (33). - Al contrario i plenipotenziari sardi aveano ragione di essere soddisfatti dell'opera loro nel Congresso, e dei risultati conseguiti. La Sardegna, dopo avere degnamente corrisposto al debito suo nei travagli di guerra, a dispetto dell'Austria sua nemica implacabile, era convenuta nelle conferenze senza condizione, e con autorità uguale a quella delle maggiori Potenze, a trattare delle più grandi questioni europee, revocato quanto erasi fermalo nel Congresso di Vienna, e praticato nei Congressi d'Aquisgrana, di Lubiana, di Verona, d'escludere gli Stati minori sul consultare e decidere intorno alle faccende di Europa. L'esercizio legittimo del patronato legale della

(32) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi (senza data).

(33) Dispacci riservati Nerli al ministro degli affari esteri in Firenze, Parigi 20 aprile e 3 maggio 1856.

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causa italiana, assunto dagli oratori del Piemonte, era stato formalmente riconosciuto dalla Francia e dall'Inghilterra, indirettamente assentito dalla Russia e dalla Prussia. Per la prima volta in un congresso diplomatico si era riconosciuto che i Governi erano dal lato del torto, i popoli dal lato della ragione, e questi popoli erano gli Italiani, i Governi incriminati quelli che l'Austria tutelava colle sue armi. La causa italiana era solennemente stata dichiarala d'interesse europeo, raccomandata al tribunale supremo della civiltà cristiana, e non era presumibile che, in mezzo a tanta aura poderosa di libertà circolante pel nuovo e pel vecchio mondo, l'opinione pubblica, divenuta imperatrice su tutte le genti civili, portasse inappellabile sentenza in favore dell'assodamento del dispotismo straniero e domestico che conculcava l'Italia. A vantaggiare praticamente gl'interessi della nazione, rimaneva aperta una larga via per l'assicurata intrommessione della Sardegna nelle prossime negoziazioni intorno al riordinamento dei Principati danubiani, per la radicata persuasione nei Gabinetti di maggior polso che le eccezionali condizioni delle cose italiane che tenevano in pericolo la tranquillità dell'Europa, poteano essere tolte con vantaggio comune, solamente praticando la politica liberale del Piemonte.

Cavour era pervenuto a persuadere Napoleone III che non bisognava tardar troppo a portare rimedio allo stato infelicissimo d' Italia, altrimenti si verrebbe sopraffatti dalla rivoluzione. Aveva trovato nel principe Napoleone un caloroso sollecitatore di bellicosi propositi contro l'Austria (34). L'imperatore avevagli aperto l'animo benevolo all'Italia fino a dirgli: - L'Austria non vuol prestarsi a nulla,

(34) Lettere Cavour a Rattazzi, Parigi 22 marzo, 9 e 14 aprile 1856. Dispaccio Cibrario, Torino 21 marzo 1856.

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né per ora io posso farle il dilemma o di assentire le mie proposte, o di venir assalita dalle mie armi. Ma tranquillatevi; ho il presentimento che la pace attuale non durerà (35). - In Inghilterra il validissimo patrocinio dell'opinione pubblica per la causa italiana trovavasi grandemente aumentato: i Torys non meno dei Whigs in Londra gli si erano mostrati disposti ad aiutare il Piemonte a sanar i mali dell'Italia per la via delle pacifiche riforme, pronosticandogli l'occasione propizia di venir aggrandito della Lombardia e della Venezia.

Anche rispetto alla Prussia e alla Russia i guadagni fatti dal Piemonte non erano di scarsa importanza. Le freddure della prima di queste due Potenze verso il Piemonte si erano mutate in accostamenti più che benevoli.

Il barone Manteuffel, durante il Congresso, aveva marcatamente spesseggiato nel cercar le occasioni di mettersi nei migliori termini coi plenipotenziari sardi; e ritornato in Berlino, aveva accennato alla questione italiana in un senso al tutto favorevole al Piemonte. L'altro plenipotenziario prussiano, il conte di Hatzfeldt, era andato più in là, da che con parole che potevano esser valutate come una vera entratura a futuri accordi eventuali, si era aperto alla libera col conte Cavour sulla identità dei rapporti politici del Piemonte e della Prussia verso l'Austria, e delle comuni cagioni che ambidue avevano di querelarsi di questa Potenza (36). I rancori della diplomazia russa verso l'Austria anch'essi avevano giovato a comporre i dissapori che erano insorti a intorbidare le antiche buone relazioni tra le Corti di Torino e di Pietroburgo. Il conte Orloff aveva fatto a Cavour le più

(35) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 20 febbraio 1836.

(36) Dispaccio confidenziale Cavour, Parigi 29 marzo 1856. Dispaccio De Launay, Berlino 26 aprile 1856.

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cordiali proteste di amicizia, seco era convenuto che le condizioni d'Italia erano insopportabili, e non avevagli celato che Io czar Alessandro volontieri avrebbe cooperato a migliorarle (37). In verità che il lavorìo, il quale doveva consistere nell'isolare diplomaticamente l'Austria, e nel voltarle contro acerbamente avversa l'opinione pubblica europea, innanzi d'assalirla colle armi per scacciarla dall'Italia, era maestrevolmente iniziato,

(37) Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 16 aprile 1856.

CAPITOLO OTTAVO

Sommarlo Declami della diplomazia napoletana - Dispacci del principe Carini - Colloquio del barone Antonini con Walewski - Rimostranze della Francia e dell'Inghilterra al re di Napoli - Accoglienze fatte alle medesime - Prime conseguenze - Facilità di pronti accordi trascurata dal Governo napoletano - Nuove sollecitazioni dei Gabinetti di Londra e di Parigi - Ripulse di Ferdinando II Interruzione delle relazioni diplomatiche Ira Napoli e le due Potenze occidentali - Pratiche per un accomodamento intavolate dalla Prussia e dalla Russia: come accolte da Ferdinando - Consigli della Francia e dell'Inghilterra al Governo romano - Come accolte - Viaggio del papa - Risultati conseguiti - Nuove proposte di riforme civili della Francia - Intromessione dell'Austria - Risposta del cardinale Antonelli.

I.

Il marchese Emmidio Antonini, legato napoletano in Parigi, come seppe che nel Congresso si era favellato delle cose del regno delle Due Sicilie, si portò da Walewski per lagnarsi che ai plenipotenziari sardi fosse stato permesso d'assalire con aspri modi il Governo di Ferdinando II, senza che vi fosse presente un suo plenipotenziario. - La cosa, soggiunse, è tanto più deplorabile in quanto che la fonte vera dell'agitazione rivoluzionaria, onde l'Italia è di nuovo tormentata, è la politica del Piemonte. Walewski lo interruppe con dirgli: - Badale, marchese, che non è stato Cavour; non vi posso dire di più, perché tutti i plenipotenziari si sono impegnati a serbare il silenzio intorno alle cose dette. Ma il vostro Governo ha una via aperta per trarsi d'impaccio:

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si ponga subilo d'accordo con noi sulle riforme che vuole adottare (1). - Antonini rimase silenzioso. Ferdinando li ordinò al suo legato in Parigi di rinnovare i fatti lamenti, dando loro la forma di protestazione verbale, e d'aggiungere che il re di Napoli aveva la coscienza di governare i suoi popoli conforme i dettami della giustizia e del dovere; che né gli assalti sfrenali della stampa quotidiana, nò le dichiarazioni del Congresso lo indurrebbero a far mutazione di governo, disposto com'era a sopportare con rassegnazione qualunque abuso di forza anziché scendere a patti colla rivoluzione. Queste deliberazioni del re, per ordine suo, furono comunicate alle Legazioni napoletane all'estero, coll'aggiunta dell'incarico di maneggiarsi a render palesi gl'intendimenti rivoluzionari del conte Cavour (2).

Portatosi da Walewski, Antonini gli favellò in conformità degli ordini del suo re. Il ministro francese con piglio risentito gli rispose: - Ma non si tratta per nulla d'esigenze, di pressioni. Il Governo napoletano deve capacitarsi che tutti i potentati sono nell'obbligo di mettersi d'accordo per garantire all'Europa una pace durevole.

Tutti gli Stati, e massime i minori, debbono aver conti i lati più deboli della propria politica a volteggiare le difficoltà che ne conseguono. Ora il vostro Governo deve ben comprendere che la Francia e l'Inghilterra sempre si studieranno di spiegare i propri influssi sul regno delle Due Sicilie. Conseguentemente tutte le vostre cure debbono esser dirette ad impedire che le due influenzo operino concordi.

(1) Dispaccio riservatissimo Antonini, Parigi 17 aprile 1856. - Dispaccio in cifra dello stesso, Parigi 18 aprile 1850.

(2) Lettere del cavaliere Severino, segretario privato del re Ferdinando II, Caserta 3 e 10 maggio 1856, Castellamare 8 maggio 1856. - Dispaccio riservatissimo Carafa al marchese Antonini in Parigi, Napoli 5 maggio 1856.


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Credo che nelle circostanze presenti non vi debba riuscir difficile di conseguire questo intento.

Scrivete tosto al vostro re per dirgli che la Francia lo consiglia d'appigliarsi spontaneo a più miti modi di governo. Egli farebbe prova di grande abilità ove si ponesse in pieno accordo con noi, prima che all'ambasciatore inglese in Napoli giunga l'ordine di mettersi d'accordo con Brenier. - Il legato napoletano con piglio sgraziato rispose, che ciò che il re suo signore aspettava, era di vedersi presto sollevato dalle pressure della Francia e dell'Inghilterra, alle quali chiedeva una cosa sola, di esser lasciato tranquillo (3).

A questo procedere spavaldo del legalo napoletano in Parigi tenne bordone quello dell'ambasciatore di Ferdinando in Londra. Egli era Antonio La Grua principe di Carini, il quale scrisse al Caraffa in questi termini, che, per la volgarità loro, la storia accoglie con ritrosìa nelle sue pagine:

Non scuserò Walewsky, ma è il men cattivo della canaglia innumerevole e imprudente che compone la Corte e il governo dell'imperatore, dalla cui cupa mente solo dipende la politica e ogni dettaglio della Francia. Pare egli abbia due pensieri, dominare nel nostro paese per controbilanciare l'influenza inglese nel Piemonte, e concedere a lord Palmerston una soddisfazione per salvarlo dal risentimento del popolaccio inglese fremente per la pace. Secondo molte notizie da me raccolte, con molte parolone di moda, con un irremovibile comportamento nel ricusare, con molte cerimonie e qualche minima concessione, si farà passare questa tempesta (4).

Il lettore ci condoni se gli poniamo sott'occhio siffatti documenti nella plebea forma in cui furon dettati.

(3) Dispaccio riservatissimo Antonini al commendatore Carata in Napoli, Parigi 9 maggio 1856.

(4) Dispaccio cifrato Carini al ministro degli affari esteri in Napoli, Londra 13 maggio 1856,

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Siamo indotti a farlo a ben delineare la fisionomia della diplomazia napoletana di quel tempo, onde sia palese la sua dappocaggine. Alquanti giorni dopo il principe Carini scriveva al suo Governo quest'altro dispaccio:

Mi sono trovato a Corte. Lord Palmerston mi domandò: e come sta Poerio? Meglio di voi e di me, risposi, perché sta sotto un bel cielo e può vivere senza pensieri. E il suo compagno di catene è sempre un galantuomo? soggiunse egli, ed io replicai: non credo ne abbia alcuno collegato, ma se mai, certamente non sarebbe men pertinace e men vendicativo di quell'antico rivoluzionario. - Palmerston - Badate, questo affare non è uno scherzo, ma un affar serio e grave, di cui il vostro Governo conoscerà fra breve l'importanza - Carini - Ma lo scherzo l'avete cominciato voi, ed io l'ho seguito: voi ben sapete che mi piacciono gli scherzi senza temere le serie e più gravi conversazioni. Così spero che, senza andar a sturbare a Napoli il mio Governo, potete averle in Londra a vostro piacere e ad ogni vostro comando sempre per me gratissimo.

Con questo linguaggio garbato ed energico sto dissipando le moltissime dicerie fatte sul mio ritorno. Il mio linguaggio si limita a far intendere che uè il mio Governo né io sappiamo capire perché il magistrato europeo è occupato delle nostre faccende, e si è dato la pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza bisogno di tastar il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra. È poi strano il pensiero di volere scrivere ad uno per uno tutti i capitoli di medicina che si supponessero opportuni per perfezionare il regno delle Due Sicilie, la Santa Sede e quegli altri Stati, i quali secondo le opinioni della canaglia non vanno bene e fauno onta alla civilizzazione. Queste or facete or più gravi risposte mi hanno servito a schermirmi tutta la serata di ieri nella grande unione del concerto della Regina. Nello stesso modo conto condurmi quest'oggi da lord Clarendon nel solito pranzo officiale per celebrare la nascita di quest'augusta Sovrana (5).

(5) Dispaccio Carini al ministro degli affari esteri in Napoli; Londra 31 maggio 1856.

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Riusciti infruttuosi gli amichevoli consigli a voce, i Gabinetti di Londra e di Parigi si volsero alle comunicazioni ufficiali scritte. Walewski, addi 21 maggio 1856, s'indirizzò per mezzo della Legazione francese in Napoli al Governo di Ferdinando 11 in questa sentenza: - Il mantenimento dell'ordine nella penisola è una delle condizioni indispensabili alla stabilità della pace europea.: era quindi dovere e interesse di tutti i Governi di non trascurare sollecitazioni né sforzi per impedire il ritorno di agitazioni civili in Italia. Ma per conseguire questo risultato non si dovea continuare nell'uso di mezzi, che l'esperienza aveva dimostrato insufficienti. V'erano rigori di governo che soltanto era lecito e utile d'adoperare quando venivano richiesti da ineluttabili necessità. Coll'adoperarli altrimenti, anziché ridonar la pace e la fiducia, si provocavano nuovi pericoli, e si fornivano nuovi argomenti di successo alla propaganda rivoluzionaria. Il Governo napoletano per l'appunto avea sviato nella scelta dei mezzi; ond'era urgente che si fermasse sulla ruinosa via per cui procedeva, a impedire in tempo utile che la quiete d'Italia e la pace d'Europa non ne soffrissero grave detrimento (6).

Lord Clarendon nella sua nota avvertiva innanzitutto che, se il Governo inglese si toglieva dal professare, in ordine al regno delle Due Sicilie, la massima che alcuna Potenza straniera non ha il diritto d'intromettersi negli affari interiori d'uno stato, v'era spinto dalla profonda convinzione che il sistema di rigore usato dal Governo napoletano riusciva estremamente pericoloso alla quiete dell'Italia. Un mutamento radicale di politica più conforme ai progrediti tempi, e una generale amnistia erano di necessità per consolidare la monarchia napoletana, e calmare le inquietudini delle Potenze. Il Governo della regina dava tali consigli, guidalo da sentimenti

(6) Nota Walewski a Brenier ministro plenipotenziario di Francia in Napoli, Parigi 21 maggio 1856.

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benevoli verso il Governo napoletano, col quale non poteva tenersi in relazioni amichevoli sinché co' suoi diportamenti era un fomite permanente di nuove calamità all'Europa (7).

Ferdinando li era moderatore e ordinatore assoluto delle faccende di stato. In ogni cosa di rilievo i suoi ministri dovevano interrogarlo, e uditi i reali cenni obbedire rispettosi. Perciò il commendatore Carafa, incaricato del ministero degli affari esteri, com'ebbe ricevuto le due note menzionale, le inviò subilo al re. Egli si tenne per alcuni giorni silenzioso: poi ordinò al cavaliere Agostino Severino, suo segretario privalo, di rispondere ne' termini seguenti. Per la sostanza e la forma è un altro documento che merita d'essere qui trascritto:

Il re ha presso di sé e ritenute le lettere che a lei venivano consegnate dai ministri d'Inghilterra e di Francia. È augusto volere che se ella, signor commendatore, incontrerà i due signori Temple e Brennier, e se faranno insistenza, potrà dir loro a voce che

nessun Governo ha il diritto d'immischiarsi negli affari degli altri,

e molto meno di giudicare con modi impropri la sua amministrazione, e specialmente della giustizia, nella quale come in tutti i rami non crede S. M. sia a nulla a ridire. Col del pretesto di dissipare e prevenire rivoluzioni, vogliono produrre rivoluzioni.

Che se qualche movimento di disordine pubblico possa, Iddio non lo voglia, accadere sia in Napoli, sia in Sicilia, sono essi che l'hanno suscitato e lo susciteranno, e faranno rialzare lo spirito rivoluzionario non solo nel nostro paese ma nell'Italia intiera con quelle loro indecorose protestazioni a favore dei principali agitatori.

Dica loro che, prima d'usare atti di clemenza, bisogna pensare che questa genìa è la maggior parte incorreggibile. Aggiungerà ella di più che, se sino ad ora il re ha potuto esercitare la sua clemenza, attualmente non può esercitarla per colpa di tutti questi passi che fanno tutti questi Governi protettori di questa gente.

(7) Nota Clarendon a Tempio ministro plenipotenziario d'Inghilterra in Napoli, Londra 19 maggio 1856,

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Sarebbe questo un incentivo a nuove perturbazioni; e il Governo non può da sé preparare nuovi moti al paese. Dovrà intanto, signor commendatore, procurare di vedere i ministri di Russia, Austria e Belgio, affine di dire loro d'aver ricevuto queste proteste, e delle risposte fatte e che farà d'ordine del re (8).

Per meglio invogliare Ferdinando a far viso arcigno alle sollecitazioni dei Governi di Francia e d'Inghilterra, valsero le notizie inviate da' suoi legati. Carini scrisse da Londra che i ministri della regina, divenuti assai sospettosi che Napoleone mirasse a fomentare sottomano la rivoluzione nell'Italia meridionale per mettere Murat sul trono di Napoli, si mostravano sfreddali d'ingerirsi nelle cose interiori del regno (9). Antonini telegrafò da Parigi che l'imperatore, conosciute meglio le condizioni della penisola, aveva mutato linguaggio coll'Inghilterra. l'alleanza della Francia coll'Austria, l'attitudine presa dal clero francese, la disapprovazione palese e unanime dei conservatori, anche partigiani dell'impero, sul contegno tenuto dal Congresso verso le cose italiane, essere le cagioni principali di questo mutamento di politica (10).

Carata rispose alla nota di Walewski con dire che non si poteva intendere come il Governo imperiale potesse giustificare l'inammissibile ingerenza presa nella amministrazione interiore di un altro stato, massime negli ordini giudiziari. I modi divisati dal Governo francese onde prevenire moti rivoluzionari, traevano al contrario dietro loro sconvolgimenti civili. Il Governo napoletano sfuggiva fino allo scrupolo d'immischiarsi nelle cose interiori degli altri stati; ma intendeva d'essere il solo giudice dei bisogni del regno, ove si poteva viver

(8) Lettera riservatissima Severino al Carafa, Castellamare 5 giugno 1836.

(9) Dispaccio cifrato Carini, Londra 20 maggio 1856.

(10) Dispaccio cifrato Antonini, Parigi 28 maggio 1856.

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tranquilli clic la pace non verrebbe turbala se ai faziosi mancasse appoggio dal di fuori (1 1).

Questa risposta aspra e pungente tornò oltremodo sgradita a coloro cui era indirizzata. L'imperatore Napoleone non tacque il suo risentimento al nunzio in Parigi (12). A mitigare questi corrucci Caraffa scrisse a Brenier ai 26 d'agosto, che col dispaccio 30 giugno non si aveva avuta la minima intenzione d'imputare al Governo francese tendenze, le quali non fossero conformi alle guarentigie da esso date in tante occasioni all'Europa. Se per avventura al Gabinetto di Parigi fosse riuscita disgustosa qualche frase del menzionalo dispaccio, il Governo di Napoli ne provava il più vivo dispiacere.

Esso era riconoscente agli amici suoi de' consigli datigli; soltanto pregarli di notare che non sempre si poteva applicare a un paese quello che conveniva ad un altro. La Francia confidasse nella saggezza del re, il quale era in grado meglio di tutti di conoscere il tempo, le circostanze e l'opportunità d'introdurre mutazioni nello stato (13).

Questa dichiarazione, che non mutava la sostanza dei propositi manifestati dal re, era stata suggerita al Governo napoletano dall'Austria, la quale, simulando intendimenti propensi ai desiderii dei Gabinetti di Londra e di Parigi, procedeva parzialissima del Borbone.

(11) Nota Carafa al marchese Antonini in Parigi, Napoli 30 giugno 1836.

(12) Dispaccio riservatissimo Antonini, Parigi 15 agosto 1856. - Dispaccio riservatissimo De Martino; Roma 2 settembre 1856.

(13) Nota Carafa, Napoli 26 agosto.

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II.

La Russia patrocinava all'aperto la causa del re di Napoli; e poiché a quel tempo Napoleone ne cercava l'intima alleanza, cosi le pratiche della diplomazia moscovita trovarono in Parigi buone accoglienze (14). Con un pò di destrezza e di arrendevolezza il Governo napoletano poteva cavarsi d'impaccio, togliendo all'Inghilterra l'appoggio della Francia, e fornendo a questa il modo di uscir con decoro dalla via delle rimostranze in cui era entrata. A ciò fare esso si trovò quasi pregato. Napoleone disse al barone di Brunnow, che subito lo fece sapere a Ferdinando:

- Ritarderò di dieci giorni a richiamare la legazione francese da Napoli per dar tempo allo czar di capacitare il re a cedere in qualche cosa (15).

- A indurlo in questa persuasione Gorkiakoff faceva dire a Ferdinando che non era un'umiliazione per lui cedere alle rimostranze di due grandi Potenze marittime;

che si rammentasse bene che la Russia altro non poteva prestargli fuor del suo appoggio morale; ch'essa si trovava in condizioni tali da doversi tenere in termini d'amicizia colla Francia e coll'Inghilterra,

ove anco trascorressero ad atti ostili verso il regno di Napoli. Bramava il re d'avere efficaci aiuti dalla sincera amicizia dello czar delle Russie? indirizzasse una nota confidenziale ai Gabinetti di Londra e di Parigi, promettendo qualche riforma; si gratificasse l'imperatore Napoleone, offrendogli spontaneo Io scarceramento di Poerio e di Settembrini; autorizzasse l'ambasciatore russo

(14) Dispaccio circolare Gorkiakoff alle Locazioni russe, Mosca 5 settembre 1806. - Dispacci riscaldatissimi Regina al commendatore Carafa in Napoli, Mosca 5, e 14 settembre.

(15) Dispaccio riservatissimo Antonini, Parigi 20 settembre 1856.

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in Parigi d'annunziare all'imperatore che il re di Napoli presto gli invierebbe un oratore straordinario apportatore di riconciliazione (16). I ministri francesi l'aspettavano non solo a braccia aperte, ma la incuoravano additando aperta, breve e facile la via. - Che il re, diceva Walewsky ad Antonini, mi fornisca un mezzo qualunque onde ci possiamo tirar fuori dall'affare con decoro, ed io lo coglierò non con una, ma con due mani (17). - Che il re, diceagli Fould, scriva una lettera all'imperatore per mettergli nelle mani lo scioglimento amichevole della controversia; vedrà che Napoleone diverrà il suo avvocato verso l'Inghilterra, e terminerà la questione senza che il Governo napoletano si trovi gravemente compromesso nella sua dignità (18). - Tutto ciò valse a nulla. - No e poi no, rispose Ferdinando a Gorkiakoff e a Walewsky; le fattemi proposte sarebbero alti d'estrema debolezza a danno dell'indipendenza della mia corona e a vantaggio del partito rivoluzionario. Mi si lasci tranquillo (19). - Francia e Inghilterra s'erano tropp'oltre avventurate nella questione per poter retrocedere serbando incolume il proprio decoro. Ma da che la politica che la prima seguiva verso la Russia, e la seconda verso l'Austria, interdiceva loro di troncarla cogli estremi argomenti della forza, deliberarono di non passar oltre all'interruzione delle consuete relazioni diplomatiche. Fu addì 21 ottobre 1856 che i legati di Francia e d'Inghilterra presentarono al Carafa ciascheduno una nota per ragguagliarlo di questa deliberazione.

(16) Dispaccio cifrato Regina, Pietroburgo 17 settembre 1836. - Dispaccio riservatissimo dello stesso, Pietroburgo 10 ottobre 1836.

(17) Dispaccio riservatissimo Antonini, Parigi 20 settembre 1836.

(18) Dispaccio Antonini, Parigi 18 settembre 1856.

(19) Lettera del cav. Severino al commendatore Carafa, Gaeta 12 settembre 1856.

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La nota francese si limitava a esprimere il dolore che il Governo dell'imperatore provava nel vedere il Governo napoletano deliberato a non dar retta alle sollecitazioni leali fatte dalla Francia nell'interesse della quiete dell'Europa (20). La noia inglese, più risentita, dichiarava che il Governo della regina non poteva continuare a mantener relazioni amichevoli con un Governo, il quale respingeva qualunque consiglio amichevole per togliersi da un contegno condannato da tutte le nazioni civili (21).

Ferdinando s'aspettava queste rotture, e non gli riuscirono moleste. Sul foglio ove stava scritta la nota francese, egli di mano propria nel rimandarlo al Carafa scrisse: - Ila fatto bene di dare i passaporti, e si è regolalo convenevolmente con quei signori (22). - Poi gli aprì con precisione il suo pensiero con queste parole testuali: ~-

Non siamo stati noi che abbiam offeso la Francia e l'Inghilterra, ma sono state esse che hanno offeso noi; dunque non dobbiamo chieder loro scusa. L'Europa intiera può dire ciò che vuole; ma qualunque proposizione deve partire da loro e non da noi, e lo sappiano tutte le Potenze europee (23).

- Questa resistenza era di piccol pregio dopo che Francia e Inghilterra aveano lasciato conoscere allo scoperto che non intendevano passare ad atti ostili; ma giacché Ferdinando praticavala a scorno dell'eterna giustizia e della civiltà universa, non poteva riuscirgli propizia la pubblica opinione. Eppure Antonini scrisse al Carafa che nel Belgio e nella Francia era universale l'ammirazione per l'eroica resistenza del re,

(20) Nota Walewski, Parigi 10 ottobre 1856.

( 21) Nota Clarendon, Londra 10 ottobre 1856.

(22) Appunto sulla nota Walewski di Ferdinando II, Caserta 21 ottobre 1836.

(23) Lettera di Ferdinando II al Carafa, Gaeta 21 ottobre 1856.

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e che negli ultimi giorni in cui era rimasto a Parigi aveva provato un vero trionfo per le ricevute attestazioni di simpatia da tutti i ceti. E Canofari da Torino: -

La nobile figura del nostro augusto padrone diviene maestosa e imponente al di sopra di quelle di tutti i monarchi suoi contemporanei.

- Carini scriveva che tempo verrebbe in cui l'imperatore Napoleone ringrazierebbe il re di Napoli d'avere salvata l'indipendenza del monarcato (24).

Questi poveri cortigiani non vedevano più in là d'una spanna!

Francia e Inghilterra nell'interrompere le relazioni diplomatiche col Governo napoletano, procedettero con grande temperanza di modi.

Elleno dichiararono che non invierebbero nel golfo di Napoli le squadre navali per non dare stimolo al malcontento di coloro, i quali cercavano di crollare il trono del re delle Due Sicilie.

Inoltre protestarono che non intendevano passare ad atti ostili, e si dissero parate a riannodare l'antica amicizia col Governo napoletano subito che si mostrasse volenteroso di provvedere a' suoi veri interessi (25). Non erano parole usate ad orpello. Il Gabinetto di Parigi sperò di smuovere Ferdinando mediante i buoni uffizi della Corte di Roma; ma Antonelli non volle assentirli (26). Il tentativo fu fatto dal Gabinetto di Madrid. Il legalo spagnuolo in Napoli si portò dal ministro sopra gli affari esteri per leggergli un dispaccio del suo Governo, nel quale, accennate le conseguenze funeste che potevano derivare per la pace dell'Europa dalla controversia insorta tra il

(24) Dispacci Antonini, Bruxelles 28 novembre e 6 dicembre 1856.

- Dispaccio Canofari, Torino 9 novembre 1856. - Dispaccio Carini, Parigi 27 dicembre 1856.

(25) Moniteur, N. 25 ottobre 1856.

(26) Dispaccio riservatissimo De Martino al Carafa in Napoli, Roma 25 ottobre 1856.

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Governo napoletano e le due Potenze occidentali, venivano offerti i buoni uffizi della Spagna per giungere a un amichevole ricomponimento. A meglio conseguirlo il Gabinetto spagnuolo consigliava il re di Napoli d'introdurre spontaneo qualche riforma negli ordini governativi (27). Ferdinando per rispondere si servì del suo legato in Madrid. Il marchese Riario Sforza, per espresso incarico del suo re, notificò alla regina e a' suoi ministri che il Governo napoletano doveva rimanere qual era, e che essendo state le Potenze occidentali le prime a interromper seco le relazioni diplomatiche, spettava ad esse di muovere i primi passi a riannodarle (28). Una risposta identica ebbe il re del Belgio, il quale dietro la domanda del Governo inglese aveva cercalo d'intromettersi paciero, studiandosi di capacitare Ferdinando della convenevolezza di scarcerare Poerio e Settembrini (29).

Il re di Napoli toglieva a' suoi migliori amici la possibilità d'essergli utili. A lui era venuto in mente, quattro mesi prima delle accennate rotture diplomatiche, di levarsi la noia e il pericolo dei soverchi prigionieri politici col trasportarli nelle solitarie terre del Rio della Plata.

A tal fine iniziate pratiche colla Repubblica Argentina, addì 13 gennaio 1857 venne stipulata una convenzione per Io stabilimento sul territorio di quella Repubblica di una colonia di sudditi napoletani condannati o detenuti politici, che colà verrebbero confinati in commutazione della pena che dovevano espiare nel regno. Il conte di Rernstorff, ministro di Prussia in Londra, presentò quel trattato a lord Clarendon, e nello stesso tempo gli fece conoscere il vivo desiderio del suo Governo di vedere

(27) Dispaccio di Pastor-Dias, Madrid 28 ottobre 1856.

(28) Dispaccio Carafa al marchese Riario Sforza in Madrid, Napoli 11 novembre 1836.

(29) Dispaccio Antonini, Bruxelles 19 febbraio 1857.

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l'Inghilterra nell'interesse della quiete dell'Europa riconciliata colla Corte napoletana. Il ministro inglese non si mostrò per nulla arruffato. - Ebbene, rispose Clarendon, se il re di Napoli vuol ordinare che questa convenzione ci sia comunicata oflìcialmente, e se egli è disposto a lasciar partire per la Repubblica Argentina tutti i prigionieri di stato che lo chiederanno, noi potremo ristabilir seco le nostre relazioni diplomatiche. - Dovrebbero esser compresi, chiese Bernstorff, anche coloro pei quali è aperto tuttavia il processo. - Certamente che si, rispose Clarendon: il re non amerà troppo di manifestare il suo desiderio di riannodare con noi le consuete relazioni diplomatiche, e noi non lo chiederemo mai; tuttavia si potrebbe trovare una formola accomodevole a tutti: per esempio il commendatore Carafa potrebbe scrivere un dispaccio per dichiarare che il re di sua spontanea volontà era venuto da lungo tempo nel pensiero d'entrare nella via di moderazione per la quale l'Inghilterra aveva manifestato il pensiero di vederlo, e che quindi era giunto a conchiudere colla Repubblica Argentina una convenzione che mettevalo in grado di compiere gli atti di clemenza da lui stabiliti.

Sono pronto a tutto, concluse Clarendon, anziché lasciar sospettare ch'io intenda incoraggiare le tendenze rivoluzionarie (30). - Bernstorff ragguagliò di questo colloquio l'ambasciatore di Prussia in Parigi onde da parte sua tasteggiasse Walewski. Questi volle prima conferire con lord Cowley, poi disse al conte di Hatzfeld: - Ove tutti i condannati politici delle Due Sicilie assentino di migrare nella Repubblica Argentina, tra la Francia e il Governo napoletano si potranno ristabilire le relazioni diplomatiche.

(30) Lettere riservatissime Bernstorff al commendatore Carata Londra 15 gennaio e 1 feltraio 1857.

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Esso dovrà, nei modi che gli torneranno più graditi, dare ufficiale comunicazione della patteggiata convenzione ai Gabinetti di Londra e di Parigi; in pari tempo accennerà loro gli atti di clemenza compiuti dal re conforme ai desiderii manifestatigli, ed esprimerà il suo desiderio di riannodare con loro i consueti rapporti diplomatici (31). - Il Gabinetto di Pietroburgo, tenuto a giorno di siffatte pratiche confidenziali della Prussia, inviò al re di Napoli questi consigli: - Verso l'Inghilterra non facesse alcun passo né avanti né indietro, ma aspettasse le determinazioni ch'essa prenderebbe come fosse eseguito a pieno il trattato colla Repubblica Argentina in modo da essere condotti in America tutti i prigionieri politici del regno.

Egli si accostasse invece alla Francia chiedendola del rinvio in Napoli della sua legazione, partiti tutti gl'imprigionati per delitti politici (32). Ferdinando teneva d'occhio questa corrispondenza. - Si risponda, ordinò al Carafa, a Bernstorff e a Halzfeld che ho visto con dispiacere che si continua a proteggere la birbanteria e la rivoluzione. Della convenzione argentina profitterà chicchessia, tranne i condannati all'ergastolo, e coloro ai quali è stata commutala la pena di morte. Si ripeta poi quello che già da un anno andiam dichiarando, che il Governo napoletano non crede di derogare in nulla alle sue massime, e che non vuole né può fare alcun'emenda verso la Francia e l'Inghilterra; e che bensì ò pronto a rannodare con esse le relazioni diplomatiche, purché sieno prime a chiederlo (33). - Carafa scrisse tutto ciò a Bernslorfl concludendo cosi: - Noi abbiamo molte ragioni per non toglierci dalla via finora seguita.

(31) Lettere riservatissime Hatzfeld al commendatore Carafa, Parigi 22 febbraio, 19 marzo 1857.

(32) Dispaccio riservatissimo Regina, Pietroburgo 1 marzo 1857.

(33) Appunti di mano di Ferdinando II al Carafa.

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Attualmente è dimostrato sino all'evidenza che nel Congresso di Parigi non si ebbe punto il desiderio d'assodare la quiete e di combattere la rivoluzione in Italia. In ogni modo noi non abbiamo mai tralascialo dall'avvertire che, se anche si avesse avuto questo pensiero, praticamente si giungerebbe a un risultato opposto. I fatti sono venuti a darci piena ragione. L'agitazione rivoluzionaria ben tosto si è manifestata in Sicilia e nelle provincie continentali del regno: in conseguenza di essa è divenuto impossibile al Governo del re di procedere nell'intrapresa via della clemenza; esso ha dovuto retrocedere per salvare l'ordine pubblico, e proteggere i buoni contro i malvagi. Non bisogna dimenticare che i rivoluzionari fanno la guerra col pugnale alla mano, e che mirano ad abbattere la religione e a sconvolgere l'ordine sociale. La mano degli assassini è diretta da scellerati uomini, i quali con libertà cospirano sul suolo della Francia e dell'Inghilterra. Veramente il Governo napoletano ben diversamente si diporterebbe ove nel suo Stato si cospirasse contro la regina Vittoria o contro Napoleone III: neanco esso lascierebbe libero corso alle invettive d'una stampa quotidiana a noi mortalmente nemica. Le navi inglesi e francesi che sono in crociera sulle nostre coste, accordano ospitalità ai rivoluzionari più ribaldi, vendono armi e munizioni da guerra. Gli agenti consolari francesi e inglesi con discorsi violenti eccitano le popolazioni alla ribellione. Il Governo del re sa che di recente giunse dall 'Inghilterra danaro in Sicilia, ove per turbar l'ordine si fanno circolar voci di prossimi sbarchi di truppe inglesi. E dietro tutto ciò si pretenderebbe che il re si mostrasse clemente verso i principali strumenti dei disegni segreti dei Gabinetti di Parigi e di Londra? Nel proteggere costoro, la Francia e l'Inghilterra non cercano

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punto il bene dell'Europa, ma mirano ad aumentare il numero de' rivoluzionari per meglio turbar la quiete del nostro regno. È da lungo tempo che, massime da segreti agenti francesi, si lavora a corrompere per moneta la fedeltà delle nostre milizie. Ciò passa i limiti d'ogni tolleranza; e debbo quindi dichiarare per ordine espresso del re che egli non intende di fare la minima concessione, nasca ciò che può nascere (3). - In queste dichiarazioni nulla eravi di dignitoso, molto di bugiardo e di sleale, giacché si architettavano in aggravio della Francia e dell'Inghilterra maneggi indegni per isgravarsi dall'obbligo di migliorare le condizioni politiche del regno. A troncare del tutto le speranze concepite dal Gabinetto di Berlino di giungere ad attutar i mali umori della Francia e dell'Inghilterra verso il Governo napoletano, sopravvenne il fatto seguente. Sui primi dell'aprile del 1857 avendo il conte di Bernstorff scritto al ministro Carafa che Clarendon sempre si querelava del procedere inumano del Governo di Napoli, il re ordinò gli si rispondesse che siffatta dichiarazione era un oltraggio alla sua indipendenza sovrana, onde crederebbe venir meno al proprio decoro se permettesse che più oltre si conducessero pratiche d'accomodamento (35). La tracotanza del Borbone rimase appagata. Fin che egli stette sul Irono, Francia e Inghilterra gli lasciarono l'impunità di spregiare i loro consigli, le loro minacele, e di mantenersi irremovibile nel seguitar l'opera del suo Governo dispotico. Ma giustizia si farà, e sarà un vero giudizio di Dio!

(34) Lettera riservatissima Carafa, Napoli 20 marzo 1857.

(35) Lotterà Bernstorff, Londra 4 aprile 1856. - Lotterà Carafa, Napoli 11 aprile 1836.

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III.

Per dare aperta testimonianza che la diplomazia era impotente a sanar i mali civili da cui il Congresso parigino aveva riconosciuta travagliata l'Italia, ai modi tenuti dal Governo napoletano si accoppiarono quelli della Corte romana. Nel farsi a chiederle migliorie civili, Francia e Inghilterra usarono maniere rimesse e blandevoli. Walewski, al quale in realtà nel fondo dell'animo tornava gravoso che fosse venuta in campo una questione italiana, si aprì alla libera col nunzio pontificio in Parigi, e nel consigliarlo a scrivere al papa che la Francia rimarrebbe soddisfatta e grata ov'egli introducesse qualche riforma nel suo governo, poco mancò che il conte Alfonso di Rayneval non si buttasse ginocchioni innanzi al cardinale Antonelli nel dirgli: - Eminenza, non vi sono parole capaci a esprimere l'ardenza della devozione che l'imperatrice e l'imperatore professano al Santo Padre. Come sovrano della Francia, l'augusto mio signore m'ha incaricato di assicurare Sua Santità del suo più cordiale e fedele appoggio. L'imperatore pone a servizio del papa gli eserciti della Francia per tutelargli l'integrità e l'indipendenza del suo dominio temporale. Se tanta devozione potesse aprir la via ad alcuni benevoli consigli, io tengo l'ordine di caldeggiare le riforme che i bisogni de' popoli reclamano (36).

Anche i ministri inglesi, solleciti di temperamenti, procedettero nelle loro domande blandi al segno da porre in opera i buoni uffizi dell'Austria e del Governo toscano.

(36) Dispaccio riservato De Martino al Carafa in Napoli, Roma 14 ottobre 1856.

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Ma i Gabinetti di Parigi e di Londra s'ingannavano nello sperare di vincere in tal maniera la pertinacia della Corte pontificia. Antonelli, a cavarsi d'impaccio, dichiarò che erano compiute o in sull'attuarsi le riforme richieste (37).

Coll'usata sua astuzia il segretario di stato pontificio maneggiò le cose in modo da indurre il legato francese in Roma a farsi certificatore di ciò al suo Governo.

Il conte Alfonso di Rayneval mandò a Parigi un memoriale suo per dichiarare innanzitutto che le cagioni primarie delle irrequietezze civili de' sudditi del papa erano l'amara ricordanza delle grandezze trascorse, e la pungente vanità di nuove fortune impossibili. In quanto agli Italiani, erano spogli delle gagliarde e nobili qualità d'un popolo meritevole d'esser libero e rispettato. Snervali, discordi in tutto, inetti ad attendere alle pubbliche cose, a sopportare le fatiche della milizia, i popoli della penisola a torto incolpavano i proprii Governi d'un decadimento ch'era effetto de' loro vizi naturali. L'esempio dei Piemontesi a nulla valeva, da poiché essi non erano italiani, ma piuttosto svizzeri e francesi. Peggiori poi di tutti gli Italiani erano i sudditi del papa, travagliati da un inviluppo tale d'inestricabili discordie e ambizioni da sospingere inevitabilmente il paese in preda dell'anarchia ove di nuovo, dietro i concetti del partito liberale moderato, venisse riformata la pubblica amministrazione. Né oravi alcun reale bisogno di far ciò: le riforme più utili erano state attuate, e tutto negli ordini governativi dello Stato pontificio trovavasi improntato del suggello della ragione, della saviezza, del progresso. I processi in materia politica s'instituivano con regolare andamento, le sentenze erano date con mitezza, le finanze miglioravano, l'agricoltura prosperava, le pubbliche carriere erano aperte

(37) Dispaccio riservato De Martino, Roma 16 ottobre 1850.

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a chicchessia; insomma nulla era a mutare, nulla da aggiungere, perché ogni cosa procedeva a meraviglia (38).

Ma encomi cosi sperticati non potevano capacitare il Governo francese: come quindi esso volle vedere se colla cooperazione dell'Austria poteva spuntare la resistenza della Corte pontificia nel piegarsi a riforme civili, richiamò da Roma il conte di Rav nevai.

Il cardinale Antonelli presentì queste nuove istanze, e a prevenirle s'appigliò a una nuova astuzia. Fu stabilito che Pio IX facesse un viaggio per i dominii della Chiesa, egli avrebbe splendide e rumorose accoglienze, le quali attesterebbero alla Francia che i sudditi pontifici vivevano tranquilli e soddisfatti del proprio Governo. Ma per quanto si usasse minuta diligenza negli apparecchi onde la commedia riuscisse bene, i fatti non corrisposero alle concepite speranze. La presenza del Sommo Gerarca del mondo cattolico svegliò riverenza e in alcuni luoghi suscitò l'entusiasmo del minuto popolo (39). Ma al re sacerdote le classi indipendenti per fortuna e stato indirizzarono caldi voti perché si apportassero rimedii efficaci ai mali che affliggevano il paese. Antonelli, quanto più potè, si adoperò a imbavagliare i reclamanti: ma vista l'impossibilità d'impedire del tutto quella manifestazione della opinione pubblica, iroso iva dicendo: - Ma nulla si concederà, assolutamente nulla, perché non vi è nulla a fare (0). - Avendo così fisso il chiodo, è facile comprendere quanto dovesse tornare amara al segretario di stato pontificio l'amnistia politica accordala in quel tempo

(38) Dispaccio Rayneval al conte Walewski, Roma 14 maggio 1856.

(39) Indirizzo dei Bolognesi, luglio 1857. - Indirizzo del Municipio di Ravenna a Pio IX, luglio 1857. - Indirizzo dei popoli delle Romagne, 2 giugno 1857. - Dispaccio De Martino, Roma 17 giugno 1857.

(40) Dispaccio riservato De Martino al ministro degli affari esteri n Napoli, Roma 11 giugno 1857.

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dall'imperatore d'Austria. Essa, a giudizio d'AntonelIi, era un grave errore politico, da che non giovava per mettere in tranquillo i Veneti e i Lombardi, e danneggiava gli altri stati italiani che non intendevano scendere a simili atti di debolezza (41).

Le riforme che nell'anno 1857 la Francia sollecitava dalla Corte pontificia, erano le seguenti, manifestale sotto la modesta forma di desiderii. Vi sarebbe un Consiglio di Stato composto di consiglieri ordinari e straordinari. I primi verrebbero scelti dal papa tra i primari funzionarii pubblici laici: i secondi laici o ecclesiastici verrebbero presi tra coloro, i quali avevano tenuto cariche pubbliche di rilievo, e prenderebbero parte alle adunanze generali del Consiglio di Stato convocate per ordine del sovrano. Questo Consiglio, diviso in sezioni rispondenti ai ministeri, sarebbe incaricato di proporre, discutere e votare nelle sue adunanze generali tutte le leggi in materie civili, amministrative e governative. Le deliberazioni sue tuttavia non sarebbero obbligatorie per il papa. Al Consiglio di stato spetterebbero pure altre incombenze d'ordine amministrativo e giudiziario, da stabilirsi poi.

I ministri avrebber diritto d'intervenire nelle conferenze del Consiglio di stato con voto. Sarebbe inoltre istituita una Consulta composta di quaranta consultori, eletti dai Consigli provinciali. La Consulta verrebbe chiamata a discutere e a votare i bilanci preventivo e consultivo di ogni anno, e le leggi relative a imposizioni di tributi. Le sedute della Consulta non sarebber pubbliche, ma ne verrebbero pubblicati gli atti nel diario governativo. Spetterebbe ai Consigli municipali la nomina dei membri dei Consigli provinciali. Questi attenderebbero alla trattazione

(41) Dispaccio Bargagli. al ministro degli affari esteri in Firenze, Roma 31 giugno 1857.

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degli all'ari attenenti alla provincia, e costituirebbero presso il legato un Consiglio con attribuzioni speciali. I consiglieri comunali verrebbero eletti conformemente all'editto pontificio del 20 novembre 1850. Si dovrebbe promulgare un codice di leggi civili, e per esempio o il codice lombardo-veneto, o il codice di Napoleone, o quello di Modena o di Napoli. I processi si dovrebber chiudere al secondo grado di giurisdizione. In Roma vi sarebbe un tribunale supremo di cassazione, costituito di giudici laici per metà e per l'altra chierici. Verrebbero abolite tutte le giurisdizioni speciali, eccettuata la giurisdizione ecclesiastica mantenuta per le cose penali. Per la riscossione dei tributi si potrebbero adottare le norme praticate in Francia. La Santa Sede avrebbe esercito proprio, raccolto per coscrizione. Il Santo Padre darebbe amnistia ai condannati e ai proscritti politici, salve poche eccezioni; e verrebber chiusi tutti i tribunali statari. I ministri sarebbero scelti dal papa come meglio giudicasse, dal ceto laico o dall'ecclesiastico.

Nel luglio del 1857 Walewsky inviò a Vienna queste proposte onde vi fossero esaminate. Due mesi dopo il barone Hubner, legato austriaco in Parigi, le rimise al ministro francese sopra gli affari esteri postillate dal conte di Buol. Egli vi aveva cancellato tutto ciò che si doveva fare per voto deliberativo, o che aveva le apparenze di Governo rappresentativo. Laonde il Consiglio di Stato era chiamato soltanto a esaminare le leggi e i regolamenti amministrativi, che il Governo gli sottoporrebbe.

I membri della Consulta doveano venire scelti dal papa fra i candidali presentati dai Consigli provinciali. La Consulta non avrebbe alcun voto deliberativo, ma unicamente darebbe il suo parere nelle materie finanziarie. Anche i consiglieri provinciali verrebber scelti dal papa fra i candidali presentali dai Consigli municipali, e l'opera loro

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sarebbe ristretta a discutere le pubbliche spese locali e la ripartizione delle imposte provinciali. Non si doveva proporre un'amnistia generale, ma soltanto domandare al papa che usasse della sua clemenza sovrana verso coloro che si mostrassero pentiti. In ordine alle riforme giudiziarie, bastava che il Governo pontificio codificasse le sue leggi civili e criminali, e riformasse il suo codice di procedura (42).

Si era sempre da capo dopo ventisei anni di pratiche diplom

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atiche pressoché mai interrotte. La Francia dava consigli non troppo larghi di riforme civili, ma trovava mai sempre tergiversante l'Austria, e cocciuta a non muoversi la Corte pontificia. Al cardinale Antonelli interessava innanzitutto di conoscere il vero pensiero dell'Austria in questa nuova sollecitazione di riforme. Ciò gli riuscì facile, da che il nunzio pontificio a Vienna gli scrisse che essendosi portato dall'imperatore, questi aveagli detto che, se le sue alleanze lo obbligavano ad associarsi alla Francia per ripetere consigli più volte dati di migliorare gii ordini amministrativi dello Stato romano, tuttavia non avrebbe assentito mai a chiedere al papa riforme sostanziali negli ordini politici, e che in ogni modo il Santo Padre era il solo giudice competente a scegliere le riforme opportune (43). Reso tranquillo da questo lato, il segretario di stato pontificio lasciò che la Francia continuasse a dar il capo nel muro. - Che se, Antonelli disse al Bargagli, l'imperatore Napoleone pretendesse di troppo consigliare, e tanto più d'imporre, il papa è nella ferma risoluzione, nella quale io lo manterrò sempre forte, di resistere a tutto, e di non lasciare minimamente manomettere la sua indipendenza;

(42) Annesso ni dispaccio Buol del 17 agosto 1857.

(43) Dispaccio Bargagli al ministro degli affari esteri in Firenze, Roma 3 settembre 1857. - Dispaccio De Martino al Carafa in Napoli, Roma 1" ottobre 1857.

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al che fare il Santo Padre sente d'avere tutta la forza (44). - Coll'ingrossare de' tempi vedremo sin dove questa forza giovò alla Santa Sede per salvare l'integrità del suo principato temporale.

Per ora basti avvertire che Pio IX e Antonelli, quanto Ferdinando II di Napoli, avversi ai consigli e ai propositi dei diplomatici francesi e inglesi, indirettamente avvaloravano la rivoluzione che bolliva, fomentata da una civiltà, la quale, infaticabile ne' suoi progressi, voleva o d'un modo o d'un altro fare il suo cammino.

(44) Dispaccio Bargagli sopracitato.

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CAPITOLO NONO

Sommario Indirizzo dato da Cavour alla politica piemontese dopo il Congresso di Parigi - Reclami dell'Austria - Contegno del Piemonte di fronte ai medesimi - Osservazioni - Ingerenze austriache negli affari interiori degli Stati italiani retrivi - Politica del Piemonte in Dalia nei primi dieci mesi dopo il Congresso di Parigi - Parte presa dalla Sardegna nelle contestazioni diplomatiche sulle cose d'Oriente, dopo il trattato di pace del marzo 1856 - Mutamento di politica dell'Austria in Italia - Contegno del Gabinetto di Torino - Primordii di rotture diplomatiche tra le Corti di Vienna e di Torino - Note di Buol - Posposte di Cavour - Interruzione di relazioni internazionali tra l'Austria e la Sardegna - Pratiche in proposito a Parigi dei Gabinetti di Torino e di Vienna - Risultati dei tentativi dell'Austria per porre la Sardegna nell'isolamento politico - Pratiche dell'Inghilterra favorevoli all'Austria - Come accolte dalla Francia e dal Piemonte - Riaccostamento della Sardegna alla Russia - Consigli della Francia e della Russia al Gabinetto di Torino - Considerazioni.

I.

Il conte Cavour al suo ritorno dal Congresso, ripreso il ministero degli affari esteri (i), diede alla politica piemontese un aperto indirizzo nazionale con un coraggio che di molto non si scostava dall'audacia. Con disgusto dei Gabinetti di Londra e di Parigi egli pubblicò il memoriale che i plenipotenziari sardi avevano presentato al Congresso sulle condizioni infelici dell'Italia (2).

(1) Ratificato il trattato di Parigi il senatore Luigi Cibrario cedette il portafoglio degli affari esteri al presidente del Consiglio, che gli fece aperto il suo desiderio di riaverlo. Il re accordò al Cibrario le onorificenze di primo presidente della Corte d'appello; più tardi, per altri segnalati servigi alla dinastia ed al paese, il re diede al Cibrario i più alti gradi e onori civili del regno.

(2) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 9 giugno 1856. - Dispaccio confidenziale d'Azeglio, 7 giugno 1856.

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Poi senza ambagi egli dichiarò in Parlamento che, per inevitabile conseguenza degli ordini liberi di governo che il re manteneva, Austria e Sardegna erano lontane più che mai dal mettersi d'accordo; la questione italiana per la prima volta essere stata portala e discussa avanti ad un Congresso europeo, non come ai Congressi di Lubiana e di Verona per aggravare i mali d'Italia e per ribadirle le catene della servitù; ma con aperto intendimento di sanare le sue piaghe; la causa d'Italia, affidata in tal maniera al tribunale della pubblica opinione cui spettava l'ultima sentenza, potere scontrare una lotta faticosa, ma sua sarebbe la vittoria finale (3).

L'allegrezza delle popolazioni italiane per queste dichiarazioni fu grande da un capo all'altro della penisola: ma non meno grande fu l'acerbezza onde le accolsero i principi e i Governi retrivi. I Sovrani vassalli all'impero se ne querelarono aspramente a Vienna. Il conte Buol, più di tutti irritato, indirizzò alle legazioni imperiali presso le Corti di Roma, Napoli, Firenze e Modena una nota, nella quale qualificando di appassionato libello contro l'Austria la nota sarda del 16 d'aprile, iroso favellava così: -; L'Austria non può assentire alla Sardegna d'alzar la sua voce in nome dell'Italia, da che in conformità del diritto pubblico europeo nella penisola esistevano soltanto Stati gli uni dagli altri affatto indipendenti. Il Gabinetto di Vienna l'aveva sempre apprezzata e rispettata questa indipendenza, come ne potevano fare ampia testimonianza i Governi italiani. A giudizio del conte di Cavour il soggiorno prolungato delle milizie austriache in alcuni Stati della penisola era un fomite di malcontento. Ma al contrario quelle occupazioni militari erano rese necessarie dai discorsi incendiari che

(3) Seduta della Camera dei Deputati 1856.

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echeggiavano sotto le volte del Parlamento sardo, diretti a eccitare le passioni politiche, e a incoraggiare le speranze colpevoli del partito rivoluzionario. La Sardegna negava a una Potenza il diritto d'intervenire in un altro stato anche dopo un formale invito; ma questa era una massima di diritto internazionale, che l'Austria giammai aveva voluto riconoscere. Essa intendeva di mantenere inalterato il diritto di prestare soccorso armato ai vicini che lo domandassero contro nemici interni od esterni.

Nutrire sospetti intorno questi aiuti era vano, da che il libro della storia era aperto per tutti ad attestare che l'Austria non fu mai guidata da occulti pensieri o da interesse proprio nel concederli, e che tosto li fece cessare ogniqualvolta i Governi che avevanli domandati dichiararono di poter conservare la tranquillità pubblica senza armi forestiere. Ma questa tranquillità non poteva essere se non che un semplice desiderio, fintanto che vi erano paesi che accordavano protezione ai rivoluzionari, e vi erano uomini di Stato, i quali non rifuggivano di fomentare e di spalleggiare moti sediziosi di popolo. L'Austria non era avversa alle savie riforme volute dalla libera e spregiudicata volontà dei Governi; ma in pari tempo era deliberata a respingere con tutte le sue forze qualsiasi aggressione, e a fare ogni sua possa per isventare i tentativi dei macchinatori di ribellione e d'anarchia (4). - Per dare maggior peso a questa sua nota, Buol la rese tosto di pubblica ragione, e così aggravò l'errore di averla scritta. Cavour, a non render l'arco inopportunamente troppo leso, non diede alcuna risposta diplomatica a siffatta stizzosa dichiarazione; soltanto egli scrisse confidenzialmente ai legati del re in Parigi, Londra, Berlino e Pietroburgo onde all'opportunità usassero delle seguenti

(4) Nota Buol, Vienna 18 maggio 1856.

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avvertenze: - Se il conio Buol vorrà leggere il mio discorso, potrà convincersi che da parte mia non vi sono state ne provocazioni, né eccitazioni, né recriminazioni contro l'Austria. Io mi sono ristretto a constatare un fatto divenuto notorio a tutta Europa, cioè che i plenipotenziari sardi e i plenipotenziari austriaci si sono lasciati senza che tra loro fosse avvenuto un accostamento. Se questa dichiarazione contiene una provocazione, la responsabilità deve cadere sui diplomatici austriaci, i quali per due mesi hanno respinto tutti i tentativi di riconciliazione, e non vollero in alcun modo secondare i benevoli intendimenti della Francia e dell'Inghilterra per stabilire un accordo tra la Sardegna e l'Austria intorno la questione italiana. Il mio discorso alla Camera legislativa non è stato se non che la ripetizione attenuata dalle cose da me dette al conte Buol nell'ultimo colloquio che ebbi seco. L'Austria si lamenta a torto del nostro linguaggio, e non ha alcun argomento legittimo d'insospettirsi del nostro contegno bellicoso. Benché le sue occupazioni minaccievoli di Parma e di Piacenza, e la sua manifesta intenzione d'occupare militarmente gli Apennini che dominano la riviera di Levante, ci autorizzassero in qualche modo a prendere necessarie precauzioni; tuttavia non ci siamo mossi.

Riconoscendo gli sforzi generosi che fanno i Governi di Francia e d'Inghilterra per indurre i Governi italiani e l'Austria stessa a migliorare le sorti infelicissime de' propri sudditi, noi ci asteniamo da qualunque atto che possa fornire a questi principi e al Gabinetto di Vienna un pretesto di rifiutarsi ad aderire a consigli così vantaggiosi

(5). - Questo contegno tranquillo più giovava dopo che la nota austriaca aveva scontrato la disapprovazione di tutta

(5) Dispaccio confidenziale Cavour, Torino 21 maggio 1856.

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la stampa liberale francese, inglese e germanica. Era un segnalato servizio che il conte Buol aveva reso al Piemonte rendendogli vieppiù favorevole l'opinione pubblica d'oltremonte, e chiamando sull'Austria solenni incolpazioni di doppiezza. Se v'era un tasto da non toccare, era quello degli interventi austriaci in Italia. Porli con ostentazione sotto un aspetto contrario al vero, era un ridestare contr'essi maggiori accuse e recriminazioni. E così fu.

Era bensì conforme al vero che il diritto pubblico europeo riconosceva nella penisola soli stati indipendenti: ma per l'appunto era questo fatto la base primaria che i diplomatici piemontesi avevano posto all' edilìzio della loro politica nazionale. Dopo che i plenipotenziari dei maggiori potentati nel Congresso aveano dichiarato che i cattivi procedimenti dei Governi erano la cagione principale delle irrequietezze politiche dell'Italia, Buol dava nuova prova, dannosa all'Austria, di malevolo dissenso, coll'incolparne il Piemonte. Le dichiarazioni da lui fatte delle benevoli intenzioni dell'Austria di favoreggiare negli Stati italiani le ben intese riforme, erano derisioni nocive a chi facevale, da che i fatti attestavano tutto il contrario. Lo che viene dimostrato qui appresso.

Accennammo come nel marzo del 1856 il ducato di Parma fosse caduto nella piena soggezione dell'Austria.

Le cose erano procedute così. Morto per assassinio il duca Carlo III, sua moglie Maria Luisa di Borbone avea assunto la reggenza dello Stato, accennando di volersi svincolare dal vassallaggio austriaco per dar mano a riforme civili, valevoli a rimettere i sudditi in tranquillo.

Ma l'Austria vegliava, pronta sempre a impedire che i Governi italiani tenuti in dura tutela facessero migliorie, che gli accostassero alla politica del Piemonte. L'occasione per inciampare i passi alla reggente non tardò a presentarsi. In sul finire del luglio di quell'anno il legato

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sardo presso la Corte di Parma, dietro le informazioni raccolte dal marchese Giuseppe Pallavicino, ministro per gli affari interiori della duchessa, scriveva al suo governo nei termini seguenti:

Sopravvenne il disgraziato movimento mazziniano nella città di Parma, preparato e condotto dalla setta colla consueta sua stolta avventatezza.

Esso, a quanto mi accertò il marchese Pallavicino, fu di leggieri represso dalle truppe ducali senza l'intervento delle austriache. Ma ripristinato l'ordine in ogni parte della città, e quando il governo parmense aveva già pubblicato un proclama con cui invitava i cittadini a tornare ai propri affari senza timori di scompigli ulteriori, i tirolesi ubbriachi irruppero nelle strade più frequentate sparando colpi di fucile contro le finestre e contro i viandanti, depredando le botteghe, e commettendo insomma ogni sorta di disordini. Vi furono non poche vittime. Come è noto a V. E., questo luttuoso avvenimento inasprì maggiormente parte della popolazione contro il proprio governo (6).

A questi procedimenti brutali tenner dietro, come sempre, nuove violenze settariche scellerate. Così tosto maturarono i frutti desiderati dal Governo austriaco. La duchessa atterrita si gittò tra le braccia dell'Austria, onde la sorreggesse contro il selvaggio imperversare delle sètte assassine. L'invocato soccorso venne sollecito, ma negli usati modi. Il generale austriaco Crenneville, nel prendere suprema autorità militare in Parma, chiese che il promulgato stato d'assedio fosse definito conforme le leggi austriache di gran lunga più severe delle territoriali, e che nel tribunale di guerra avesse voto deliberativo il processante militare austriaco. La duchessa assenti a questa seconda domanda, non alla prima. Ma gli Austriaci volevano pieno arbitrio di far quello che più loro garbava. Il Consiglio di guerra pertanto indirizzò

(6) Dispaccio Sauli al presidente del Consiglio in Torino, Firenze 31 luglio 1856.

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alla duchessa un memoriale per essere investito della podestà d'allargare la inquisizione e la cognizione a tutti i crimini di carattere politico, sebbene di gran tratto anteriori alla promulgazione dello stato d'assedio, e di sottoporre inoltre a un nuovo giudizio i già condannati alla pena di morte, commutata in quella della galera in vita, ove si giungessero a scoprire a loro carico crimini anteriori punibili eziandio colla pena di morte (7). Questo memoriale, monumento per lo meno dell'ignoranza in que' giudici dei primi rudimenti del diritto di punire, ebbe dalla reggente una ripulsa, comunicata al Consiglio di guerra dal ministro Pallavicino segretario del Gabinetto. Crenneville nel leggerla avvampò di sdegno, e con soldatesca arroganza scrisse alla duchessa che egli intendeva di ricever ordini e istruzioni soltanto da lei, e che non darebbe corso alla risposta dal suo segretario di gabinetto, essendoché per essa veniva inibito d'infliggere la pena meritata agli assassini del duca Carlo III (8).

Oltraggiata così villanamente nel suo decoro di donna e di principessa, Maria Luisa scrisse al maresciallo Rade tzki così:

Questo procedere e queste parole mi hanno offeso: tosto lo dico al mio caro maresciallo, che è il vero amico mio. Tengo immensamente non solo alla vostra amicizia, ma all'appoggio così leale, sommesso e necessario dell'esercito austriaco. Vi prego quindi di voler allontanare da Parma il conte di Crenneville, che io considero come mio personale offensore. Dolgo che egli appartenga all'esercito austriaco, e che sia di nascita francese: sono due qualità, che sono abituato a stimare e ad amare. Se più tardi avrò la soddisfazione di vedervi, mio caro maresciallo, vi potrò parlare più minutamente intorno a questo affare. Debbo tuttavia aggiungere una parola.

(7) Memoriale del presidente del Consiglio di guerra, Parma 26 maggio 1856.

(8) Lettera Crenneville alla Reggente, Parma 28 maggio 1856.

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Crenneville mi ha minacciata che, se non cedo ai voleri suoi, farà richiamare l'auditore Kraus che voi avete avuto la bontà di prestarmi, e dei servizi del quale non ho che a lodarmi (9).

A queste blandizie il cuore del maresciallo restò di ghiaccio. Egli mandò a Parma il conte Thun Hohonstein, suo consigliere intimo, a spalleggiare Crenneville, e a maneggiarsi affinché l'aspro contrasto sfumasse come un semplice malinteso. Non riuscito nell'intento, Thun riferì le cose al maresciallo in modo da inasprirlo maggiormente. Onde Radetzky scrisse alla reggente scagionando Crenneville; e ponendo mano agli usati argomenti della cancelleria viennese per tenere imbrigliati i principi e i Governi italiani, conchiuse:

Vostra Altezza Reale, per le comunicazioni diplomatiche pervenute al suo gabinetto, conosce l'energico contegno preso dal Governo imperiale di fronte ai maneggi e alle minaccie della Sardegna rispetto al ducato di Parma. Sembra che i nostri comuni nemici, rinunziando alla speranza di pervenire colla forza a privare gli Stati governati da V. A. R. d'una protezione così potente e necessaria, quale è quella dell'Austria, abbiano concepito il disegno di conseguire questo intento per la via degl'intrighi. Augusta Principessa, la scongiuro a por mente con ogni studio a questi conati visibili di metterla in discordia per cose di poco momento co' suoi migliori alleati e amici (10).

Punta sul vivo da queste nuove insinuazioni malevoli, e del rifiutatole richiamo di Crenneville, la reggente rispose al maresciallo con dignità risentita, e si rivolse all'imperatore Francesco Giuseppe. Il ministro Pallavicino da parte sua scrisse all'incaricalo degli affari di Parma in Vienna affinché attestasse al conte Buol che la reggente e i suoi ministri erano deliberati a rimanere nei migliori termini d'amicizia coll'Austria, a seguirne la

(9) Lettera della Reggente Maria Luisa, Parma?8 maggio 1856.

(10) Lettera Radetzky, Verona 6 giugno 1856.

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politica, a dichiararsi avversari palesi del Piemonte: ma il ministero viennese, assicurato di tutto ciò, volesse poi assentire nel comune interesse che il Governo parmense non lasciasse scorger troppo a' suoi sudditi che era in dipendenza dell'Austria (11). Anche la reggente, nella sua lettera all'imperatore, professava devozione e obbedienza alla politica imperiale: ma ciò non le tolse di essere redarguita dal tutore imperiale. - Anziché essere ristrette, rispose Francesco Giuseppe, le attribuzioni del Consiglio di guerra si dovevano allargare, da che così si sarebbe impedito che sotto il ferro degli assassini cadessero nuove vittime, e si avrebbe usato l'unico espediente per isradicare macchinazioni e agitazioni politiche, le quali più tardi graviterebbero con tutto il loro peso sul Governo della reggente, e renderebbero più difficile la lotta sostenuta dall'Austria contro la rivoluzione (12). - Crenneville fu richiamato da Parma; ma al suo posto vi andò il barone Baumgarten, soldato di modi violenti.

Anche il duca di Modena aveva chiesto al Governo austriaco un auditore, che conducesse a bacchetta il tribunale militare da lui impiantato nelle provincie d'oltre Apennino. Da questo lato le cose procedettero di comune aggradimento; che Francesco V mal tollerava la mitezza nelle colpe politiche. Era la lega doganale che tornavagli gravosa. Ma a lenificarlo l'imperatore diceva al legato estense in Vienna: - Corrono giorni nei quali, all'infuori del Governo piemontese che non si ha termini per qualificare, tutti gli altri Governi italiani debbono tenersi stretti all'Austria. Conseguentemente deploro che

(11) Dispaccio confidenziale Pallavicino al commendatore Thomasin in Vienna, Parma 9 giugno 1850.

(12) Lettera dell'imperatore Francesco Giuseppe, Luxemburgo 20 giugno 1856.

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anche nei ducati non si valutino a sufficienza i pericoli d'un distacco da noi. Abbandonati dall'Austria, i Governi italiani dovrebbero cercare appoggio in coloro, che anelano a distruggerli. La lega doganale dev'essere valutata in ordine a' suoi vantaggi politici.

Se dal lato economico non è riuscita vantaggiosa ai ducali, l'Austria vedrà di compensarli. Cosi favellando non intendo di misconoscere menomamente la saviezza politica di 3. A. il duca Francesco V. Io fo pieno assegnamento al contrario sulla fermezza d'animo per vedere distrutti gli influssi contrari all'alleanza coll'Austria, che pure serpeggiano ne' suoi Stati (13). - Mescolando in tal maniera la lode all'ammonizione, l'imperatore metteva in guardia il duca di non lasciarsi smuovere d'un palmo dalla politica retriva fin allora praticala.

I soldati austriaci erano usciti dalla Toscana; ma a reggerla vi era rimasto un arciduca austriaco, e ministri divenuti per animo pusillo agenti austriaci. Al lettore sono conte le umiliazioni e le soperchierie ingoiate dai ministri toscani per lo imperare assoluto in tutto e su tutti dei generali austriaci nel granducato. Baldasseroni tuttavia si mostrò così servile da dar lode di veritiero al conte Buol perle cose da lui affermate intorno agli interventi armati dell'Austria nella nota del 18 maggio. Il presidente del Consiglio toscano inoltre incaricò il cavaliere Lenzoni di presentare al ministro austriaco sulle cose esteriori un dispaccio, nel quale egli deplorava la discussione fatta nel Congresso intorno alle cose italiane, bistrattava il Piemonte per arrogarsi il diritto di favellare in nome dell'Italia, appuntava il conte Cavour di fomentare il disordine in paesi ch'erano tranquilli, e guarentiva che

(13) Dispaccio Volo al conte Forni, ministro degli affari esteri in Modena, Vienna 30 settembre 1856.

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il Governo granducale rimarrebbe fedele alla politica austriaca (14). Soddisfatti a queste dichiarazioni, ma non a pieno tranquilli, i governanti viennesi non tralasciarono di tener l'occhio fiso sulla Toscana, inviando spesso a' suoi governanti consigli non sempre in termini benevoli.

Come il re di Napoli ebbe respinto le rimostranze della Francia e dell'Inghilterra da noi narrate, il Gabinetto di Vienna temette che sopravvenissero aperte rotture, le quali inevitabilmente avrebber trascinato l'Austria in difficoltà inestricabili. A riparare in tempo utile, Buol cercò che il re facesse qualche atto di clemenza, e si appigliasse ad alcun altro temperamento, onde vi fossero le apparenze delle riforme civili sollecitate dalle Potenze occidentali. Al fine di condurle meglio in incanno, il Gabinetto di Vienna lasciò loro intendere officialmente che andava ad adoprarsi per indurre il re di Napoli a cedere. Ma Ferdinando si mostrò presuntuoso e ostinato al segno da non volere neanco seguire l'astuto consiglio dell'Austria (15). A tutta risposta si pose a fare palesi armamenti di terra e di mare: onde una sola scintilla poteva suscitare un incendio di guerra.

Per impedire questa prossima eventualità, a Vienna si deliberò di fare un secondo tentativo. Il legato austriaco in Parigi ebbe l'ordine di pregare il Gabinetto francese di soprassedere dal far ressa al re di Napoli, da che l'Austria stava per inviargli un oratore straordinario (10).

Il barone Hubner si portò in effetto in Napoli

(14) Dispaccio Baldasseroni al cav. Lenzoni in Vienna, Firenze 5 giugno 1856.

(15) Dispaccio Buol all'Incaricato d'affari austriaco in Napoli, Vienna 19 luglio 1856. - Dispaccio riservato Cantono al presidente del Consiglio in Torino, Vienna 28 luglio 1856.

(16) Dispaccio riservatissimo Antonini al ministro degli affari esteri in Napoli, Parigi 2 agosto 1856.

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sconsigliatore di un'amnistia generale, ma sollecitatore di parziali grazie politiche. Egli nulla ottenne, e il ministro Carafa gli disse:

- Io pure ho pregato colle lagrime agli occhi, e non ho conseguito nulla (17).

- Era ciò che nel fondo dell'anima desiderava l'imperatore Giuseppe. - Io mi sento angustiato, dicea egli al legato estense in Vienna, delle prepotenze praticate dalla Francia e dall'Inghilterra verso il re di Napoli. Tuttavia ho ferma fiducia che Ferdinando, per la sua fermezza d'animo, uscirà vittorioso dello ingiuste angustie in cui l'hanno posto i suoi nemici (18). - E come il conte Buol ebbe sentore, benché infondato, che il re di Napoli, a togliersi dalle strette, stava per appigliarsi al partito di portare la controversia all'arbitramento delle Potenze che avevano partecipato al Congresso di Parigi, chiamò tosto a sé l'ambasciatore napoletano, e con voce quasi convulsa per agitazione di animo, gli disse che Ferdinando aveva commesso un errore gravissimo, e che così operando faceva un vergognoso atto d'umiliazione verso la Sardegna (19).

Fra le Corti di Roma e di Vienna gli accordi duravano perfetti. Nello indagar le cause per cui l'Austria si era trovata prossima allo sfacelo, i suoi uomini di Stato erano venuti nella conclusione erronea che le avvenute ribellioni si dovessero ascrivere in buona parte alle leggi e alle tradizioni giuseppine, fecondate dallo spirito sovvertitore del secolo XIX. Essi inoltre avevano giudicato che, per giungere a sovrastare sugli influssi francesi in Roma, per imbrigliar meglio le irrequiete razze suddite

(17) Dispaccio confidenziale Fortis al conte di Cavour, Vienna 22 settembre 1856.

(18) Dispaccio Volo al ministro degli affari esteri in Modena, Vienna 30 settembre 1856.

(19) Dispaccio del principe di Petrulla al ministro degli affari esteri in Napoli, Vienna 15 ottobre 1856.

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della monarchia, e per contrastare con efficacia maggiore le ambizioni della Prussia e del Piemonte, conveniva entrare in intimi accordi religiosi colla Santa Sede, e averla aiutatrice a porre l'Austria, nell'interesse comune, a capo d'una lega di Stati cattolici italiani e tedeschi. Dietro questi concetti fu segnato il concordato del 18 agosto 1855, pel quale perì l'opera riformatrice di Giuseppe II, s'instaurarono privilegi da cento anni annullati dalle leggi austriache, rimase sanzionata la soggezione completa della podestà laica alla podestà ecclesiastica. La Corte romana a ragione se ne mostrò soddisfattissima; e quando, chiuso il Congresso di Parigi, la Francia e l'Inghilterra la sollecitarono di riformare lo Stato, s'appoggiò tutta sul Gabinetto di Vienna, al quale pareva senno squisito di governo praticare e consigliare le massime dei Congressi di Lubiana e di Verona, e la resistenza armata alle innovazioni civili chieste per l'Italia dalla Francia, dall'Inghilterra e dal Piemonte.

II.

Ora della politica della Sardegna negli stessi dieci mesi che susseguirono da vicino il Congresso di Parigi.

Narrammo come il conte Cavour, tornato di Francia, si procacciasse il destro d'invigorire gl'influssi egemoniaci del Piemonte, e di svegliare nella penisola una poderosa agitazione civile.

Ma dato ch'egli ebbe arditamente il primo impulso, il sagace statista si pose all'opera del far procedere il molo tranquillo e ammisurato entro gli stretti termini dell'attuabile ne' mezzi e nel fine. Nei disegni della sua politica pratica non conveniva riaccostarsi alla Corte di Roma. - Non è possibile, egli notava,

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di conservare la nostra influenza in Italia, se veniamo a patti col Pontefice.

Ove ci ponessimo in buoni termini con Roma, l'edifizio politico che da otto anni andiamo innalzando con tanta fatica, rovinerebbe da capo a fondo.

Io sono disposto alla conciliazione; vorrei dare alla Chiesa libertà maggiore di quella di cui gode; sarei inclinato a rinunziare agli exequatur, al monopolio universitario; ma nelle circostanze attuali sono persuaso che ogni tentativo d'accordi riuscirebbe a nostro danno. D'altra parte una conciliazione non è possibile mentre noi facciamo rimostranze diplomatiche, e pubblichiamo memoriali sul cattivo governo degli Stati pontifici, e la Corte romana spaccia come fresche novità le sue dottrine del medio evo (20). - Ma questo contegno ripulsivo Cavour non lo spingeva al segno da maneggiarsi per mezzi diretti o indiretti a suscitar torbidi nello Stato romano. Frattanto egli si teneva soddisfatto che nei sudditi del papa venissero acuti ogni giorno più i desiderii di riforme civili, e di mano in mano si facessero più manifeste e universali le insofferenze del dominio clericale.

Le condizioni intralciatissime del regno delle Due Sicilie consigliavano al ministero sardo di procedere verso di esse colla massima riserva a non mettere il piede in fallo. Le rimostranze delle Potenze occidentali a Ferdinando II assai avvalorarono l'efficacia de' mezzi morali, coi quali Cavour intendeva sollevare gli animi degli Italiani all'impresa nazionale; ma egli non vi si volle da principio intromettere per togliere il sospetto che il Piemonte si adoperasse ai danni d'un Governo italiano. Ma come nel settembre del 1856 Francia e Inghilterra accennarono di volersi appigliare agli estremi argomenti

(20) Lettere Cavour a Rattazzi, 2 e 3 agosto 1856. - Lettera Cavour a Villamarina, 26 giugno 1856.

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della forza, il conte deliberò di togliersi dalla politica di aspettazione.

Innanzitratto conveniva saggiare le intenzioni della Francia e dell'Inghilterra. A tal fine il presidente del Consiglio scrisse ai legati del re in Parigi e in Londra un dispaccio ostensibile, ove diceva: -

La Sardegna dopo aver fatti tutti i suoi sforzi nel Congresso di Parigi per fissare l'attenzione de' suoi alleati sulle deplorabili condizioni dell'Italia e massime del regno delle Due Sicilie, crasi astenuta dall'intervenire nelle pratiche intavolale dalla Francia e dall'Inghilterra verso il Governo napoletano, affinché non venisser posti in campo pretesti di diffidenze per continuare in un sistema che aveva eccitato la riprovazione dell'Europa.

Ma dappoiché le due Potenze avevano deliberato di proceder oltre ad atti valevoli a sospingere la Corte di Napoli a un partito che solo era atto a salvare la penisola dalla tempesta civile da cui era minacciata, la Sardegna crederebbe di venir meno a ciò che doveva a' suoi alleati, a se stessa e all'Italia ove, dopo l'iniziativa presa nel Congresso di Parigi, non procedesse nell'avvenire, rispetto alle cose napoletane, strettamente unita alla Francia e all'Inghilterra. Il Governo del re in tal maniera credeva di porgere una novella prova a' suoi alleati del desiderio suo sincero e disinteressato di cooperare all'assodamento della quiete d'Italia con mezzi efficaci (21). - Il Gabinetto di Londra accolse benevolo questa entratura, e lord Clarendon disse apertamente che la Sardegna non poteva operare in modo diverso (22). Il Gabinetto di Parigi invece non le fece buon viso (23). La cosa non ebbe seguito: come Cavour

(21) Dispaccio Cavour, Torino 26 settembre 1836.

(22) Dispaccio confidenziale Corti al presidente del Consiglio in Turino, Londra 1 ottobre 1856.

(23) Dispaccio Villamarina, Parigi 1 ottobre 1856.

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vide che le due Potenze si ristringevano a dimostrazioni che a lui sembravano assurde, smise ogni pensiero di parteciparvi (24).

Un ingrato pensiero tuttavia tormentava la mente di Cavour in ordine alle cose napoletane.

Egli conosceva i segreti maneggi, durante la guerra di Crimea in apparenza assentiti, in realtà osteggiati dall'Inghilterra, onde Luciano Murat figlio del re Gioachino fosse portato per pubblico suffragio sul trono di Napoli (25).

I Murattiani avevano ripreso con maggiore operosità i loro maneggi, com'era divenuto grave il disaccordo tra il re Ferdinando e i Governi di Londra e di Parigi. Cavour era informato delle loro più segrete pratiche a Parigi, a Londra e a Torino; aveva notizie precise del convegno tenuto ad Aix di Provenza dal principe Murat co' più fidati suoi partigiani.

Ma ciò che sovratutto premevagli di conoscere, era il segreto pensiero di Napoleone in tale faccenda. Per alcuni mesi egli rimase in una penosa incertezza;

alla fine giunse a sapere che l'imperatore avrebbe visto di buon occhio il figlio di Gioachino sul trono del più vasto degli stati italiani

, ma che in quanto all'opportunità di tentare l'impresa pensava si dovesse aspettare che sorgesse una guerra contro l'Austria.

Questo mutamento di dinastia nell'Italia meridionale, onde gli influssi francesi avrebbero enormemente pesato su tutta la penisola, non garbava punto al primo ministro di Sardegna.

Egli si adoprò quindi a svegliarvi contro la gelosia e l'interesse dell'Inghilterra, pure non celando che, ove gli avvenimenti portassero la Francia a spalleggiare a visiera alzata una impresa muratiana

(24) Dispaccio Cavour alle Legazioni sarde in Parigi e in Londra, 1 l ottobre 1856. - Lettera Cavour a Villamarina, 15 ottobre 1856.

(25) Lettera di Giuseppe Montanelli a Giuseppe La Farina, Parigi 11 settembre 1855. - Lettera La Farina al marchese di Torrearsa, Genova 16 settembre 1856. - Lettera La Farina all'avvocato Matteo Reali, Torino 17 settembre 1855.

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nel reame delle Due Sicilie, il Piemonte non vi si poteva opporre; che ove poi l'Austria movesse in armi a contrastarla, in tal caso le armi piemontesi entrerebbero in lotta onde afferrar l'occasione di sciogliere la questione italiana (26).

Frattanto a non rimanere colle mani alla cintola, Cavour volle saggiare, benché con isperanze scarsissime, se v'era modo di cavare qualche vantaggio dai corrucci e dalle paure che tormentavano l'animo di Ferdinando II.

Onde con modi di conversare dimestichevole, egli tenne al legato napoletano in Torino il discorso seguente: - Veramente il vostro Governo è uscito con decoro dalle spinose difficoltà in cui si è trovato. Esso ha saputo trarre profitto dalle circostanze per sciogliere con proprio utile un nodo di cose assai intricato. Ora dovrebbe vendicarsi delle Potenze che lo hanno annoialo, come delle Potenze che rimessamente l'hanno sostenuto col riaccostarsi al Piemonte. Badate ch'io vi parlo come cittadino, e non come ministro sopra gli affari esteri: Napoli e Piemonte ben uniti darebbero la legge all'Italia.

- Il legato napoletano articolò alcune inconcludenti parole di risposta; ma conforme al fare millantatore ch'era il ruinoso andazzo della diplomazia napoletana durante il regno di Ferdinando II, scrisse al Carafa d'aver risposto a Cavour

:

Non essere Sua Maestà lontana dal Piemonte, ma il Piemonte da Sua Maestà; non essere i reali dominii sede d'alcun nemico del Sovrano di Sardegna; non esservi in Napoli officine occulte e riconosciute di calunnie sistematiche e di macchinazioni alla rivolta contro gli Stati di S. M. sarda. Appoggiai su queste espressioni, poi aggiunsi che la longanimità del nostro re, il suo dignitoso e costante silenzio, la maniera con che sono serbate ne' suoi dominii le relazioni internazionali e commerciali colla Sardegna,

(26) Lettere del conte Cavour, Tonno 5, 16, 17 settembre 1856.

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fanno ben vedere che egli abbia sentimenti al tutto amichevoli. Cavour non ebbe a replicare parole molto concludenti.

Il cavaliere Giuseppe Canofari clava quindi saggio della sua sagacità politica soggiungendo:

Do conto di questo fatto al nostro augusto padrone per fedeltà di narrazione, e non perché le parole del conte di Cavour meritino a mio avviso alcuna grave attenzione. Il Piemonte è nel momento troppo dilaniato dai partiti, dalle pretensioni delle Potenze, da influenze d'ogni genere, dall'odio dell'Austria, dai debiti, dalle tasse esuberanti, il suo contatto è troppo pericoloso per cattive massime religiose e di politica, per non conchiudere che da più stretti vincoli col Piemonte, anzi che sperare qualcosa, siavi invece molto da perdere (27).

Ferdinando fece rispondere al Canofari, che il suo Governo non domandava d'avvicinarsi ad alcuna Potenza, mentre poneva ogni studio per star bene con tutti, a condizione però che nessuno s'ingerisse negli affari della sua interna amministrazione (28). Nelle presenti condizioni di civiltà la peggiore scuola politica è quella degli stati dispotici. Nel maneggiarla, principi e ministri smarriscono il senso della sagacità, della previdenza, del giusto apprezzamento dei fatti, degli ostacoli e delle proprie forze. Da che non hanno freno nel comandare, essi si credono capaci di piegare gli avvenimenti al proprio capriccio. Era così che procedevano Ferdinando II e i suoi ministri. Essi si figuravano il Piemonte prossimo a cadere in balìa della prepotenza popolaresca, e la rivoluzione faceva traballar il terreno sotto i loro piedi. Nell'ultima metà del novembre 1856 Francesco Bentivenga da Corleone alzò bandiera di ribellione in Sicilia; fu tosto imprigionato e condannato a morte.

(27) Dispaccio Canofari, Tonno 21 novembre 1856.

(28) Dispaccio Carafa, Napoli 9 dicembre 1856.

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Nei dicembre susseguente Agesilao Milano, soldato regio, tentò d'uccidere Ferdinando;

fu strangolato

. Quattro giorni dopo la regia fregata a vapore il Carlo III nel porto di Napoli squarciossi e affondò per scoppio di munizioni da guerra.

Nello stesso tempo sulle montagne calabresi e nei siti più alpestri della Sicilia scorazzavano bande di partigiani armali. Scritti anonimi, imprecanti al re, infestissimi al Governo, glorificatori del regicidio circolavano a profusione per Napoli. I giornali di maggiore credilo di Francia, di Germania, d'Inghilterra e di Piemonte si erano fatti narratori d'opere nefande, in parte soltanto vere, ma credute tutte del Governo borbonico. Il quale realmente in continuo sospetto di nuovi moti rivoluzionari vessava, imprigionava, bastonava, perquisiva in frotta i cittadini senza rispetto d'ordini e di persone. Tetre immagini di cospirazioni erravano tormentose dinanzi la mente di Ferdinando; ond'egli chiuso nella regia, da un lato faceva aspro governo de' suoi popoli, dall'altro si dava in preda a volgari ubbie religiose, richiamava i Gesuiti a puntellargli il trono, restituiva all'episcopato privilegi e ingerimenti insperati, e a gratificarsi meglio il clero, poneva la podestà laica a sudditanza della podestà ecclesiastica. Mentre in tal guisa le condizioni interiori del regno delle Due Sicilie alla fine del 1856 erano turbatissime, la diplomazia napoletana, irridendo la pubblica opinione, strombazzavate per ottime (29).

Meglio calcolava il primo ministro della Sardegna nell'attendere con diligente studio a serbare alla sua politica l'aura di favore acquistala nella opinione europea. E poiché a questo fine sapeva giovare assai che ovunque

(29) Circolare Carafa alle Legazioni napoletano all'estero, Napoli

(29) dicembre 1856.


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si radicasse la presunzione che il Piemonte era nemico aperto delle violenze rivoluzionarie, Cavour poneva buona parte del nerbo della sua scaltrezza a mandarne la fama in giro pel mondo. Così in seguito ai narrati truci casi del reame di Napoli, egli dalla ringhiera del Parlamento dichiarò che la politica piemontese non tenderebbe giammai a eccitare o ad appoggiare in Italia tentativi rivoluzionari. - Noi, disse, intendiamo in altro modo la rigenerazione italiana, e ci asteniamo da tutto quello che può tendere ad eccitare simili rivolgimenti. Noi abbiam sempre seguilo una politica franca, leale, senza linguaggio doppio; e finché saremo in pace cogli altri potentati d'Italia, mai non impiegheremo mezzi rivoluzionari, non mai cercheremo di destare tumulti o ribellioni. Se avessimo voluto mandare un naviglio in Sicilia per suscitare indirettamente moli rivoluzionari, prima di farlo, avremmo rotta la guerra e dichiarato apertamente le nostre intenzioni. Rispetto a Napoli, si è parlalo in modo da lasciar credere che gli orridi attentati colà avvenuti siano opera del partito italiano: io li ripudio, li ripudio altamente, e ciò nell'interesse dell'Italia. No, questi sono fatti che non si possono apporre al partito nazionale italiano; sono fatti isolati di qualche disgraziato illuso, che può meritare pietà e compassione, ma che devono essere stimmatizzati da tutti gli uomini savi, e massimamente da (pianti hanno a cuore l'onore e l'interesse italiano (30). - Quale duttilità accorta di procedimenti! Per dare all'Italia la sua indipendenza, inevitabilmente conveniva giungere alla guerra e alla rivoluzione; Cavour vi s'incamminava con animo deliberato: ma le sue cognizioni positive e

(30) Atti del Parlamento sardo, seduta della Camera dei Deputati del 15 gennaio 1857.

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minute delle condizioni in cui si trovava l'Europa, lo rendevano accorto dei danni d'un precipitoso procedere, e della necessità di agire primieramente sulle menti a procurarsi la forza morale indispensabile al grande tentativo. Con un'abilità quindi piuttosto unica che rara, per non consumare inopportunamente le forze in cui stava l'avvenire d'Italia, con prudente accorgimento sollecitava accordi tra Governi e governati, consigliava riforme, si teneva in guardia dal fare comunella coi rivoluzionari, e dal fornire legittimo motivo d'incolpar il Piemonte di venir meno a' suoi doveri internazionali.

Per dare martello all'Austria, i Milanesi si erano collettati per erigere in Torino un monumento ad onoranza dei soldati piemontesi reduci dalla Crimea. Cavour fece lieto viso a questo dono; ma ad evitare diplomatiche rimostranze, maneggiò la cosa in modo che fosse accettato dal Municipio di Torino, e volle l'assicurazione che nulla indicherebbe che quel ricordo nazionale veniva eretto dai Milanesi. Romani, Napoletani, Toscani, Modenesi, Reggiani largheggiarono con lui in pubbliche dimostrazioni di cittadino affetto. Egli le accolse, ma misurando ogni suo passo in modo da non fornire il minimo pretesto di querele per parte dei Governi italiani retrivi. Fra gli apparecchi per una guerra aggressiva contro l'Austria era indispensabile premunirsi di propugnacoli, che insieme collegati a difesa servissero di riparo all'esercito piemontese, per non rimanere soproffatto dal numero dei nemici prima dell'arrivo dei soldati francesi. Cavour, nel dichiarare d'urgenza questo provvedimento, ne cavò argomento per dare nuovo impulso all'agitazione civile già operosa da un capo all' altro della penisola. Era l'Austria che, facendo di Piacenza una vasta piazza da guerra a continua minaccia alla Sardegna, costringeva questa a non lasciare più

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a lungo la sua frontiera orientale indifesa. Per tutta Italia si gridò tosto la croce addosso all'Austria, e per accatto nazionale si acquistarono cento cannoni onde munire i nuovi fortilizi d'Alessandria. Il Governo del re accolse il dono, ma interdi la sottoscrizione pubblica per l'acquisto di diecimila fucili destinati alla provincia italiana che prima inalberasse la bandiera di guerra contro l'Austria.

Nel maggio del 1856 successe in Parma un tentativo di ribellione. Il Governo sardo provvide tosto a' suoi doveri di buon vicinato da riceverne ringraziamenti dal Governo della reggente (31). A rafforzare l'egemonia piemontese nella Toscana lavoravano a meraviglia i suoi governanti. Senza discernimento e senza dignità procedendo dietro gli improvvidi consigli della paura e del dispetto, essi facevano scalpore di fatti non veri, presso i Gabinetti di Londra e di Parigi davano bugiarde incolpazioni al Piemonte, e dispiegavano rigori inauditi persino verso una brigatella di ragazzi condotti a diporto da Genova in Toscana con ordinarne Io sfratto subitaneo.

Quest'atto ridicolo era inoltre arbitrario, essendo che quei giovinetti, alunni del collegio commerciale di Genova e guidali dal loro direttore, erano provvisti di carte regolari firmate dal console toscano in Genova. - Ma essi, disse Baldasseroni agitatissimo e con volto sconvolto al Gianotti, hanno professori rivoluzionari, e quindi debbon essere rivoluzionari in erba; e quando vi è pericolo per il paese, non si deve guardare di troppo ai diritti altrui (32). - V'era proprio di che ridere, e Cavour

(31) Dispaccio Sauli al presidente del Consiglio in Torino, Firenze 3 luglio 1856.

(32) Dispacci confidenziali Sauli al presidente del Consiglio dei ministri, Firenze 5 e 8 giugno 1856. - Dispacci Gianotti, Firenze 2 e 4 settembre 1856. - Nota Baldasseroni al cavaliere Gianotti, Firenze 3 settembre 1856.

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confidenzialmente scrisse ai legati del re in Parigi e ih Londra che per tal procedere si limitassero a mettere in canzonatura il Governo toscano (33). Ma il grande statista sapeva a meraviglia usufruttare anche le occasioni di minor rilievo per cavarne grandi effetti. Baldasseroni, nel difendere il suo operato verso il Collegio commerciale di Genova, si lasciò andare in aspre censure verso la politica piemontese. Venutagli così la palla al balzo di commuovere di nuovo gli animi in buon punto per la causa italiana, Cavour fece di pubblica ragione una sua nota, nella quale con grave magisterio di parole dicea al Baldasseroni: - Noi siamo da qualche tempo abituati al procedere poco cortese del Governo toscano a nostro riguardo, per non usare maggior severità di linguaggio: tuttavia abbiamo appreso con maraviglia l'improvvisa cacciala dal territorio toscano degli alunni del collegio commerciale di Genova. Che il Governo granducale usi pure a sua posta verso la Sardegna del diritto d'interdire a chi non è suddito toscano i confini de' suoi Stati: il Governo del re non moverà per ciò vane lagnanze, e ne lascierà il giudizio all'Europa. Ben esso si doleva a buon diritto che il Governo granducale ad ogni istante rinnegasse l'operato de' suoi agenti consolari negli Stati sardi col rinviare dalla frontiera o dall'interno, con evidente iattura di legittimi interessi, le persone che colà si recano affidale alle assicurazioni di chi legalmente parla e agisce in suo nome. Al presidente del Consiglio granducale non garbava la sottoscrizione per i cento cannoni onde munire i nuovi fortilizi d'Alessandria: era veramente strano che una dimostrazione di fiducia data dal popolo piemontese al suo re e al suo Governo non iseontrasse la simpatia di chi primeggiava nei consigli d'uno

(33) Lettera Cavour, 8 settembre 1856.

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stato amico, e che un Governo italiano facesse osservazioni poco benevoli sulla cooperazione spontanea e universale di tutta la nazione per assicurare uno dei baluardi dell'indipendenza del Piemonte e dell'Italia. II Governo del re respingeva qualsiasi insinuazione volta a ingenerare la credenza che esso si maneggiasse a turbare al di fuori la tranquillità con mezzi diretti o indiretti.

Non era dall'esercizio ragionevole e temperato d'una libertà ordinata che pigliavano nascimento i disordini e le insurrezioni; provavalo la storia del Piemonte negli ultimi anni. E il Governo granducale forse che non sapeva per prova in quante circostanze la Sardegna aveva efficacemente cooperalo a impedire nell'interno e fuori torbidi rivoluzionari? La Sardegna riconosceva gli obblighi che la legavano verso gli Stati vicini, e li compieva scrupolosamente; ma non essere disposta di sacrificare alle altrui infondate esigenze le libertà godute da' suoi cittadini. Il presidente del Consiglio granducale aveva accennalo di volersi appellare al tribunale della pubblica opinione: lo facesse e tosto, che il Governo del re ne sarebbe ben lieto. Forte de' suoi diritti, conscio d'avere adempito lealmente tutti i suoi doveri, e memore di torli non riparati, non temeva l'esame di alti che soleva compiere alla luce del sole (34). - Baldasseroni troppo tardi s'avvide d'aver agito inconsultamente. A cavarsi d'imbarazzo come meglio poteva, si condannò al silenzio, dopo avere manifestato al legato sardo in Firenze il suo vivo rammarico per quanto era avvenuto (35).

Trascorsi tre mesi, Vittorio Emanuele deputò a suo ambasciatore presso la Corte granducale

(34) Nota Cavour al Gianotti, Torino 5 settembre 1856.

(35) Dispacci Gianotti al presidente del Consiglio in Torino, Firenze 9 e 14 settembre 1856.

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Carlo Boncompagni,

onorevolissimo e dotto uomo di Stato

, che oltre a essere in grande conformità di criteri dottrinali politici col conte di Cavour, aveva singolari qualità accomodatissime a reggere una legazione, nella quale si doveva fare l'ultimo tentativo d'accostar il Governo alla politica nazionale, badando a serbare serena la temperie dell'agitazione civile. Al primo colloquio che Boncompagni ebbe con Baldasseroni, gli disse: - Qualunque possano essere i dissensi d'opinione, vi sono pur sempre tanti interessi comuni tra i Governi italiani, che con un poco di buon volere si potrà facilmente stabilire un accordo.

Intendo parlare di Governi italiani, e non di Governi signoreggiati dell'Austria. La Toscana, non ostante le sue ultime disgrazie, rappresenta pur sempre tali e tante tradizioni liberali da dovere esser cara al Governo che ha assunto in Italia il nobile uffizio di promuovervi il progresso civile. L'opinione pubblica appoggia validamente questo tentativo nazionale, e fa d'uopo badar bene che l'opinione pubblica è divenuta una potenza che dev'esser tenuta in conto da tutti i Governi, e dalla quale essi possono prender sempre utili ammaestramenti (36). - Baldasseroni, coll'usato suo discernimento politico, biasciò in risposta alcune parole inconcludenti. Per lui era senno di governo tener chiusa la via ad ogni conciliazione col Piemonte: a far argine alla piena della rivoluzione v'era l'Austria, e bastava mantenersi verso di essa arrendevoli.

(36) Dispaccio Boncompagni al presidente del Consiglio in Torino, Firenze 19 gennaio 1857.

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III.

Narrati i procedimenti accorti e felici della politica del Piemonte verso gli altri stati italiani nei dicci mesi che susseguirono da vicino il Congresso di Parigi, ora dobbiam seguirlo per altre vie, a far compiuta la narrazione prefissaci nel presente capitolo.

Nei tempi moderni il lavoro non solo aumenta le ricchezze delle nazioni, ma le serba gagliarde di potenza, e fornisce loro i migliori mezzi di propagare e di mantenere al di fuori i proprii influssi. Non di rado quindi è nella soddisfazione d'interessi economici che la diplomazia odierna trova una valida leva per cementare alleanze e per accomunare la politica d'uno stato a quella di un altro. Il conte Cavour si trovò indotto a entrare in questa via rispetto alla Francia e all'Inghilterra. Tradirebbe la storia chi si facesse a magnificare dal lato economico tutti i trattati di commercio e di navigazione da lui conclusi con queste due nazioni: ma vi sarebbe ingiustizia ascrivergli tal opera a demerito. Trattavasi di dare all'Italia la sua indipendenza, e per il grande tentativo Cavour adoperò a larga mano tutto ciò che di meglio e di più utile a lui offeriva il Piemonte, conscio d'avere dietro di sé un forte e generoso popolo, voglioso e capace dei più duri sacrifizi per tornare signora di se l'infelice madre di quanti abitano dall'Alpi al Lilibeo.

Vi è ragione a credere che egli avrebbe desiderato di associare alla grande impresa la Francia e l'Inghilterra: ma si trovò costretto a perder di mano in mano questa speranza dopo il Congresso di Parigi. Lo sgombro dello armi alleate dal territorio ottomano, la rettificazione della

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frontiera russa nella Bessarabia, il possesso dell'isola dei Serpenti, le regole da stabilire per la navigazione del Danubio e delle sue imboccature, il nuovo ordinamento politico della Moldavia e della Valachia divennero in breve argomenti di disaccordo tra le Potenze segnatarie del trattato del 30 marzo 1856.

L'articolo xx di questo trattato stabiliva che la nuova frontiera tra la Russia e i Principati danubiani verrebbe determinata da una linea, la quale, dopo aver seguito il Vallo Traiano, passerebbe al sud di Bolgrad per rimontare in seguito il fiume Talpout. Al nord del lago Yalpuk esisteva una città antica denominata Tubak, la quale divenuta per qualche tempo la sede primaria delle colonie bulgare stabilitesi nella Russia, aveva preso il nome di Bolgrad. Ma un'altra Bolgrad era sorta in appresso, alla quale avevano fatto capo susseguentemente le stesse colonie. Delle due città, quale era quella che dovevasi aggregare alla Moldavia? L'isola dei Serpenti era uno scoglio disabitato a uguale distanza dalle imboccature danubiane di Isilia e di Sulina. I Russi l'avevano posseduto per l'addietro, e sopra vi avevano eretto un faro. Giovandosi del silenzio conservato dal Congresso di Parigi rispetto a questo isolotto, i Russi aveano cercato di rimettervi il piede; ma n'erano stati impediti dalle navi inglesi.

Venuti in discussione questi due punti controversi, la Turchia, l'Austria e l'Inghilterra sostenevano che si doveva togliere alla Russia il possesso dell'isola dei Serpenti, e che dei due Bolgrad era il nuovo che si doveva aggregare alla Moldavia. La Russia, la Francia e la Prussia erano d'avviso contrario. Questa contestazione diplomatica s'inasprì al segno da indurre l'Inghilterra a inviar navi da guerra nel Mar Nero, e da mettere gli Austriaci in sul fermo di non sgomberare dai Principali danubiani.

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Un tale procedere irritò assai il Gabinetto di Pietroburgo.

- Non è precisamente Bolgrad e l'isola dei Serpenti, disse Gortschakoff al legato sardo in Pietroburgo, che costituiscono la gravità dello stato presente delle cose: sono due questioni in se stesse di scarsa importanza. Ma si tratta di sapere se l'Europa avrà un padrone, e se tutte le Potenze segnatane del trattato di Parigi debbono obbedirlo. L'Inghilterra ricalcitra non solo ad ogni accomodamento, ma viola le stipulazioni recenti tenendo le sue navi nel Mar Nero, e spalleggia l'Austria a continuare la sua occupazione nei Principati. È uno stato di cose a cui la Russia non può acquetarsi, e che la Francia, la Prussia e il Piemonte non debbono tollerare a lungo (37). - A Londra gli animi non erano men esacerbati. Per spuntare l'opposizione della Russia, della Francia e della Prussia il Gabinetto di Londra aveva bisogno d'assicurarsi propizio il voto della Sardegna. Prima quindi di dare il suo assenso a una conferenza, si pose attorno a conseguirlo. Le blandizie furono usate innanzitutto. Riuscite infruttuose, vennero in campo insinuazioni malevoli e minaccie velate. Il marchese Emanuele d'Azeglio si diportò in questa spinosissima contingenza da quel valent'uomo che era: con civile prudenza e dignità mostrò quanta sconvenienza vi fosse in un tal procedere del Gabinetto inglese verso un suo antico alleato; la Sardegna non prendere consigli da chicchessia per deliberare, onde, indipendente da ogni influsso straniero, chiamata a dare il suo voto lo emetterebbe conforme a ciò che le sembrasse giusto (38).

(37) Dispaccio Oldini al presidente del Consiglio in Torino, Pietroburgo 26 ottobre 1856.

(38) Lettera d'Azeglio al conte Cavour, Londra 9 novembre 1856. - Dispaccio confidenziale d'Azeglio al presidente del Consiglio, Londra 12 novembre 1856.

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Tasteggiato da s'ir James Hudson, Cavour rispose che, non avendo i plenipotenziari sardi preso parie alla Commissione per il ratificamento della frontiera della Bessarabia, non era in grado di dare una risposta relativa alla questione di Bolgrad; gli si lasciasse tempo per studiarla, e risponderebbe in seguito (39). A nuove istanze il primo ministro della Sardegna dichiarò che dall'esame dei fatti e dei documenti risultavagli che la questione di Bolgrad non aveva l'importanza che da un lato sembrava darle l'Inghilterra sotto l'aspetto commerciale e politico, e dall'altro lato la Russia in ordine agli impegni morali assunti coi Bulgari stanziatisi nella Bessarabia. Tale apparendogli lo stato delle cose, opinava che la questione si dovesse sciogliere per un accomodamento amichevole: al qual fine sembravagli che si dovesse portare sul tavolo della conferenza formulala così: quale è il modo per conseguire il doppio fine propostosi dal Congresso di Parigi nello statuire un nuovo tracciamento di frontiera della Bessarabia onde in primo luogo mettere al coperto la libertà di navigazione del Danubio, e in secondo luogo portare la minore perturbazione all'organamento delle colonie bulgare nella Bessarabia (40).

Questa proposta tornò ingrata ai ministri inglesi, che s'erano impuntati nel pretendere che ad ogni modo la questione di Bolgrad si risolvesse a modo loro. N'erano più che mai indispettite Francia e Russia. La Sardegna per parte sua si trovava a un bivio, nel quale la scella della via potevale tornare così di grave danno, come di grande utile. Non vi fu irrisolutezza: nel concetto di Cavour era venuto il momento propizio di far conoscere a Napoleone che il Piemonte era il vero suo amico.

(39) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 17 settembre 1836.

(40) Dispaccio confidenziale Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 29 ottobre 1856.

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Villamarina ebbe quindi istruzioni confidenzialissime di speculare attento l'occasione di giovarsi della riserbatezza in cui la Sardegna s'era tenuta nella questione di Bolgrad, onde usufruttarla a salvare l'alleanza della Francia coll'lnghilterra già pericolante. Buon maneggiatore dei sottili accorgimenti della diplomazia, il legalo sardo in Parigi corse al castello ove l'imperatore slava a diporto. Egli v'era desideralo: onde Napoleone chiamatolo tosto a se, gli aprì il suo pensiero: era l'alleanza coll'lnghilterra che voleva salvare, ma desiderava in pari tempo di non raffreddarsi colla Russia. Ma se non si trovava modo d'unire una conferenza per isciogliere di comune accordo la questione di Bolgrad, non era possibile d'ottenere l'uno e l'altro fine. La Sardegna sola, notò l'imperatore, può giungere a conseguire questo risultato, da che, mentre tutte le altre Potenze interessate nella controversia si sono spinte tropp'oltre per indietreggiare, essa si è mantenuta in una prudente riserbatezza.

Se anche, concluse l'imperatore, nella conferenza il voto della Sardegna mi sarà contrario, non proverò dispetto, ma terrò sempre in conto d'un servizio reso alla mia persona se perviene a farla convocare. - Villamarina si portò diffilato a Torino, e concertato col re e con Cavour il meglio da fare, ritornò a volta di corriere al castello di Compiegne per dire all'imperatore che Vittorio Emanuele era ben lieto di potergli dare testimonianza aperta di sincera amicizia; conseguentemente la Sardegna agirebbe colla maggiore sollecitudine conforme ai desiderii della Francia (41).

Era fuori di contestazione che di stretto diritto, e seguendo la lettera del trattato del 20 marzo 1856, il nuovo Bolgrad doveva essere assegnato alla Moldavia.

(41) Dispacci confidenziali Villamarina, 11, 20 e 23 novembre 1856 e 12 gennaio 1857.

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Ma d'altra parte nel Congresso di Parigi si era promesso alla Russia di lasciarle il capoluogo delle colonie bulgari nella Bessarabia. La Sardegna propose quindi che la conferenza fosse convocala dietro raccordo di dare alla Russia un compenso territoriale maggiore del pattuito, passando il nuovo Bolgrad alla Moldavia. Il Gabinetto di Londra si piegò a questa proposta, benché a malincuore.

Palmerston, che di quei ministri inglesi era il men acerbo al Piemonte, lasciò vedere il suo nero umore. -

L'Inghilterra, ei disse burbero con Azeglio, ha riannodato i suoi vecchi legami d'amicizia coll'Austria

; - poi gli scrisse: -

Spero che Cavour non ci susciterà ulteriori imbarazzi col porre innanzi proposte di concessioni maggiori alla Russia.

Noi le abbiam regalato già trecento leghe quadrate nella Bessarabia; e certamente la mala fede e lo spirito taccagno manifestato dal Gabinetto di Pietroburgo in tutti gli affari dopo la segnatura del trattato di pace, non gli danno alcun diritto a nuove arrendevolezze da parte nostra.

Una discussione sollevata nella conferenza su questo argomento, probabilmente frutterebbe una rottura completa tra noi e la Francia

(2). - Era questa eventualità che Cavour voleva impedire. A meglio riuscirvi si volse al Gabinetto di Pietroburgo per dirgli che la Sardegna aveva fatto tutti gli sforzi possibili per condurre la questione di Bolgrad a uno scioglimento atto ad appagare gli interessi legittimi di tutti; essa continuerebbe nella conferenza l'opera incominciata, e procedendo come un giudice o un arbitro straniero chiamato a far parte d'un tribunale imparziale (43).

(42) Dispacci confidenziali Azeglio al presidente del Consiglio in Torino, Londra 13 e 22 novembre e 12 dicembre 1856. - Lettera Palmerston del 12 dicembre 1856.

(43) Dispaccio Cavour al Legato sardo in Pietroburgo, Torino 13 novembre 1856.

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Spettava al marchese Salvatore Pes di Villamarina di condurre a termine l'opera incominciala. Cavour gli scrisse che nella conferenza badasse innanzitutto di tenere uffizio di conciliatore, onde possibilmente salvare l'alleanza delle due maggiori Potenze occidentali; e non trascurasse di mantenere la Russia benevola alla Sardegna (44).

Questi desiderii furono a pieno soddisfatti, rimanendo per la prudenza e l'abilità del legato di Sardegna superate tutte le difficoltà insorte nella conferenza, la quale rimase chiusa col protocollo del 6 gennaio 1857, onde rimase stabilito che il nuovo Bolgrad farebbe parte del territorio della Moldavia, ma che la Russia riceverebbe un maggiore compenso dal lato di Komrat sull'alto Valpuk. Come addì 30 del marzo susseguente questa nuova delimitazione di frontiera si fosse attuata, le navi inglesi lascerebbero il Mar Nero, gli Austriaci uscirebbero dai Principati. L'isola dei Serpenti fu assegnata alla Porta Ottomana, che avevala altre volte posseduta.

11 Gabinetto di Torino si mostrò a ragione soddisfatto dell'operato del suo plenipotenziario nella conferenza (45). L'amichevole componimento di siffatta questione era una segnalata vittoria riportata dalla diplomazia piemontese nell'utile della pace europea. La Sardegna aveva mostralo praticamente il vantaggio della sua intervenzione nei grandi a (lari dell'Europa, aveva visto le maggiori Potenze sottomettersi in qualche modo al suo arbitramene), era riuscita a salvare l'alleanza della Francia coll'Inghilterra, s'era tolta dall'imbarazzo di dare un voto sfavorevole alla Russia, aveva reso un servizio segnalato a Napoleone III.

(44) Lettere Cavour a Villamarina, Torino 5 e 8 dicembre 1856.

(45) Dispaccio Salmour al marchese di Villamarina, Torino 20 gennaio 1857. - Circolare Cavour alle Legazioni del re all'estero, Torino 1 aprile 1857.

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Il quale non lardò a mostrarsene grato; e Walewski, chiamato a sé Villamarina, gli disse: - Sono incaricato dall'imperatore di manifestare al conte di Cavour e a voi tutta la sua riconoscenza e tutta la sua soddisfazione, e di dirvi da parte sua, badate bene che sono sue parole che tuttociò non sarà perduto, e che egli non lo dimenticherà giammai. In fin dei conti l'Austria a ciaschedun istante ci fa delle dichiarazioni amichevoli; ma sono parole, da che coi fatti si mette da un'altra parte: mentre la Sardegna è sempre conseguente a se stessa, e si può fare assegnamento sulla sua leale cooperazione (46). - Da Pietroburgo giunsero a Cavour dimostrazioni non men gradite. Lo czar, scontralo nella sua reggia il legato sardo, gli andò incontro per dirgli benevolo: - Spero che si consolideranno vieppiù le relazioni amichevoli tra la Russia e il Piemonte; rammento con piacere il tempo in cui i nostri eserciti combattevano accanto ai soldati del re di Sardegna. - E Gortschakoff: - La giovane politica della Russia, dopo essersi riconciliata colla Sardegna, vi resterà fedele. Siamo a pieno contenti dei vostri modi di procedere a nostro riguardo (47). - L'appoggio della Sardegna era divenuto prezioso per le Potenze, che le une delle altre gelose e discordi intendevano a dare assetto alle cose dell'Oriente conforme a quanto avevano stabilito nel Congresso di Parigi. Ivi si era intavolata la questione dell'unione politica dei due Principati danubiani. Per l'opinione in contrario sostenuta dalla Turchia e dall'Austria non essendosi potuto sciogliere cosi grave questione terminativamente,

(46) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 7 gennaio 1857.

(47) Dispacci Sauli al presidente del Consiglio, Pietroburgo 27 gennaio e 10 febbraio 1857.

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la si era riserbata alla conferenza che sarebbesi radunala in appresso. Ma segnato il trattato di pace del 30 marzo, la Porla Ottomana non lardò a dichiarare per uffizi diplomatici che essa recisamente si opponeva all'unione dei due Principati (48). Nel Congresso il plenipotenziario inglese vi si era mostrato favorevole: ma anche in questo affare gravissimo il Gabinetto di Londra mutò opinione, e scostandosi dalla Francia si pose d'accordo col l'Austria a spalleggiare la Turchia. Tornava di nuovo in campo l'importanza somma del voto della Sardegna.

Qui la circospezione era fuor di luogo: si trattava di una nazionalità nascente che conveniva aiutare a costituirsi, e tornava inoltre di vantaggio all'Italia la formazione d'un indipendente Stato rumeno ai fianchi dell'Austria. Alle interpellanze quindi del Gabinetto di Londra Cavour rispose franco e aperto in sostanza nei termini seguenti: - Le riforme che si vogliono introdurre negli ordini pubblici della Valachia e della Moldavia, diverranno sterili e pericolose ove a sorreggerle manchi un centro comune d'azione governativa. Il desiderio delle popolazioni rumene suddite della Turchia di costituirsi in un solo stato, era antico; e ove, dopo le speranze date, venisse contrariato, si aprirebbe un fomite perenne di politiche irrequietezze. A tenere tranquille quelle popolazioni contrariate nei loro sentimenti nazionali necessiterebbe un Governo dispotico e violento, bisognoso d'essere spalleggiato dall'intervento armato della Turchia o dell'Austria. E si riflettesse bene che quest'ultima Potenza da lungo tempo tendeva a esercitare nei Principati danubiani una politica di supremazia, identica a quella usata negli Stati minori italiani. La riunione

(48) Dispaccio confidenziale Massi al presidente del Consiglio in Tonno, Costantinopoli 17 settembre 1856.

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della Moldavia e della Valachia avrebbe per risultalo di costituire uno stato libero, indipendente, che diverrebbe il perno della ricostituzione della nazionalità rumena. Ma ne' suoi successivi allargamenti questo Stato non sarebbe ostile alla Turchia, da che i suoi sforzi sarebbero rivolti a staccare dall'Austria le consorelle genti rumene. Che se un Governo nazionale a Bukarest non sarebbe mai austriaco per tendenze, anche per antipatia di razza si terrebbe lontano dalla Russia. Un libero Stato rumeno sarebbe una diga vantaggiosa alla Turchia e all'Europa contro la fiumana del panslavismo. Vi è infine una considerazione, che debb'essere grandemente valutata nei Consigli dell'Europa. Le Potenze occidentali sovratutto si sentono elleno disposte ad assumere al cospetto del mondo civile e dell'Europa la responsabilità di sacrificare i diritti e gli interessi di cinque milioni di cristiani agli scrupoli esagerati e ai timori infondati della Turchia? La libera Inghilterra vorrà calpestare il principio di nazionalità nella sua più legittima manifestazione? Vorrà lasciare a Governi men liberali del suo il merito d'assumerne la tutela? Ove così procedesse, l'Inghilterra si esporrebbe a perdere il prestigio acquistato sul partilo liberale europeo, il quale è cosi utile ai progressi della civiltà dell'Occidente. Per conseguenza il Governo del re sperava che il Gabinetto di Londra non vorrebbe rimaner termo negli intendimenti manifestati (49).

Questo procedere risoluto della Sardegna tornò assai gradito ai Gabinetti di Parigi e di Pietroburgo. L'Austria, che aveva cercalo tutti i modi di far escludere il Piemonte dalla conferenza per il riordinamento dei Principali danubiani, non seppe celare il proprio dispetto

(49) Nota Cavour al conte Corti incaricato della Legazione sarda in Londra, Torino 4 settembre 1856.

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come lo vide farsi sostenitore d'un libero Stato rumeno (50). - Piuttosto la guerra, diceano i ministri viennesi, anzi che lasciare che ciò avvenga. - Quindi per contrariare in ciò le intenzioni della Francia, della Russia e della Sardegna essi si posero all'opera, non badando alla natura de' mezzi.

Dietro il prescritto del trattato di Parigi il Sultano doveva tosto convocare in ciascheduno dei due Principati un Divano, costituito in tal maniera che vi fossero rappresentati gli interessi di tutte le classi, e che servisse alla piena e libera manifestazione dei voti de' Rumeni sudditi della Turchia. Ma come i legati russo, francese e sardo furono chiamati, com'era patteggiato, a esaminare il firmano onde venivano convocati i due Divani, si avvider tosto che si era cercalo dalla Porta di rendere non solo impossibile la prevalenza del voto favorevole all'unione, ma persino l'attuazione delle migliorìe civili promesse ai Moldavi e ai Valachi (51). Cavour aveva inviato a rappresentare la Sardegna in Costantinopoli il generale Giacomo Durando da lui molto stimato (52).

Il nuovo legato si mostrò destro e attivo a meraviglia.

Egli innanzitutto si associò agli ambasciatori francese e russo in Costantinopoli per impedire la pubblicazione del

(50) Dispaccio telegrafico Cantono al presidente del Consiglio in Torino, Vienna 26 maggio 18.56. - Dispacci confidenziali Azeglio, Londra 3 e 13 giugno 1856. - Lettera Cavour, Torino 29 giugno 1856.

(51) Dispacci Massi al presidente del Consiglio in Torino, Costantinopoli 18 ottobre e 17 dicembre 1856.

(52) «Avendoci pensato bene, credo che ella possa senza inconvenienti comunicare le mie lettere a Durando, la cui freddezza, fermezza e retto senso m"inspirano molta fiducia». Lettera Cavour a Rattazzi, Parigi 14 aprile 1856. - «Durando non ha voluto accettare il portafoglio della Marina; forse è meglio, che così rimane in riserva un uomo d'uno squisito buon senso, di molta capacità, e di molta fermezza di propositi». Lettera Cavour a Villamarina, Torino 18 giugno 1856.

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firmano, come avealo manipolato la Porta. Da questa opposizione diplomatica nacque la necessità d'una conferenza per mettersi d'accordo. Adunala sotto la presidenza di Reschid Pacha ministro turco sopra gli affari esteri, v'intervennero per la Francia Thouvenel, per l'Inghilterra Redcliffe, per l'Austria Prokesch d'Oslen, per la Prussia Wildenbrock, per la Sardegna Durando.

Le discussioni non procedettero sempre tranquille, e qualche volta si fecero tempestose. Il legato sardo conservò un contegno indipendente, conciliativo, e costantemente favorevole ai principii di libertà e di nazionalità. Egli poggiò dal lato dell'Inghilterra quando si trattò di far prevalere nei Divani l'elemento democratico; ma in tutto ciò che tendevano a vantaggiare il voto per l'unione, si tenne colla Francia. La conferenza rimase chiusa addì 7 gennaio 1857. Per parte della Turchia e dell'Austria seguirono intrighi inauditi a impedire che le elezioni riuscissero favorevoli all'unione. Di nuovo s'inacerbirono le relazioni tra la Francia e l'Inghilterra, e prossime divennero le probabilità d'una guerra europea. A suo luogo continueremo questo racconto per la parte presaci della Sardegna: ora la ragione cronologica ci richiama alle cose italiane.

IV.

L'ambigua e subdola politica in cui il Gabinetto di Vienna s'era avvolto nelle cose orientali e germaniche, avevagli fruttato di rendersi avverse la Prussia, la Russia e la Francia. All'Austria rimaneva l'alleanza inglese; ma da che sul Gabinetto di Londra imperava l'opinione pubblica liberale, per non perdere anche questo sostegno i ministri austriaci negli ultimi mesi del 1856 si determinarono a seguire i consigli di lord Clarendon per un Governo più civile e umano nelle provincie italiano dell'impero. L'opera riparatrice fu inaugurata col ripristinamento delle Congregazioni centrali della Lombardia e della Venezia, col prosciogliere dal sequestro i beni dei profughi politici, col rimettere ne' diritti della cittadinanza austriaca i fuorusciti che la impetrassero, col condonare la pena a tutti i condannali per reati politici, e colla nomina a governatore generale della Lombardia dell'arciduca Massimiliano, al quale l'imperatore Francesco Giuseppe fece obbligo specialissimo di riscontrarne le necessità, di svolgerne il progresso materiale e intellettuale, e d'adoperarsi costante per l'utilità maggiore di un paese che tanto sfavagli a cuore (53).

Per quanto questo nuovo indirizzo dato dall'Austria alla sua politica in Italia non garbasse al conte di Cavour, tuttavia, scaltro com'era, se ne mostrò soddisfatto col ministro inglese in Torino (54); e quando questi gli manifestò il desiderio del suo Governo di vedere ripristinate le relazioni amichevoli tra l'Austria e la Sardegna, egli inviò al marchese Cantono le istruzioni seguenti: - Per lo svincolo dei sequestri essendo cessata la causa della sospensione delle nostre relazioni diplomatiche colla Corte di Vienna, la Sardegna non ha la minima difficoltà a rinnovarle. Voi quindi siete autorizzato ad accogliere le aperture che il conte Buol vi facesse in proposito sia direttamente, sia per l'intermedio dell'ambasciatore di Francia o di Inghilterra in Vienna. Dovete però trattenervi dal prendere l'iniziativa. La Sardegna era la parte offesa, e tuttavia noi avevamo bensì chiamato in congedo il

(53) Autografo imperiale del 28 febbraio 1857.

(54) Dispaccio di gabinetto Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 1 febbraio 1857.

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conte di Revel. ma non gli abbiamo mai tolto iì grado di nostro ministro residente presso la Corte di Vienna: al contrario l'Austria, dopo avere richiamato da Torino il conte d'Apponv, lo incaricò d'un'altra legazione. Sta pertanto ad essa di fare il primo passo verso di noi. La comunicazione verbale e confidenziale fattavi dal conte Buol intorno al proscioglimento dei sequestri, non può essere una sufficiente entratura diplomatica per ristabilire le buone relazioni tra le due Corti, se non sotto la clausola che voi possiate accertarmi che nel farvela tale era il pensiero del ministro imperiale. Rischiarato questo punto nel senso indicatovi, subito che l'Austria abbia nominato il suo ambasciatore in Torino, la Sardegna spaccierà in Vienna il suo legato (55). - Ma una riconciliazione vera e durevole tra i due Governi era divenuta impossibile; il fato tirava l'uno e l'altro a giocare l'ultima partita.

Nello stesso giorno dell'ingresso in Milano dell'imperatore Francesco Giuseppe coli 'imperatrice, il magistrato municipale di Torino decretava che il monumento all'esercito piemontese, lavorato in marmo per accatto dei Milanesi, fosse elevato in luogo cospicuo della città a simbolo d'una causa comune e a pegno d'un miglior avvenire. Questo era ricordare agli Italiani d'oltre Ticino che serbassero le accoglienze festose per il giorno fortunato in cui il figlio del re vinto a Novara entrerebbe in Lombardia drappellando il vessillo nazionale che stringeva da una mano il guerriero da loro donato con nazionale intendimento ai Piemontesi. Il re non mandò alcun oratore a complimentare in suo nome gli sposi imperiali. I diarii piemontesi si posero a berteggiare le promesse riforme,

(55) Istruzioni Cavour al marchese Cantono in Vienna,' Torino 4 febbraio 1857.

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a flagellare gli aristocratici che facevano codazzo all'imperatore, a encomiare il dignitoso contegno della media cittadinanza, a lodare l'indifferenza del minuto popolo. Una sera Francesco Giuseppe trovò spiegato sopra un tavolo della sua stanza da letto un disegno litografico pubblicato in Torino, e a larga mano diffuso in Milano. V'era figurato un arco di trionfo, spontaneamente eretto dai milanesi al monarca che veniva a gratificarli della sua presenza. Una tetra schiera di dolenti ombre di cittadini, gittati avanti tempo in seno all'eternità dai violenti dominatori stranieri, apriva il cesareo corteggio, fendendo l'aere sotto bigio cielo. Il cavallo dell'imperatore a stento procedeva, stritolando ossa umane onde il terreno era lastricato. Nel mezzo del frontone la grifagna aquila a due teste famelica sbatteva le ali, e colle unghie sosteneva arnesi di tirannide e di guerra.

Al sommo dei capitelli delle colonne, accovacciati sopra teschi umani cantavano augelli di tristo augurio. I cadaveri degli strangolati sulle forche negli ultimi tentativi di ribellione penzolavano sostenuti dal capestro lunghesso gli scannellati delle colonne. Tutte queste erano traffiture dolorose e provocazioni amare: ma le rappresaglie che contrasse furono prese, com'erano inconsulte, così riuscirono dannose.

I diarii governativi di Milano e di Verona si scatenarono in calunnie e vituperi contro il Governo sardo, e scapestrando in beffe, in contumelie, in minaccie e in invettive, sorpassarono di gran lunga le intemperanze e le insolenze della stampa piemontese.

Né qui si fermarono le inconsulte provocazioni. Due giorni dopo che il diario officiale di Milano aveva accusati i ministri piemontesi come provocatori di sedizioni, e ave vali assomigliati nientemeno che ai Cromwell

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e ai Robespierre, l'incaricato d'affari austriaco in Torino si presentò al conte Cavour per leggergli un dispaccio del conte Buol. La forma era aspra e arrogante, e nella sostanza il Governo sardo era chiamato in colpa di dare piena impunità alla stampa quotidiana, di versar ingiurie sulla persona dell'imperatore, e di vituperare senzarequie il suo Governo, Inoltre il Gabinetto di Vienna si querelava in primo luogo perché i ministri di Vittorio Emanuele non avevano respinto i doni degli Italiani non sudditi del re per i cento cannoni d'Alessandria, e in secondo luogo per avere accettato il monumento offerto dai Milanesi all'esercito piemontese. Buol chiudeva le sue rimostranze così:

L'imperatore deve alla sua propria dignità di non lasciar ignorare al Governo sardo il suo risentimento per questi procedimenti. Spetterà al signor conte di Cavour d'indicare i mezzi che vorrà usare per cancellare queste penose impressioni, e di far conoscere le guarentigie che potrà offrire per impedire l'indefinito prolungamento d'uno stato di cose così diametralmente opposto al desiderio che ci anima di mantenere verso il Piemonte le relazioni richieste dagl'interessi dei due paesi. Riservandoci di regolare la nostra futura condotta in conformità delle risoluzioni che il Governo del re vorrà prendere, v'invito d'ordine dell'imperatore di dar lettura di questo dispaccio al signor presidente del Consiglio, e darmi conto delle spiegazioni che raccoglierete in proposito (56).

Alla lettura di questo dispaccio tenne dietro un colloquio, il quale durò oltre a due ore. In esso con discorso pacato Cavour disse al conte Paar pressoché tutte le cose scritte posteriormente in un dispaccio all'incaricalo d'affari sardo in Vienna (57). Abile così negli assalti come nelle difese, il primo ministro del re

(56) Dispaccio Buol, Milano 10 febbraio 1857.

(57) Lettera Cavour al marchese Villamarina, Torino 18 febbraio 1857.


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tenne a Paar e a Buol il discorso seguente: - E vero, la stampa quotidiana piemontese alcune volte s'abbandona a eccessi verso la persona dell'imperatore d'Austria; ma il Governo del re li condanna apertamente questi sconvenienti modi di procedere, e per esserne reso solidario a buon diritto, farebbe d'uopo ch'esso si rifiutasse di reprimerli coi mezzi che le leggi gli concedono. Al contrario per meglio colpirli ha introdotto nel suo codice disposizioni speciali, e tali che non si riscontrano più severe in alcun paese retto ad ordini liberi. Nell'udire le accuse acerbe del conte Buol contro la stampa piemontese, si sarebbe indotti a credere che la stampa austriaca proceda misurata verso i Governi e i Sovrani esteri. Ma succede tutt'al contrario: i giornali austriaci che si pubblicano nella Lombardia, riboccano d'ingiurie contro il Governo sardo, e neanco rispettano il re e la sua famiglia. Se pertanto il conte Buol si crede nel diritto di dolersi delle violenze della nostra stampa affatto libera, e la quale non penetra negli Stati austriaci, che potremmo dir noi verso una stampa quotidiana sottoposta a una severa censura preventiva, e la quale non conserva il minimo riguardo alle istituzioni e agli uomini politici del nostro paese? In Piemonte se l'attacco è libero, libera è pure la difesa: all'opposto nella Lombardia è soltanto concesso l'attacco. Il Governo del re è accusato di rimanere indifferente alla polemica ardente della stampa quotidiana: ciò in realtà non si poteva dire dei governanti austriaci, da che sono essi che dirigono o sanzionano le ingiurie personali e le virulenti diatribe dei fogli officiali che stipendiano e invigilano. Il Governo del re, dopo il Congresso di Parigi, avea ricevuto dalle varie provincie italiane molte e preclari testimonianze di gratitudine nazionali; ma l'Austria non aveva alcuna legittima ragione di mostrarsene risentita.

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Essa non solo aveva pur riconosciuto il bisogno di portare rimedii ai mali civili che affliggevano la penisola, ma per parte sua s'era posta all'opera di applicarli. A onorare le gesta dei soldati piemontesi in Crimea, i Milanesi avevano offerto un monumento alla città di Torino. Il ministero doveva rispettare l'autonomia comunale della capitale del regno; pure volle esigere che sopra non vi si murasse iscrizione alcuna, da cui risultasse che era un dono d'Italiani sudditi dell'Austria.

Sapesse in fine il conte Buol che, se il Governo del re era deliberato a mantenere ad ogni costo le libere istituzioni che erano di gloria e di prosperità al regno, era del pari fermo nell'intenzione d'adempiere verso gli Stati finitimi tutti gli obblighi e tutti i doveri imposti dal diritto delle genti e dei trattati (58). - Questo dispaccio fu comunicato al conte Buol addì 27 febbraio: lettolo in silenzio, ei disse seccamente al marchese di Cantono, che si riservava d'apprezzarlo come l'imperatore fosse di ritorno in Vienna. Ma di già il Gabinetto di Vienna aveva preso risolutamente il partito di non tralasciare di stuzzicar la Sardegna a commettere qualche grossa imprudenza, e di tenersi seco in termini tali d'avere a propizia occasione le mani libere di trattarla ostilmente. L'ambasciatore austriaco in Parigi su ciò non era stato circospetto a sufficienza: egli si era lasciato sfuggir di bocca che, nelle condizioni in cui versava l'Italia, l'Austria doveva far di tutto per prepararsi a fronteggiare gli avvenimenti prevedibili in un prossimo avvenire; essa doveva pertanto aver le mani libere, e un ambasciatore austriaco in Torino e un legato sardo in Vienna sarebbero un inciampo e nulla più; colle relazioni interrotte, giunto il momento d'agire militarmente,

(58) Dispaccio Cavour al marchese Cantono in Vienna, Torino 20 febbraio 1857.

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il comandante supremo delle armi imperiali in Lombardia poteva tosto dare addosso alla rivoluzione e alla Sardegna, che inevitabilmente vi si troverebbe avviluppata (59). Buol ricalcò quindi sulle fatte accuse, dichiarando in pari tempo: che non avendo promessa o indizio che il Governo sardo volesse meglio diportarsi verso il Governo imperiale, il legato austriaco non poteva rimanere più a lungo in Torino spettatore d'ingiurie quotidiane al suo Sovrano: ben poteva stare in Vienna il legato sardo, sicuro di non dover incontrare simili sfregi (60).

Nel leggere questo dispaccio al presidente del Consiglio il conte Paar aggiunse che la sua chiamata a Vienna si doveva considerare come una semplice dimostrazione di scontento, e nulla più; egli farebbe ritorno al suo posto, tosto che il ministero avesse indirizzato al Governo imperiale le domandate spiegazioni. - Ma noi, osservò Cavour, non abbiamo da dare spiegazioni di sorta; non mi resta quindi se non che di manifestare il mio dispiacere per una determinazione, che il Governo del re ha la coscienza di non aver provocata. Nel prender atto della comunicazione fattami, mi riserbo di ricever l'ordine del re per il richiamo della nostra legazione da Vienna (61). - Chi soffiava nel fuoco perché divampasse, non era tanto l'imperatore, quanto il ministro sopra gli affari esteriori, al quale sembrava senno di governo spinger le cose all'estremo. In Vienna vivevano le alterigie e ambizioni antiche; ma era spenta la vecchia abilità diplomatica.

Il conte Buol non possedeva alcuna delle grandi qualità del principe di Metternich, e si trovava di fronte un avversario che poteva essergli maestro. Il conte di Cavour lasciò tutta l'odiosità e la responsabilità d'avere usato un linguaggio iracondo e imperioso al ministro austriaco.

(59) Lettera Villamarina a Cavour, Parigi 12 aprile 1857.

(60) Dispaccio Buol, Vienna 16 marzo 1857.

(61) Circolare di gabinetto Cavour, Torino 1 aprile 1857.

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Né l'amaro tenore della nota imperiale né le minaccie contenute in essa influirono sulla risposta piemontese, la quale, come dev'essere redatto ogni documento di tal sorta, uscì in luce chiara, moderata, conciliante, e nello stesso tempo indipendente, dignitosa, risoluta. La diplomazia austriaca aveva offerto a Cavour un altro mezzo per tirar dalla sua la forza delle idee; ed egli se ne servì a meraviglia. Ma v'era un tentativo dell'Austria, che potea tornar pericoloso, e che conveniva quindi eluder tosto. A tal fine Cavour telegrafò a Villamarina in Parigi, e nello stesso giorno gli scrisse una lettera lunghissima, nella quale concludeva così:

Ciò che io domando con istanza all'imperatore, è che la Francia non porga il minimo appoggio alle pretese dell'Austria, che Grammont non dia il minimo aiuto a Paar. Un atto, una parola che potess'essere interpretata in un senso favorevole all'Austria, avrebbe le più funeste conseguenze, non solo per il ministero, ma per gl'interessi dell'alleanza francese, che da quattro anni ci affatichiamo a render popolare nel paese. Ve lo ripeto, noi non vogliamo cedere alle minaccie quand'anche fosser seguite dai fatti. Ove anche lo volessimo, non lo potremmo fare, giacché un atto solo di debolezza nelle circostanze attuali ci farebbe perdere la forza morale, sulla quale basa tutto l'edifizio del governo.

Negli ultimi tempi noi abbiam dato all'imperatore e alla Francia prove numerose della nostra amicizia. Noi siamo rimasti fedeli all'alleanza francese, anche a dispetto delle minaccie dell'Inghilterra. Certamente ora l'imperatore non vorrà spalleggiare i nostri nemici, poiché corriamo rischio d'essere abbandonati dal Governo di Londra. Ove la Francia pure ci dovesse lasciar in abbandono, noi tuttavia resisteremo; ma vincitori o vinti, pur sempre rimarrebbe radicato ne' cuori dei Piemontesi un odio contro la Francia incancellabile per una o due generazioni.

Rammentatevi bene che la nostra domanda si limita a chiedere

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la Francia non dia alcun appoggio morale all'Austria (62).

Tre giorni dopo Cavour scrisse di nuovo a Villamarina nei termini seguenti:

Profitto della partenza del signore Lumbov per trasmettervi il dispaccio e le istruzioni che ho spedito a Cantone Voi le troverete dettate con grande spirito di moderazione e di conciliazione. Alle insolenze e alle minaccie del conte Buol noi opponiamo fatti incontestabili e ragionamenti solidi. Noi ci mostriamo disposti, relativamente alla stampa, di fare tutto ciò che ci è permesso nella cerchia delle nostre attribuzioni governative. Non sapremmo né vorremmo andare più in là d'una sola linea.

Spero che il Governo francese, e massime l'imperatore apprezzeranno la perfetta nostra moderazione con equità benevola, e quindi si asterranno dal chiederci concessioni che siamo nell'impossibilità di fare. Per quanto in noi sia grande il desiderio di seguire i consigli della Francia, non saprei consigliare al re il minimo atto di debolezza verso l'Austria. Un tale procedere distruggerebbe tutto l'edifizio innalzato da noi con tante pene sull'unione intima del principio monarchico colle idee di libertà.

Se l'Austria darà corso alle sue minaccie, e ritira la legazione da Torino, noi non vi scorgiamo alcun inconveniente, purché la Francia non dia la sua approvazione a questa misura. Essa non susciterà alcun disordine, che noi siamo perfettamente padroni dello stato delle cose. Se l'Austria andrà più lontano e ci minaccierà di ricorrere alle armi, noi non prenderemo l'offensiva, ma siamo pronti a fare un'accoglienza in regola ai soldati austriaci. L'esercito e il paese sono animati del migliore spirito; guidati dal re e da La Marmora i nostri soldati, ne sono certo, ripulseranno un esercito tre volte maggiore del nostro. Che cosa succederà allora? nessuno può prevederlo. Ma credo che siamo ancora lontani da questa eventualità. L'Austria esiterà lungo tempo prima di tirare il colpo di cannone, che deve risvegliare in Europa la grande causa delle nazionalità oppresse (63).

(62) Lettera Cavour, Torino 18 febbraio 1857.

(63) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 22 febbraio 1857,

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Non v'era proprio tempo da perdere. Hubner aveva presentato a Walewski il dispaccio di Buol del IO febbraio prima che fosse letto a Cavour, e aveva ottenuto che Gramont si facesse consigliatore d'arrendevolezze.

11 legato sardo, a parare il colpo già in atto di cadere, visto che tutte le ragioni addotte al ministro per le cose esteriori approdavano a nulla, si volse a guadagnare al Piemonte il patrocinio personale dell'imperatore. Villamarina era rimasto costantemente saldo nella credenza che nella mente di Napoleone si fosse fitto il concetto d'una guerra per la cacciata dell'Austria dall'Italia.

Anche allorquando per il trattato del 15 aprile 1856 la politica della Francia accennava apertamente d'accostarsi di più alla Corte di Vienna, egli aveva scritto a Cavour: - L'imperatore, secondo me, ha badato con questo trattato a compromettere sempre più l'Austria verso la Russia, e così a scartare una grossa difficoltà per l'attuamento d'un disegno che egli nutre a vantaggio dell'Italia in un avvenire più o men prossimo. Napoleone ha bisogno di tempo per condurre innanzi i suoi concetti favorevoli all'Italia. Permettemi dunque, signor ministro, i fare caldi voti affinché gli Italiani non comprornettino con moti intempestivi un avvenire più o men prossimo che la Sardegna ha saputo loro preparare con tanti sacrifizi sui campi di guerra, e con tanta buona fortuna nel Congresso di Parigi. Per ora fa d'uopo d'avere prudenza e pazienza, e attendere che gli avvenimenti facciano il loro corso. Bisogna mostrare grande confidenza nella politica personale dell'imperatore, non creargli imbarazzi onde non inciamparlo ne' suoi passi. Napoleone e il tempo sono per noi e per l'Italia: lo sostengo, anche a costo d'essere nel presente tenuto in conto di visionario (65). - Questa fede inconcussa aveva giovato,

(64) Lettera confidenziale Villamarina a Cavour, Parigi 27 maggio 1856.

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in quanto che era stata la stella polare che avea guidalo il legato sardo in Parigi a uscir fuori dagli impacci o dai pericoli ogniqualvolta la causa italiana trovava freddi o avversi i ministri imperiali. Così avvenne in questa spinosa circostanza. - Essa è venuta troppo presto, avea detto Napoleone a un suo intimo; tuttavia se il Governo di Vittorio Emanuele nello stato attuale delle cose saprà evitare le dimostrazioni che sono così abituali agli Italiani, e si ristringerà a salvaguardare la sua dignità e indipendenza, eviterà disgusti per il presente, e si assicurerà i benefizi dell'avvenire. Se inoltre il Piemonte si manterrà calmo, si guadagnerà la migliore alleanza contro i suoi nemici, quella della pubblica opinione. - In queste disposizioni d'animo l'imperatore accolse al tutto benevolmente le sollecitazioni del legato sardo. Il quale, tornato da Walewski, udì ch'erano state inviate al duca di Grammont nuove istruzioni al tutto favorevoli al Piemonte. Il ministro sopra gli affari esteri benevolo aggiunse: - Si è scritto al barone di Bourquenav affinchè senza esitazioni dichiari al conte Buol che il Gabinetto francese prova il maggiore rincrescimento del passo inconsiderato fatto dall'Austria, e che il suo appoggio morale è appieno assicurato alla Sardegna (65). - Queste promesse furono a pieno mantenute (66). Il duca di Gramontebbe nuove istruzioni conformi al desiderio del conte di Cavour, e Walewski per ordine dell'imperatore tenne al legato austriaco in Parigi il discorso seguente: - Benché noi non approviamo del tutto i modi di governo della Sardegna, dobbiam rendere giustizia al re Vittorio Emanuele e a' suoi ministri. Essi si sono condotti con lealtà, con prudenza, e il Piemonte ha proceduto nelle sue riforme civili colla maggiore tranquillità.

(65) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 28 febbraio 1857.

(66) Telegramma Cavour a Villamarina, Torino 27 febbraio 1857.

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Da ciò risulta incontestabilmente provato che i Subalpini sono soddisfatti non solo del governo costituzionale, ma sono maturi a possederlo, e quindi hanno un diritto assoluto di conservarselo. L'Austria ha torto d'incolpare ai ministri piemontesi ciò che è stretta conseguenza delle istituzioni liberali. Del rimanente qualunque Governo, qualunque Sovrano straniero, il quale si senta offeso nei suoi diritti e nel suo onore dalla stampa quotidiana piemontese, è protetto dalla legge, la quale non è mai stata reclamata invano dai diplomatici residenti in Torino. Fate voi ciò che abbiamo fatto noi, e vi troverete soddisfatti. - Hubner non si tenne silenzioso: - Ma due paesi vicini, rispose, non possono vivere in buon accordo se non si usano vicendevolmente i più grandi riguardi. Per noi è impossibile di tollerare che quotidianamente i diari piemontesi escano fuori con ragionamenti e con notizie che scalzano dalle fondamenta il Governo imperiale nelle sue Provincie italiane. Noi prevediamo che tutto ciò finirà colla rivoluzione. E se i ducati insorgessero e muovesser in armi per aiuto della Lombardia ribellatasi, gli aiutereste voi, oppure ci unireste a noi per rimettere in quiete l'Italia? - Walewski rispose in termini generali che, ove vi fosse anarchia, si potrebbe esser certi di trovarvi la Francia tutrice dei principii d'ordine. - Ma se, riprese Hubner, in un movimento insurrezionale generale o parziale dell'Italia la Sardegna vi partecipasse, quale sarebbe il vostro contegno? - Sarebbe un caso grave, osservò il ministro francese, e sul quale farebbe d'uopo pensarci seriamente. Ma quello che fin d'ora vi posso dire, è che noi non permetteremo mai a; vostri soldati d'occupare il Piemonte, come saremo

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sempre disposti ad opporci ad ogni movimento rivoluzionario (67). - Da questo lato pel Gabinetto di Vienna non v'era di che rallegrarsi. Dal tentativo fatto per assicurarsi l'appoggio morale della Francia a premere sulla Sardegna, n'era uscita un'aperta disapprovazione. Le cose non erano procedute più felicemente dal lato della Russia. Buol s'era destreggiato da principio a far credere che la Corte di Pietroburgo approvava l'attitudine presa dal Governo austriaco verso la Sardegna. Ma la scaltra insinuazione venne addirittura tolta di mezzo da franche ed aspre dichiarazioni contrarie del principe di Gortschakoff (68).

In realtà egli aveva ricevuto dal legato austriaco in Pietroburgo il dispaccio austriaco del 10 febbraio senza farvi sopra parola alcuna, e nel restituirglielo avevagli detto: - Voi vi lamentate che i diari piemontesi siano rivoluzionari: ma io trovo che la stampa quotidiana austriaca Io è di più. Che cosa fanno in effetto i periodici piemontesi? Discutono delle eventualità, delle teoriche di mutamenti, d'aggregazioni di Stati contrariamente al diritto europeo.

Ma ciò succede in tutti i paesi liberi. In Inghilterra questi fatti sono quotidiani, e voi non ve ne lamentate punto. Ma frattanto che sul conto della Sardegna fate appello ai principii conservatori, voi sapete bene che al mondo v'è una potenza la quale li ha sempre difesi a visiera alzata.

Questa potenza è la Russia: e tuttavia nei vostri diari che si stampano in un paese retto a governo assoluto, le si fa una opposizione costante e malevola. Fortunatamente le insinuazioni delle effemeridi austriache

(67) Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 26 marzo 1857.

(68) Dispaccio telegrafico Sauli al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, Pietroburgo 4 marzo 1857. - Dispaccio confidenziale dello stesso, Pietroburgo 4 marzo 1857. - Dispaccio confidenziale Cavour, Torino 19 aprile 1857. - Lettere Cavour a Villamarina, 10 e 19 marzo 1857.

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non fanno breccia sugli animi delle nostre popolazioni; onde non ce ne curiamo per nulla. Ma è straordinario che voi stessi, dando tali esempi, leviate così alta la voce contro gli sviamenti dello stesso genere inerenti alle condizioni proprie dei paesi liberi, e i cui Governi non sono quindi punto responsabili. In quanto alla Russia, essa è a sufficienza stanca degli sforzi fatti e degli aiuti prestati per interessi non suoi: fu un errore che non siam disposti a ripetere (69). - E a dare un segno palese che in quella controversia le simpatie della Russia erano tutte per la Sardegna, Gortschakoff fece ristampare nel diario governativo di Pietroburgo la fiera rimbeccata che Cavour avea dato alle provocazioni dell'effemeride officiale di Milano (70).

Buol aveva fatto di tutto per persuadere il Gabinetto di Londra che la Sardegna erasi legala in intima alleanza colla Russia (71); e a ribattere il chiodo aveva assicurato l'ambasciatore inglese in Vienna che si doveva ai suggerimenti della Corte di Pietroburgo se il Gabinetto di Torino non aveva accolto con miglior garbo le rimostranze dell'Austria sugli eccessi della stampa periodica (72).

Per quanto queste insinuazioni trovassero terreno propizio in vista del contegno assunto dalla Sardegna negli affari d'Oriente, tuttavia la diplomazia inglese si trovò costretta ad approvare la risposta del conte Cavour alla nota austriaca del 10 febbraio. Ma da questo lato la scena mutò ben tosto (73). All'Inghilterra grandemente premeva

(69) Dispaccio confidenziale Sauli al presidente del Consiglio dei inistri in Torino, Pietroburgo 13 marzo 1857.

(70) Dispaccio Sauli, Pietroburgo 28 febbraio 1857.

(71) Lettera Cavour al marchese Villamarina, Torino 27 settembre 1857.

(72) Dispaccio confidenziale Sauli, Pietroburgo 24 marzo 1857.

(73) Dispaccio del marchese d'Azeglio, Londra 25 febbraio 1857. - Lettera Cavour, Torino 29 marzo 1857.

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che la pace non fosse turbata in Italia; essa quindi si pose attorno a scongiurare i pericoli che le apparvero prossimi dietro la rottura dei rapporti diplomatici tra la Sardegna e l'Austria. Lord Cowley ebbe l'incarico di tasteggiare se il Gabinetto francese si accorderebbe con quello di Londra per operare un riaccostamento tra le Corti di Vienna e di Torino mediante una dichiarazione per la quale la Sardegna, a calmare i sospetti dell'Austria, affermasse che essa repudiava ogni concetto pratico di mutare l'assetto territoriale dell'Italia, sia usando essa stessa mezzi violenti, sia sospingendo gli Italiani ad usarli (7).

Il seguente colloquio ha un'importanza storica.

Come il marchese Emanuele d'Azeglio ebbe notizia di questo tentativo ch'era a tutto vantaggio dell'Austria, si portò da Palmerston, e gli disse: - Milord, desidero parlarvi onde veder modo di trovare la soluzione d'un enigma. Noi non possiamo giungere a comprendere come l'Inghilterra ci possa sospingere a un partito, che ridotto ai suoi minimi termini, pur sempre ci fa passare sotto le forche caudine. La dichiarazione proposta e una soddisfazione data da noi all'Austria, sono una cosa identica.

Ora noi né vogliamo, né possiam dare a questa Potenza soddisfazione di sorta. - Palmerston si manifestò benevolo all'Italia, e cercò di togliere ogni ombra di malevoglienza verso il Piemonte alla domanda mossa al Gabinetto di Parigi. Incuorato a proseguire, il legato sardo chiese se il contegno assunto dal Gabinetto inglese era spontaneo, o se eragli stato suggerito da un'altra Potenza.

Palmerston schivò di rispondere direttamente a questa interrogazione, e prosegui a favellare cosi: - Il conte Cavour più volte ha dichiarato pubblicamente di non

(74) Dispaccio telegrafico Villamarina, 16 aprile 1857. - Dispaccio riservatissimo dello stesso, 17 aprile 1857.

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voler cangiare le attuali condizioni dell'Italia con mezzi violenti. A noi è parso che, se avessimo nelle mani un documento diplomatico il quale ciò attestasse, potremmo confutar le accuse che a Vienna si muovono al Piemonte, e aprire così la via a un riaccostamento. In questo procedere non v'è nulla di disonorevole alla Sardegna, giacché la dichiarazione verrebbe fatta a un suo alleato per giovarle verso l'Austria. Ciò sarebbe tanto pili desiderabile, da che lo stato attuale delle relazioni tra le Corti di Torino e di Vienna è gravido di pericoli. Una querela di doganieri alla frontiera, un imprigionamento politico può da un istante all'altro suscitare un conflitto. - Non è a temere, osservò Azeglio, quando né l'uno né l'altro dei due avversari hanno voglia di venir alle mani. E se si è soddisfatti delle nostre dichiarazioni pacifiche, perché pretendere che le ripetiamo in un documento diplomatico? Si domanda questo per indurci a un atto di sommessione all'Austria. - Ma no, riprese il ministro inglese; figuratevi alla mente un amico affezionato, che si adoperi in un'opera di rappacifìcamento. Egli si procura le prove del leale procedere dell'uno dei due contendenti, e si volge quindi all'altro per dirgli: siete del lato del torlo, da che coi vostri occhi potete vedere che le vostre accuse sono infondate. Mi chiederete: ma perché la Sardegna deve fare il primo passo? Vi rispondo che non è essa che la faccia; siamo noi, vostri buoni amici. Se avessimo chiesto all'Austria di riaccostarsi per la prima, essa avrebbe messo avanti le condizioni per un accomodamento, e la dignità del Governo piemontese se ne sarebbe a ragione risentila. Del rimanente, noi abbiam dovuto tenere di vista innanzitutto lo stato attuale delle cose, che da un momento all'altro può mutarsi in aperte ostilità. Desiderosi di ripararvi in tempo utile, neanco ci siam occupali a indagar le cause che l'hanno prodotto.

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È vero che abbiamo sospettato di scorgervi la mano della Russia; ma può essere che siamo stati dal lato del torto nel volgere in mente questo sospetto. - Veramente, notò il legato sardo, dopo le molteplici prove di longanimità date da noi, non so comprendere come ci si possa sospettare strumenti della Russia. L'Austria ci ha fornito più volle argomenti di fatto per venir seco a una rottura diplomatica; invece è essa che l'ha compiuta dietro nebulose accuse. - Lo so, rispose il visconte; l'Austria ha i suoi torti, benché anco avremmo desiderato che il conte Cavour non si fosse lasciato andare così facilmente in dimostrazioni pericolose. Ma ad ogni modo noi dovevamo prender le cose al punto in cui erano giunte, e abbiam pensalo che, di fronte ai pericoli che minacciavano il Piemonte e il resto dell'Europa, il meglio che potevamo fare era di prender concerti con un Governo nostro alleato, per iscongiurarli con mezzi onorevoli per tutti. - Ben gli rispose il legato sardo: - Noi siamo sempre disposti a ricevere dai nostri alleati consigli vantaggiosi alla conservazione della pace. Ma nel caso attuale non troviamo punto che gli espedienti proposti salvaguardino la nostra dignità. Del rimanente, quando si ode l'Austria querelarsi di deputazioni, di medaglie, d'eccessi di stampa, si scorge chiaramente che non sono questi pretesti secondari che le rendono uggioso il Piemonte. Essa con isdegno e con terrore vede sorgere una Potenza tuttavia di second'ordine, ma che s'incammina a toglierle il primato politico in Italia. L'Austria è giunta a persuadersi che, fintanto che il Piemonte si terrà ritto, essa non potrà mai signoreggiare gli Italiani. Essa vede in noi i suoi più formidabili nemici, perché di sangue italiano abbiamo alle mani una facile leva di commuovere i popoli della penisola offrendo loro libertà e progresso civile.

La nostra stessa moderazione spiace all'Austria, giacché

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è questa che la sforza a fare i primi passi sulla via della discordia. Con quale diritto può essa muover rimprovero al conte Cavour d'aver accolto le deputazioni d'onorali uomini che gli si presentavano per rendere omaggio agli sforzi da lui fatti pubblicamente nel Congresso di Parigi per il benessere de' suoi simili? Se una deputazione di Polacchi si presentasse a lord Palmerston per ringraziarlo di qualche buona parola detta a favore della infelice loro patria, li scaccierebb'egli? - Ma il vostro torto, riprese il ministro inglese, sta nel voler vantaggiare l'Italia nel suo presente stato di scadimento, e di credere che la miglior via per raggiungere questo fine sia quella di mettervi in cattivi termini coll'Austria. Coi validi mezzi d'azione che questa Potenza possiede, essa vi volterà sempre contro le antipatie degli altri Stati italiani, e li capitanerà da avversaria irreconciliabile a osteggiar sempre tutte le vostre proposte di riforme. Non sarebbe pertanto meglio di disarmarne l'opposizione, togliendo via tutti i motivi plausibili che essa ha di opporsi alla politica del Piemonte? - La risposta venne pronta sulle labbra del legato sardo: - Ma noi non avremmo mai il concorso dell'Austria per migliorare le cose d'Italia.

Essa ha per sé i Governi; noi abbiamo dalla nostra parte i governati. Essa dice ai primi: volete la mia protezione? ve la concedo sotto la clausola che non dimentichiate ch'io sono la rappresentante del governo assoluto, del regime della sciabola, e della intolleranza cattolica. Noi diciamo ai governati: seguiteci; noi che abbiam nelle vene sangue italiano, teniamo alta la bandiera dell'indipendenza, della tolleranza religiosa, del progresso morale e materiale, e degli ordini liberi di governo. Rimane a sapere quale di queste due politiche sia quella che l'Inghilterra ama d'appoggiare. - Palmerston tornò in sul ripetere che pel Piemonte non era

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politica savia quella che si basava nell'assumere un contegno ostile all'Austria, e che dietro questa convinzione il Gabinetto di Londra aveva agito. - Ma se voi giudicate diversamente, proseguì, se a voi sembra che sia più conforme ai vostri interessi di persistere nella rottura dei rapporti diplomatici coll'Austria, è affar vostro: il Governo inglese non ha nulla a che farvi, dopo avervi manifestata l'opinione sua d'amico e d'alleato. Ma nel lasciarvi tutta la libertà d'azione, non debbo nascondervi che l'Inghilterra intende che voi accettiate la responsabilità così delle buone come delle cattive conseguenze delle vostre determinazioni; e se un giorno vi troverete in gravi imbarazzi, non dico che il Gabinetto di Londra non vi presterà gli uffizi di alleato, ma vi faccio osservare che alla sua volta si troverà imbarazzato nel praticarli, e non dovrà tralasciare dal rimproverarvi di non averlo voluto ascoltare per accettar condizioni che a suo avviso potevano felicemente e tosto sciogliere la controversia. - Palmerston finì con dire sorridendo: - Badate che non vi si domanda che dichiariate di voler rispettare i trattati del 1815; e molto meno poi pretendiamo che nell'intimo del vostro cuore cessiate dal desiderare una grande commozione politica, che dia all'Italia un assetto territoriale più conforme ai vostri voti: ciò che vi chiediamo è che dichiariate che non intendete di riversare coll'uso della forza lo stato politico attuale dell'Italia (75). - Il Gabinetto di Parigi, all'interpellanza mossagli io tal proposito dal ministero inglese, rispose negativamente. Soltanto Walewski si dichiarò non alieno dal concertarsi per indirizzare alla Sardegna, nelle forme

(75) Lettera del marchese Emanuele d'Azeglio al conte Cavour, Londra 21 aprile 1857.

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più benevoli, buoni consigli intorno al procedere qualche volta sregolato e pericoloso della stampa quotidiana nel Piemonte. Ma i ministri inglesi risposero che su tale argomento essi non si sentivano vogliosi di fare il minimo passo, e inviarono a Parigi un nuovo progetto, il quale consisteva nella proposta che i due Gabinetti si rivolgessero in termini benevoli alla Sardegna per invitarla a concertare essa i modi di mettere in tranquillo l'Austria, dandole qualche soddisfazione (76). Queste sollecitazioni non essendo giunte a guadagnarsi l'assenso del Governo francese, il ministero inglese tentò d'arrivarvi col sollecitare il Gabinetto di Dresda a cercar modo d'intromettersi per toglier via le differenze insorte tra l'Austria e il Piemonte, consigliando al conte Cavour di manifestare primo il desiderio d'un riaccostamento Ira i due Governi. Il conte di Breust non mancò d'adoperarsi per riuscir nell'intento, ma infruttuosamente (77).

Il presidente del Consiglio dei ministri di Vittorio Emanuele, se erasi sentilo sdegnato nel vedere l'Inghilterra patrocinare così recisamente gli interessi dell'Austria, non ne aveva provato sgomento, e tosto con coraggio avea preso il suo partito sulla via da seguire. Queste in sostanza furono le dichiarazioni da lui fatte, e le istruzioni inviate ai legali sardi in Parigi e in Londra: Noi non faremo la minima concessione all'Austria, ove anche ci fosse chiesta simultaneamente dalla Francia e dall'Inghilterra. Giammai scenderemo ad un atto di debolezza. Che le Potenze occidentali ci lascino tranquilli; saremo prudenti, e agiremo con lealtà. È assai meglio che in Torino non vi sia

(76) Lettere Villamarina al conte Cavour, Parigi 8 marzo, 19 e 29 aprile 1857. - Dispacci confidenziali dello stesso, 16 e 17 aprile 1857.

(77) Lettera Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 7 giugno 1857.

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alcun agente diplomatico della Corte di Vienna, essendoché in tal guisa non vi sarà presso di noi chi raccolga dai diari tutto ciò che in essi si va stampando d'offensivo all'Austria per farne argomento di noie, di proteste e di malevoli suggestioni contro il Governo del re. Sarebbe tempo che il Governo inglese rendesse la dovuta giustizia allo spirito di moderazione che anima gli alti del Gabinetto di Torino, che arrivasse a comprender meglio gli sforzi fatti da noi per mantenerci in termini d'amicizia coli 'Austria, e come non ci sia dato di spingerli oltre senza screditarci. Che l'Inghilterra si volga a esaminare con imparzialità i procedimenti dell'Austria verso il Piemonte negli ultimi anni, e vedrà da quale lato stiano le provocazioni e il torto (78).

Il piegare manifesto e interessato dell'Inghilterra verso l'Austria vieppiù consigliava il Gabinetto di Torino di mettersi nei migliori termini d'amicizia colla Russia, e di tenersi alleata benevola la Francia. Ma per conservare con utile o per non perdere con danno questi due sostegni poderosi alla politica nazionale, onde il conte di Cavour si destreggiava, la cosa era tutt'altro che piana.

Alle prime pratiche intavolate per riannodare vincoli d'amicizia tra le Corti di Torino e di Pietroburgo Gortschakoff con nobile franchezza aveva risposto a De Launay - Non ho il minimo pensiero d'entrare in recriminazioni. Noi pure siamo stati male inspirati, negando di soddisfare il vostro desiderio di rimettere sul piede antico, dopo l'anno 189, la legazione russa in Torino e la sarda in Pietroburgo. In ciò abbiam prestalo troppo l'orecchio all'Austria. Io non ho mai approvato questo ("78) Lettere Cavour a Villamarina, Torino 17 aprile e 25 maggio 1857. - Lettere Cavour al marchese 'l'Azeglio in Londra, Torino 18 aprile e maggio 1857.

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procedere; ma ora che il terreno è sgombro, potremo metterci di buon accordo. Il nostro programma politico è questo: ripiegare su di noi stessi, non farci più i difensori di certe idee, e per esse incontrare sacrificii, dei quali siamo stati così malcompensati. Lascieremo che ciascheduno stato regoli a modo suo gli affari suoi interiori.

Convengo che la Russia e il Piemonte sono alleati naturali; e noi per mantenerci tali confidiamo sulla prudenza del vostro Governo, che saprà diportarsi in guisa da non dare all'Austria alcun argomento legittimo di lamento.

Questo è il miglior partito che possiate seguire (79). - Alle benevoli parole erano susseguiti fatti d'uguale natura. I legati del re Vittorio Emanuele erano stati ricevuti dallo czar Alessandro con mostre di singolare benevolenza. L'imperatrice madre, evitando studiosamente di passare per le terre del dominio austriaco, si era condotta a soggiornare in Nizza. I granduchi suoi figli eransi portati in Torino per assistere a militari rassegne apprestate in loro ono le. I diplomatici russi non avevano trascurata alcuna propizia occasione per vantaggiare la Sardegna nelle sue contestazioni coll'Austria. Ma compagni a queste dimostrazioni più che benevoli si erano sempre mantenuti i più calorosi consigli di moderazione nel fronteggiare le pretensioni viennesi. I diplomatici moscoviti dicevano e ripetevano: - Il Piemonte deve aumentare di potenza territoriale anche nell'interesse della Russia; ma bisogna che questo fatto si compia all'infuori della rivoluzione, e l'impulso venga dall'alto e non dal basso. Frattanto il Governo sardo continui a mostrare all'Europa coi fatti che è capace di mantener l'ordine e la tranquillità nell'interno del regno, e che in alcun modo non pensa e non si adopera a suscitare il malcontento negli altri stati italiani.

(79) Dispaccio Do Launay, Dresda 6 giugno 1856.

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Se il Piemonte saprà aspettare con calma operosa e assennata il grande giorno, questo verrà, e la Russia lo spalleggierà allora a cacciar l'Austria dall'Italia. - V'era un altro desiderio, che spesso trapelava dai discorsi dei diplomatici russi, ed era volto a svogliar la Sardegna dal partecipare alla politica dei Gabinetti di Londra e di Parigi verso il re di Napoli (80).

I diplomatici francesi non erano men solleciti dei russi nel raccomandare ai ministri del re di procedere guardinghi onde togliere coi fatti ogni credilo alle insinuazioni tendenti ad ingenerar la credenza che essi cercassero di turbare in Italia la quiete per mezzi indiretti e sottomano, aiutando l'opera dei rivoluzionari. Napoleone poi mandava al conte Cavour il consiglio di studiarsi con ogni maggior cura d'entrare nelle migliori grazie dello czar Alessandro, che egli cercava di tirare nell'alleanza francese a vantaggiarne la causa delle nazionalità (81).

Ma oltre queste alleanze necessarie, il Governo sardo, per condurre a buon termine l'impresa nazionale, trovavasi nell'imperioso bisogno di tenersi ben stretta un'altra alleanza, la più naturale, la più indispensabile di tutte le altre, quella delle genti italiane oppresse. Ma queste si erano fatte irrequiete, impazienti di mutare stato, flagellate com'erano da mali insopportabili, e stimolate da speranze caldissime.

(80) Dispacci Broglia al ministro degli affari esteri in Torino, Pietroburgo 21 luglio e 30 settembre 1856. - Dispacci Cavour, Torino 10 e 13 agosto 1856. - Dispaccio Villamarina, Parigi 30 novembre 1856. - Dispacci Sauli al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, Pietroburgo 25 dicembre 1856, 10 e 27 gennaio e 28 febbraio 1857.

(81) Dispaccio Petrulla al ministro degli affari esteri in Napoli, Vienna 5 giugno 1856. - Dispaccio riservatissimo Villamarina, Parigi 30 dicembre 1856. - Lettera Villamarina, 18 febbraio 1857. - Lettera Cavour, Torino 25 maggio 1857.

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In tal maniera la politica del Piemonte, rotte che ebbe nel 1857 le sue relazioni coll'Austria, versava in condizioni difficilissime, da che conforme ai consigli della Francia e della Russia, e per non tirarsi addosso maggiormente l'animosità dell'Inghilterra, dovea procedere misuratissima e aliena dal turbar la quiete della penisola, mentre che, a non perdere riputazione e autorità sugli Italiani, faceva d'uopo che mostrasse che era realtà e non ombra di buon volere l'assunto uffizio egemonico per la indipendenza nazionale. V'erano inoltre le segrete mene austriache per tirare la Sardegna nella via d'inconsulte provocazioni. Vi erano le cospirazioni della setta mazziniana, che intendeva a repubblica. Vi erano i maneggi dei clericali, che miravano a disfare l'ordito della politica cavouriana. V'erano nel Parlamento subalpino, e a capo di diarii riputati, uomini potenti di parola e di clientela, i quali appuntavano Cavour di timidezza e di servilità alla volontà di Napoleone III.

In questo viluppo di concetti e di fatti, al timoniere della nave che portava il vessillo della redenzione italiana, faceva d'uopo di singolare vigilanza e acutezza d'occhio per non urtar contro qualcuno de' fitti scogli che a destra e a sinistra assiepavano le torbid'acque, che conveniva solcare per toccar il porlo ancora incerto e lontano.


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CAPITOLO DECIMO

Sommario

Pratiche diplomatiche relative ai fondi di Montone e Roccabruna - Questione di Neuchatel - Indirizzo dato da Cavour alla diplomazia sarda in ordine alle tose italiane - Osservazioni - Tentativi mazziniani - Rimostranze e pressioni della Francia - Risposte della Sardegna - Tentativo di riazione clericale nel Piemonte - Attentato Orsini - Nuove macchinazioni settariche Nuove rimostranze e pressioni diplomatiche - Contegno del conte Cavour - Pubblicazione delle lettere di Felice Orsini - Effetti aspettati e conseguiti - Considerazioni - Convegno di Plombières - Questione del Cagliari - Prime pratiche della Sardegna relative ad essa - Spontanei consigli del Gabinetto di Londra - Domanda del Gabinetto di Torino all'Inghilterra, come accolte - Intrighi austriaci - Resipiscenza dei ministri inglesi nella questione del Cagliari - Consigli di di Napoleone III - Accordi tra i Gabinetti di Torino e di Londra - Scioglimento della questione del Cagliari - Condizioni delle Provincie estensi d'oltre Apennino nel 1858 - Rimostranze relative del conte Cavour - Risultati - Contestazioni diplomatiche relative ai Principali danubiani - Contegno della Sardegna - Considerazioni intorno ai procedimenti governativi dell'Austria e dei Sovrani di Modena, Parma, Firenze, Roma e Napoli dal 1819 al 1859.

I.

Nel giugno dell'anno 1856, dietro le sollecitazioni della Prussia e dell'Austria, la Francia ravvivò la questione di Montone e di Roccabruna. Il progetto d'accomodamento che il Governo di Parigi proponeva a quello di Torino, aveva l'approvazione dei Gabinetti di Londra, di Vienna e di Berlino (I). Ma la morte del principe Florestano di Monaco sopravvenne in buon punto a togliere il Piemonte dalle scabrose difficoltà, in cui tali proposte Io ponevano.

(1) Nola dei duca di Gramont, Torino 5 giugno 1850.

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Il presidente del Consiglio si valse di siffatto accidente per portare la questione sopra un altro terreno. Il nuovo principe di Monaco, egli rispose al legato di Francia in Torino, è nell'obbligo di ricevere dal re di Sardegna l'investitura dei feudi di Mentone e di Roccabruna. Ma ciò torna incompatibile cogli ordini costituzionali del regno; onde risulta indispensabile l'abolizione di questi feudi. La questione essendo per tal maniera divenuta feudale, si deve regolare dietro le norme del diritto pubblico interiore dello stato. Né per sanzionare l'accomodamento che succederà tra il principe di Monaco e la Sardegna, sarà necessario l'intervento delle Potenze segnatarie dei trattati degli anni 1814 e 1815, essendo che l'annessione dei due feudi al regno non portava alterazione di sorta al diritto internazionale europeo. Ma per condurre il negoziato a un equo componimento, pur sempre bisognava che il principe smettesse le sue pretese esorbitanti; che, se si voleva continuarlo per le vie diplomatiche, s'includesse nelle trattative la cessione di tutto il principato (2).

Il Governo francese non fece buon viso a queste considerazioni, e tornò a insistere affinché si accettasse il suo progetto, mostrando di menare per buone le ragioni addotte dagli avvocati del principe di Monaco per contraddire gli argomenti della Sardegna onde rendere la questione semplicemente feudale. Per quanto Cavour si studiasse di mostrare che il Governo del re, anzi che trincerarsi dietro le viete teoriche del diritto feudale, faceva una larga parte alle domande legittime del principe, non riuscì a spuntare le insistenze della Francia aftinché la questione di Mentone e Roccabruna si conducesse a uno scioglimento amichevole per pratiche diplomatiche.

(2) Nota del conte Cavour al duca di Gramont., Torino 16 agosto 1856.

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Conveniva a Cavour di non tenersi troppo in sul tirato verso il Gabinetto di Parigi per vantaggiare maggiori interessi del Piemonte: egli quindi incaricò il marchese di Villamarina d'aprire un negozialo su tal questione dietro i buoni uffizi della Francia.

Da prima il legato sardo a Parigi si destreggiò per indurre il principe alla cessione di tutto il principato; ma trovò freddo nell'appoggiarlo Walewski, riluttante affatto il principe. Portato l'affare in una minor cerchia, dopo discussioni lunghe e intralciate, Villamarina giunse ad appianare ogni cosa, eccetto quella dell'indennizzo (3).

Cavour tolse di mezzo anche quest'ultimo inciampo colla proposta che, rispetto all'indennità dovuta al principe per la cessione di Mentone e di Roccabruna, la cosa si rimettesse all'arbitramento di due commissari, dei quali uno verrebbe scelto dalla Sardegna, l'altro dal principe; in Monaco cesserebbe il patronato del re di Piemonte, purché nessun altro potentato l'assumesse, e si stipulasse tosto una convenzione per l'unione doganale e per la consegna immediata dei malfattori e dei disertori (h). Ma il principe rifiutò reciso di assentire alla proposta fattagli dell'arbitramento, sufolato dall'ambasciatore austriaco in Parigi, che da oltre otto anni lo teneva riscaldato nelle sue eccessive pretese d'indennità onde mantenere aperta quest'amara fonte di contestazioni diplomatiche per il Piemonte (5).

In questa lotta moltiforme lo statista che dirigeva la politica della Sardegna, procedeva per la via che si era

(3) Memorie documentate del marchese Salvatore Pes di Villamarina per servire alla storia de' suoi tempi. Parte IV (manoscritto).

(4) Dispaccio di gabinetto Cavour, Torino 15 dicembre 1857. - Istruzioni Cavour ai marchese Villamarina, Torino 5 gennaio 1858.

(5) Lettera dell'aiutante di campo del principe di Monaco al marchese di Villamarina, Parigi 28 maggio 1858. - Lettera Villamarina al conte Cavour, Parigi 29 maggio 1858.

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tracciata, con prudenza e sagaci là singolare. Egli era pervenuto a rimettere il Piemonte in così allo credito presso la diplomazia, da essere invitato a intromettersi nelle grandi questioni europee per impedire che si inacerbissero a segno da generare la guerra. Narrammo le sollecitazioni della Francia a questo fine nella questione di Bolgrado: ora ci conviene accennare le istanze fatte dalla Prussia e dall'Inghilterra alla Sardegna per la questione di Neuchatel.

L'atto finale del Congresso di Vienna aveva restituito questo principato alla Prussia, pur facendone un Cantone della Repubblica elvetica; ma nel 1848, per un violento moto popolare, era stata sostituita di fallo l'autorità del potere federale svizzero in tutti i diritti del re di Prussia. Federico Guglielmo IV, per un protocollo sottoscritto a Londra nel maggio del 1852, bensì aveva fatto riconfermare dalle maggiori Potenze i diritti della corona di Prussia sul principato di Neuchatel, ma si era astenuto di farli valere colla forza. Nel settembre 1856 in quel Cantone scoppiò una nuova rivoluzione onde ripristinarvi l'autorità reale; ma andò fallita, e la maggior parte dei sollevati venner posti sotto processo dal Governo svizzero. La Prussia domandò la liberazione dei prigionieri come condizione irrevocabile d'ogni ulteriore trattativa; la Svizzera negò d'assentire: onde dall'una e dall'altra parte si fecero palesi apparecchi di guerra.

Fu a tal punto che la Sardegna, sollecitata come abbiami indicato dai Gabinetti di Londra e di Berlino (6), s'intrommise a preparare la via a un accordo amichevole. Ogniqualvolta si presentava una di queste occasioni, Cavour l'accoglieva per testimoniare coi fatti che l'ìntromessione del Piemonte nei grandi affari europei era

(6) Lettera Cavour a Villamarina in Parigi, 27 dicembre 1856.


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feconda di vantaggi per la giustizia, per la concordia e la pace. Così nell'affare di Neuchatel messosi d'accordo colla Francia, egli si pose a consigliare alla Svizzera la liberazione incondizionata dei prigionieri, e alla Prussia, conseguita questa soddisfazione, la rinunzia de' suoi diritti. La questione s'avviò tosto per questa via, onde si dileguò il pericolo di vedere per essa accesa la guerra in Europa (7).

11 primario ministro della Sardegna procedeva con uguale temperanza di concetti nella questione italiana.

Guidatore oculato e indefesso d'una diplomazia che doveva preparare all'Italia il suo rinnovamento civile, Cavour con frequenti istruzioni la dirigeva e la manteneva concorde e operosa nel dimostrare i danni e i pericoli che all'Europa sovrastavano dagli ingerimenti arbitrari dell'Austria negli stati italiani, nel combattere questa preponderanza con tutti i mezzi legali e onesti, nell'opporsi all'aperto a qualunque pretensione della Corte di Vienna sulle cose italiane contraria ai trattati, nello staccare dalla sua politica i Governi italiani, nel persuaderli che nell'interesse proprio e in quello dei loro sudditi dovevano riaccostarsi al Piemonte, nell'inculcare l'utilità delle riforme civili praticate in tempo utile, nello smentire le accuse date alla Sardegna di fomentare la rivoluzione, nel corroborare per tutta la penisola il sentimento di nazionalità, e nello spalleggiare il partito liberale moderato (8).

Questa politica, nelle sue apparenze così pacifica, fecondava nel suo grembo la rivoluzione. La strategia di Cavour in sostanza avea per punto obbiettivo di suscitare frattanto in Italia una vasta e gagliarda agitazione morale,

(7) Circolare di gabinetto Cavour alle R. Legazioni all'estero, Torino 1 luglio 1857.

(8) Dispaccio circolare di gabinetto, Torino 1 aprile 1857.

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mediante la quale si facessero operose e si coordinassero a un solo fine le forze vive e massime latenti della nazione, e in tal maniera si costituisse da un capo all'altro della penisola un partito, il quale praticasse con perseveranza la virtù del coraggio civile, e agitandosi sul terreno del diritto e della giustizia tormentasse senza requie V Austria e i Governi italiani vassalli suoi, frattanto che il Piemonte prenderebbe argomento da queste interminabili irrequietudini per indurre la diplomazia ad ammettere il valore e l'urgenza d'una questione italiana, e a prenderla in serio esame. Constatata l'impotenza della diplomazia a mettere in tranquillo assetto le travagliose condizioni dell'Italia, inevitabilmente l'arco sarebbesi teso al segno da spezzarsi con violenza, e allora verrebbero in campo la rivoluzione e la guerra nazionale, divenuta l'opinione europea invulnerabile avversaria dell'Austria e dei Governi italiani retrivi, già assicurata la forza materiale necessaria a rendere credibile la vittoria e fatto il Piemonte vessillifero d'una bandiera sotto cui potesser prendere onorato posto quanti erano gli Italiani, i quali anteponevano ad ogni questione di forma politica, ad ogni interesse di provincia la piena emancipazione dell'Italia dal dominio forestiero.

II.

Mentre Cavour con abile prudenza deviava dai modi violenti, conscio che nei grandi negozii politici fa d'uopo aspellare le occasioni propizie generate dalla forza stessa degli avvenimenti, Giuseppe Mazzini faceva cammino contrario, bandendo sollevazioni repubblicane perpetrale coll'assassinio. Ucciso Napoleone III, la rivoluzione, come se l'era architettata in capo il cocciuto cospiratore genovese, nell'anno 1857 doveva rapida e infrenabile scoppiare in Francia, in Italia e nella Spagna.

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Ma, come sempre, quelle mazziniane cospirazioni portavano in grembo il germe della propria rovina. Gli agenti segreti delle polizie vi si erano infiltrati, onde vennero imprigionati in tempo utile coloro, i quali avevano l'incarico d'assassinare Napoleone. Tolto alla cospirazione il suo nerbo, era stoltezza proseguirla. Nulladimeno Mazzini inculcando ai suoi che le condizioni d'Italia e di Europa erano propizie all'iniziativa, e che bisognava credere e tentare (9), ordinò che insorgessero.

Tentarono di sollevare Livorno: ma pochi, e abbandonati dal popolo, in breve furono vinti. Ruinò anch'essa l'impresa capitanala da Carlo Pisacane fra le scabrose montagne di Basilicata e Principato. Falli del pari il tentativo stolto di impadronirsi dei fortilizi di Genova a farne la culla della nascitura repubblica europea. Ma per questi tentativi il Governo piemontese si trovò inopinatamente travolto in una bufera di guai. I nemici suoi si levarono in coro ad accusarlo di avere avvalorati quei tentativi mazziniani col blandire la rivoluzione: i migliori suoi amici lo incolparono di debolezza e d'imprevidenza. In realtà i governanti subalpini s'erano lasciati guidare da soverchia fiducia. Il molo di Genova non gli aveva colti alla sprovvista (10), ma da principio non avevano prestato fede, a sufficienza agli avvisi mandati loro dal Governo francese. - Sintanto che, aveva risposto Cavour, l'imperatore terrà in freno la rivoluzione in Francia, noi possiamo dormire i nostri sonni tranquilli senza tema di sentirli turbati da moti di ribellione (11). - Era ciò che da qualche tempo Napoleone non credeva.

(9) Lettera di Mazzini, 27 aprile 1857.

(10) Circolare Cavour alle Legazioni sarde, Torino 1 aprile 1858.

(11) Lettera Villamarina, 3 giugno 1857. - Lettera Cavour, Torino 15 giugno 1857.

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Genova, ei diceva coi suoi intimi, ha nel suo seno il cavallo di Troia. In quella città vi è uno stato di cose capace di compromettere gravemente il Governo sardo, il quale in determinate circostanze si potrebbe trovare nell'impotenza di reprimervi i rivoluzionari. Ove in tempo utile non provvegga a tagliar il filo che annoda le varie macchinazioni settariche operative in Genova, l'Italia andrà sossopra. Disgraziatamente ho a fare con una nazione che non mi vuole lasciar il tempo necessario per agire con convenienza e con isperanza di buon successo (12). - Quando i fatti vennero a mostrare che realmente in Genova i mazziniani miravano alla guerra civile, Napoleone, contro l'usato suo costume, prese personalmente un contegno risentito verso il Governo sardo, e lasciò intendere senza reticenze che il tentativo di ribellione fallo a Genova attestava da un lato la mancanza d'oculatezza nel Governo, e dall'altro lato l'esistenza pericolosissima in quella città d'una fucina di cospirazioni demagogiche alimentala da una stampa perversa.

Le doglianze non finirono qui. Walewski, chiamato a sé il legato sardo in Parigi, gli tenne il discorso seguente: - Vi sarà noto senza dubbio che alcuni diari piemontesi e massime l'Espero hanno osalo d'applaudire la sentenza data dalla Corte d'appello di Torino sopra alcune poesie pubblicate in onore del regicida Agesilao Milano. L'imperatore è stato profondamente afflitto e scandolezzato del procedere della Corte d'Appello di Torino in questa occasione. Potete quindi figurarvi nel pensiero l'indignazione che ha provato il mio Sovrano nel conoscere le lodi prodigate dalla stampa quotidiana

(12) Lettera confìdenzialissima Villamarina al conte Cavour, Parisi 4 dicembre 1856.

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piemontese a quest'atto di debolezza dei vostri giudici.

Non vi fate illusioni: in Europa non vi ha che un sentimento di disapprovazione a vostro riguardo. L'imperatore ne soffre più di tutti, e sente d'aver ricevuto due ferite assai dolorose al suo cuore, l'una come sovrano, l'altra come vostro sincero alleato. Egli giudica che, procedendo per questa via, verrà irreparabilmente fermata o sviata la politica savia e liberale inaugurata dal conte Cavour con alta mente e caldo patriottismo. Se il vostro Governo non comprende la necessità di porre un freno agli sviamenti della magistratura e della stampa, l'imperatore, il vostro migliore amico, si vedrebbe nell'impossibilità di dare corso ai suoi disegni favorevoli al vostro paese, e si troverebbe nella necessità di associarsi ai Governi nemici vostri acerrimi, per far cessare un permanente pericolo di gravissime perturbazioni europee. Il vostro Governo risponderà invocando l'uso libero e legale delle vostre franchigie costituzionali. Ma volgete lo sguardo all'Inghilterra culla di questi ordini liberi, che cosi felicemente sono stati trapiantali nel Piemonte. Il suo Governo non ha esitato un solo istante a sopprimere nei suoi possedimenti delle Indie tutte le libertà dietro la ribellione de' Cispay. Ciò vuol dire che, quando il pericolo è evidente, il Governo inglese, per guarentire il benessere, la tranquillità e la sicurezza personale dei suoi popoli, non si ferma nei mezzani provvedimenti.

Il Gabinetto delle Tuileries aveva deliberato d'indirizzare per mezzo mio al duca di Gramont una nota sulle cose dettevi, onde la leggesse al conte di Cavour, e provocasse da lui spiegazioni soddisfacevoli. Ma l' imperatore ha amato meglio di ordinarmi d'aprirmi con voi in termini confidenziali, ma chiari e precisi. Voi dovete riconoscere in questa risoluzione del mio Sovrano una nuova prova

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del suo affetto sincero per la prosperità del vostro paese e per l'assodamento del suo Governo (13). - Per quanto questi suggerimenti, ripetuti tre volte in due mesi, fosser di troppo intromettenti, vuolsi nulladimeno avvertire che muovevano da considerazioni di grave momento. Nei segreti andirivieni della diplomazia a quel tempo facevasi un doppio lavorio. Da un lato il re del Belgio si maneggiava con straordinaria caldezza d'uffizi a condurre l'Inghilterra a stringersi in stabile alleanza coll'Austria, e il conte Buol nulla lasciava di intentato perché la Russia, smessi i recenti odii, si rifacesse amica della Corte di Vienna. Da un altro lato Napoleone travagliava a tutt'uomo per associare la Russia a' suoi nascosti disegni e per ricondurre a sé l'Inghilterra. I tentativi mazziniani riuscivano a tutto vantaggio del primo di questi due lavori, e sturbavano assai il secondo. Tuttavia, dietro l'universale disposizione degli animi nel Piemonte e nel resto d'Italia, sarebber seguile difficoltà intricatissime ove i consiglieri della Corona di Vittorio Emanuele si fossero rassegnati a indietreggiare.

Cavour sapeva calcolar troppo i tempi e gli andamenti delle cose per non comprenderlo; ad attutar quindi i timori del Governo francese, e a troncare il corso a incresciose ammonizioni, alla sua volta si pose a sermonare così: - perché tanti sospetti e tante paure? I fatti hanno mostrato che il partito mazziniano non ha radici in Genova. Sono stati i clericali e non i repubblicani quelli che hanno trionfato nelle recenti elezioni municipali. Se si paragonano le condizioni attuali di Genova con quelle in cui essa era nel 189, è lampante il progresso fattovi dalle idee liberali moderate. Non doveva essere argomento di meraviglia

(13) Dispaccio confidenziale riservato Villamarina al presidente del Consiglio dei ministri, Parigi 5 agosto 1857.

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né di timorose, frammezzo a trentamila fuorusciti, Mazzini, munito di danaro in gran parte venuto dall'Inghilterra, era giunto a raggranellare poche squadriglie di rivoltosi. I fatti di Livorno e di Sapri provavano inoltre che anche nelle altri parti d'Italia i Mazziniani erano screditati. Con un po' d'energia il moto livornese è stato spento al suo manifestarsi. Benché nel regno di Napoli vi sia un Governo iniquo e odiato dall'universale, l'impresa di Pisacane è sfumala nell'indifferenza e nell'abbandono. Fa di mestieri che l'imperatore non si lasci smuovere da' suoi liberali propositi da notizie bugiarde. Nel Piemonte la stampa quotidiana è tutt'altro che demagoga e nemica dell'alleanza francese; e in ogni modo ha essa per avventura impedito a Massimo d'Azeglio e a me di praticare una politica prudente e moderata? Dall'anno 1848 in poi vi furono venti cambiamenti ministeriali nella Spagna, tre nel Belgio, quattro in Inghilterra, e altri presso popoli non retti a ordini costituzionali: nel Piemonte l'indirizzo della politica non ha mutato nel corso di otto anni. Siamo giunti a segnare un'ingrata pace coll'Austria, a riparar i danni di una guerra infelice, a sventare gli intrighi della Corte romana, a schiacciare la ribellione in Genova ne' suoi esordi, a tenere tranquilli i fuorusciti politici, a riparare gli effetti dell'epidemia e di pessimi raccolti agricoli, a fare una guerra tutt'altro che popolare, a ristabilire l'alleanza russa, a stringere intimi nodi d'amicizia colla Francia imperiale. Dietro questi risultati, se ponessimo mano a scemare le nostre libertà, faremmo opera inconsulta e dannosa; il pericolo di non riuscire sarebbe grandissimo: ma ove pur si giungesse a superare i formidabili ostacoli che s'incontrerebbero, la vittoria distruggerebbe tutto l'edilizio innalzato con lavoro indefesso dal partito liberale piemontese.

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L'imperatore Napoleone vuol egli che il Piemonte si mantenga forte e tranquillo onde possa spiegare gagliardi influssi in Italia, non lo turbi nelle sue libertà interiori. Ov'esse fossero in alcun modo menomate, il nostro paese cadrebbe nelle condizioni politiche della Spagna e avrebbe un Governo debole, tentennante, costretto a volteggiare nel Parlamento ora a sinistra, ora a destra, per cadere alla fine spossato e screditato nelle braccia d'una delle due parti politiche, da cui la Francia non può trarre il minimo vantaggio (14). -

Deliberato a non inchinarsi a concessione veruna che valesse a ingenerare sospetti di fiacchezza del Governo di Vittorio Emanuele nel dare incitamento e vigore all'impresa nazionale, Cavour si trovò assalito da una nuova procella civile. Gliela suscitarono contro i clericali nel novembre del 1857, giovandosi della convocazione dei comizi generali per la sesta legislatura. Fu una vera e gagliarda cospirazione, ordita per formare nel Parlamento una congrega, la quale, travolgendo in basso il partilo liberale, facesse del Piemonte l'alleato di Roma e dell'Austria, I clericali non giunsero a trionfare del tutto nelle elezioni generali, ma rafforzarono notevolmente la parte estrema dei conservatori, e introdussero nel Parlamento uomini che per le loro opinioni politiche erano avversarli conosciuti degli ordini liberi.

Siffatta riscossa inopinata di clericali e di retrivi ingenerò nei Gabinetti di Parigi e di Londra nuovi dubbii e timori, che il primo ministro della Sardegna fu sollecito di rischiarare. - Sarebbe un error grave, egli fece notare per mezzo dei legati del re, d'inferire che la politica liberale e nazionale caldeggiata dal Governo del re non abbia l'assenso del paese, valutando l'esito delle ultime elezioni generali.

(14) Lettere Cavour al marchese Villamarina in Parigi, Torino 1 e 8 agosto, 27 ottobre 1857.

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La vittoria parziale conseguila dal partito clericale è un effetto transitorio di cause del pari passeggere. E neanco questo fatto è peculiare al Piemonte; per tutto nei paesi liberi il clero, dietro l'impulso di Roma, si agita: nella Svizzera intende a risuscitare la lega del Sunderbund: in Francia si maneggia per abbattere le libertà gallicane; nel Belgio cerca di rimettere in vita le mani morte; nell'Inghilterra usa della libertà concessagli per turbare il corso della civiltà. Spesse volle e con insistenza il Governo del re è stato giudicato ostile alla religione, alla Chiesa e al clero: nulla v'ha di più mendace. Siamo sempre volenterosi di rispettare, di proteggere gl'interessi veri e i diritti legittimi della Chiesa.

Anziché temere o avversare l'intervento legale del clero nelle nostre lotte politiche, lo desideriamo, giacché siam persuasi che, riconoscendo più da vicino i benefizi della libertà, il clero si convincerà che la religione associandosi con essa non ne riceve danno. Se il clero userà dei mezzi fornitigli dalle nostre libere istituzioni per riacquistare privilegi incompatibili colle condizioni presenti della civiltà, noi per combatterlo adopreremo gli stessi mezzi legali. La libertà non ha paura d'entrare in questa lotta, dalla quale è sicura d'uscir vittoriosa per poco che i suoi partigiani siano uniti e operosi. Ma ove per avventura il clero abbandonasse la via del dovere, e usasse del suo sacro ministerio per padroneggiare le coscienze dei cittadini, per sospingerli ad alti, i quali direttamente condurrebbero alla guerra civile, noi sapremo difendere con tutte le nostre forze l'indipendenza dello Stato, la libertà delle coscienze, e tutte le altre franchigie che sono sì care al paese (15). - Questa serena dignità di procedere onde la ragion di stato

(15) Circolari Cavour ai Capi delle Legazioni regie all'estero, Torino 28 novembre 1856 e 1 aprile 1857.

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non si scompagnava dalla giustizia e dalla moderazione, mentre che i clericali alzavano il capo con inusitata insolenza, torna tanto più degna d'esser registrata dalla storia in quantochè nel fondo dell'animo Cavour avea dolori e timori gravi. A lui era rincresciuto estremamente che Urbano Rattazzi si fosse voluto spogliare del ministero degli affari interni, mosso da un sentimento delicato e generoso (16); e più crucciavasi di vedere travaglioso il presente e cupo l'avvenire. - Le difficoltà e i pericoli, egli scriveva, tuttodì si fanno maggiori; il furore delle sette non ha più freno: e mentre queste aumentano di perversità, le forze della riazione maggiormente ringagliardiscono. Quale sarà il contegno del partito liberale frammezzo a tali opposti pericoli? Se non procede concorde, esso è perduto, e la causa dell'indipendenza e della libertà ruinerà in Italia.

Noi staremo sulla breccia a combattere imperturbati e risoluti; ma finiremo per cader vinti se tutti i nostri amici non si serrane attorno a noi per aiutarci a difenderci dagli assalti che ci verranno mossi da destra e da manca (17). -

III.

Era scritto ne' cieli che il paese della fausta iniziativa, prima di giungere a spezzar all'Italia le sue catene, dovesse passare traverso alle più dure prove. Alle accennate difficoltà di proseguire nella politica nazionale sopraggiunsero ostacoli nuovi e più formidabili. La sera del 14 gennaio 1858 Napoleone III e la consorte per gran miracolo uscirono illesi dall'assassinio perpetrato da Felice Orsini.

(16) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 17 gennaio 1858.

(17) Lettera Cavour, 23 febbraio 1858.

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La singolare abilità colla quale il tentativo nefando era stato preparalo, l'audacia temeraria dell'esecuzione, la cicca strage avvenuta, i propositi espressi dall'uomo di risoluzioni disperate che lo avea capitaneggiato, i presagi dei danni e degli sconvolgimenti che si sarebber accumulati sull'Europa, ove Napoleone fosse rimasto ucciso nella via Lepelletier, il ribrezzo che sveglia l'assassinio politico, diedero a quel misfatto una lurida fama mondiale. La Francia e i paesi retti a libertà più di tutti ne sentirono le tristi conseguenze. Il Governo napoleonico si fece soldatesco all'interno, e al di fuori aspro e pretensioso verso i paesi che ospitavano fuorusciti politici. Le prime domande furono rivolte all'Inghilterra. Walewski chiese, se in essa il diritto d'asilo era così lato da proteggere gli assassini d'un monarca amico e alleato (18). Il Gabinetto di Londra rispose che non permetterebbe giammai ciò, ma che mancando nelle leggi inglesi i modi giuridici di repressione per simili delitti, tosto proporrebbe al Parlamento una legge adatta. La cosa sarebbe andata liscia se il Governo francese non incorreva nell'imprudenza di porre in mostra nel diario governativo alcuni indirizzi dell'esercito all'imperatore, oltraggiosi all'orgoglio nazionale degli Inglesi. Perciò nell'isola si svegliò una opposizione acerba contro il ministero, accusato di piegar, il capo alle pretensioni arroganti della Francia. Quando questo vento soffia gagliardo, non v'è in Inghilterra ministero capace di rimanere in piedi. In effetto i Wighs caddero, e i Torys ebbero il reggimento. Vogliosi innanzitutto di mantenere l'alleanza colla Francia, se essi non fecero più discorso della legge proposta da Palmerston al Parlamento, procedettero tuttavia nella controversia diplomatica così benevoli

(18) Dispaccio Walewski, Parigi 20 gennaio 1858.

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e moderati eia rendere soddisfatto i! Governo francese (19). Il Belgio si chiarì arrendevolissimo alle sollecitazioni francesi; né si tenne molto in sul tirato la Confederazione svizzera. La procella si scaricò sul Piemonte.

1 cospiratori, travolti da insanabile frenesia partigiana, affilavano di nuovo i pugnali, di nuovo macchinavano sollevazioni repubblicane. Cavour scriveva: - Un altro fatto più grave ancora e che mi mette in maggiori pensieri, si è che la polizia di Ginevra ha denunziato al nostro Console essersi determinato, da rifuggiati colà ospitati, l'assassinio del re e del suo primo ministro.

Per me, me ne rido; giacché se morissi sotto i colpi d'un sicario, morirei forse nel punto più opportuno della mia carriera politica. Ma se un attentato contro il re avesse luogo, quand'anche andasse fallito, avrebbe le più funeste conseguenze politiche: il partito liberale riceverebbe un colpo, dal quale durerebbe fatica a riaversi (20). - Villamarina scriveva da Parigi, che la polizia francese possedeva le prove incontestabili che i Mazziniani si apparecchiavano a fare un nuovo tentativo per impossessarsi di Genova (21). Azeglio avvisava da Londra, che il Comitato rivoluzionario europeo colà stabilito apparecchiava armi e munizioni di guerra da spedire in Italia (22). Gli agenti segreti che la polizia aveva nei conventicoli de' settarii, denunziavano macchinazioni pericolosissime alla sicurezza dello Stato. Un diario torinese, ad onoranza di Felice Orsini, aveva fatto

(19) Dispaccio Malmesbury a Cowley, Londra 1 marzo 1858. - Dispaccio Walewski, Parigi 11 marzo 1858.

(20) Lettera Cavour a Rattazzi, Torino 26 gennaio 1858.

(21) Lettera Villamarina al presidente del Consiglio, Parigi 28 gennaio 1858.

(22) Lettera Azeglio allo stesso, Londra 26 febbraio 1858.

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l'apologia del regicidio; e incriminalo, era stato prosciolto da colpa dai giudici dell'alto (23).

Ad accrescere queste difficoltà e pericoli sopraggiunsero le rimostranze e le pressioni diplomatiche. Le accuse fatte le tante volte al Governo sardo di soverchia arrendevolezza verso la slampa quotidiana e i fuorusciti tornarono a galleggiare abilmente, maneggiate dalle Corti di Roma e di Vienna per recar onta e danno all'odiato Piemonte. - Ecco i frutti dell'agitazione rivoluzionaria fomentala dal conte Cavour, - osservò con malignità il nunzio pontificio in Parigi all'imperatore nel rallegrarsi seco dello sfuggilo pericolo. - Forsecchè vostra maestà, chiese nella stessa circostanza il legato austriaco, non crede sia giunto il tempo d'un intimo accordo tra l'Austria e la Francia per costringere il Piemonte a smettere dalla sua tolleranza verso le macchinazioni de' fuorusciti e gli eccessi della stampa quotidiana? (24). - Queste insinuazioni più calcatamente venner fatte da monsignor Sacconi e dal barone Hubner al conte Walewski, il quale era già abbastanza mal disposto d'animo verso Cavour. Il principe della Tour d'Auvergne non tardò a presentarsi al presidente del Consiglio per leggergli il seguente dispaccio, mandatogli da Parigi dal ministro sopra gli affari esteriori:

Fra i sentimenti che l'attentato del 14 gennaio svegliò e dei quali i legati dell'imperatore mi ragguagliarono, quello che si è manifestato con maggior forza e unanimità riguarda i pericoli che questo delitto odioso ha fatto correre all'Europa intiera. Giammai i governi hanno meglio compresa la comunanza degl'interessi che vicendevolmente li unisce, e cuuie alla tutela dei medesimi sia indispensabile la conservazione dell'ordine pubblico in Francia.

È in nome di questa solidarietà che il governo dell'imperatore si crede autorizzato a reclamare il concorso del gabinetto

(23) Dispacci riservatissimi del ministero degli interni, Torino 9 e 13 febbraio e 9 marzo 1858.

(24) Lettera Villamarina al conte Cavour, Parigi 17 gennaio 1858.

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di Torino per iscongiurar pericoli, l'ampiezza de' quali si è resa palese coll'ultimo attentato. Non è punto la prima volta, voi lo sapete, che la legazione di S. M. è stata incaricata di rappresentare al governo piemontese come fosse desiderabile per la sicurezza degli Stati vicini e per la sua propria, che trovasse modo di porre un termine alle imprese e alle dimostrazioni demagogiche, delle quali il suo territorio è focolare e teatro. Le nostre apprensioni furono giustificate dagli avvenimenti di Genova: ma se pure alcun dubbio poteva rimanere in certuni intorno ai disegni della demagogia italiana, oggi non può essere più possibile di nutrirlo. Non si hanno di fronte partigiani d'opinioni politiche più o meno ardenti e ostili all'attuale assetto politico europeo, ma bensì i seguaci di una setta selvaggia che professa il regicidio e l'assassinio. Costoro da se stessi si pongono fuori della società civile, di cui non possono invocare la protezione da che ne disconoscono le leggi.

Il signor conte di Cavour, ne sono convinto, comprenderà esattamente questo stato di cose, e si renderà persuaso degli obblighi che esso impone a tutti i governi, e massime a quelli che fin ora hanno praticato con maggiore liberalità il diritto d'asilo. Nulladimeno vi sollecito, signor principe, a rappresentare al presidente del Consiglio come sarebbe rincrescevole che lo Stato sardo e particolarmente la città di Genova dovessero continuare a esser ricovero ai nemici della società europea, e che Giuseppe Mazzini, capo di questi uomini perversi, vi potesse soggiornare impunemente, come fece per lo passato e fa al presente per infuocare il zelo de' suoi adepti.

Noi non abbiamo alcun provvedimento speciale da suggerire al governo di Vittorio Emanuele; volontieri ci rimettiamo alla sua prudenza, alla sua lealtà, per praticare gli espedienti che meglio possono condurre al line propostogli. Siam persuasi che il gabinetto di Torino non verrà meno al compito, raccomandatogli nel medesimo tempo dai consigli d'un governo amico, dalla dignità propria, e posso aggiungere dall'opinione pubblica di tutta l'Europa.

Il governo sardo, ne siam fiduciosi, volgerà nello stesso tempo le sollecitazioni sue sull'abuso criminoso che alcuni diari nel Piemonte fanno della libertà della stampa.

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Di essi, uno sopratutto l'Italia e Popolo, è tale che la sua esistenza ci sembra un continuo oltraggio alla coscienza pubblica. È notorio che questo diario è agli ordini di Giuseppe Mazzini, il quale se ne serve per pubblicare eccitamenti alla ribellione e per farne l'apologia. Pochi giorni sono

l'Italia e Popolo

, fedele al suo uffizio infame, non ha temuto d'aprire le sue colonne a uno scritto di Mazzini diretto a indicare ai demagogi italiani i modi di comportarsi in previsione dell'attentato del lì gennaio. Questo solo fatto basterebbe senza dubbio a far comprendere la necessità d'avvisare ai modi dì sopprimere un diario, nel quale, come dall'alto d'una tribuna sempre aperta, Mazzini e i suoi complici possono trascorrere alle più colpevoli aggressioni contro i governi, e propagar le dottrine più detestabili.

Vi prego, principe, di leggere questo dispaccio al conte Cavour, e di lasciargliene copia (25).

Statista d'avvedutezza e di sangue freddo ammirabile, Cavour per sfuggire ogni controversia in iscritto, rispose a voce al legato francese così: - Il Piemonte è pronto a fare tutto ciò che può per impedire il rinnovamento d'attentati così ribaldi. Noi avremo ogni cura affinché le leggi sulla stampa siano applicale con vigore.

Inoltre eserciteremo la sorveglianza più attenta sui fuorusciti, né lascieremo che alcuno di essi abusi impunemente dell'ospitalità. Ma se noi siamo francamente vogliosi d'ottemperare ai giusti desiderii del Governo francese entro i termini assegnatici dalle leggi fondamentali del regno, ci crediamo poi nel dovere di chiamare l'attenzione del Gabinetto di Parigi sull'aumento progressivo de' proscritti politici, che vengono a cercar asilo in Piemonte dagli altri Stati italiani. Se si vuol guarire il male dalle sue radici, bisogna far sì che non solo questo fatto cessi, ma che scompaiano le cagioni che lo producono (26).

(25) Dispaccio Walewski al principe De La Tour d'Auvergne in Torino, Parigi 22 gennaio 1858.

(26) Lettera Cavour, Torino 27 gennaio 1858.

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Questa risposta giunse amarissima a Walewski, onde chiamato a sé il legato sardo gli disse: - Sono profondamente afflitto per il rapporto ricevuto dal principe de La Tour d'Auvergne relativo al suo colloquio col conte Cavour. Il presidente del Consiglio sempre si fa scudo della legalità. Ma come mai un uomo della levatura del Cavour non s'avvede che versiamo in condizioni affatto eccezionali, le quali reclamano da tutti i Governi un'intima comunanza di opere a far cessare un ordine di cose, che minaccia la società nelle sue basi? 11 Governo inglese ci ha dato assicurazioni, che abbiamo fondamento di credere sincere, di soddisfare le nostre domande.

Il Governo di Brusselle si mostra così arrendevole, da chiederci persino l'elenco dei fuorusciti che desideriamo espulsi dal Belgio. Il Consiglio federale attende con diligenza a incentrar nelle sue mani le leggi cantonali relative ai fuorusciti permeglio vegliarli. In sostanza tutto concorre a farci credere che gli Stati europei siano di pieno accordo con noi per incatenare una volta per sempre la demagogia. Stando così le cose, il conte Cavour dovrebbe comprendere che non si tratta de' soli interessi della Francia, ma sì di quelli dell'Europa compreso il Piemonte. Esso pure è minacciato gravemente dalla rivoluzione. Vi prego caldamente di capacitare di tutto ciò il conte Cavour, e di dirgli che l'imperatore e il suo Governo sarebber desolati di vedersi forzati a prendere verso la Sardegna un contegno che la porrebbe nell'isolamento politico. Certamente nessuno può impedire al primario ministro del re di Sardegna di mantenersi fermo sul terreno della legalità: ma egli è troppo abile, troppo oculato, troppo interessalo alla conservazione degli ordini liberi nel Piemonte, per non comprendere che il momento è venuto di far gitto del meno per salvare il più.

Le condizioni eccezionali in cui la Francia versa, gli chiedono tale sacrifizio. Egli possiede il dono mirabile di disciplinare i partili nel Parlamento,

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e saprà quindi trovare un temperamento, sia pure transitorio, che dia soddisfazione alla Francia minacciala nella vita de! suo monarca. Badate che noi siam deliberali d'andare fino agli estremi; e nei paesi, donde gli assassini e i cospiratori non verranno cacciati, andremo noi a cercarli colle nostre mani fin nelle viscere della terra. - Per quanto Villamarina, lasciata ogni circuizione di parole, soggiungesse francamente che, se il suo Governo aveva cara l'amicizia francese, aveva però carissima la libertà, onde a scapito di essa nulla farebbe, pure Walewski, anzi che acquetarsi, spinse le sue esigenze al segno da renderle esorbitanti (27). Il principe de La Tour d'Auvergne si presentò di nuovo al presidente del Consiglio, e in nome del suo Governo gli chiese: 1° che a dare una solenne disapprovazione alle opere dei mazziniani, e a troncare d'un colpo il male che faceva il loro diario, il Governo del re inibisse la pubblicazione dell'Italia e Popolo; 2° che ai fuorusciti politici fosse vietalo di scrivere nelle effemeridi politiche; 3° che i reali di stampa per offese ai Sovrani e ai capi dei Governi stranieri fosser giudicati dai tribunali ordinari senza il concorso dei giudici del fatto e senza la richiesta della parie offesa; k n che Aurelio BianchiGiovini venisse sfrattato dal regno, e seco tutti i fuorusciti turbolenti. - No, rispose Cavour, no, la soppressione dell'Italia e Popolo equivarrebbe a un colpo di Stato, e il re e noi vogliamo serbarci fedeli allo Statuto. Oltre questa considerazione capitale, ove noi entrassimo in una tale via spezzeremmo le congiunture al partito liberale sostenitore del progresso ordinato, e apriremmo il varco alla reazione e alla rivoluzione. Sarebbe assurdo poi che il Governo, ove anche ne avesse facoltà, impedisse ai fuoriusciti di scrivere nei diarii politici,

(27) Lettera confidenzialissima Villamarina al conte Cavour, Parigi 30 gennaio 1858.

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mentre coloro che con miglior zelo e autorità vi difendono la libertà ordinata e l'alleanza francese, sono scrittori esuli di altre terre italiane. E vero, il contegno di Aurelio Bianchi-Giovini dopo l'attentato d'Orsini è condannevole, ma sarebbe un atto di non buona politica sbandirlo dal regno. Fra tutti i pubblicisti egli si è mostrato il più caloroso nel difendere a visiera alzala l'alleanza del Piemonte colla Francia, si è mantenuto il più strenuo battagliero contro le utopie e le macchinazioni mazziniane, e con coraggio a lungo difese colla sua penna la Sardegna dagli intrighi e dagli assalti aperti dell'Austria. Il Governo del re non era alieno di togliere l'ospitalità ai fuorusciti che se ne mostravano indegni, ma era un negozio nel quale bisognava andar mollo cauti. L'Inghilterra era lontana, eia Francia e la Svizzera non volevano dar ricetto a nuovi proscritti politici. L'esclusione dei giudici del fatto e l'abbandono della domanda della parte offesa nei reati di slampa per offese ai Sovrani e ai capi dei Governi stranieri, porrebbe il Governo in un prunaio di difficoltà: nulladimeno, a dare testimonianza di buon volere al Gabinetto di Parigi, ove esso volesse dichiarare per una volta soltanto che intendeva che ogni offesa fatta alla persona dell'imperatore venisse denunziata al fìsco, ciò basterebbe perché l'accusatore pubblico portasse la cosa alla cognizione dei tribunali (28). - Questa concessione agli occhi di Cavour era immensa; ma il legato francese non se ne mostrò soddisfatto, e neanco tornò gradita a Walewski (29).

(28) Lettera Cavour al marchese Villamarina in Parigi, Torino 5 febbraio 1858. - Dispaccio telegrafico del presidente del Consiglio dei ministri allo stesso, Torino 8 febbraio 1858.

(29) Dispaccio telegrafico Cavour al ministro di Sardegna in Parigi, Torino 9 febbraio 1858.

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La faccenda era tanto più spinosa, in quanto che in questa occorrenza la politica personale dell'imperatore nella sostanza, benché con minori esigenze, non differenziava da quella del suo ministro sopra gli affari esteri.

V'è ragione a credere che relazioni aggrandite oltre il vero sulle condizioni interiori del Piemonte fosser giunte a persuadere Napoleone che il regno sardo s'avvolgeva in un travaglioso laberinto di trame settariche, delle quali uno degli intenti principali era quello di toglierlo di vita. Secondo gli avevano fatto credere, di questo stato di cose ne aveva la sua parte il Governo pei suoi andamenti incerti e languidi verso i fuorusciti e la stampa quotidiana. Con tali pungenti stimoli nell'animo l'imperatore bensì accolse benevolo il generale Enrico Della Rocca, che Vittorio Emanuele avevagli mandato con una lettera autografa, succeduto l'attentato d'Orsini; ma poi, favellando a voce alta in modo da esser udito dai molti che gli facevano corteggio, disse: - Il re di Sardegna mi ha scritto una lettera, che m'è tornata gratissima. Vedo da essa che egli mi è amico ottimo. Ma poiché io amo il Piemonte, e nutro una stima particolare per il conte Cavour, così spero che nelle presenti circostanze egli vorrà fare qualche cosa per soddisfare i miei desiderii. Non contesto al Piemonte il diritto d'asilo; la Francia lo esercita pure largamente. Ma quando un Governo amico le indica qualche fuoruscito che abusa siffattamente dell'asilo accordatogli fino al punto di preparare l'assassinio d'un Sovrano amico del Governo che lo ospita, essa tosto provvede con sollecitudine doverosa. - In un susseguente abboccamento con Della Rocca e con Villamarina Napoleone aggiunse: - Non vogliate credere ch'io intenda d'esercitare sul vostro Governo pressione, che sono ben lontano dal nutrire questo pensiero. Nelle vicissitudini della mia vita ho avuto modo di

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apprendere a stimare la dignità serbata da Stati minori di fronte alle esigenze di maggiori potentati. Ma le cose ch'io domando sono facili ad attuarsi, e possono praticarsi non solo da un Governo alleato, ma da un Governo che sia soltanto amico della giustizia. Supponiamo che l'Inghilterra non faccia ragione ai miei giusti reclami: si raffredderanno ben tosto le relazioni diplomatiche tra i due Governi di Parigi e di Londra, e da un tale stato di cose alle ostilità aperte vi è un solo passo.

Ove ciò succedesse, vediamo francamente in quali condizioni si troverebbe la Sardegna. Vi sono due sole ipotesi: o con me o contro di me. Ma non vi dovete fare illusioni: il compimento delle vostre speranze, il vostro avvenire stanno nell'alleanza francese; essa soltanto può esservi di valido appoggio. Ma per esser con me allora, torna indispensabile che assentiate a fare adesso ciò che vi domando. Se rifiutate, vi ponete contro di me, sarete coll'Inghilterra: ma quali vantaggi reali vi può essa offerire? Non ve ne potete ripromettere gagliardi aiuti militari; appena vedrete giungere alla Spezia o a Genova qualche nave da guerra inglese. Ma a qual prò, se essa si ostina a voler conservati i trattati del 181 k e del 1815? In quest'ultima ipotesi a mio malgrado io mi troverei costretto a fare assegnamento sull'Austria; ed entrato che fossi in siffatta orbita di politica, mi vedrei forzato a rinunziare a ciò che sin ora ha formalo il più caro sogno della mia mente, il più dolce desiderio del mio cuore, voglio alludere alla felicità e all'indipendenza dell'Italia (30). - Lusinghiero davvero favellava il sire di Francia; ma nel rispondere alla lettera del re gli fece intendere che nel Piemonte la polizia era inetta,

(30) Dispaccio Della Rocca al presidente del Consiglio dei ministri, Parigi 3 febbraio 1858. - Lettere Villamarina al conte Cavour, Parigi 4 e 6 febbraio 1858.


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e che necessitavano solleciti provvedimenti; pur largheggiando di benevolenza verso Vittorio.

Dal complesso di questi fatti e da altre indicazioni il conte Cavour presunse che la Francia volesse togliere al Piemonte la padronanza delle sue leggi.

Per energia non secondo a nessun uomo politico di cui serbi ricordo la storia, egli la spiegò ardito per tutelare innanzitutto la dignità della corona e l'indipendenza dello Stato. Laonde misurando con coraggiosa serenità d'animo i solenni eventi che da quella contestazione potevano sorgere, inviò le istruzioni seguenti al marchese Salvatore Pes di Villamarina, sul quale sapeva di poter contare a pieno: - Coraggio e a fronte alta continuate a rappresentare un re generoso e un Governo leale, il quale come non patteggierà mai col disordino e colla rivoluzione, così in nessun caso si lascierà intimidire alle minacele de' suoi potenti vicini. Perdurate nella lotta diplomatica con dignità, con moderazione, ma senza indietreggiare d'un solo passo. Perduta che abbiate la speranza che ci venga resa la giustizia che ci è dovuta, verrete a indossare il vostro uniforme di colonnello per difendere al seguito del re l'onore e la dignità del paese. Sua Maestà ha risposto all'imperatore come conveniva a un discendente del Conte Verde, di Emanuele Filiberto e di Amedeo II, bensì in termini di benevola amicizia verso Napoleone III, ma nel resto da re geloso della sua indipendenza. Carlo Alberto moriva ad Oporto per non piegar il capo all'Austria. Il giovane nostro re andrà a morire in America, o cadrà non una ma cento volte ai piedi delle nostre Alpi prima d'offuscare con una sola macchia l'incontaminato onore antico della sua nobile stirpe. Per salvare l'indipendenza e l'onor del paese egli è apparecchiato a tutto, e noi lo siamo con lui. Evidentemente si è fatto credere all'imperatore che, dopo l'attentato d'Orsini,

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noi ci siamo riaccostati all'Inghilterra: nulla di più falso. Non ho scritto al legato sardo in Londra una sola parola delle pressioni che la Francia ci fa, e neanco ne ho minimamente ragguagliato sir James Hudson.

Certo che se la Francia si avvicina all'Austria, noi ci accosteremo all'Inghilterra, o piuttosto ci porremmo a capo della causa dei popoli oppressi.

Ma fintanto che l'imperatore Napoleone rimarrà fedele al suo programma della ricostituzione delle nazionalità, noi non ci scosteremo da lui. Che egli innalzi a segno di riscossa lo stendardo dei popoli oppressi, e vedrà i soldati piemontesi all'antiguardo degli eserciti francesi (31). - Erano sensi degni del grande cittadino, che in affannosi giorni di dolorosissime contrarietà esclamava nella solitudine delle sue stanze: - Perisca il mio nome, la mia fama, purché l'Italia si faccia (32). - E l'Italia non sarebbe risorta così presto, se il conte Cavour facendo appieno assegnamento sopra la parola d'un giovane re galantuomo, soldato fiero della dignità della sua corona, e proclive agli impeti generosi, non si fosse mantenuto irremovibile nel fronteggiare le esigenze e le minaccie del Gabinetto di Parigi. Ove egli avesse ceduto, restava spezzata la pietra triangolare dell'egemonia del Piemonte. Toccato il sacro deposito delle sue libertà, rimanevano sparpagliate e alienate le forze che erano necessarie a fiaccare i conlrasforzi che si paravano davanti alla rivoluzione italiana per contrastarle il cammino.

Ma non bastava cercare di mettersi al coperto mentre si addensavano sul Piemonte i nugoli di questa nuova tempesta civile: a non perdere il terreno guadagnato dal Congresso di Parigi in poi frammezzo a tanto fioccar di accuse e di recriminazioni contro la Sardegna, faceva

(31) Lettera Cavour a Villamarina, Torino 9 febbraio 1858.

(32) I. Artom, introduzione alla raccolta dei discorsi del conte di Cavour in Parlamento, Firenze 1858.

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d'uopo continuare a parlar forte contro i cattivi Governi italiani, designandoli all'Europa come i veri promotori in gran parte dei mali civili che affliggevano l'Italia. Cavour fece cosi. Il conte Domenico della Minerva ebbe l'incarico di portarsi dal cardinale Antonelli per leggergli un dispaccio, col quale egli chiedeva alla Corte romana se era giusto, se era onesto che il Piemonte dovesse sopportar i danni che provenivano dagli sbandeggiamenti praticali in cosi larga scala dal Governo pontificio, il quale per soprassello accollava con subdoli modi alla Sardegna coloro che multava della pena dell'esilio. Fintanto che, avvertiva Cavour, la Corte di Roma e gli altri Governi italiani procederanno per una via così dannosa alla comune tranquillità, le schiere della rivoluzione vieppiù ingrosseranno, e si conserverà straordinaria la vitalità del partito mazziniano. Chi si travaglia in opere di sedizione, non è sempre allacciato indissolubilmente coi vincoli delle sètte: tenuto in patria, sorvegliato, punito ove sia d'uopo, può emendarsi, e per lo meno non diverrà grandemente pericoloso: mandalo in esilio, sdegnato da illegali procedimenti governativi, costretto a vivere coi rivoluzionari, egli diventa, e a corto andare, settario, e talvolta settario pericoloso (33).

Queste osservazioni erano comprovate coi fatti. Cavour comunicò officia! mente il dispaccio che contenevale, letto che l'ebbe il segretario di Stato pontificio, ai Governi amici della Sardegna, impegnandoli a provvedere nell'avvenire ai gravi mali, che a ragione essi deploravano, ma che dovevano ben comprendere, non erano alimentati dal Piemonte, mai dai Governi italiani retrivi. Al Governo francese il ministero sardo assentì quello che si poteva e si doveva accordargli per isdebitarsi con lealtà

(33) Dispaccio Cavour, Torino 11 febbraio 1858.

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dei doveri della procacciata alleanza, e per serbarla fruttuosa ai propositi e alle speranze della Nazione (34). Il legato francese in Torino e il conte Walewski non ne rimasero soddisfatti, ma se ne tenne appagato l'imperatore. Però, chiamato a sé Villamarina, Napoleone gli disse: - Sono contento e riconoscente del voto del Parlamento piemontese sulla legge De Foresta, e siate sicuro ch'io non dimenticherò questo leale contegno della Sardegna verso la mia persona, E i lavori de' nuovi fortilizi di Casale e d'Alessandria progrediscono? - Villamarina fu lesto a rispondere: - Maestà, noi andiamo sempre preparandosi per il gran giorno (35). - Napoleone non aveva tralasciato di pensare al gran giorno, in cui bandirebbe la guerra all'Austria. Ma a lui faceva di bisogno per arrivarvi d'aver compagno fidente il partito nazionale italiano. Ora questo si era grandemente raffreddato verso l'alleanza francese, ed era entrato in gravi dubbi sul conto di Napoleone dopo che aveva visto il duro governo soldatesco imposto alla Francia nel politico e nell'amministrativo, e udite le vituperose contumelie dei diari governativi francesi contro gl'Italiani, le sollecitazioni dell'esercito onde l'imperatore colle armi fiaccasse le resistenze dei paesi liberi a restringere il diritto d'asilo, e le rimostranze acerbe della diplomazia francese contro la libertà della stampa. Per riguadagnare la confidenza scemata, e togliere i cattivi effetti prodotti in Italia dall'attentato d'Orsini, l'imperatore si appigliò a un espediente scaltro e ardito. Udito da qualcheduno

(34) Legge De Foresta relativa alle congiure contro i Sovrani esteri, all'assassinio politico, e alla formazione del giuri nei processi di stampa, presentata nell'aprile del 1856 alla Camera dei Deputati.

(35) Lettera Villamarina al conte Cavour, Parigi 29 maggio 1858.

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che Napoleone nutriva inclinazioni favorevoli all'Italia, Felice Orsini dalla prigione di Mazas avevagli scritto una lettera per dirgli così: - Non respingete, Sire, la voce suprema d'un patriota sulla scala del patibolo; fate libera l'Italia, e la benedizione di venticinque milioni d'Italiani vi seguirà nella posterità (30). - L'imperatore permise che questa lettera fosse pubblicata. Orsini allora ne scrisse una seconda, nella quale, manifestato il proprio conforto presso a morire vedendo che i voti da lui espressi in favore dell'Italia avevano trovato un eco nel cuore dell'imperatore dei Francesi nutriente schietti sensi italiani, egli all'aperto condannava con nobili parole l'assassinio politico, e consigliava la gioventù italiana ad apparecchiarsi a conquistare la redenzione della patria esercitandosi in quelle virtù civili, che sole potevano rendere l'Italia libera, indipendente e degna della sua passata grandezza (37). Il testo letterale di questa lettera e il testamento di Orsini, a breve andar di tempo, venner pubblicati nel diario del Governo piemontese. Le sollecitazioni erano venute da Parigi; e Cavour che avea visto di mal'occhio la pubblicazione della prima lettera d'Orsini (38), non le aveva accolte con tutta facilità; e come si risolse a darvi corso, volle mettersi un pò al coperto, e scrisse a Parigi: - Pubblicheremo la lettera e il testamento di Orsini, ma si badi che è un assalto diretto contro l'Austria, non solo da parte del Piemonte, ma anco da parte dell'imperatore (39). - Da una mano fidatissima a Napoleone era stato scritto il seguente preambolo alla lettera sovra menzionata:

(36) Lettera Orsini dalla prigione di Mazas, Parigi 21 febbraio 1858.

(37) Lettera Orsini dalla prigione della Roquette, 11 marzo 1858.

(38) Lettera Cavour, Torino 4 marzo 1858.

39) Lettera Cavour, Torino 14 marzo 1856.

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Possano i patrioti italiani essere ben persuasi che non è con delitti riprovati da tutte le società civili che giungeranno a ottenere il loro giusto intento, e che il cospirare contro la vita del solo sovrano straniero, che nutre sentimenti di simpatia per i loro mali, e che solo può ancora qualche cosa per il bene dell'infelice Italia, è un cospirare contro la propria patria. - Questo accennare che l'imperatore dei Francesi solo di tutti i monarchi nutriva inclinazioni benevoli verso l'Italia, e solo poteva sollevarla dai mali che l'affliggevano, fu per avventura la cagione onde Cavour, tralasciato di pubblicare il sovratrascritlo preambolo, pose a capo della lettera d'Orsini le parole seguenti:

Riceviamo da fonte sicura gli ultimi scritti di Felice Orsini. Ci è di conforto com'egli, sull'orlo della tomba, rivolgendo i pensieri confidenti all'augusta volontà che riconosce propizia all'Italia, mentre rende omaggio al principio morale da lui offeso condannando il misfatto esecrando a cui fu trascinato da amor di patria spinto al delirio, segna alla gioventù italiana la via a seguire per riacquistar all'Italia il posto che ad essa è dovuto fra le nazioni civili (40).

L'aspettazione dell'imperatore Napoleone sugli effetti delle lettere di Orsini non andò delusa: in Italia si ravvivò la fede sugli aiuti armati di Francia per il riscatto nazionale, l'opera preparatrice riprese lena, e il Piemonte si senti rinfrancalo a portar sulle braccia i destini della patria. Il Gabinetto di Vienna non celò il suo risentimento; e a soddisfazione chiese che il Governo imperiale facesse nel suo diario officiale la dichiarazione esplicita che la Francia era del tutto aliena dallo spalleggiare le tendenze rivoluzionarie del Piemonte. Walewski, ricevuti gli ordini dell'imperatore, rispose che la Francia

(40) Gazzella "piemontese, N. 77, marzo 1856.

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sentiva il dovere d'usar riguardi particolari verso un paese che erale stato alleato utile nella guerra d'Oriente (41).

Nel tener dietro a questa minuta storia si scorge che gli andamenti della politica personale di Napoleone III intorno le cose italiane si fecero men nascosi, e presero una atteggiatura più spigliata di mano in mano che in lui si rassodò la persuasione d'aver trovato nel primo ministro del re di Sardegna un degno e sagace compagno a incarnare il gran disegno, e che il Piemonte sapeva dar disciplina di pensieri e di affetti ai popoli italiani. Ma le cautele da prendere erano tali, le vie da percorrere cosi tortuose e buie, gli ostacoli da vincere cosi gagliardi, così difficili a venir raggruppate le forze morali, nelle quali in buona parte dimorava la felice riuscita dell'impresa, da rendere assolutamente necessari segreti accordi verbali iniziatori di pratiche non meno segrete, e da maneggiarsi da coloro soli che le avevano ordite. Fu nel giugno del 1858 che giunse in Torino, mandatovi segretamente da Napoleone, il medico Couneau; egli portava al conte Cavour l'invito di condursi al castello di Plombiéres, ove l'imperatore l'avrebbe visto assai volontieri. Il ministro italiano rispose che sarebbe stata per lui una vera fortuna di poter attestare di viva voce all'imperatore i sentimenti che verso di lui nutrivano il re di Sardegna e il suo Governo (42).

Il messaggiero imperiale aveva lasciato intendere che l'invito dovea rimanere segreto anche al legato di Francia in Torino, e che il conte doveva andar incognito a Plombières.

(41) Dispaccio De Launay al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, Berlino 6 maggio 1858. - Dispacci Samminiatelli al ministro degli all'ari esteri in Firenze, Vienna 10 aprile e 3 maggio 1858.

(42) Lettera Cavour a Villamarina, Tonno 21 giugno 1858.

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Egli prese la via della Svizzera sotto il pretesto di portarsi a vedere gli studi iniziali per il perforamento del Lucmagno. A Ginevra ebbe un lungo abboccamento col marchese Salvatore Pes di Villamarina, che aveva chiamato colà da Parigi onde avere da lui opportune notizie, e seco esaminare alcune proposte sulle quali intendeva di chiamar l'attenzione di Napoleone (43).

Cavour giunse alla residenza imperiale di Plombières un gabbato a tarda sera, accompagnato dal cavaliere Francesco De Veillet e dal marchese Emanuele Villamarina.

Erano due giovani destri, valenti, circospetti, che fecero la loro modesta parte a meraviglia. L'abboccamento del conte coli 'imperatore fu stabilito per il giorno susseguente, dopo la messa. Essi rimasero insieme da soli oltre a quattro ore, e di nuovo per altrettanto spazio dì tempo dopo il pranzo. Nello stesso giorno a tarda sera Cavour riprese la ferrovia gaio e più che mai fecondo di quell'arguta bonarietà, che rendeva tanto seducente la sua parola nel conversare familiarmente.

La storia minuta dei due lunghi colloqui di Cavour con Napoleone è coperta da un buio che non è possibile venga diradato da nessun scrittore, fintantoché non siano rotti i suggelli all'unico documento che la contiene, scritto di mano del conte Cavour. Tuttavia i documenti che abbiamo esaminati ci forniscono il modo di metter in sodo colla dovuta discretezza quella parte di verità, che è la più importante ad essere conosciuta. Formali accordi scritti a Plombières non furono presi; essi ebber luogo quattro mesi dopo per un trattato segreto d'alleanza offensiva e difensiva tra la Francia e il Piemonte. Del congiungimento di nozze del cugino di Napoleone colla figliuola di Vittorio Emanuele non si favellò in alcun modo.

(43) l Lettera Cavour a Villamarina, Torino 1 luglio 1838.

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L'imperatore fu esplicito nella promessa dell'aiuto armalo della Francia al Piemonte per togliere all'Austria ogni dominio in Italia: ma aggiunse che bisognava aspettare che i proprii accorgimenti e il tempo maturassero l'occasione propizia; frattanto il Piemonte badasse a maneggiare la propria politica in tal maniera da non accostarsi all'Austria, da non compromettersi troppo contro di essa, da tenere sveglia l'agitazione morale in Italia, da impedirvi moti rivoluzionari, e da guadagnarsi, sin dove fosse possibile, l'amicizia della Russia. In compenso degli aiuti armali, Cavour assenti alla cessione della Savoia alla Trancia. Il discorso intavolato sulla provincia di Nizza condusse a concludere che delle sue sorti venture si tratterebbe a guerra compiuta. Stringere i vari Stati italiani ad unità di regno non poteva essere, né fu argomento neanco di desiderii in quel convegno, ove a grandi tratti si delineò un nuovo assetto politico dell'Italia. La mente squisitamente calcolatrice di Cavour innanzitutto distoglievalo dall'entrar in un mare tanto incerto ed incognito, e pel quale inoltre ben sapeva che Napoleone non lo avrebbe seguito. L'assetto federativo trovò ragione d'intelligenza comune colla formazione di un regno boreale d'Italia, costituito da dodici milioni di abitanti. Sarebbe rimasto ritto il principato temporale della Santa Sede, ma circoscritto in confini assai più ristretti. Delle due dinastie regnanti in Toscana e in Napoli fu discorso, ma credibilmente alle parole non erano rispondenti le speranze e i calcoli che sulle medesime tenevano chiusi nell'animo Napoleone e Cavour (44).

(44) Lettere del conte Cavour 21 e 30 luglio, 17 settembre e 24 dicembre 1858. - Memorie manoscritte.

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IV.

I mentovali tentativi rivoluzionari di Giuseppe Mazzini suscitarono un altro grave travaglio diplomatico al Governo sardo. Onde giungere alle spaggie napoletane, Carlo Pisacane aveva proceduto nei modi seguenti.

Mentre il Cagliari, piroscafo mercantile, era in sullo sferrare da Genova per le coste di Barberia, egli vi sali a bordo con trenta compagni che si dissero emigranti per Tunisi.

Dopo due ore di cammino, Pisacane si coprì il capo d'un berretto rosso: a quel segno i congiurati, tratte fuori le armi nascoste, s'impadronirono del piroscafo, che diedero da governare a uno dei loro.

Deviato dalla sua via il Cagliari con bandiera sarda in poppa e piccola bandiera rossa in prua, s'indirizzò all'isola di Ponza. Ivi Pisacane liberò e imbarcò i prigionieri politici, e quindi ordinò che la nave volgesse alla punta del golfo di Policastro. Al buio di tarda sera i cospiratori presero terra sulla spiaggia di Sapri, povera borgata sorta dove fu Sipio città della Magna Grecia. Il piroscafo fu ridato al suo capitano, che usò l'acquistata libertà per navigare diffilato al porto di Napoli a ragguagliare il Governo delle ingrate cose accadutegli, e a rifornirsi di carbone e di viveri.

Ma raggiunto a dodici miglia dalla marina di Sapri dal Tancredi fregata regia, il Cagliari, benché battesse il mare sotto bandiera sarda, fu catturato e menato nella rada di Napoli, ove, capitano, marinai, passeggieri trovarono dura prigionia, e il piroscafo giudicato di buona preda.

Il Governo sardo, al primo dubbio che il Cagliari fosse stato sviato,

aveva spedito una sottile nave da guerra a rintracciarlo

e a condurlo a Genova.

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Né il presidente del Consiglio aveva nascosti al legato napoletano in Torino i suoi timori che Io sviamento del piroscafo non si collegasse a qualche tentativo mazziniano sulle spiaggie dell'Italia meridionale (45).

Il dubbio divenuto certezza, Cavour, manifestata la sua indignazione, chiese con amichevoli modi che il piroscafo, divenuto preda d'una mano di facinorosi, fosse restituito a' suoi proprietari, e venisser lasciati liberi il capitano, i marinai e i passeggeri, i quali tutti dalle indicazioni raccolte erano estranei all'impresa di Pisacane (46).

Queste

oneste domande della Sardegna

scontrarono arroganti ripulse; e a troncar la via a nuove istanze il ministro napoletano Carafa, senza reticenze, lasciò intendere officialmente per iscritto al marchese di Gropello che il Governo del re di Napoli si maravigliava come il Gabinetto di Torino dubitasse che potesse venir meno ai consueti suoi sentimenti d'equità, di giustizia e di umanità; inoltre essere sorpreso d'udire sollecitazioni indirizzate a mitigare le conseguenze inevitabili di avvenimenti, i quali non sarebbero successi, ove, com'era debito d'ogni Governo geloso della sua dignità, si fosser tenuti d'occhio i palesi apparecchi che aveanli in Genova preceduti.

Erano insinuazioni intollerabili: in effetto, dopo un consiglio di ministri presieduto dal re, Cavour ordinò al conte di Gropello di restituir subito al commendatore Carafa la nota che le conteneva. Il ministro napoletano piegò a ritirare la sua nota, e trascorsi pochi giorni i passeggieri del Cagliari venner posti in libertà (47).

(45) Circolare di gabinetto Cavour alle R. Legazioni, Torino 1 aprile 1838.

(46) Dispaccio Cavour al conte di Gropello, incaricato degli affari del governo sardo in Napoli, Torino 9 luglio 1857.

(47) Note del conte di Gropello al commendatore Carafa, Napoli 4, 15, 16, 31 luglio e 10 agosto 1857. - Nota del commendatore

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Ma la controversia non era appianata.

La cattura del Cagliari e l'imprigionamento della sua ciurma era una questione internazionale, che il Governo di Torino non poteva trascurare, trattandosi in essa della protezione dovuta alla bandiera della Sardegna, al suo commercio marittimo, e alle proprietà de' suoi nazionali. Avuta la prova autentica che la cattura del Cagliari era avvenuta in alto mare, e quando il piroscafo, tornato sotto il governo del suo capitano, avea ripigliato le sue pacifiche incombenze, il ministro chiese il parere del Consiglio del contenzioso diplomatico. Esso venne dato del tenore seguente:

la cattura del Cagliari era illegale, e la Sardegna aveva il diritto di chiederne la pronta restituzione

, e di pretendere lo scarceramento di coloro che vi furono arrestati a bordo non ostante gli atti giudiziari in corso, essendoché erano radicalmente nulli tutti i procedimenti posteriori alla cattura del piroscafo. perché tale cattura successa in alto mare si potesse avere in conto di legittima, il piroscafo avrebbe dovuto appartenere a una potenza nemica, o esser in corso di pirateria (48).

Fondandosi su questi argomenti, Cavour indirizzò una formale domanda al Governo napoletano per la restituzione del Cagliari, e la liberazione del capitano e dei marinai (49). Il Governo napoletano rispose che la domanda della Sardegna non aveva fondamento di giustizia

Carafa al conte di Gropello, Napoli 10 e 22 luglio, 5 e 22 agosto 1857. - Dispaccio Carafa al Canofari, incaricato d'affari napoletano in Torino, Napoli 19 agosto 1857. - Dispacci Cavour al conte di Gropello, Torino 9 e 22 luglio e 14 agosto 1857. - Dispaccio circolare Cavour, Torino 18 agosto 1857.

(48) Parere del Contenzioso diplomatico, udita la relazione fatta dal suo presidente, Torino 7 gennaio 1858. - Egli era il conte Federigo Sclopis di Salerano, perfetto gentiluomo e autore illustre della Storia della legislazione italiana e di altri lavori d'argomento politico, diplomatico e giuridico di squisito valore.

(49) Dispaccio Cavour al conte di Gropello, Torino 10 gennaio 1858.

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da che non potevano formare argomento di diplomatiche disputazioni fatti diferiti ai tribunali, e neanco era ammessitele che una bandiera qualunque francasse una nave colta in flagrante ostilità. II Cagliari era bensì in alto mare quando venne catturato, ma tuttavia in vista delle spiaggie napoletane, e guidato dal suo capitano partecipe alla cospirazione alla volta di Ponza, carico d'armi e di munizioni da guerra (50). Cavour ribattè questi argomenti con dire che il Governo del re non poteva tener conto di giudizi pendenti da che derivavano da cause illegittime; neanco nulla rilevare che il proprietario o il capitano del piroscafo catturato avessero riconosciuta la giurisdizione della Commissione napoletana delle prede, giacche i diritti propugnati dal Governo del re erano diritti internazionali e di sovranità, che non potevano essere invalidati dalle pratiche fatte da privati uomini, spogli della piena libertà d'operare a proprio talento.

Neppur giovare l'asserto che lo straniero è sottoposto alle leggi del paese dove ha commesso un delitto; da che la competenza, che si radica per ragion di reato, implica la presenza del reo nel territorio in cui si è reso colpevole, che ove non vi si trovi, il Sovrano territoriale, bensì può chiedere che l'imputato venga giudicato dai tribunali del suo paese, ma non ha podestà di arrestarlo sul territorio dello stato suo d'origine, com'era avvenuto a coloro che erano sul Cagliari, il quale in alto mare faceva parte del territorio del regno sardo. Laonde Cavour concludeva che, se il Governo napoletano volesse persistere nel suo rifiuto inqualificabile, il Governo del re avviserebbe ai provvedimenti che la gravezza del caso e gli offesi diritti dello stato richiedessero (51).

(50) Dispaccio Carata al cavaliere Canofari in Torino, Napoli 30 gennaio 1858.

(51) Dispaccio Cavour al conte di Gropello, Torino 18 marzo 1858.

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Il Governo inglese si trovava mescolato in tale questione da che i due macchinisti del Cagliari erano suoi sudditi, e le sollecitazioni di Clarendon per cavarli dalle carceri napoletane non aveano valso.

Cavour si riprometteva quindi aiuti efficaci dall'Inghilterra, massime dietro i fatti seguenti. Fin dal dicembre 1857 sir James Hudson, senza che la Sardegna avesse ancora indirizzalo al Gabinetto di Londra alcuna comunicazione sull'affare del Cagliari, gli aveva letto un dispaccio di Clarendon, dal quale il presidente del Consiglio avea ricavato la persuasione che il Governo inglese non solo riconosceva illegale la cattura del piroscafo, ma indirettamente consigliava il Piemonte a protestarvi contro (52).

Soddisfatto di questo 'spontaneo atto di benevoglienza, Cavour pregò il legato inglese a riassumere in una sua nota al Gabinetto di Torino il dispaccio di Clarendon.

Hudson assentì, e officialmente dichiarò che il Governo della regina era disposto a reclamare contro il procedere del Governo napoletano per l'imprigionamento dei due sudditi inglesi che erano a bordo del Cagliari, a motivo che le navi da guerra napoletane non avevan diritto di dare la caccia a quel piroscafo, né di catturarlo fuori della giurisdizione territoriale del regno di Napoli. In conformità della opinione del Governo inglese una nave da guerra d'un paese qualunque non aveva giurisdizione di sorta su di una nave mercantile d'un altro paese in alto mare, a meno di coglierla nell'atto di commettere piraterie. Chiedere pertanto l'Inghilterra alla Sardegna se essa opinava che il capitano del Cagliari l'avesse spontaneamente consegnato agli incrociatori napoletani, oppure se questi l'avesser catturato fuor dei limiti della giurisdizione del reame delle Due Sicilie (53).

(52) Dispaccio Clarendon a Hudson, Londra 28 dicembre 1857.

(53) Nota Hudson, Torino 5 gennaio 1858.

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Se Cavour non si slanciò addirittura nella via, cui accennava la nota inglese, ne prese almeno argomento per assumere un più franco e reciso contegno verso il Governo napoletano. Persuaso di procedere spalleggiato dal Gabinetto di Londra, ordinò al conte di Gropello di tenersi in intimi rapporti col console d'Inghilterra in Napoli, giorno per giorno ragguagliò Hudson delle pratiche dirette del Gabinetto di Torino a quello del Borbone (54), spedi in Londra il cavaliere Domenico Carutti di Cantogno, consigliere segretario del Contenzioso diplomatico, a porgere schiarimenti e a dissipare alcuni dubbii sorti sulla questione del Cagliari nella mente dei giureconsulti della Corona britanna; e come infine la contestazione s'inasprì al punto accennato,

ordinò al legato sardo in Londra d'inoltrare una formale domanda per ottenere dal Governo inglese il promesso aiuto efficace in una questione d'interesse comune a tutte le Potenze marittime (55).

Questa domanda fu presentata dal marchese d'Azeglio addì 22 marzo 1858. La risposta fece strabiliare Cavour.

Il ministro sopra gli affari esteri innanzitutto notava che il Governo della regina soltanto di recente era stato informalo dell'esistenza della nota di Hudson del 5 gennaio 1858 (56); poi soggiungeva, che avendola confrontata colle istruzioni che teneva il legato inglese in Torino, erasi visto ch'egli le aveva oltrepassate assicurando alla Sardegna l'aiuto efficace della Gran Bretagna nella questione del Cagliari. Ciò era provenuto da un errore in cui, per disattenzione, era incorso il segretario

(54) Nota Cavour a Hudson, Torino 8 gennaio 1858.

(55) Dispaccio confidenziale di gabinetto Cavour al marchese d'Azeglio in Londra, Torino 18 marzo 1858. - Circolare di gabinetto Cavour alle R. Legazioni, aprile 1858.

(56) Nota Azeglio, Londra 22 marzo 1858.

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della legazione nel trascrivere la nota (57). Hudson dichiarò alla sua volta d'avere sottoscritto la nota senza leggerla, e il cavaliere Herkine attestò d'avere per sbadataggine mutato una frase interrogativa in una frase affermativa. In tal maniera il Governo inglese, trascorsi tre mesi, si avvedeva dell'errore incorso nella nota d'Hudson, e ne prendeva argomento per disobbligarsi rispetto alla Sardegna e per abbandonarla in un affare che interessava tutte le Potenze marittime.

Ma, tolta pure di mezzo la dichiarazione introdotta nella nota del 5 gennaio, restava in essa e nel dispaccio di Clarendon quanto bastava per mostrare che il Governo inglese spontaneo aveva incoraggiato il Piemonte a prendere un atteggiamento risoluto verso il Governo napoletano per la cattura del piroscafo. In realtà s'era voluto aprire una via per indietreggiare. L'alleanza della Francia coll'Inghilterra ogni giorno più andava intiepidendosi.

I Tory, saliti al potere, cercavano di riaccostarsi all'Austria. Questa aveva preso la palla al sbalzo per infliggere uno sfregio ai Piemonte, e per isolarlo nelle sue contestazioni col re di Napoli, rappacificando questo Sovrano coll'Inghilterra. La pratica era riuscita a meraviglia. Dietro i consigli pressanti del legato austriaco in Napoli, Ferdinando 11 aveva ordinato si scarcerassero i due macchinisti inglesi (58). Ragguagliato di ciò, lord Malmesbury, subentrato a Clarendon nel maneggio degli affari esteri, dichiarò che il Gabinetto di Londra apprezzava un tale atto come una prova dei sentimenti amichevoli del re a suo riguardo (59), e subito si pose all'opera per appartarsi dal Piemonte. Ottenuto questo vantaggio,

(57) Nota Malmesbury, Londra 23 marzo 1858.

(58) Dispaccio telegrafico Lyons a lord Malmesbury, Napoli 21 marzo 1858.

(59) Dispaccio Malmesbury a Lyons, Londra 25 marzo 1858.

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il Governo napoletano si sentì rassicurato al punto di rifiutarsi perentoriamente di far ragione ai reclami della Sardegna (60).

Per l'inopinato abbandono dell'Inghilterra, il Governo piemontese si trovava a mal passo. Nella questione del Cagliari esso aveva proceduto in modo da non poter indietreggiare senza disdoro; la Russia, la Prussia e l'Austria spalleggiavano il re di Napoli; la Francia nicchiava. Al conte di Cavour per cavarsi d'impaccio restava una sola alleanza, quella della pubblica opinione; ed egli si volse a sfruttarla. Il marchese d'Azeglio aveva risposto al dispaccio di Malmesbury, che in questione di tanta importanza i fatti a preferenza dei documenti dovevano esser presi in considerazione; ma dacché anche dai documenti rimaneva provato che il diritto stava dal lato della Sardegna, tornava credibile che, dopo essere di pieno accordo Dell'ammettere la validità di alcuni principii di gius internazionale, i Governi inglesi e sardo dovesser procedere di conserva per difenderli praticamente. In quanto al Governo del re, ove anche fosse lasciato solo per sempre, agirebbe bensì con prudenza e moderazione, ma pure colla energia e fermezza che il sentimento del diritto e la dignità nazionale gli inspiravano (61).

Il presidente del Consiglio fece conoscere all'Europa questa

dignitosa dichiarazione

per mezzo della stampa quotidiana.

Per la medesima via rese noli i pareri di Roberto Phillemore e di Travers Twiss, e un suo memorandum.

Gli scritti elaborati di questi due sommi pubblicisti condannavano i procedimenti del Governo napoletano nell'affare del Cagliari

(60) Dispaccio Carafa al Canofari in Torino, 15 aprile 1858.

(61) Dispaccio Azeglio a Malmesbury. Londra 24 marzo 1858.

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come ingiustificabili dietro le norme del diritto delle genti (62). Il memorandum, ribattuti gli argomenti addotti dal ministro Carafa, conchiudeva con dire che il Governo sardo, resistendo alle pretese del Governo napoletano,

non difendeva soltanto gl'interessi propri, ma quelli di tutte le Potenze marittime

; e dappoiché l'Europa nel Congresso di Parigi avea proclamato il principio che la bandiera copriva la mercanzia anche in tempo di guerra, non poteva né doveva tollerare le pretese d'un Governo, il quale non voleva che la bandiera proteggesse gli individui in tempo di pace (63).

I diari inglesi di maggior credito si posero attorno a riprodurre e a commentare questi documenti, largheggiando in encomii e in incoraggiamenti al Governo sardo, in censure e accuse al proprio Governo per le sue tergiversazioni e fiacchezze. La marea dell'opinione pubblica montò sì alta da rendere i Tory malsicuri sugli scanni ministeriali. A rassodarvisi, essi deliberarono di rientrare, benché con molte cautele, nella via scelta da prima in ordine alla questione del Cagliari.

Sulla fine d'aprile del 1858 lord Malmesbury propose al conte Cavour di negoziare all'infuori della cooperazione dell'Inghilterra col Governo napoletano per la liberazione del capitano e de' marinai del Cagliari, e per l'indennità richiesta dai proprietarii del medesimo.

In quanto alla restituzione del piroscafo, il Governo della regina era disposto ad accordare alla Sardegna i suoi buoni uffizi e il suo appoggio morale nell'interesse di tutte le nazioni marittime. Nel fare questa offerta il ministero inglese consigliava però al Gabinetto di Torino di procedere verso quello di Napoli con prudenza e moderazione,

(62) Parere di Robert Phillemore sulla cattura del Cagliari, 3 marzo 1858. - Parere dell'avvocato Travers Twiss, 22 marzo 1838.

(63) Memorandum della Corte di Sardegna sulla cattura del Cagliari, 30 marzo 1858.

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a motivo che ima guerra' tra i due maggiori stati italiani produrrebbe mali interminabili per l'Europa. Ove per la restituzione del piroscafo le pratiche diplomatiche della Sardegna e dell'Inghilterra non riuscissero, Malmesbury consigliava il presidente del Consiglio di reclamare i buoni uffizi d'una Potenza amica, secondo i desiderii manifestati nel Congresso di Parigi (6).

Prima di rispondere, Cavour si volse a tasteggiare il terreno dal lato della Francia. - Noi abbiam ricevuto, scrisse a Villamarina, il rifiuto perentorio del Governo napoletano di restituirci il Cagliari, e di liberare i suoi marinai. Bisogna pertanto pensare a dar mano a mezzi più efficaci per conseguire da Ferdinando li la giustizia che ci è dovuta. Dopo essere stati spinti formalmente dall'Inghilterra a protestare contro l'operato del Governo napoletano, noi ci siam creduti nel diritto di reclamare il suo aiuto. Ma dopo molte tergiversazioni essa ha couchiuso dichiarando che intendeva segregare nella questione del Cagliari i suoi interessi dai nostri, e che soltanto ci poteva offrire il suo appoggio morale non per costringere, ma per persuadere il re di Napoli a restituirci il piroscafo. Dal momento che l'Inghilterra si limita a quest'offerta, mi sembra che noi possiamo pur chiedere alla Francia i suoi buoni uffizi. Ove queste due Potenze si accordassero nel forzare il re di Napoli a render giustizia al Piemonte, la questione avrebbe un pronto scioglimento. Non è opportuno per anco di rivolgere al Gabinetto di Parigi una domanda formale a questo fine; basta per ora destreggiarsi per conoscere in che modo essa verrebbe accolla. Noi siamo determinati a non sopportare il minimo sfregio dal re di Napoli, e gli faremo la guerra se per le vie pacifiche non giungiamo a ottenere giustizia.

(64) Dispaccio Malmesbury a Hudson, Londra 24 aprile 1858.

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Lo so, ci si risponderà dalla Francia e dall'Inghilterra: Ma noi non vi lasceremo ricorrere alle armi. Sia pure; l'ima e l'altra tuttavia non ci possono impedire di denunziarla, e ciò basterà a metter il fuoco ai quattro angoli dell'Italia (65).

Il legato sardo in Parigi, che si era messo in grado ad ogni occasione d'avere ragguagli sicuri rispose, che dal lato della Francia il Piemonte non poteva far calcolo d'essere validamente sostenuto per costringere Ferdinando II a cedere, che al contrario dalle cose udite risultava la convenienza di procedere con prudenza, giacché l'imperatore pure consigliavala; Napoleone aver detto che era una necessità non disgustare la Russia in un affare che stavale grandemente a cuore, onde averla più tardi favorevole negli avvenimenti che si andavano maturando per l'Italia (66).

Dietro queste notizie bisognava ripiegare alquanto le vele e proceder cauti per non condurre la nave dello Stato a urtar contro a un qualche scoglio. Cavour indirizzò pertanto le istruzioni seguenti ad Azeglio in Londra: - Il Governo del re non può ammettere l'utilità di classare in due categorie distinte i diversi punti della sua controversia con Napoli; ma ove dovesse assentire d'entrare in questa via indicatagli dall'Inghilterra, crederebbe pur sempre utile che i due Governi procedessero d'accordo.

Ove il Gabinetto di Londra non voglia agire in comune con quello di Torino, la Sardegna è ben lontana dal rifiutare i suoi buoni morali uffizi: ma in vista delle condizioni attuali delle relazioni diplomatiche tra il regno di Napoli e la Gran Bretagna, noi dobbiamo fin d'ora tener presente la probabilità che essi non giungano a smuovere il Borbone.

(65) Lettere Cavour a Villamarina, Torino 22 e 28 aprile 1858.

(66) Dispaccio telegrafico Villamarina, Parigi 29 aprile 1858. - Lettere Villamarina a Cavour, Parigi 20 aprile. 7 e 10 maggio 1858.

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La proposta fattaci di rivolgerci in tale eventualità a cercare i buoni uffizi di un'altra Potenza, ci sembra contraria alla nostra dignità e ai riguardi che dobbiamo al Gabinetto di Londra. Ma dappoiché, dietro il parere dei consultori legali della Corona della regina, l'Inghilterra ha comuni colla Sardegna alcuni punti della controversia, nei quali il torlo del Governo napoletano è manifesto, dietro quali plausibili argomenti i ministri inglesi potranno negarci efficace aiuto quando saranno esauriti tutti i mezzi pacifici per farci rendere giustizia V L'Europa, si può esser certi, non impugnerà punto la spada contro di noi per aiutare il re di Napoli a commettere impunemente un'ingiustizia flagrante. Ma se il Governo inglese non stima convenevole d'impegnarsi sin d'ora a difendere la nostra giusta causa, almeno si astenga dal dichiarare palesemente che intende soltanto assentirci il suo appoggio morale. Questa dichiarazione prematura diminuirebbe l'efficacia di siffatto aiuto, e varrebbe a incoraggiare il re di Napoli a tenersi saldo nelle illegalità commesse. Ove il Governo inglese, non riuscendo per parte sua ad ottenere giustizia dal Governo napoletano, si risolvesse a chiedere i buoni uffizi d'una terza Potenza, noi, desiderosi come siamo di proceder seco di pieno accordo, li avremmo pure per accetti (67). - Il legalo sardo in Londra non era stato colle mani alla cintola: egli s'era servilo delle numerose e autorevoli sue conoscenze personali per condurre i ministri inglesi a resipiscenza. Questi in effetto terminarono per assentire alla azione combinata della Sardegna e dell'Inghilterra non solo per la restituzione del Cagliari, ma eziandio per la liberazione del capitano e dei marinai. Nel fare questa comunicazione a Cavour, Hudson gli dichiarò, per in

(67) Dispaccio di gabinetto Cavour, Torino 30 aprile 1858.

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carico avuto da lord Malmesbury, che ove sollecitazioni collettive dell'Inghilterra e della Sardegna riuscissero inefficaci, esse farebber insieme appello alla mediazione o all'arbitramento d'una Potenza amica, che indistintamente poteva esser la Svezia, l'Olanda, il Portogallo o il Belgio (68).

Ciò ottenuto, il primario ministro della Sardegna cercò di riguadagnar terreno quanto più poteva; laonde inviò a Londra le proposte seguenti: 1° i due Gabinetti indirizzassero al Governo napoletano una nota collettiva per la restituzione del Cagliari e per la liberazione dei marinai; 2° nel caso d'un rifiuto la Sardegna e l'Inghilterra annunziassero del pari collettivamente al Governo napoletano che esse ricorrevano ai buoni uffizi d'una Potenza amica; 3° il Governo inglese, intavolata la mediazione, s'unirebbe a chiedere colle dovute cautele e guarentigie la liberazione del capitano e de' marinai del piroscafo. A mostrare la sua deferenza al Governo della regina, e a fine di conciliazione, il Governo del re tratterebbe separatamente col Governo di Napoli per le indennità ai marinai e ai proprietari del Cagliari (69). Il Gabinetto di Londra scartò la proposta di procedere per note collettive, ma assentì a dare al suo ultimatum una forma conforme a quello della Sardegna nei punti della contestazione, nei quali i due Governi s'erano impegnati di procedere concordi.

Lord Malmesbury formulò V ultimatum in due note.

Nella prima, allegando l'innocenza dei due macchinisti, chiedeva per loro d'indennità tremila lire sterline, con minaccia di rappresaglia se entro dieci giorni il Governo napoletano non la concedeva.

(68) Dispaccio Malmesbury a James Hudson, Londra 11 maggio 1858.

(69) Dispaccio di gabinetto Cavour ad Azeglio in Londra, Torino 18 maggio 1858.

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Nella seconda, dopo avere dichiarato giuridicamente ingiustificabile la cattura del Cagliari e la lunga prigionia della sua ciurma, egli sollecitava il Governo napoletano a soddisfare le

giuste domande della Sardegna

, sostenuta dai buoni uffizi dell'Inghilterra. Ove il Governo delle Due Sicilie non assentisse, la Gran Bretagna e la Sardegna, in conformità del protocollo della conferenza di Parigi del ih aprile 1856, farebber appello ai buoni uffizi d'una Potenza amica, nella speranza di trovare in tale spediente il mezzo di evitar mali che potrebbero divenire gravissimi (70). Al diplomatico incaricato di presentare al commendatore Cara fa questo

ultimatum

, Malmesbury diede riservatamente queste istruzioni: - Se il Governo napoletano farà qualche obbiezione sulla scelta della Svezia per mediatrice, suggerirete l'Olanda, il Belgio o il Portogallo, ma avvertire che la Gran Bretagna non si obbligherà giammai a un arbitra mento d'una grande Potenza. Ove la mediazione abbia corso, la sua durata potrà esser fissata a tre mesi. Trascorso questo tempo, l'Inghilterra e il Governo napoletano riacquisteranno la propria libertà d'azione, senza che debba recar loro pregiudizio qualunque cosa fosse stala proposta dai mediatori o da essi durante la mediazione. Come preliminare della medesima, ove abbia luogo, la ciurma del Cagliari sarà messa in libertà sotto cauzione (71).

L'

ultimatum

della Sardegna e le istruzioni che lo accompagnavano, non diversificavano nella forma e nella sostanza a quelle dell'

ultimatum

inglese e delle istruzioni a Lyons. Soltanto Cavour notava che la Sardegna volentieri si appiglierebbe alla mediazione d'una Potenza amica per allontanare la probabilità di deplorabili rotture

(70) Note Malmesbury, Londra 25 maggio 1858,

(71) Istruzioni Malmesbury a Lyons, Londra 2'3 maggio 1858.


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tra due Stati, che dovrebber procedere in concordia d'intendimenti a benefizio della patria comune (72).

Primo a consigliare il re di Napoli a deferire la questione del Cagliari alla mediazione d'una terza Potenza, era stato il Gabinetto di Vienna. Ma Ferdinando

aveva declinato l'amichevole proposta

, lasciando solo intendere di non esser alieno dal sottoporre la contestazione all'arbitramento d'una grande Potenza, onde meglio rifulgesse la giustizia e la moderazione del suo Governo (73). Il quale, se men caparbio e più destro, avrebbe potuto cavarsi onorevolmente d'impaccio, stabiliti che furono gli ultimi accordi Ira l'Inghilterra e la Sardegna. Malmesbury pur sempre serbavasi così inclinevole a benevoglienza verso il re di Napoli da fornire argomento al conte di Bernstorff di scrivere al ministro Carafa il primo giugno del 1858:

Lord Malmesbury in tutta confidenza mi ha detto che vi sarebbe un mezzo, che gli sembra assai semplice, per mettere il Governo napoletano nella condizione di ripulsare vittoriosamente tutti i reclami della Sardegna relativi alla indennità, e che egli non si sapeva dar ragione del perché non fosse stato usato già da molto tempo, perché, ha egli osservato, il Governo napoletano non fa una controdomanda d'indennità alla Sardegna? perché non dice ai governanti di Torino:

La nave che portava bandiera sarda e che voi prendete sotto la vostra protezione, ha gittato sulle coste del mio territorio ribelli armati che mi hanno ucciso uffiziali e soldati, che hanno bruciato caseggiati, e per domare i quali ho dovuto incontrare spese ingenti.

Voi per tutto ciò mi dovete un compenso: ponete mano dunque ad assegnare pensioni alle vedove e agli orfani degli uccisi, a indennizzarmi delle spese incorse per la guerra civile suscitatami in casa.

(72) Dispaccio Cavour al conte di Gropello. - Istruzioni dello stesso allo stesso, Torino 4 giugno 1858.

(73) Dispaccio Buol al generale Martini in Napoli, Vienna 10 maggio 1858. - Dispaccio Martini al conte Buol. Napoli 19 maggio 1858.

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Che se vi credete voi pure in diritto di reclamare delle indennità per la ciurma e per i proprietari della nave catturata, vedremo quale delle due parti sia quella che più deve. - Lord Malmesbury m'ha assicurato che, dopo che la Sardegna aveva preso sotto la sua protezione il Cagliari, non poteva declinare la responsabilità degli atti della sua ciurma e de' suoi proprietari (74).

Se re Ferdinando, prendendo argomento da così benevoli suggerimenti del ministro inglese sopra le cose esteriori, avesse ordinato per telegramma a Bernstorff di assestar tosto e a qualunque modo l'affare dell'indennità ai due meccanici inglesi, giungeva in tempo, se non a rompere, certo a turbar l'azione comune della Gran Bretagna e della Sardegna.

Ma egli si credeva al coperto d'ogni seria minaccia, e quindi si tenne nell'inerzia.

A scuoterlo sopraggiunsero le dichiarazioni dell'Inghilterra, susseguite da quelle della Sardegna; e al romoreggiar delle prime, quasi fosse un castello di carta scosso dal vento, tutto l'edifizio della napoletana resistenza crollò.

Il ministro Carafa avea braveggiato nelle sue note dichiarando che il suo re, forte del proprio diritto e dall'appoggio delle Potenze amiche, aspetterebbe tranquillo coercizioni e attacchi violenti. Al contrario, appena ventiquattr'ore dopo la presentazione dell'ultimatum inglese, lo stesso ministro senza dignità rispose con dimesse parole che il Governo del re di Napoli non aveva immaginato mai, né poteva immaginare d'opporsi alle forze della Gran Bretagna: e giacché essa faceva sua la causa del Cagliari, non rimanergli più ragionamenti da esporre, opposizioni da fare, esser quindi già depositate le tremila lire sterline richieste, e venir fatta facoltà al signor Lyons di ricondurre il piroscafo col capitano e i marinai

(74) Lettera riservatissima Bernstorff al commendatore Carata in Napoli, Londra 1 giugno 1858.

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come e quando a lui piacesse; poiché in tal modo tutto era deferito all'assoluta volontà dell'Inghilterra, non faceva d'uopo di mediazione alcuna (75).

La Sardegna poteva tenersi soddisfatta. Ove fosse rimasta isolata, per conseguire la restituzione del piroscafo avrebbe scontrato ostacoli pressoché insuperabili. Unico modo per riuscirvi era quello di costringere il re di Napoli a piegare alla necessità di forza soverchiarne. Ma Austria, Russia e Prussia propendevano apertamente per il Borbone, e Francia non voleva venir seco in maggiori rotture.

Restava l'Inghilterra: se non che anch'essa aveva abbandonato il Piemonte, e per ricondurla a resipiscenza era bisognato procedere con fino accorgimento e ardita fermezza. Erano qualità, che informavano allora la diplomazia piemontese in ogni suo atto.

V.

Nell'aprile del 1858 le provincie estensi d'oltre Appennino erano afflitte da gravissimi mali civili. Fin dall'ottobre del 1857 Francesco V di Modena vi aveva bandito lo stato d'assedio, inasprito da provvedimenti spietati. La città di Carrara e i circonvicini villaggi furono dati in balia all'assoluto imperio soldatesco di Leopoldo Wiederkhern, uomo rotto ad ogni brutale arbitrio. Egli teneva dal duca sconfinata libertà di punire a piacer suo con pene corporali i delitti minori. Per i delitti maggiori sedevano giudici militari, chiamati ad applicare inappellabile pena di morte, da eseguirsi ventiquattr'ore dopo la sentenza, ai reati di perduellione, agli omicidi, ai ferimenti anche per semplice attentato, alla ritenzione di armi,

(75) Lettera Carafa a Malmesbury, Napoli 8 giugno 1858.

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all'eccitamento alla diserzione d'un soldato, alla resistenza alla forza armata. Agli imputati erano confiscate le guarentigie della difesa, dell'appello, della suprema revisione. Alla legge marziale era stata data virtù anteriore alla sua promulgazione; onde il tribunale militare dovea avocare a sé e rivedere vecchi processi, e applicare la pena di morte anche ai minori degli anni diciotto per delitti anteriori alla promulgazione dello stato d'assedio.

A questi spietati decreti erano susseguiti fatti di ferina crudeltà (76).

Il primario ministro della Sardegna raccolti che ebbe gli uni e gli altri, li pose sottocchio ai governanti francesi e inglesi, benché corressero giorni tutt'altro che propizi alla politica nazionale del Piemonte.

Notevole è la conclusione del dispaccio scritto a questo fine dal conte di Cavour (77). - Questi eccessi, egli dicea, si commettono in Europa in pieno secolo decimonono. I Carraresi sono arditi, altieri, signoreggiati da passioni violenti: essi non sanno dimenticare le ingiustizie e le angherie sofferte. Pertanto alla violenza oppongono la violenza, tra loro l'assassinio è apertamente difeso, e a ognuno la propria disperazione fa apparire scusabili le dottrine anarchiche più odiose. In tal maniera la propaganda rivoluzionaria guadagna terreno, e fa clientela. Le Potenze, le quali nel Congresso di Parigi riconobbero la necessità di migliorare le condizioni di parecchi Governi italiani, sembra che non abbiano a tollerare più a lungo uno stato di cose, il quale può da un istante all'altro produrre danni incommensurabili. Meno poi delle altre Potenze può sopportarlo in pace la Sardegna, non solo per i

(76) Chirografi sovrani del 3 e 7 ottobre 1857.

(77) Documenti risguardanti il governo degli Austroestensi di Modena dal 1811 al 1839, raccolti da una Commissione istituita con decreto del Dittatore, Modena 1860.

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legami di sangue, di vicinato e d'interessi che essa ha coi popoli di Massa e di Carrara, ma eziandio per i quotidiani pericoli che accompagnano la necessità in cui si trova d'ospitare i fuggenti le ire del terribile despotismo dei proconsoli austriaci nelle provincie estensi d'oltre Appennino. Conseguentemente, frattanto che il Governo del re dava notizia confidenziale ai Gabinetti di Parigi e di Londra di tali enormezze e di sì gravi pericoli per la quiete della penisola, desiderava di conoscere sotto quale aspetto essi li considerassero (78). - Il conte Walewski s'impegnò col legato sardo in Parigi di scrivere all'ambasciatore francese in Vienna onde interessare quel Governo a sconsigliare a! duca di Modena di togliere a Wiederkhern la sconfinata autorità conferitagli nella provincia di Carrara (79). Lord Malmesbury mandò il dispaccio del conte di Cavour al marchese di Normanby per averne il parere; e questi, il quale usava dell'ufficio di legato della regina d'Inghilterra in Firenze per patrocinare con zelo austriaco la causa dei Governi retrivi italiani, gli rispose con un panegirico del duca Francesco V di Modena (80).

VI.

Lasciammo la contestazione diplomatica suscitatasi per i Principati danubiani al punto in cui la Francia, la Prussia, la Russia e la Sardegna erano pervenute a salvare ai Moldavi e ai Valacchi la libertà di volare intorno alla unione politica dei due Principati.

(78) Dispaccio di gabinetto Cavour alle Legazioni del re in Parigi e in Londra, Torino 9 aprile 1858.

(79) Lettera Villaraarina a Cavour, Parigi 15 aprile 1858.

(80) Dispaccio Malmesburv al marchese di Normanbv in Firenze, Londra 20 aprile 1858. - Dispacci Normanbv a Malmesburv, Firenze 29 aprile, 2 maggio e 7 luglio 1858.

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Ma Turchia, Austria e Inghilterra non si diedero per vinte; in ispecie la prima e la seconda di queste Potenze concordi rivolsero i loro sforzi a conseguire che il Divano moldavo votasse contro l'unione: perciò bisognava maneggiare le elezioni in modo da escluder coloro che la vagheggiavano. Era kaimacan della Moldavia Konakv Vogorides, figlio di un greco bulgaro. Costui, vendutosi animo e corpo alla Turchia e all'Austria, manipolò le elezioni in tal maniera da render certo nella Moldavia il voto contrario all'unione (81). I reclami dei legati in Costantinopoli delle quattro Potenze che la desideravano, non si fecero attendere. La Porta ottomana, spalleggiata dall'Austria e dall'Inghilterra, tergiversò nel rispondere; onde ne nacque una grave lotta diplomatica. Francia, Russia, Prussia e Sardegna volevano che la Porta biasimasse Konaky Vogorides, ponesse un freno a' suoi arbitrii, e nella Moldavia si rifacessero le liste elettorali. Turchia, Austria e Inghilterra asserivano die le cose erano procedute regolarmente, e che le elezioni si dovevano condurre a termine in conformità delle compilate liste elettorali. Cosi ebbe luogo. Preparale e accompagnate da pressure e maneggi senza limite, quelle elezioni diedero i risultali che da esse si attendevano. 1 quattro legati or detti non tardarono a chiedere che siffatte elezioni, alle quali aveva presieduto l'arbitrio e l'inganno, fosser annullate. I ministri del sultano risposero di non averne facoltà, bensì ritarderebbero la convocazione dei Divani affinché le Potenze, le quali nelle conferenze di Parigi

(81) Dispacci Durando al presidente del Consiglio dei ministri in Torino, 17, 21 e 28 maggio 1857. - Lettera riservatissima del barone Proteseli internunzio austriaco in Costantinopoli al kaimacan della Moldavia, Costantinopoli 18 aprile 1857. - Lettera di Pbotiadis, rappresentante della Moldavia in Costantinopoli allo stesso, 20 marzo 1857.

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avcano deliberalo intorno ai Principali, giungessero a mettersi d'accordo. I quattro legati non essendosi accomodati a questa tergiversazione, i ministri ottomani si dimisero di carica (82). Ma i nuovi non mutarono sistema; onde nell'agosto del 1857 i rappresentanti della Francia, della Russia, della Prussia e della Sardegna inoltrarono alla Porla un ultimatum per chiedere la formale promessa dell'annullamento entro ventiquattr'ore delle elezioni moldave, sotto la comminatoria dell'immediata interruzione dei rapporti diplomatici. Il ministro turco sopra gli affari esteri rispose con una nota, in cui studiandosi di giustificare il procedere della Porta, lasciò travedere che a sciogliere la controversia il sultano si porrebbe in relazione personale e diretta coi monarchi di Francia, Russia, Inghilterra e Sardegna. Ai legati loro in Costantinopoli non rimaneva altro a fare che di sospendere le relazioni diplomatiche col Governo ottomano: ciò essi fecero addì C agosto 1857, ma per breve tempo (83).

All'imperatore Napoleone stava a petto di conservare l'alleanza inglese, massime che a Pietroburgo si andava rafforzando un partito influente nei consigli dello czar, il quale prendendo argomento dal contegno assunto dalla politica francese in Cina, in Persia e verso la Svezia, si adoperava a persuadere Alessandro della necessità di ricostituire l'alleanza delle tre Potenze nordiche. Di fronte a questa eventualità Napoleone in sui primi d'agosto del 1857 si portò a Osborne, ove conferì colla regina d'Inghilterra e i suoi primarii ministri. Si venne ad un compromesso, dietro il quale rimase stabilito che la Gran Bretagna

(82) Dispacci Durando, Costantinopoli 1, 14 e 17 luglio 1857. - Dispaccio telegrafico Cavour a Durando, Torino 26 luglio 1857. - Nota Duraudo, 28 luglio 1857. - Nota Alì Ghalib, 28 luglio 1857.

(83) Note Durando, Costantinopoli 4 e 6 agosto 1857.

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si assoderebbe alle quattro Potenze che chiedevano l'annullamento delle elezioni della Moldavia per conseguirlo, e la Francia tralascicrebbe di propugnare l'unione immediata dei Principati. La Turchia, abbandonala pure dall'Austria nell'affare delle elezioni moldave, piegò il capo, e le decretò annullale. Dalle nuove né uscì un Divano nella sua maggioranza favorevole all'unione dei due Principati. Ciò essendo pure avvenuto nella Valacchia, i due Divani domandarono l'unione dei due paesi in un solo Stato, retto da un principe straniero con successione ereditaria, scelto fra le dinastie regnanti in Europa, e i cui eredi nati nel paese verrebber allevati nella religione nazionale. Ma, come abbiamo accennato, l'unione politica della Moldavia e della Valachia era stata sacrificata a Osborne a maggiori interessi europei. Tuttavia, per dare un assetto definitivo ai nuovi ordini civili dei due Principali, faceva d'uopo che le Potenze segnalarle del trattato di marzo 1856 sottoscrivessero una convenzione. Per negoziarla, addì 22 maggio 1858 venne aperta in Parigi una conferenza, nella quale sedette per la Francia Walewski, per l'Inghilterra Cowley, per la Russia Risselef, per la Prussia Hatzfeldt, per la Turchia Fuad-Pacha, per la Sardegna Villamarina.

Il Gabinetto di Torino erasi dichiarato fautore aperto e risoluto della formazione d'un libero Stato rumeno.: ma vista la Francia indietreggiare, Cavour aveva preso un nuovo atteggiamento. In conseguenza di che scrisse a Durando e a Villamarina nel tenore seguente: - La Sardegna è troppo debole per imporre la sua opinione alle grandi Potenze; ma è abbastanza prudente per non suscitare imbarazzi a se stessa e a' suoi alleati. Nella questione dei Principati vi è un pomo di discordia tra le grandi Potenze: esso può tornarci di vantaggio se lo lascierem maturare.

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Se da soli protestassimo contro l'abbandono pel principio d'unione, faremmo danno a noi senza apportare alcun vantaggio ai Rumeni. La Sardegna si era dichiarata per l'unione, guidata dai principii di nazionalità che informano la sua politica,

ma non già per qualche interesse proprio.

Un principe di Casa Savoia non si farebbe giammai vassallo del sultano, e tutti i membri della nostra Casa reale ora debbono rimanere in Italia (84). - Quando poi nel maggio del 1858 si aprì la conferenza di Parigi, il presidente del Consiglio munì il plenipotenziario sardo delle istruzioni seguenti: - Il fine principale della conferenza è di regolare le questioni relative ai Principati danubiani e alla navigazione del Danubio, che per anco non hanno ottenuto una soluzione definitiva.

Vi è un'altra questione più grave e per noi e per l'Europa, che attende il suo scioglimento; essa è la questione italiana. Ma dopo che il Piemonte riuscì a intavolarla nel Congresso di Parigi ove sedevano i plenipotenziari austriaci, e in tal maniera a porla sul terreno diplomatico chiamandovi sopra l'attenzione degli uomini di Stato di tutta l'Europa, non potrebb'essere discussa una seconda volta per mezzo di note e di protocolli. I risultati che ragionevolmente si potevano attendere da un'azione puramente diplomatica, sono stati conseguiti. La questione italiana è divenuta una questione di diritto pubblico. Una seconda discussione non aumenterebbe, e forse scemerebbe questo risultato, ed in ogni modo non accederebbe minimamente il momento della sua soluzione finale, che noi non aspettiamo punto dagli sforzi della diplomazia, ma dalla forza ineluttabile degli avvenimenti, che più presto o più tardi verranno provocali dall'azione dell'opinione pubblica, dalla potenza dei principii di nazionalità, e dalla giustizia di Dio. Queste considerazioni consigliano

(84) Lettere Cavour, 5 maggio, 3 giugno, 28 e 29 luglio 1857.

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il Governo del re a darvi istruzione formale di astenervi da qualunque pratica che avesse per oggetto di rimetter sul tappeto la questione italiana. Sarà vostra cura di conseguire a vantaggio di qualsivoglia bandiera la piena libertà di navigazione sul Danubio. In ordine ai Principali danubiani, partigiani e caldi propagatori del principio di nazionalità in Italia, noi crediamo tuttavia che l'unione della Moldavia e della Valacchia in un solo Stato, retto da un principe forestiero, sia il solo modo di soddisfare i legittimi desiderii dei Rumeni, e di preparar loro un avvenire tranquillo. Ove quindi nella conferenza la question dell'unione tornasse in campo, voi vi manifesterete franco suo sostenitore: ma disgraziatamente ciò non succederà. Il Gabinetto di Parigi non ha voluto compromettere i vantaggi della pace dianzi conchiusa, sostenendo a oltranza la propria opinione in questo proposito, e quindi ha sacrificato le proprie convinzioni per isfuggire contestazioni dalle quali inevitabilmente ne sarebbe uscita la guerra. Ciò nonostante il plenipotenziario francese nella conferenza si adopererà a salvare, almeno per l'avvenire, il principio dell'unione. Voi lo spalleggierete con tutte le vostre forze. Sia poi per vostra iniziativa, sia dando mano a proposte d'altri, vi adoprerele affinché dal suolo rumeno scompaia ogni vestigio di servaggio, sia iniziata la progressiva abolizione della giurisdizione de' consolati, s'impianti un largo regime costituzionale, e siano radicali le riforme negli ordini giudiziari, amministrativi e della istruzione pubblica (85). -

Bisognarono diciotto lunghe conferenze per giungere, attraverso a disquisizioni spinose, a urti d'opinioni e a stiracchiamenti senza fine, a sottoscrivere l'atto

(85) Istruzioni del conte Cavour al marchese Villamarina, Torino 22 maggio 1858.

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della futura costituzione politica de' Principati danubiani (86).

Esso fu ultimato addì 19 agosto 1858, e conteneva principalmente quanto segue: i Principati assumevano il titolo di Principati uniti della Moldavia e della Valachia, e come autonomi avevano governo proprio e affatto indipendente dalla Porta: la podestà esecutiva nell'uno e nell'altro Principato veniva affidata a un ospodaro, nativo del paese, governato col concorso di ministri responsabili: i due ospodari eletti dalle assemblee nazionali sarebbero tributari della Porta, dalla quale riceverebbero l'investitura: i due Principali avrebbero in comune una Commissione centrale, una suprema Corte di giustizia e di cassazione: la prima indicherebbe agli ospodari le riforme da introdursi negli ordini dello Stato, e compilerebbe le leggi di maggior importanza: le milizie dei due paesi formerebbero un solo esercito, retto da un unico capo: tutti i Rumeni cristiani godrebbero d'una piena ugualianza di diritti civili e politici.

Il conte Cavour non rimase soddisfatto di questi risultali, in verità meschini posti al paragone delle speranze che si erano fatte concepire ai Rumeni dal Congresso di Parigi. - Nell'affare dei Principati, egli scrisse a Villamarina, tutte le Potenze hanno fatto una brutta figura, e anzi che stabilirvi la tranquillità, vi hanno seminato la rivoluzione. Meno male che la Sardegna è la meno colpevole di tutte, e che noi siamo scontenti del presente, e aspettiamo con desiderio che suoni l'ora del risveglio di tutte le nazionalità oppresse (87). - Delle Potenze cristiane più colpevoli erano l'Austria e l'Inghilterra. Come la Francia erasi trovata abbandonala dalla Gran Bretagna, non aveva trascurato del tutto il concetto dell'unione dei due Principati,

(86) Memorie del marchese Salvatore Pes di Villamarina per serri re alla storia de' suoi tempi, Parte V (manoscritto).

(87) Lettere Cavour, Torino 29 e 30 agosto 1858.

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e si era adoperata nella conferenza a introdurre nella costituzione moldavovalacca i germi che la fecondassero per l'avvenire. La Sardegna non aveva tralasciato di prestar mano a quest'opera, e non potendo fare di più per i Rumeni, si era adoperata a vantaggiarli di sode franchigie civili. La Prussia, tuttavia tentennante tra le vecchie e le nuove alleanze, si era tenuta in riserbo, vogliosa di non disgustare l'Inghilterra né la Francia. La Russia s'era trovata in gravi difficoltà.

Il Congresso di Parigi aveva deliberato d'impiantare nei Principati danubiani un ordinamento politico, che li togliesse dal predominio degli influssi della Corte di Pietroburgo. Da un'altra parte esistevano le secolari promesse della Russia di aiutare i Rumeni a liberarsi dall'oppressione turca. Posto in questo bivio., il plenipotenziario russo si era destreggiato abilmente onde nella conferenza prevalessero le deliberazioni che erano le meglio atte a preparare nuovi avvenimenti, dai quali il Gabinetto di Pietroburgo potesse cavare argomento d'intromettersi nelle cose interiori della Turchia. L'Inghilterra aveva proceduto senza esitanze per la via che si era tracciata: ma il bisogno di tenere possibilmente coperta una politica ostile al principio di nazionalità, aveva consigliato i ministri inglesi di far agire a preferenza l'Austria. E questa Potenza, postasi in stretto accordo colla Turchia, erasi mostrata infaticabile nel contrastare ai Rumeni ogni migliorìa civile e politica (88). Il regolamento relativo alla libera navigazione su! Danubio, segnalo in Vienna addì 7 novembre 1857, era stato dimostrato dalla Sardegna inconciliabile colle massime sancite dal trattato di Parigi, e quindi essa aveva domandato

(88) Rapporti confidenziali Villamarina, Parigi 27 maggio, 7, 13. 19 e 21 giugno, 3, 5, 6 e 19 luglio, 11, 16, 17, 20 e 22 agosto 1858.

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alle Potenze segnalarle di quest'atto europeo di non sanzionarlo senza introdurvi gravi mutazioni (89). La conferenza di Parigi s'attenne a simile proposta, malgrado tutti gli sforzi fatti dal plenipotenziario austriaco in senso contrario (90).

VII.

A meglio approfondir la ragione degli ultimi avvenimenti narrati e degli accidenti straordinari e de' solenni casi che li seguirono da vicino, ci gioverà qui sostar alquanto nel racconto per entrare nelle considerazioni seguenti.

L'Austria, messa a soqquadro dalla rivoluzione e dalla guerra, era stata salvata dalla gagliarda maestria nel governare del principe Felice di Schwarzenberg. Domati i popoli ribelli, vinto il Piemonte, il maneggio supremo della cosa pubblica era rimasto nelle sue mani, dacché all'imperatore Francesco Giuseppe, salito sul trono diciottenne, per timoneggiare lo Stato mancavano le doti che soltanto si acquistano coll'età e coll'esperienza. Ma in questo periodo di ristauro civile Schwarzenberg difettò di sufficiente senso pratico, onde edificò sulla arena. Egli e gli statisti che dopo la sua morte ne proseguirono l'opera, vollero impiantare la supremazia della razza tedesca sopra tutte le altre genti della monarchia onde servirsene per accentrare in Vienna un governo assoluto, e per dare a tutte le provincie della monarchia

(89) Memoria del Governo sardo sull'atto di navigazione del Danubio segnato in Vienna il 17 novembre 18.37, Torino 6 marzo 1858.

(90) Rapporto confidenziale Villamarina al presidente del Consiglio dei ministri, Parigi 20 agosto 1858.

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uniformità di ordini politici, di codici, di leggi amministrative ed economiche. Per condurre innanzi questo rimescolamento fu d'uopo porre la falce a istituzioni politiche e amministrative, che ciaschedun popolo della monarchia aveva ricevuto dai secoli; si dovettero pareggiare nelle condizioni politiche paesi che avevano tra loro disuguaglianze incancellabili di religione, di lingua, di costumi, di tendenze nazionali; divenne necessario togliere le loro franchigie provinciali alle razze rimaste fedeli, per assimilarle nella comune servitù alle ribellatesi. Rimase in tal maniera plasmato un impero, nel quale le razze governate, tutte scontente e irrequiete, ebber comune il solo desiderio d'uscire quanto più presto e meglio potessero da uno stato di cose, nel quale politicamente nulla avevano di caro e di vantaggioso.

A intorpidire questa voglia dispregiatrice, i governanti austriaci giudicarono utile l'aiuto interessato del clero e della Corte romana; e per averlo operoso e fidato, distrussero l'opera riformatrice di Giuseppe II con un concordato. Fu un nuovo passo in aggiunta al primo, contrario al progressivo andamento naturale delle cose. Ma poiché anche in politica la natura riprende sempre i suoi diritti, si finì per avere l'opposto di ciò che si era voluto nel riordinamento politico della monarchia. Le si erano messi a fecondare in grembo nuovi germi di violenti conturbazioni.

Prime delle altre, le provincie italiane erano andate moralmente perdute per l'Austria. I suoi uomini di Stato avevano giudicato i Veneti e i Lombardi al tutto prostrali d'animo dopo le grandi sventure patite, e quindi coll'uso del terrore facili a essere inabissati nella disperazione dell'inerzia. Ma anche da questo lato si erano ingannati, e praticando tali modi di governo avevano

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realmente impiantato il miglior perno a nuovi inevitabili sconvolgimenti. Gli enormi tributi di guerra, le rapine ordinate per legge, i quotidiani spettacoli di sangue, il brutale dominio soldatesco, le strangolature sulle forche, le bastonature, gl'imprigionamenti per sospetti, per voti, per desiderii, gli assidui tormenti di una polizia travedente ovunque congiure, tutti questi enormi fatti, nei quali si riassume il governo austriaco nella Lombardia e nella Venezia durante il periodo di tempo trascorso dal 1847 al 1857, mirabilmente spianarono la via per la valle del Po alla politica italiana del Piemonte.

Rabbruscatisi i tempi oltre misura, i governanti viennesi scesero di sbalzo alle dolcezze e alle lusinghe. Era troppo tardi, dacché nell'animo dei Veneti e de' Lombardi erasi radicata la convinzione incancellabile che il governo austriaco in tutte le condizioni sarebbe nemico loro non solo per indole propria, ma per necessità.

Frattanto che essi non avevano più fede nella lealtà del dominatore straniero, erano appieno rinfrancati nella fiducia che il re galantuomo d'oltre Ticino apparecchiava le armi liberatrici: né valsero, come non potevano valere, a mutare questi sentimenti opposti il buon volere e Tingegno elevato e gentile dell'arciduca Massimiliano.

Egli fu costretto a persuadersi per il primo che nel governo austriaco eravi incapacità radicale a rendersi accettevole in qualsiasi modo ai sudditi italiani. Questi erano frutti già maturati sin dall'anno 1858 dalle truculenti violenze onde il dominio soldatesco aveva calcato la Venezia e la Lombardia: gli Austriaci vi slavano accampati e nulla più! Di non meno utile preparazione alla buona riuscita della politica nazionale del Piemonte erano riusciti i procedimenti de' Sovrani e dei Governi, che nel 1849

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era usi posti al seguito dell'Austria per rimettere più dure le catene agl'Italiani. Francesco V d'Este, duca di Modena, dopo aver largheggiato in liberali promesse, nel rimontare sul trono dietro le vittorie del maresciallo Radetzky, aveva proceduto nella compressione tino a sacrificarvi i sentimenti d'umanità più volgari.

I suoi sudditi lo avevano visto provvedere o fuori od oltre o contrariamente alle leggi da lui fatte, sacrificare all'Austria gl'interessi economici e l'indipendenza dello stato, intromettersi dalle somme alle ultime parti delle amministrazioni onde prepotentarvi dispoticamente, tenere in grande onoranza i gesuiti e i sanfedisti, fare il clero strumento d'ignoranza e di polizia, armar le genti di campagna per tenere imbrigliati i cittadini. Era divenuto quindi impossibile che essi sottostassero tranquilli a così duro dominio, mentre a sperar lieta mutazione di stato ricavavano quotidiano pascolo dai fatti onde l'egemone Piemonte veniva attestando che non mancherebbe al suo debito.

Le condizioni fatte agli Italiani dello stato romano dalla restaurazione pontificia erano riuscite enormi. Il governo per assodarsi s'era appigliato a tutti gli espedienti fuor di quelli della morale e della ragione. Assoluto regime clericale, abuso di cose spirituali a beneficio del temporale principato, ristauro delle immunità e giurisdizioni de' chierici, maggiori larghezze fatte ai possedimenti e ai diritti delle manimorte, risuscitato il Santo Uffizio co' suoi birri e le sue spie, vergognosi mercati di monopolio a rovina dello Stato in vantaggio di pochi disonesti, tasse a ribocco, miseria pubblica e privata, nissuna guarentigia agli averi e alla vita de' cittadini, esorbitanze d'ogni maniera delle polizie soldatesche forestiere e pontificie, migliaia di famiglie gittate nella miseria, proscrizioni, imprigionamenti, giudizi sommari

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militari, condanne alla galera per l'utili colpe politiche, sentenze di morte profuse, questi erano stati i benefizi, questi i provvedimenti del governo pontificio prima di esser chiamalo dal Congresso di Parigi al tribunale della pubblica opinione. Gli ammonimenti dati, gli uffizi fatti in appresso dalla diplomazia per introdurre negli stati romani moderatissime riforme, non erano riusciti a spuntare le ostinazioni della clerocrazia. Ai tribolati sudditi pontificii non rimaneva aperta che una sola via di salute, quella di voltar le spalle alla irremovibile Corte di Roma per cercare onorala tranquillità di viver civile in una nuova comunanza politica.

Il granduca Leopoldo II mostratosi ingrato verso i Toscani, disconfessato la sapienza civile dell'avo, la mitezza governativa del padre e il proprio passato, aveva gettato sé, il governo e lo Stato in balia degli Austriaci e dei preti.

I primi avevano insolentito e incrudelito, come se il granducato fosse un paese di conquista. I secondi con albagia avevano insultato ai dolori della vinta Italia, e inculcato, come dovere religioso, l'obbedienza cieca all'assoluta signoria straniera e domestica. Le persecuzioni religiose s'erano mostrate compagne alle persecuzioni politiche in un popolo mite e ricordevole d'essere stato governato a moderanza di leggi per lungo tempo dai lorenesi. I ministri di questo dispregialo principe non avevano saputo edificare nulla di saldo e di proficuo sulle rovine delle abbattute franchigie costituzionali. La macchina di governo che avevano congegnata, retrogradava scomposta e intersecata di aculei fastidiosi e tormentosi ai Toscani; ai quali era quotidiano lo spettacolo di governanti dominati spasmodicamente dalla paura.

Questo sentimento ignobile aveali resi servili all'Austria, proni a Roma, diffidenti della Francia e dell'Inghilterra, ostili al Piemonte, desiderosi dei trionfi della Russia.

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Poi sbalorditi dalle inaspettate cose avvenute nel Congresso di Parigi, quei pusilli ministri, traballanti per nuovi timori, aveano consigliato a se stessi e al principe una estrema prudenza per non urtare l'opinione pubblica (91).

Ma neanco allora, pur potendolo, seppero riuscire accettevoli almeno a una parte della cittadinanza. Come per lo passalo, il granduca e i suoi ministri continuarono negli anni 1857 e 58 travagliatori instancabili a sbarbicare dagli animi dei Toscani l'antico affetto al principato lorenese e il sentimento da secoli radicalo dell'autonomia regionale.

Negli annali d'Italia una delle pagine più tetre è quella del breve regno di Carlo III di Parma. Questo Borbone,

infesto ai sudditi, agli amici, alla moglie, libertino spudorato, gozzovigliatore da trivio

, nelle cose di governo abusò di tutto, mercanteggiò il diritto di grazia, uccise le libertà comunali, sconvolse gli ordini della comunanza civile, dilapidò le finanze, non rispettò né le leggi né le forme della giustizia, fomentò odio tra le classi, castigò ne' suoi sudditi il sentimento di patria col nervo e col bastone, fu insomma un vero Borgia in pieno secolo decimono. La perversità sì putridamente colando dall'alto, produsse gli usati suoi frutti. Carlo III morì assassinato, e il pugnale fu maneggiato a tradimento contro i più esosi che lo avevano spalleggiato nel suo bestiale governo. Laonde, quando nel Congresso di Parigi uscì una solenne condanna ai pessimi governi italiani, Parma era retta a legge marziale, un generale austriaco vi comandava, giudici austriaci sedevano in tribunali statari, nelle prigioni austriache erano trascinali cittadini parmensi non peranco giudicati, un

(91) Lettera del presidente del Consiglio dei ministri al Granduca, Firenze 22 aprile 1856.

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poliziotto austriaco presiedeva al buon ordine pubblico.

Insomma non esisteva più un ducato di Parma; v'era una provincia austriaca di più in Italia, soldatescamente governala. Al bastone che sotto Carlo III avviliva, la reggente Maria Luisa aveva sostituito il fucile che uccideva, così avara nell'usare il diritto di grazia da apporre la propria sottoscrizione perfino alla sentenza di morte d'un Andrea Carini, che lo stesso Consiglio militare aveva raccomandalo alla clemenza di lei, e il quale, com'ebbe fracassato il cranio per fucilazione, tutti gridarono innocente. Veramente se una legge fondamentale vi ebbe nello Stato parmense dal 189 al 59, fu quella dello stato d'assedio, permanente nelle sue trasformazioni, e rigorosamente mantenuta anche quando avvenimenti gravissimi consigliavano almeno a fingere mansuetudine e giustizia legale. Ma quando in un paese il rigore della giustizia punitrice cessa d'esser sacro e si fa crudeltà e vendetta, diventa ruinoso a chi l'adopera. È legge provvidenziale.

Il governo del Borbone di Napoli aveva meritato di essere definito la

negazione di Dio

. Tale in realtà si era manifestalo e mantenuto.

Lo dirigeva personalmente re Ferdinando II, fermo nel credere che la coscienza nulla avea che fare nelle cose di Stato, e che diveniva giusto ciò che tornava utile a istromento di dominio assoluto. Sciolto da ogni freno morale, il governo napoletano aveva proceduto imperturbabile nella via d'atterrire. Nello spazio di nove anni, oltre a ventimila regnicoli avevano saggiato il carcere, e più di ottomila l'esilio. Il Governo borbonico aveva imprigionalo per vendetta, per capriccio, e al solo fine d'incuter terrore. Non di rado erano stati usati i tormenti per istrappare le bugiarde confessioni del dolore a cacciati nelle segrete.


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Per invereconda ragion di Stato i birri e le spie padroneggiavano la vita e la quiete di tutti, e volgevano non di rado a truffe e a ricatti la sfrenala possanza che avevano d'operar il male. Uomini dell'infima sattellizia poliziesca, alzati dal re ad alte cariche, si erano fatti, con mina di cittadini intemerati, ordinatori bugiardi d'accuse politiche, malvagi denunziatori segreti, e nello stesso tempo compilatori d'iniqui processi e giudici feroci. Le denunzie più sfacciate erano divenute titolo di guiderdone o di merito, i penetrali delle famiglie eran spiati, si vessavano quanti aveano fama di liberali, si lasciavano tranquilli quanti s'impantanavano ne' vizi. Le legnate senza processo e senza giudizio erano somministrate agli oziosi sfringuellatori di novità politiche, ai vagheggini che amavano d'avere il mento barbuto o di portar cappello a tesa larga. Anche i vescovi facevano bastonare e imprigionare chi loro talentava, tollerante in ciò solo Ferdinando II.

Il lettore, se non si è addentrato nella storia contemporanea d'Italia, nel fermare l'attenzione sua sopra questo quadro di tetre figure, flagellanti senza pietà con ogni sorta di tormenti oltre a ventimilioni di figli della gloriosa madre Italia per ciò solo che volevano rivendicare la propria indipendenza nazionale e usar il diritto che i popoli hanno a partecipare al governo di se medesimi, per avventura lo giudicherà pennelleggiato con esagerazione partigiana. Eppure se egli volesse prendersi la briga di passare in minuta rassegna le memorie scritte e i documenti autentici del tempo, scontrerebbe che sulla nostra tela abbiamo spremuto pretto succo di verità (92). Ove per incredulità egli Io rigetti,

(92) Gladstone, Lettere a lord Aberdeen, raccolta di scritti intorno alla questione napoletana, Torino 1851. - Generelìi, Il Governo pontificio e lo Stato romano;

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badi che non troverà più il capo ilei filo che solo può essergli di sicura guida a scoprire e a comprendere le ragioni fondamentali onde poi a breve andar di tempo si compì il novissimo fatto della congiunzione delle sparse membra d'Italia, e il nome del figlio del re vinto a Novara poté prendere titolo dalla penisola intiera.

documenti raccolti per decreto del Governo delle Romagne, volumi 2, Prato 1860. - I Borboni di Parma nelle leggi e negli atti del loro governo dal 1847 al 1857, Parma tipografia del Governo 1859. - Documenti risguardanti il governo degli Austroestensi in Modena dal 1814 al 1859, raccolti da una Commissione istituita con decreto 21 luglio 1859, Modena 1860. - Danni arrecati dall'Austria alla Toscana dal 1737 al 1859, dimostrati con documenti officiali dal cav. Antonio Zobi, voi. 2, Firenze 1860. - Luigi Anelli, Storia d'Italia dal 1814 al 1863, Milano 1864. - Luigi Zini, Storia d'Italia dal 1850 al 1866, Milano 1869. - Coppi, Annali d'Italia, voi. sin. - Carlo Farini, Lettere a lord Clarendon e a lord Russel.

DOCUMENTI

I (I).

Lettre confidentielle de M. le marquis Emmanuel D'Azeglio

au président de la République Française.

Mon Prince,

Paris, 31 juillet 1849.

Dans l'excursion que vous faites en ce moment, appelé par les vœux des populations, vos moments sont précieux et comptés.

Mais ceux qui doivent décider des plus graves événements pour mon pays ne le sont que trop aussi.

Que cette puissante raison me serve d'excuse pour la démarche que je fais aujourd'hui en vous expédiant la présente par le marquis de S. Marsan.

Le Ministère à Turin vient de m'envover par un courrier de cabinet l'ordre de présenter au gouvernement de la rèpublique une note portant que, malgré que l'on soit tombe d'accord avec les plénipotentiaires autrichiens à Milan sur tous les points contestés, un seul a été reservé, la question d'amnistie. Quil attend la réponse du cabinet Viennois à cet égard, mais que dans tous les cas le conseil est unanimement déterminé à refuser péremptoirement la signature du traitó si cette amnistie est refusée, non seulement pour la Lombardie mais pour les duchés. Que dans le cas où par suite de ce refus nous serions attaqués, le gouvernement est décide à reprendre les armes pour la défense du pays, dùtil le faire seul et sans autre appui que le sentiment d'un juste droit et de légitime défense.

Mais le cabinet de Turin ne pourra se résoudre qu'à la dernière extrémité à croire que la France, cette nation voisine à qui s'adressent des espérances que ses promesses nous avaient fait concevoir, veuille consentir à laisser consommer notre ruine par un adversaire intraitable, au moment même où nous venons de notre coté de montrer notre sincère désir d'amener par des concessions multiples une solution pacifique k ce différent.

En un mot le gouvernement sarde désire obtenir une réponse catégorique s'il peut, en cas de refus de l'amnistie, compter ou non sur le secours de la France.

(I) Si pubblicano soltanto documenti diplomatici inediti.

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Connaissant les sentiments généreux et élevés qui vous animent personnellement dans cette question, permettez moi, mon prince, de venir en cette occasion vous recommander la cause de mou pays. Ces sentiments, je crois ne pus l'ignorer, se sont manifestés dernièrement par des mesures d'une portée non équivoque. Il ne s'agirait maintenant que de donner à cette action de la France un caractère assuré, qui nous permit dans un cas donne de concerter un mouvement avec elle. La promptitude est surtout exigée.

Cette célérité est d'autant plus désirable que si les propositions concertées en dernier lieu à Paris avec M. de Hubner, étaient parvenues à Turin quelques heures plutôt, elle auraient pu éviter un sacrifice de quatre raillions au Piémont, sacrifice qu'il est de notre honneur de maintenir actuellement depuis que des engagements ont été pris.

C'est donc pour éviter que de nouveaux retards ne compliquent la situation que le gouvernement désire obtenir le plutôt possible la réponse que je suis chargé de solliciter. En m'adressant à monsieur de Tocqueville j'ai voulu, mon prince, en premier lieu invoquer votre puissant appui.

Il est inutile d'ajouter que c'est avec une entière confiance que je le fais et que de quelque nature que puissent être les Communications dont V. A. voudrait bien m'honorer, elle peut compter sur une discrétion sans bornes comme sur le plus entier dévouement. Il est essentiel que tout accord qu'on prendrait reste entièrement ignoré.

J'ai l'honneur d'être, mon prince, etc.

E. D'Azeglio.

II.

Lettre confidentielle de M. le marquis Victor de Saint Marsan à M. le chevaler Maxime d'Azeglio, président du Conseil des ministres à Turin.

Monsieur le Ministre,

Paris, 4 août 1849.

Ainsi qu'il nous en a été rendu compte par M. le chargé d'affaires, j'ai rempli ma mission auprès du président de la république (1), le troisième jour après mon arrivée. Il a témoigné beaucoup de satisfaction de la faveur du roi et m'a chargé d'en exprimer sa reconnaissance.

(1) De lui remettre le Grand Collier de l'Annonciade.

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D'après les ordres de S. M. je lui ai laissé comprendre que le roi lui écrirait expressément pour le remercier à son tour du Gran Cordon de la légion d'honneur qui devait lui être remis par M. de Bois le Comte.

Hier je me fis présenter au general Ckangarnier, mais inutilement. Ce matin le general lui même envoya un aide de camp me chercher avec beaucoup d'empressement. Il s'entretint secrètement avec moi, avec l'aide d'une carte, de la force et des dispositions de notre armée, de celles de l'ennemi, des positions que l'on croirait devoir prendre en cas d'attaque et des passages les plus favorables pour déboucher de France en Italie, des obstacles etc. etc. Quoique non préparé à toutes ces questions, je tâchai de m'en tirer avec circonspection et les idées que j'émis sur les questions spéciales, furent assez heureusement d'accord avec celles que s'était forme le general.

Quelques heures plus tard, je fus encore appelé et le general qui avait vu le président m'engagea vivement à écrire au gouvernement, comme étant l'avis de tous les hommes compétents en France, qu'en aucun cas nous ne devions commettre la faute de porter nos forces du coté d'Alexandrie et de Gênes, mais au contraire les concentrer vers les montagnes du coté de la France.

Je lui fis alors remarquer que ce pian livrait complètement notre pays a l'occupation de l'ennemi, nous laissant sans base d'opérations et il ne pouvait être bon que dans le cas d'une intervention efficace de la part de la France.

Il hésita à me répondre disant qu'il n'entendait aucunement engager le gouvernement de la république. Mais enfin, presse par mes objections, il m'assura que ce pian était le meilleur, car le gouvernement français était bien décide à venir à notre aide en cas que nous fussions attaqués, à ne pas nous livrer à la brutalité de l'Autriche. Ce furent ses propres expressions.

Je dois ajouter que le general désire expressément que son nom ne soit pas prononcé si l'on juge à propos de discuter ses opinions. Je vous le nomme confidentiellement pour ajouter plus de poids à ce que j'ai eu l'honneur de vous dire.

Ce soir avant eu l'honneur de diner chez le président, j'ai profité de l'occasion pour tâcher d'obtenir de diverses des personnes qui approchent le président quelques renseignements sur les dispositions qu'il pouvait avoir.

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En discutant la question militaire et politique sous ses différentes faces, j'ai acquis quant à moi la certitude qu'on était parfaitement décide à intervenir avec une armée si nous étions attaqués. Qu'outre les raisons de politique extérieure on s'y croyait obligé à cause du mécontentement qu'exciteraient dans l'armée surtout, de nouvelles concessions aux exigences de l'Autriche.

Après diner, le président se rapprocha du marquis D'Azeglio et de moi et après avoir demandé s'il n'y avait pas de nouvelles depuis le matin, il nous dit qu'il ne pensait pas que l'Autriche oserait nous attaquer.

M. D'Azeglio lui avant fait remarquer qu'elle le ferait si elle était sûre de la neutralité de la France, il répliqua à peu près en ces termes: C'est précisément parce qu'elle ne peut pas en être sûre qu'elle ne le fera pas.

Tout cela vous paraitra certainement bien vague, M. le ministre, mais il m'a été impossible quant à moi de savoir quelque chose de plus explicite sur la question. Demain peut-être serai-je plus heureux car le general Changarnier m'a engagé à l'aller voir souvent et je n'y manquerai pas. Je me mettrai aussi en relation avec le general Bedeau et le general Pelet.

Si cela ne fait pas de bien cela ne pourra faire de mal. Je ne manquerai pas de vous tenir au courant de ce que je pourrai découvrir.

Je me conduirai avec prudence d'après les instructions de M. le marquis D'Azeglio.

Agréez etc.

V. S. Marsan.

III.

Lettera confidenziale del marchese Vittorio di San Marzano a 8. A. R. il Duca di Genova.

Altezza Reale,

Parigi, 4 agosto 1849.

Domando mille volte perdono a V. A. R. se tra le vertigini della vita parigina non trovai ancora il momento opportuno per aver l'onore di scriverle.

Il battello a vapore per Oporto partendo il 27, io mi disponeva

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a partire domani per Londra quando un aiutante di campo del generale Changarnier venne in tutta fretta a cercarmi per condurmi dal generale. Questi si rinchiuse meco e s'informò minutamente delle condizioni e forza del nostro esercito, dei piani possibili d'attacco e difesa e parvemi veder in lui nel caso di un pericolo un desiderio vivissimo di venire in nostro aiuto.

Risposi però con prudenza alle sue interrogazioni.

Due ore dopo il generale, avendo visto il presidente, mi fece ancora chiamare e mi eccitò a scrivere al mio Governo, tenendo però segreto il suo nome, che l'opinione degli uomini competenti in Francia era che dovevamo, se attaccati, ritirarci verso le montagne e quivi concentrare le nostre forze. Gli feci osservare che la base nostra d'operazione non dovea esser che Genova, e che il suo piano non era praticabile che nel caso di un aiuto efficace per parte della Francia.

Dopo qualche esitanza egli mi assicurò che il Governo francese era deciso ad intervenire se eravamo aggrediti, e a non lasciarci in balìa della brutalità austriaca.

Poscia m'invitò a ritornare il domani da lui, dicendo che avea d'uopo di parlar con me, ecc.

11 marchese D'Azeglio, nostro incaricato d'affari, mi affermò che le mie relazioni con quell'illustre generale poteano essergli utilissime nelle attuali circostanze, e che quindi avrebbe vivamente bramato che se fosse possibile io sospendessi di alcuni giorni la mia partenza per Londra.

Convinto che io poteva indirettamente profittare dell'influenza «lei generale nel senso propizio al nostro Governo, io mi decisi, sebbene esitando, a prendere il prossimo battello che partirà la settimana ventura, cioè fra otto giorni. Creda V. A. R. che questo ritardo può essere di qualche vantaggio nelle attuali gravi circostanze.

Da quanto potei ricavare quest'oggi dal presidente da cui ho pranzato e dalle persone che lo avvicinano, un intervento sarebbe quasi deciso, non fosse altro per non disgustar l'armata, nel caso beninteso che non fossimo noi gli assalitori. Ma intanto il ferro va battuto finché è caldo. Io rendo e renderò conto di tutto a V. A. R., affinché ella sappia bene a che punto sono gli affari, fin quanto li può conoscere il suo aiutante di campo ed affinché ella voglia comunicarmi i suoi ordini o le sue idee, meglio ancora le sue istruzioni in ciò che riguarda la quistione militare nel caso che si prendessero dei concerti a questo proposito.

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Io intanto mi condurrò colla debita circospezione. Ho reso eziandio informato di tutto il ministero degli affari esteri, secondo che ne aveva ricevuto l'ordine.

Il presidente mi è parso soddisfattissimo di ricevere il Gran Collare che quest'oggi a pranzo portava con grande compiacenza.

Il nome di S. M. e di V. A. R. è qui molto popolare e tutti ne parlano con ammirazione ed io vado orgoglioso di dire che ho fatto la guerra al di lei fianco.

Se domani mattina vedrò il generale e che impari qualche cosa di nuovo, non mancherò immediatamente istruirnela.

Se intanto potesse procurarsi alcuni dati sulle posizioni e le forze degli Austriaci io li farei conoscere qui a Parigi, dove pare ne manchino affatto. Non ho d'uopo di dirle che io sarei profondamente afflitto se si tirasse un colpo di cannone senza che io mi trovassi al mio posto presso la sua persona.

Soranzo è giunto quest'oggi, ma non l'ho visto ancora avendo passata tutta la giornata in affari. Ho sentito un discorso ammirabile del signor Thiers sulle leggi repressive della stampa. Prego V. A. R. a voler salutare i miei amici camerati e di gradire i sensi di alto rispetto ed inalterabile affezione con cui ho l'onore di essere

Vittorio di S. Marzano.

IV.

Lettera del principe Felice di Schwarzenberg a S. A. R. il duca Francesco y di Modena.

Serenissimo Arciduca, graziosissimo Signore!

Vienna, 10 aprile.1851.

Mentre le trattative, agitate in Modena per mandare ad esecuzione la lega daziarla fra l'Austria e gli Stati di V. A. R., non sono pur troppo riuscite ancora al bramato scopo, compaiono nelle altre parti della penisola italica delle novità commerciali e politiche, che vogliono essere prese seriamente in considerazione, e fanno doppiamente rincrescere l'incaglio che si è frapposto nei nostri negoziati.

L'alta importanza dell'oggetto e degli interessi politici che vi si connettono, sui quali principalmente per la mia sfera di

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azione m'incombe di vegliare, oso sperare che mi varranno di scusa agli occhi della V. R. A., se mi permetto di sottoporre al cortese e sapiente giudizio di V. A. alcune considerazioni, che sono atte a dimostrare essere un pressante bisogno del presente e del futuro di conchiudere quanto prima le trattative pendenti.

Allorché nel 1847 - che era un preludio di quel dramma rivoluzionario, che ben tosto scosse l'Europa fino ne' suoi ultimi fondamenti - il partito sovversivo in Italia, sotto il manto di tre Governi congiunti con una lega doganale, preparava i suoi ulteriori successi, la V. R. A. ebbe il merito innegabile di scorgere incontanente con occhio sicuro quello che si nascondeva sotto la maschera ingannatrice e di respingere con costanza tutte le lusinghe che si tentarono per guadagnare V. A. alla lega. Allora la V. A. R. cercò la salvezza dei suoi Stati nell'attenersi strettissimamente al sistema conservatore dell'Austria; e il seguito degli avvenimenti ha dimostrato che cotesta risoluzione non era unicamente la conseguenza della costante e fedele aderenza di V. A. R. alla eccelsa casa imperiale, sì anche il risultato di una giusta apprezziazione delle politiche condizioni del mondo. Dopoché la rivoluzione fu domata, non poté sfuggire alla sagacia di V. A. che, affine di trovare nella unione dei due Stati una durevole garanzia per l'assodamento dell'ordine legale e il prospero svolgimento delle risorse dei rispettivi dominii, non sarebbe bastato di mantenere in vigore la solidarietà militare fra i medesimi, ma che a queste si sarìa dovuto aggiungere un fattore nuovo, e a' tempi nostri singolarmente importante ed influente, nella fusione intima al possibile degli interessi materiali.

Da queste considerazioni, cui pienamente partecipava il Governo imperiale, ebbero origine i vari trattati conchiusi in Milano, de' quali aspetta d'essere condotto a compimento quello solamente che risguarda la lega daziaria (Zollverein).

Frattanto gli iniziatori e promovitori della precedente lega doganale (sic) non si rimasero colle mani in mano. Il Piemonte, col trattato di commercio coll'Inghilterra e col progetto del grandioso stabilimento da fondarsi in Genova col danaro inglese, ha spalancato le porte all'influenza della Gran Brettagna non solo nel rispetto commerciale, ma anche nel politico. Da qui innanzi il Piemonte sarà la cittadella, dalla quale gli Stati limitrofi saranno minacciati non solo di una inondazione di merci inglesi da sfroso, ma anche del contrabbando

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ben più pericoloso delle tendenze inglesi sovversive, la cui azione fu già dall'Italia sì amaramente provata.

Nessun dubbio che la vecchia manovra del Piemonte, non avendo avuto fortuna sotto l'insegna della nazionalità; si verrà a rinnovare sotto l'egida della potente Inghilterra, e coi più svariati preparativi si avvalorerà del partito sovversivo e a danno degli Stati conservativi d'Italia.

Di fronte a questa condizione di cose, che forse ci può preparare tra poco de' serii imbarazzi, la necessità politica altro non sembra prescriverci che di non indugiare un istante a determinare la sfera daziaria, la quale è destinata per una parte a formare la zeppa per isolare al possibile il Piemonte e tagliarlo fuori dall'Italia centrale, e per l'altra a servire come punto di cristallizzazione, cui vengano in seguito a congiungersi gli interessi omogenei d'Italia e guadagnare una base sempre più estesa alle tendenze conservative.

Se finora la lega daziaria coll'Austria fu per i ducati una quistione d'opportunità e di vantaggi commerciali, oramai - per quel che ne pare a me - in faccia alla novella piega della politica commerciale di Sardegna ed alle prevedibili conseguenze di queste, è diventata per cotesti paesi una vera quistione di vita.

La convinzione che la A. V. R. degnerà del suo usato perspicace giudizio queste circostanze, mi fa confidare che l'A. V. sarà propensa a sgomberare quell'ultimo ostacolo che ancora si oppone alla conclusione della lega daziaria, e così rovesciare una volta per sempre gli intrighi degli avversari, i quali adesso faranno certamente ogni sforzo per attraversare al possibile i nostri comuni progetti. Questo ostacolo - come l'A. V. R. già ben sa - sta nella diversa opinione dei due Governi circa il determinare la cifra minima dell'introito annuale dei dazi. Si compiaccia V, R. A. di accogliere da parte nostra la rispettosa assicurazione, che nelle proposte del" l'Austria relative al caso presente si ebbe tutto il possibile riguardo per gli interessi di costà e che questi, secondo la nostra saldissima persuasione, appariscono perfettamente assicurati; che finalmente la somma da noi ultimamente proposta fu bilanciata secondo le norme della più stretta giustizia ed equità e che a risguardo dello stato attuale delle nostre finanze non potrebbe in nessun caso venire oltrepassata, per quanto anche fossimo inclinati ad assecondare i desideri dell'A. V. R. financo con nostro proprio scapito. Dietro quanto fu detto credo di poter nutrire la speranza che, qualora

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l'A. V. K. si compiaccia di considerare queste circostanze non solo nel rispetto secondario delle vedute puramente finanziarie - le quali, com'è naturale, dovevano a preferenza guidare gli uomini di cotesta partita incaricati delle trattative - ma piuttosto nel più alto rispetto, nel quale l'A. V. ha la capacità e il diritto di sottoporre alle sue riflessioni i supremi interessi vitali degli Stati dalla Provvidenza all'A, V. R. commessi, nel giudicare della speciale quistione di cui si tratta, il risultato d'una tale disamina complessiva e onnilaterale non potrà essere che favorevole all'immediata conclusione delle trattative.

In questa speranza prego FA. V. R. di accogliere le rinnovate proteste de'|miei rispettosi sentimenti, coi quali ho l'onore di dirmi di V. A. R.

Dev. servitore

F. SCHWARZENBERG.


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V.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco y di Modena al principe Felice Schwarzenberg, presidente del Consiglio dei ministri in Vienna.

Caro Principe,

Venezia, 2 maggio 1851.

Per cause che non conosco ricevetti soltanto ier l'altro a sera la sua lettera del 10 aprile. Il tenore di questa non mi costringe che ad affrettare la missione già divisata del conte Polo a Vienna, e il medesimo le trasmetterà questa mia risposta.

Le sono molto obbligato delle comunicazioni confidenziali che Ella mi fa circa la nuova politica commerciale anglo-piemontese e le loro macchinazioni; quel poco che io ne sapeva lo conobbi dalle gazzette. Questa semplice spiegazione servirà a tranquillarla riguardo al pensiero in che l'hanno messa, caro principe, gli intrighi della Sardegna, i quali su di me né hanno avuto né possono avere influenza alcuna. La ragione degli indugi, i quali del resto per quanto spetta alla lega daziaria non provengono in gran parte dal mio Governo, sta di presente nella insufficienza della cifra minima, come

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misura partitiva fra i tre Stati, come pure nella nuova tariffa austriaca non per anco approvata dall'I. R. Governo. Principalmente io le farò notare, ottimo principe, che, posciachè si desidera che il minimum sia nel tempo stesso misura partitiva, Modena è impossibile che venga ad una conclusione, fino a che cotesta cifra non è definitivamente pronunciata per il Lombardo-Veneto e per Parma. E poiché tutte e tre queste cifre debbono essere determinate con particolari convenzioni, non cade in niun caso sul mio Governo il rimprovero di menare con ciò in lungo la conclusione, dacché non si deve del resto obbligarsi per cosa sconosciuta. Un'altra cosa ancora la prego, caro principe, di considerare; Parma, se è vero quanto si dice, con 480,000 abitanti riceve 970,000 franchi di minimum; e Modena, con abitanti 570,000 dovrebbe averne solo 1,000,000. Il mio desiderio è d'avere circa il 10 p. % a testa meno di Parma; e questa pretesa mi pareva abbastanza moderata. Il Governo imperiale coll'offerta di un milione pose Modena al di sotto di Parma del 16 p. % a un dipresso. Al principio delle trattative nel novembre 1849 fu già accettata la proposta di dividere, secondo il sistema della lega daziaria tedesca, gli introiti in proporzione della popolazione del regno Lombardo-Veneto e dei due ducati. Per motivi politici e per compiacere all'Austria in tutto che è possibile, allorché essa manifestò la sua opinione in proposito, io desistetti da quell'idea. Ma un sacrificio non doveva essere causa che d'altri sacrifici? Dovrà la sola Modena e non anche la potente e grande Austria e nemmeno Parma portare in proporzione il peso delle circostanze politiche? Ciò non sarebbe giusto. Se in questa occasione io dovessi ricordare, come Modena a differenza di altri Stati italiani è stata da due anni posposta nel rispetto pecuniario, io dovrei rammentare i compensi sulla tassa di guerra del Piemonte, che del resto S. Maestà aveva promessi; che furono liquidati ma finora non per anco ottenuti la convenzione militare finora nel rapporto amministrativo non messa effettivamente in esecuzione, per lo che il soldo di pace delle truppe imperiali, a differenza di Toscana e dello Stato pontificio, già da due anni non viene a Modena restituito; le spese pel passaggio delle truppe nel territorio pontificio e in Toscana, non pagate ancora benché da un anno liquidate.

Tutto ciò ricorda circostanze che rendono impossibile a Modena di sostenere ulteriori sacrifìci.

Per tornare all'oggetto principale di questa lettera, cioè alla lega daziaria, io devo conchiudere insistendo perché si

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voglia ascoltare in Vienna il mio plenipotenziario conte Polo, il quale esporrà tutto il rimanente circa i calcoli e le ragioni di Modena. L'Austria certamente non metterà nelle strette un arciduca, né sacrificherà gli interessi de' sudditi di questo, esporrà lui stesso a motivo dei suoi doveri come sovrano ad altre personali dispiacenze. Il conte Polo ha una lettera mia per S. M., il cui amore per la giustizia io debbo anche implorare in questi decisivi momenti.

Caro principe, io chiudo questa lettera scritta con soldatesca sincerità nella fundata speranza, che il Governo imperiale terrà conto di queste pretese di Modena così ridotte al minimo e che con ciò si arriverà il più tosto possibile allo scopo bramato da me forse più che da niun altro; coi quali sentimenti io rimarrò con tutta la stima di lei caro principe,

Affezionatissimo

Are. Francesco, duca di Modena.

VI.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco y di Modena a S. M. l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria.

Maestà!

Venezia, 8 maggio 1851.

Un affare importante pel mio Stato e pe' miei sudditi mi spinge a rivolgermi anche direttamente alla Maestà Vostra, incaricando il mio maggiordomo (Kàmmerer) conte Polo di trasmettervi questa mia ossequiosissima.

Il Governo di V. M. desiderò fino dal 1849 di stipulare una lega daziaria con Modena. Furono fatte trattative con più o meno di attività fino al dì d'oggi: finalmente tutte le difficoltà erano per così dire sbrigate e la lega sembrava ornai presso ad esser conchiusa. Solo un articolo, determinato fin da principio dal Governo di V. M., cioè un minimum, che doveva assicurarle Modena, come piccolo Stato, contro tutte le eventualità della lega, è ora quasi l'unica difficoltà che si frappone alla effettuazione della stessa, mentre lo si vorrebbe far valere anche come misura partitiva e con una tale condizione Modena verrebbe a scapitarne pei seguenti motivi.

Dacché il mio Stato possiede alcuni nuovi acquisti

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e de' confini migliori, gli introiti, malgrado le tristi conseguenze degli ultimi avvenimenti, crescono sì considerevolmente, che anche senza la lega daziaria vi sarebbe ragione di concepire le migliori speranze. L'incasso in ragion d'anime si aumenta quindi di giorno in giorno e ad onta delle gabelle minori in confronto a quelle della lega progettata e dell'incaglio del commercio prodotto dall'indugio della decisione, ha effettivamente sorpassato di gran lunga quel minimum e la proposta base di partizione, che il Governo imperiale vorrebbe stabilire per Modena. Cotesto minimum è, per quanto io so, maggiore appena di un venticinquesimo di quello promesso a Parma, sebbene il mio Stato superi di un sesto a un bel circa la popolazione di quello.

Voglia la M. V. prendere graziosamente in considerazione, come io in forza de' miei doveri di sovrano debba esitare a sottoscrivermi ad un danno certo pel mio Stato.

Il mio ministro delle finanze riconobbe che Modena potrebbe calcolare sopra un minimum più elevato, qualora esso debba servire ad un tempo di misura partitiva; io mi contentai di una cifra più piccola e in tutte le mie pretese sono calato già fino all'ultimo confine che non ripugnava alla mia coscienza. Fu dato il consentimento a leggi e tariffe affatto nuove, furono aboliti mouopolii, altri con moltissime difficoltà e spese e aumento del personale manipolante già furono presi in considerazione, tutto per mettere in opera la lega daziaria desiderata dal Governo di V. M.

L'ultima lettera del principe Schwarzenberg diretta a me, come pure la comunicazione simile fatta dal conte Allegri al mio Governo, di ridurre cioè il minimum e la misura di partizione ad un milione di franchi, offende gli interessi finanziarli e quindi i più rilevanti interessi materiali del mio Stato e de' miei sudditi.

V. M. non permette certamente che la lega daziaria, anziché inclinare sempre più i cuori e gli interessi de' miei sudditi all'Austria, e con ciò porre il mio Governo su miglior base, debba essere cagione d'avversione ed anche d'imporre nuovi carichi. Rifletta V. M. che al mio Governo non è stato sborsato ancora nulla dei compensi da V. M. generosamente promessi al mio Stato nella conclusione della pace colla Sardegna. Parimenti non sono stati ancora compiuti altri pagamenti già liquidati dei quali io ho fatto più particolare menzione al principe Schwarzenberg; il che pone il mio Stato quasi nella spiacevole necessità di sopportare nuovi sacrifici pecuniari.

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Io, prima di esporre alla M. V., non senza gran ritrosia, queste rispettose osservazioni, ho atteso tranquillamente un intero anno dopo la fatta liquidazione, senza muovere un passo; ma il tacere ancora, nell'attuale circostanza, sarebbe da parte mia una dimenticanza de' miei doveri. Conseguentemente io mi rivolgo confidentemente alla M. V. pregandola, anzitutto di prendere in esame le mie osservazioni intorno al punto, che solo quasi è rimasto in questione, e che impedisce l'esecuzione della lega daziaria con Modena, e quindi di fare finalmente mettere in chiaro con un ordine proprio di V. M. i diritti di compensazione, già riconosciuti giusti, e la restituzione del danaro anticipato; per le quali nuove dimostrazioni dell'equità della M. V. io ed i miei sudditi saremo sempremai compresi della più sentita gratitudine.

Colla più profonda venerazione ho l'onore di protestarmi di V. M.

Osseq. e dev. servitore e cugino

Francesco.

VII.

Lettera del conte Buol a S. A. R. il duca Francesco y di Modena.

Serenissimo Arciduca, graziosissimo Signore, 13 ottobre 1853.

All'A. V. I. è noto avere il Governo ducale di Parma, dietro impulso del barone Ward, fatto ultimamente una serie di concessioni, per la costruzione di strade ferrate in diverse direzioni, alla casa inglese Gandell e compagnia. Questo avvenimento era troppo proprio ad eccitare tutta la mia attenzione ed io non ho indugiato, d'intelligenza coll'Imperiale ministro del commercio, a sottoporre ad un largo e profondo esame le accennate concessioni, massimamente in vista delle conseguenze ed effetti loro.

Il risultato di cotesto esame è compendiato nella memoria qui rispettosamente acchiusa; dalla quale voglia l'A. V. I. degnarsi di ricavare che, secondo la più alta probabilità, le concessioni per strade ferrate ottenute in Parma dalla casa Gandell non sono che un anello di quella catena, onde l'Inghilterra si adopera ad avvincere la penisola.

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Il mezzo di paralizzare le accennate concessioni negli effetti che se ne aspettano dal lato dell'Inghilterra e mandare a vuoto anche l'esecuzione della massima parte del progetto, fortunatamente è posto in mano di V. A. I., avvegnaché la più parte di queste linee non possono congiungersi colle toscane e piemontesi se non proseguendole sul territorio modenese, e non acquistano importanza se non per siffatto congiungimento. Questo si avvera segnatamente della linea concessa, da Parma al confine modenese al di là di Pontremoli, la quale deve essere continuata da una banda sul territorio modenese nella direzione di Sarzana, e dall'altra banda verso Lucca.

I pericoli, grazioso signore, che possono provenire per l'Italia settentrionale e centrale in genere e per Modena in ispecie, se dovessero riuscire a compiere la progettata rete di ferrovie parmigiane su territorio modenese, balzano troppo agli occhi perch'io mi abbia a permettere di metterli qui in particolare rilievo; non mi rimane quindi che di pregare rispettosamente e istantissimamente l'A. V. I. a ricusare addirittura la continuazione sul territorio modenese delle linee parmigiane indicate nella acchiusa memoria.

Nel mentre io oso aggiungere ancora la sommessa preghiera, che l'A. V. voglia degnarsi di mettermi in cognizione delle risoluzioni che prenderà a questo proposito, mi lusingo che l'importanza dell'oggetto e la necessità di tener segrete le misure da prendersi in questa circostanza basteranno a scusarmi presso l'A. V. I. di avere ricorso direttamente alla stessa.

Aggradisca l'A. V. l'assicurazione, ecc.

C. Buol.

VIII.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco y di Modena al conte Buol, ministro degli affari esteri in Vienna.

Caro Conte, Modena, 3 novembre 1853.

Colla presente accuso ricevuta della sua 13 ottobre del corrente anno insieme coll'unito promemoria e spiegazione del contenuto della stessa.

Il Governo di Parma si è difatti indirizzato al mio non per

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domandare fin d'ora la continuazione della progettata ferrovia da Parma a Sarzana e Lucca per la Luuigiana estense e Massa, ma solo per indagare se io fossi proclive a concedere il detto passaggio.

Io mi lusingava che forse il 24 n articolo della convenzione di Roma, che fa conchiusa il 1° maggio 1851, fosse contrario alla ferrata nuovamente progettata, e il mio ministero dell'estero ne interpellò i governi interessati. Ma questi risposero che quell'articolo non si opponeva all'accennata ferrovia.

Dietro questa risposta il mio Governo non poteva che opporre delle temporarie difficoltà all'eventuale prosecuzione di quella linea, fondandosi sui molteplici danni, che ora specialmente per la costruzione e anche per il futuro esercizio di quella parte della ferrovia centrale, che spetta a Modena, ne risulterebbero; il perché almeno per adesso non si potrebbe concedere quel transito come contrario ai nostri interessi. Del lesto io confido che le cagioni più importanti, che l'Austria crede di avere per bramare che questa ferrata non venga costrutta, in ogni caso si faranno conoscere dallo stesso Governo imperiale al parmigiano, e che così quel progetto cadrà del tutto.

Stante questa circostanza io debbo in poche parole farle nota la mia intenzione a tale riguardo.

Per mio avviso la linea da Piacenza al confine Sardo è assai più importante e più facile ad eseguirsi di quella di Pontremoli, e quindi sarà assai probabilmente compiuta.

In rispetto alla ferrata centrale io ritengo la stessa anche vantaggiosa, ma non così nel rispetto politico. Ma io rilevo dal suo promemoria che appunto questa è la linea che non può essere impedita. In tal modo verrà attuata una comunicazione diretta fra Genova e Torino e gli altri Stati italiani e la linea malagevolissima per Sarzana e la riviera diventerebbe con ciò superflua o certo non più minacciosa della prima per fini militari e commerciali.

Di più. Il Duca di Parma, nel caso che il suo progetto della ferrata Lunigiana venga respinto e che egli avesse desiderio di mettersi in comunicazione colla riviera di Genova anche da quel lato, si adoprerà certamente a concedere una ferrovia, che da Borgotaro per Cento Croci conduca a Chiavari, la quale sarebbe in una direzione più rettilinea che non quella per Sarzana a Genova, e questa linea non toccherebbe il mio Stato.

Del resto io reputo l'esecuzione della ferrata per l'Apennino parmense, dove che sia, per nulla più che un sogno.

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Le difficoltà fisiche che si dovrebbero quivi superare sono troppo enormemente grandi per allettare i capitalisti ad una siffatta intrapresa, che non presenterebbe in seguito alcun sicuro interesse.

Invece io ritengo che la breve linea da Piacenza al confine Bardo sia di facile esecuzione e presenti un essenziale interesse commerciale, cosicché sia anche l'unica, fra le molte già concesse a Gandell sul parmigiano, che verrà messa in opera.

Del rimanente io sono interamente della sua opinione, signor conte, che tuttociò che è esclusivamente d'intraprendimento inglese sia svantaggioso per gli interessi d'Italia.

Sarebbe oramai tempo che si ponesse finalmente mano alla già da tanto tempo approvata ferrovia centrale italiana, la cui esecuzione è desiderata da cinque governi, fra' quali l'Austria stessa. Ma questo difficilmente succederà finché i cinque governi non si riuniscono per far quello che il mio pur troppo in vano ha tentato nella scorsa primavera, cioè costringere la Società e gli azionisti o ad adempiere i patti o a sciogliersi e a veder decadute le azioni.

Attualmente già tutte le azioni dovrebbero essere vendute il che è ben lontano ancora dall'essere fatto. Quattro ventesimi delle azioni dovrebbero essere incassati, e lo sono appena in parte due ventesimi. La compagnia inglese, che deve intraprendere la costruzione, non può essere costretta a dar principio ai lavori, finché questa somma non è esistente o ad essa garantita.

Finalmente la presente cattiva annata richiede istantemente questi lavori. Io credo che, se questa intrapresa venisse sollecitata, ben presto tutte le idee di costruire altre ferrate sul parmigiano cadrebbero in discredito, salvo quella che è diretta da Piacenza al confine sardo e che il Piemonte certamente congiuugerà presto colla sua di Genova-Torino.

Accolga, caro conte Buol, le assicurazioni della mia stima ed affezione, con cui resto

Suo affezionatissimo

Francesco.













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