Eleaml


RIVISTA
CONTEMPORANEA
FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI
VOLUME DECIMOTERZO
ANNO SESTO

TORINO,
TIPOGRAFIA CERUTTI, DEROSSI E BUSSO
Via della Porta, n 1.

1858

Pag. 162-176
RASSEGNA POLITICA
[Piemonte - Massari]
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Massari, consapevolmente o meno fu uno degli artefici della nostra disfatta politica, militare ed economica. Collaborò per un decennio alla politica cavourrista, dando un importante contributo sul piano della elaborazione culturale, ovvero a quella battaglia delle idee che ci vide soccombenti.

La lettura di questo intervento in cui egli fa il panegirico del Piemonte e dei suoi fulgidi destini né è prova ulteriore. A chi non ne fosse a conoscenza, vogliano ricordare che nel 1851 egli a Torino curò la pubblicazione delle lettere di Gladstone.

Altre indicazioni le trovate in un nostro scritto di qualche tempo fa: “Giuseppe Massari - ovvero storia breve di un velino di razza“ 

Zenone di Elea – 20 gennaio


La cresciuta importanza politica del Piemonte non fu mai così evidente come in questi giorni: il Piemonte ha immedesimata la sua vita, la sua esistenza politica con quella di tutta Europa, e quindi in tutta Europa si comprende e si sento, come nessun evento che succeda in Piemonte possa essere contemplato con occhio indifferente. Il Piemonte è diventato uno degli ordigni essenziali della macchina europea, e perciò l'eco di tutta Europa ripercuote gli accenti della sua gloriosa ringhiera, e una decisione del Parlamento subalpino, un atto diplomatico del Governo piemontese producono nelle Borse di Europa quella commozione, che altra volta era riserbata esclusivamente agli atti ed alle risoluzioni delle potenze maggiori. La stessa recrudescenza di rabbie e di ire della stampa austriaca porge documento irrefragabile della cresciuta importanza politica del Piemonte: ieri era l'Ostdeutsche-Post, che mettendo in fascio il conte di Cavour coll'uladika del Montenegro, li minacciava entrambi delle folgori di Vienna: oggi è l'Ocsterreichische Zeitung, che pronostica a Casa Savoia vincitrice o vinta distruzione irrepabile! Lasciamoli dire, lasciamoli strillare come meglio loro aggrada: e frattanto il Piemonte e Casa Savoia rincuorati dal plauso e dall'ammirazione del mondo civile, e dallo strepito stesso dei nemici fatti accorti della sublime altezza a cui sono giunti, proseguono la loro via senza baldanza e senza sgomento, mirando senza posa alla meta che conseguiranno, alieni sempre da puerile impazienza e da muliebre scoraggiamento: né quella politica perseverante di audace prudenza, di pazienza operosa che fu sempre quella di Casa Savoia, e che in quest'ultimo decennio è stata praticata con indefesso e raddoppiato vigore sarà sterile di benefiche conseguenze.

Ripensando a ciò che è succeduto durante questo mese di aprile, ci pare che l'amor patrio non faccia velo al nostro giudizio affermando che davvero il Piemonte ha tenuto il primo posto nell'attenzione dell'Europa: i dibattimenti della Camera dei deputati intorno alla proposta di legge per i reati di stampa e l'ordinamento del giurì sono stati letti in tutta Europa: i più accreditati diarii di Parigi, di Londra e di Brusselle ne hanno dato il rendiconto nelle loro colonne: la stessa Gazzetta officiale di Vienna (Wiener Zeitung) ha riferito i brani dei principali discorsi pronunciati in quella occasione.


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I documenti diplomatici relativi alla vertenza del Cagliari hanno perimenti fatto il giro dell’Europa, e dovunque hanno fruttato plauso ed ammirazione a questo leale Governo, a questo nobile paese che non misurano l'ampiezza de’ loro diritti e dei loro doveri dall'angustia dello spazio.

La Camera dei deputati in Piemonte approverà, eppure rigetterà la proposta di legge sui reati di stampa? La vertenza tra il Piemonte o Napoli avrà, oppure no uno scioglimento pacifico? Ecco le questioni che in questi ultimi giorni hanno fornito argomento a presupposti diversi: e sono stati il tema dei discorsi politici in tutta Europa. Una risoluzione del Parlamento piemontese può turbare il sistema di alleanze attualmente esistenti: un colpo di cannone tirato dal Piemonte può accendere la guerra universale. Dopo i disastri del 1848 e del 1849 la sola speranza di raggiungere questo risultamento sarebbe stata giudicata follia: ma oggi quel risultamelo è una realtà luminosa. Nello spazio di questi dieci anni il Piemonte, mediante il senno de’ suoi rettori, la virtù de’ suoi soldati e l'onestà del suo popolo, ha sciolto il difficilissimo problema di rendere la questione del suo avvenire, che è quello di tutta quanta la Penisola italiana, una questione di ordine europeo.

Non ci eravamo dunque ingannati facendo assegnamento sull'illuminato patriottismo e sull'accorgimento politico del Parlamento piemontese: la deliberazione con cui il giorno 23 aprile la Camera dei deputati «Ha maggioranza di 129 voti contro 29, e quella con cui nel susseguente giorno 29 la stessa Camera alla maggioranza di 110 voti contro 42, approvava la proposta di legge presentata dal guardasigilli Deforesta, attestano che la Camera in questa occasione, come in tante altre abbia afferrato il significato politico della questione, su cui era chiamata a pronunciare la sua autorevole sentenza, ed abbia preposte a tutto le considerazioni secondarie ed accessorio quelle che derivano dalle necessità indeclinabili della politica. La Camera non ha durato fatica a persuadersi, che con un re come Vittorio Emanuele, la nobile tradizione a cui per 850 anni furono fedeli i principi di Casa Savoia non correva rischio di essere abbandonata, e che al pari dei suoi gloriosi antenati l'augusto Sovrano avrebbe saputo preferire la via dell'esilio a quella del disonore; la Camera non ha durato fatica a persuadersi che i consiglieri risponsabili del Re, quei medesimi che nei campi di battaglia della Crimea accrebbero il lustro delle sue armi combattendo accanto ai primi guerrieri del mondo, e contro un valoroso inimico, que' medesimi che nel concilio dell'Europa, interpretandone i magnanimi intendimenti, perorarono nel suo sacro nome la causa del diritto e degli oppressi, non erano uomini da accogliere Dell’animo il divisamente di indecorosa condiscendenza a pressione forestiera; e quindi scevra da qualsivoglia timore di menomata dignità nazionale, contempla va la questione sotto il vero aspetto, e la scioglieva secondo giustizia, secondo i principii inconcussi della morale, e conforme agli interessi del Piemonte e dell'Italia. Pronunciando la condanna esplicita della scellerata teorica dell'assassinio politico, e riguardo a coloro che meditano il delitto, e riguardo a coloro che se ne l'unno gli apologisti, la proposta di legge rendeva omaggio ad un principio morale, che né per divario di latitudini, né per diversità di religione può patire contraddizione. A nessuno è lecito surrogare il proprio criterio individuale a quello della società, e l'azione propria e speciale a quella generale delle leggi: a nessuno è lecito assumere l'ufficio di vendicatore della società.


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Questi sono i grandi principii morali a cui la Camera ha reso omaggio, mediante la deliberazione di cui favelliamo. Sotto l'aspetto politico poi, è del pari evidente che, nelle attuali condizioni delle cose in Europa, il Piemonte deve provvedere ad un buon sistema di alleanze: un passo decisivo verso l'attuazione di questo disegno venne fatto durante la guerra d'Oriente, e quindi nei negoziati diplomatici: ora è d' uopo che in pace non si perda ciò che fu guadagnato in guerra: è d'uopo che il Piemonte non trascuri nessuna opera per consolidare e rendere più strette le sue alleanze naturali: fra questo primeggia nel continente quella con la Francia. Quest'alleanza è voluta se non altro dalla geografia, ed oggi più che mai è razionale e necessaria, perché il Governo attuale di quella potente nazione, è il solo tra i tanti, che da sessantanni in qua ci sono stati, che abbia manifestali reiteratamente sensi benevoli verso l'Italia. Concedendo liberamente e spontaneamente una guarentigia al Governo francese, la dignità nazionale non ci scapita né punto né poco, e frattanto si ha il merito di aver fatta cosa grata ad un alleato, ad un amico; e chi vorrà vituperare col titolo di condiscendenza a pressione forestiera un pegno d'amicizia dato con la massima libertà, e senza l'ombra di offesa al decoro della Corona ed a quello del paese? Nella proposta di legge per i reati di stampa ed il giurì era dunque implicata la vitale questione della conservazione delle alleanze naturali del Piemonte: la Camera dei deputati, fedele allo sue tradizioni, non ha titubato nel partito a cui doveva appigliarsi, e l'approvazione da essa conceduta alla legge in discorso, dopo essere stata omaggio al principio morale, è stata in pari tempo omaggio non meno significante né meno esplicito al principio nazionale, vale a dire al principio da cui s'informa l'odierno sistema politico del Piemonte, e dalla cui costante pratica dipendono i futuri gloriosi destini di questo paese e di questa inclita dinastia. A confronto delle ragioni desunte dalla morale e dalla politica, quelle che si aggirano esclusivamente intorno alla legalità sono di poca entità: ma nemmeno queste sono mancate; e gli oratori che hanno propugnata la proposta hanno dimostrato come la riforma ed il migliore ordinamento del giurì siano utili, per non dire indispensabili, alle sorti avvenire del giurì medesimo. In tal guisa la parte liberale dimostra con l'evidenza dei fatti di essere veramente conservatrice, poiché il solo mezzo di porger forza e di dar vita alle instituzioni civili, consiste net rimuovere da esse, mediante le opportune riforme, quelle imperfezioni, che gli avversarii confondono di frequente con l'essenza delle cose, e le quali, durando, tornano di grave nocumento alla istituzione che si vuoi conservare.

Avvi pure, e non vogliamo tacerlo, un altro motivo per cui la Camera dei deputati, approvando quella proposta di legge, si è resa nuovamente benemerita della comune patria italiana: se sotto il triplice aspetto, morale, politico e legale, la deliberazione è al lamento commendevole, essa è pure un atto di carità nazionale, un attestato di devozione a questa misera nostra e sconquassata penisola.

I deputati piemontesi hanno chiusa per sempre la bocca ai detrattori d'Italia: essi hanno con maggiore evidenza dimostrato che nel cuore degli uomini liberi germoglia vigoroso e possente il senso morale, e che là dove o libertà onesta e sincera, lealmente praticata, ivi le inique dottrine non incontrano favore ma condanna senza restrizioni;  ivi non s'affilano pugnali ma si adoperano le armi schiette della libera discussione;


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ivi la libertà è usata per imprecare l'assassinio e gli assassini. È stato, lo ripetiamo con profondo convincimento, un atto di vera carità nazionale. Ora più che mai potremo dire agli stranieri che so in Italia vi sono provincie di dove sorgono traviati e perversi, che noi pugnalo ravvisano uno strumento di libertà; se in Italia vi sono paesi dove la mala pianta della teorica dell'assassinio politico attossica con le suo pestifere esalazioni l'atmosfera del senso morale, questo provincie non sono quelle dove la libertà è praticata; quei paesi non sono quelli dove il culto all'idea nazionale è il principio da cui si informano i detti e gli atti di governanti e di governati.

Dalla sola ringhiera che scampò in Italia al naufragio del 1849 si è alzata una voce solenne di maledizione e di condanna dell'assassinio politico. «Noi abbiamo creduto, diceva il conte Camillo di Cavour nella tornata del 16 aprilo, che era opera necessaria nell'interesse del Piemonte e dell’Italia tutta, che nell'unico Stato italiano retto a libertà sorgesse altamente la voce, non solo del Governo, ma della nazione, dal Parlamento rappresentata, a protestare solennemente, energicamente contro la scellerata dottrina dell’assassinio politico.» — «Noi Piemontesi, diceva nella tornata del 14 aprile il deputato Domenico Butta, in singolar modo dobbiamo dimostrare all'Europa che se disgraziatamente da qualche provincia d'Italia governata a dispotismo escono ancora degli assassini politici, da questa governata a libertà escono invece le proteste solenni e la condanna contr'essi.» — «Il nostro Piemonte, diceva nella tornata del 17 aprile il conte Callori, non ultimo certamente sorse a protestare contro* l'iniqua cospirazione, e la stampa del nostro paese con voce, direi quasi, concordo, gettò ben meritata nota di biasimo sul capo a quegli sciaurati, che, ardenti d'indomito amore di libertà, la libertà uccidono cogli insanguinati loro amplessi, ed allontanano sempre più il giorno della tanto desiderata indipendenza di questa comune patria nostra l'Italia, la quale, per gli improvvidi moti di pochi tristi suoi figli, è ingiustamente dai nemici suoi calunniata, quasichè sia dessa madre feconda di vili sicarii. atti solo a maneggiare il pugnale e ad ordire infernali macchinazioni.... Egli è oggimai necessario che sappiano gli uomini forsennati, che io vorrei chiamare illusi, anziché tristamente malvagi, che l'onore dell'apoteosi, l'aureola del civile martirio è riserbata non a chi affila tra l'ombre il pugnale, e prepara macchine omicide, ma a quei prodi soltanto, che alla chiara luce del giorno, in aperta campagna seppero per la patria affrontare i pericoli delle battaglie.... Se nei libri dell'Eterno sta scritto che questa classica terra d'Italia debba risorgere un giorno a vita più bella di libertà e di indipendenza, libertà e indipendenza siano premio di fraterna concordia, d'indomito coraggio, di civile moderazione e sapienza, ma frutto non mai di esecrati assassinii e di abbominevoli regicidii.»

Così parlando i ministri ed i deputati al Parlamento piemontese erano gli eloquenti e veridici interpreti de’ sensi della nazione: la flebile e addolorata voce dell'Italia non poteva prorompere in più efficaci accenti, in più nobili proteste. Nel 1855 la ringhiera piemontese, parlando anche per coloro che son costretti a tacere, manifestò la devozione dell'Italia alla causa della offesa indipendenza dell'Europa ed a quella dei sacri ed inalienabili diritti della civiltà cristiana: nel 1858, parlando un'altra volta anche per coloro che son costretti a tacere, ha ripudiata solennemente persino l'apparenza dalla complicità co’ fautori di nefande dottrine,


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 ed ha manifestata la devozione dell'Italia a quegli eterni principii di giustizia e di morale, senza cui nessun civile commercio può sussistere. Non mancò il premio allora: non mancherà questa volta.

La discussione è stata degna del tema intorno alla quale si aggirava: ed ha sorpassata la comune aspettazione. Per lo splendore dell’eloquenza, per l'efficacia della logica, per la qualità e per la quantità degli oratori, e per il modo veramente dignitoso e pronto con cui sono stati condotti i dibattimenti incominciati il giorno 13 aprile nella Camera dei deputati e terminati ai 29 dello stesso mese, meritano di essere ricordati come tra' più imponenti e solenni onde può andar giustamente superba la ringhiera piemontese. Sono dieci anni appena, e già questa ringhiera adolescente gareggia con prospero successo con le più antiche e le più illustri del inondo. I discorsi del Mamiani, del Farini, del Tecchio, del Correnti, del Callori con bella forma e con profondità di concetto definivano qual fosse il vero scopo che la proposta di legge mira a conseguire, e dileguavano il fantasma della pressione forestiera, che dagli avversarii ora stato evocato. Con commosso accento diceva il Robecchi ai suoi amici di sinistra le ragioni del suo dissentire da essi, e li esortava a porre a calcolo le gravi considerazioni politiche che dovevano persuaderli ad imitare il di lui esempio, e dar voto favorevole alla proposta. Altri deputati svolgevano lo stesso assunto. I componenti della maggioranza della commissione por organo del relatore impugnarono la proposta di legge sotto l'aspetto legale, lamentavano non si fosso pensato a stipulare condizioni di reciprocità, dicevano non doversi iscrivere nella patria legislazione un nuovo principio che non si trova in altre legislazioni, e che per l'avvenire potrà essere sorgente di pericoli non lievi. A contrastare queste argomentazioni ed a dimostrarne la insussistenza sorgevano Domenico Buffa ed Urbano Rattazzi: né è a dire con qualità felicità svolgessero il loro assunto; poiché discorsi come quelli si ascoltano con piacerò e con frutto, guadagnano quando son letti, e lasciano in chi li ascolta od in chi li legge il rincrescimento che siano finiti troppo presto. Ma noi siamo persuasi di non dir cosa che si scosti menomamente dal  vero, né che possa recare offesa a nessuno affermando che fra tutti i discorsi pronunciati nella memorabile discussione, di cui accenniamo, primeggia, E sovra gli altri come aquila vota, quello che nella tornata del 16 aprile era detto dal conte Camillo di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri: 16 aprile! data non più dimenticabile, fausto augurio! a dì 16 aprile 1856 il conte di Cavour insieme col marchese di Villamarina firmava quel documento diplomatico, in cui erano con autorevole schiettezza narrato all'Europa le condizioni dell'Italia: a d' i 16 aprile 1858 egli pronunciava un discorso che è un corollario logico dolla nota del 16 aprile 1856, e la dimostrazione patente dei propositi non mutati e dell’irremovibile perseveranza net non ristare dalle opere finché lo scopo non venga pienamente raggiunto.

Il discorso del conte Cavour fu quello di un grande statista e di un grande oratore: la lucida narrazione del passato intrecciata meravigliosamente con la dichiarazione dogli intendimenti avvenire: la ragione austera e penetrante dello statista congiunta alla carità del cittadino; l'altezza del concetto ed il brio della forma; questi ed altri, che troppo lungo sarebbe ridire, sono i pregi che contrassegnano quel discorso.


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 Fu un vero capolavoro: né una buona, anzi una ottima causa poteva esser difesa con maggiore efficacia di concetto, né con più vivo fulgore di eloquenza. Altre volte dicemmo di alcuni discorsi del conte Cavour, che essi eran degni della maggior ringhiera del mondo: oggi affermiamo con profonda persuasione che quella stessa ringhiera può invidiare alla nostra un discorso come quello detto dal conte Cavour nell'aula del palazzo Carignano il giorno 16 aprile 1858. Quel discorso è ora nelle mani di tutti; l'ammirazione che ha riscosso in Piemonte e nelle altre parti d'Italia, come di là dalle Alpi, ed oltre il mare, rende scarso ed inutile qualsivoglia encomio. Questa discussione adunque sarà memoranda nei fasti parlamentari del Piemonte, e mentre ha accresciuto il lustro della ringhiera nazionale, ha sortito puro l'ottimo effetto di rischiarare semprepiù la pubblica opinione, e di togliere dagli animi quelle incertezze e quei sospetti che per avventura l'annunzio della presentazione di quella proposta di legge aveva potuto destare. In questa occasione si è avuto un esempio incontrastabile della utilità della discussione, e dei vantaggi pratici che se ne raccolgono. Allorché la proposta di legge venne presentata non incontrò di certo molto favore: l'opinione pubblica era assai male disposta verso di essa: ora dopo i dibattimenti, che dal -13 al 29 aprile sono stati fatti nella Camera elettiva, questa condizione di coso è all’intutto mutata, e l'opinion pubblica ha sanzionato e confermato I' opera del Governo e quella dei rappresentanti della nazione. La discussione ha posto in chiaro l'intrinseco ed importante significato politico di quella legge, o t'ha purificata dagli appunti che ad essa si facevano e dal peccato di origine che vi si voleva ravvisare. Affrettiamoci a soggiungere, che la ritrosia mostrata in sul principio dall'opinione pubblica è nuovo e consolante indizio della potenza del sentimento di dignità nazionale in Piemonte: il Piemonte è giustamente sollecito e geloso della sua indipendenza e del suo decoro, e non tollera che altri possa sospettare ch'esso sia mai per rassegnarsi a vederla violare: sulla sua candida veste non vuole neppure l'ombra di macchia, ed ha ragione: perciò non fece buon viso ad una proposta di legge, che veniva rappresentata come dettata da Governo straniero: era un inganno, e la discussione lo ha dimostrato con una evidenza che non potrebbe desiderarsi maggiore; ed il trionfo della legge nell'urna parlamentare è ora accolto dalla pubblica opinione come una nuova e segnalata vittoria del sistema di politica nazionale e liberale, da cui si contrassegnano i nove anni del regno di Vittorio Emanuele II. Non ci stanchiamo dal ripeterlo: né il principe avrebbe conceduto al ministero di presentare una proposta che fosse conseguenza di pressione straniera, né in Piemonte si sarebbero trovati ministri che accogliessero in mente cosiffatto divisamento, né deputati che vi avrebbero aderito.

Oltre alla importanza politica attuale, i dibattimenti della Camera elettiva ne hanno pure avuta una retrospettiva che non dobbiamo lasciare inosservata.

Opportunamente rifletteva il Farini qual fatale errore sia quello di accogliere con gran favore le idee francesi, di «infervorarvici anche troppo; e nel tempo stesso di accogliere tutti i volubili amori francesi, tutti gli odii dei partiti e delle fazioni che lacerano la Francia, e farne natura e sangue nostro. Cosicchè chi dà uno sguardo alla storia degli ultimi quarant'anni vede i partiti liberali d'Italia, infranciosati ed innamorati anche troppo della Francia, fondare te loro speranze non net Governo esistente, ma in quello che speravano ne pigliasse il posto.»


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Il conte Cavour confermava con l'autorevole parola le riflessioni dell’onorevole deputato di Cigliano, e nel suo mirabile discorso accennava brevemente alla storia del 1848, e ricordava come i diversi Governi repubblicani di quell'epoca in Francia non avessero mostrato nessuna simpatia verso il Piemonte e verso la causa d'Italia. Il Piemonte fu lasciato solo a combattere le battaglie della nazionalità e della indipendenza. Il generale Alfonso Lamarmora, ministro della guerra, con quella franchezza schietta ed onesta che è uno dei tanti pregi del nobilissimo animo suo, aggiunse nuove ragioni o nuovi fatti a sussidio delle affermazioni del suo collega. Il signor Alfonso di Lamartine ed il signor Giulio Bastide, che entrambi ebbero molta parte nel maneggio delle pubbliche faccende di Francia durante l'anno 1848, hanno stimato dover redarguire i detti d«i ministri piemontesi, od appuntarli di errore e di contraddizione. Il signor Bastide ha ciò fatto con una moderazione di espressioni ed una urbanità di linguaggio, che avremmo desiderato vedere imitati dal signor di Lamartine: l'uno e l'altro non vogliono che si dica il Governo francese del 1848 non avere mostrato simpatia verso l'Italia; ma l'uno e l'altro, ricordando qual fosse stato il loro sistema politico, confermano implicitamente ciò che non vogliono ammettere. Il signor di Lamartine si è lagnato segnatamele di alcuni aneddoti narrati dal ministro della guerra, e che egli dichiara non essere veri; ma l'inesattezza di questi aneddoti contraddice forse alla sostanza medesima del fatto'? Noi siamo pronti a concedere che il generale Lamarmora, citando a memoria o non avendo tra le mani i documenti, abbia errato nell'attribuire al signor di Lamartine parole da lui non pronunziate; ma con ciò non si distruggo punto la verità del fatto che il ministro voleva provare, la Repubblica francese del 1848 cioè non essere stata propizia alla causa italiana. Questo fatto anzi ha ricevuto nuovo sussidio di conferma e di dimostrazione dalle osservazioni e dai documenti pubblicati dalla Gazzetta Piemontese nel suo numero del 23 aprile. Non si o mancato di dire che i ministri piemontesi cogliessero l'occasiono di parlare con poco favore di un Governo caduto, con lo scopo di bruciare un po' d'incenso ad onore del Governo esistente; ma questa accusa non può esser menata buona da chiunque abbia contezza, anche superficiale, delle consuetudini dei ministri piemontesi. Il conte Cavour ed il generale Lamarmora hanno enunciata una verità incontrastabile, sulla quale la storia recherà il suo giudizio inappellabile ed imparziale, e che frattanto dev'essere insegnamento prezioso per gl'Italiani e da non dimenticarsi. L'Italia deve cercare l'amicizia e l'alleanza delle altre nazioni, ma non deve fare sul concorso delle forze altrui quell'assegnamento che dev'esser fatto soltanto sulle proprio, o soprattutto deve evitare di cadere nelle illusioni porgendo fede a sonore promesse che poi sfumano in nulla. Nel 1848 si cadde in questo funesto errore: additandolo e rammentandolo il generale Lamarmora ed il conio di Cavour fecero ottima opera, e dimostrarono come sentano altamente la dignità nazionale.

In una discussione già tanto interessante l'episodio, di cui abbiamo favellato, fu interessantissimo, e portiamo fiducia che gl'Italiani ne faranno lor pro e non lo dimenticheranno. Il contegno usato dal Governo piemontese nella vertenza col Governo napolitano rispetto alla cattura del battello a vapore il Cagliari si riscontra con te dichiarazioni dei ministri al Parlamento:


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 gli atti confermano i detti: e la pubblicazione dei documenti diplomatici su quella vertenza fatta a Londra ed a Torino non ha sortito in tutta Europa effetto men favorevole di quello che è stato prodotto dai dibattimenti della Camera dei deputati sulla legge intorno ai reati di stampa ed all'ordinamento del giurì. Uno dei periodici ebdomadari più giustamente accreditati di Londra, The Economist, nella sua puntata del 24 aprite dichiarava la simpatia della nazione inglese essere tutta con la degna e savia politica del Piemonte, il quale ha recentemente dato all'Europa un esempio di governo che s'informa ad alti principii, e che Stati più possenti possono davvero invidiare: THE WISE AND DIGNIFIED POLICE OF SARDINIA, WHICH HAS RECENTLY SET AN EXEMPLE OF HIGH-PRINCIPLED GOVERNMENT TO EUROPE THAT MIGHTIER STATES MAIS WELL ENVY. Questa opinione è assai benevola senza dubbio, ma lo diciamo con orgoglio, è meritata. Chi ha potuto leggere senza sperimentare vivissimo patrio compiacimento il dispaccio diplomatico in data del 24 marzo del marchese Emanuele D'Azeglio, inviato straordinario o ministro plenipotenziario di S. M. il Re di Sardegna presso la corte di Londra, al conte di Malmesbury, segretario di stato per gli affari esteri di S. M. la Regina Vittoria? Anche abbandonato alle proprie forze, diceva il diplomatico piemontese al ministro della corona britannica, il Governo del Re starà fermo nei suoi propositi, e non si dipartirà dalla moderazione e dalla perseveranza con cui finora ha propugnato ciò che stima essere suo diritto. Il linguaggio usato nei suoi dispacci dal conte Giulio Gropello, che da due anni sostiene egregiamente in Napoli l'ufficio di incaricato di affari del Governo piemontese, non è meno dignitoso, né meno schietto: in tutti quei dispacci è una nobiltà di sentire ed una elevatezza di giudizio, che danno saggio della capacità e dello zelo di quel distinto e giovane diplomatico. Dicendo adunque che i rappresentanti del Governo sardo presso la corte d'Inghilterra e presso quella delle Due-Sicilie hanno interpretato degnamente gl'intendimenti del Governo del Re od hanno corrisposto alla fiducia in essi riposta, noi diciamo cosa che risulta evidente dalla lettura dei documenti diplomatici, o adempiamo un dovere di stretta giustizia. Fin dal principio della controversia il Governo piemontese ed i suoi rappresentanti hanno adoperato in guisa da riscuotere il plauso di tutti gli uomini imparziali: moderazione e fermezza, costanza nel propugnare ii proprio diritto, schietto desiderio di onorevole conciliazione. Queste sono stato le armi leali ed oneste con cui una giusta causa è stata strenuamente difesa. Finché la questione non era venuta in chiaro, finché certi particolari non furono accertati, il Governo piemontese tacque, aspettò, usò una longanimità veramente esemplare: una nave con bandiera sarda era stata sorpresa nel viaggio da individui che meditavano uno sbarco nel regno di Napoli; il Governo piemontese, che fin dal principio aveva altamente ed esplicitamente biasimato quel tentativo, diede al Governo napolitano tutto l'agio immaginabile, tutto il tempo, e al di là che pareva essergli necessario per far la cerna tra i colpevoli e coloro che erano stati vittima della violenza.

Il solo passo che il Governo piemontese faceva era a favore dell’umanità: esso chiese al Governo partenopeo di trattare i sudditi sardi prigionieri con i riguardi dovuti a creature umane.


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In qual guisa questa ragionevole ed onesta domanda venisse accolta tutti sanno, e tutti sanno pure con quanta inaspettata arrendevolezza il commendatore Carafa si rassegnasse a ritirare, vale a dire a ritrattare la insolente nota che avea scritto in risposta a quelle semplici domande. Del Cagliari non fu motto, se non quando il tribunale delle prede di Napoli lo dichiarò di buona presa, e dai documenti forniti dallo stesso Governo di Napoli e dalle deposizioni del capitano di uno dei battelli a vapore della marineria militare partenopea, da cui fu operata la cattura del Cagliari, fu dimostrato, che il Cagliari venne catturato in alto mare, vale a dire di là dal limite che le regole del diritto delle genti fissano alta giurisdizione territoriale di ogni Stato bagnato dal mare. Una cattura operata in cosiffatta condizione di cose è legale, oppur no? ecco la quistione. Il Governo piemontese consultò il comitato del contenzioso diplomatico recentemente istituito e presieduto da quell'illustre e valente giureconsulto che è il conte Federigo Sclopis: la risposta fu che la cattura fosse illegale, ed una dotta memoria corroborava quest'assunto. Confortato da questo parere, il conte di Cavour scriveva al conte di Gropello il dispaccio in data del 16 gennaio 1858, a cui il commendatore Carafa rispondeva negativamente col suo dispaccio indirizzato in data del 30 dello stesso mese al commendatore Canofari incaricato di affari delle Due-Sicilie presso la corte di Torino. Il conte di Cavour replicò insistendo nella domanda di restituzione con la nota del 18 marzo, ed il commendatore Carafa replicava alla sua volta in data del lo aprile perseverando net rifiuto, allegando le autorità di Grozio e di Puffendorflo, e dichiarando di affidarsi alla giustizia della sua causa ed alla saviezza dell’Europa. Lo stesso Governo che ha docilmente obbedito agli ordini dell'Inghilterra, trasmessi dal signor Lyons, e che, come giustamente rifletteva il deputato Tecchio, ha ceduto alla pressione forestiera liberando, a malgrado delle leggi vigenti, due imputati sottoposti a giudizio (i due macchinisti inglesi Park e Watt), lo stesso Governo nega reiteratamente di far giustizia alla domanda del Governo piemontese. La questione tra i due Governi trovasi attualmente in questi termini.

Ma qual è su questo argomento il parere degli altri Governi di Europa, e segnatamente di quelli che speciali vincoli di amicizia stringono al piemontese? il contegno del Governo inglese in questa emergenza ha dato occasione ad alcuni incidenti, che noi brevemente riferiremo. Chiedendo la liberazione di Park e di Watt il Governo britannico era certamente persuaso che il loro arresto fosse illegale: chiedendo, appena ottenuta la liberazione, una indennità per danni ed interessi, ha dimostrato sempre più di star fermo in questa persuasione, e di non averla abbandonata grazie alla docilità più o meno spontanea dei rettori partenopei: ma se l'arresto dei due macchinisti fu illegale, potrà definirsi per legale la cagione da cui l'arresto fu prodotto? O la conseguenza è giusta e non può derivare da una premessa ingiusta: oppure la premessa è erronea, ed allora anche la conseguenza è giuocoforza sia del pari erronea: da questo dilemma non sì scappa. FI giorno 29 dicembre 1857 il conte di Clarendon, allora ministro degli affari esteri, scriveva a sir James Hudson, inviato britannico in Torino, di chiedere al Governo piemontese se questo fosse disposto a muovere obbiezioue alla cattura del Cagliari:


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 e quindi annoverava tutto lo ragioni che lo persuadevano a non ammettere per conto proprio la legalità del procedere delle autorità napolitano. Il dispaccio del conte di Clarendon racchiudeva ad un tempo una domanda e l'opinione ben chiara e ben definita del Governo inglese. Addì 5 gennaio 1858 sir James Hudson scrisse al conte di Cavour una nota in conformità delle istruzioni ricevuto da lord Clarendon: ma nel copiare la minuta del dispaccio il signor Erskine, segretario delta legazione, per inavvertenza, tanto più inconcepibile, quanto più sono noto la esattezza e la precisione che il signor Erskine arreca in tutte le suo cose, mutò la domanda in affermazione; dimodochè il Governo piemontese ebbe a credere che il Governo inglese era d'avviso che si dovesse muovere obbiezione al procedere delle autorità napolitane. Di questo sbaglio si è molto favellato nei giornali e nei recinti parlamentari: e coloro che vogliono ad ogni patto concedere ai diplomatici il dono della infallibilità, hanno fatto il presupposto che tinta questa faccenda sia stata una gherminella del Governo inglese per esimersi all'adempimento degli obblighi contratti verso il piemontese. Noi non ci soffermeremo ad esaminare la ragionevolezza di questo presupposto; ci basti dichiarare che a noi pare esso sia intrinsecamente assurdo ed insussistente: ed i più increduli se ne debbono persuadere, gettando lo sguardo sul facsimile della minuta del dispaccio comunicato dai ministri della Regina alle due Camere del Parlamento inglese. Ma è pure indubitato che lo sbaglio inavvertentemente commesso dal signor Erskiue corrisponde in realtà alla sola interpretazione logica possibile che il dispaccio del conte di Clarendon può ricevere: con quale scopo difatti il nobile lord, dopo avere prescritto al rappresentante del Governo inglese a Torino di far quella domanda al conte di Cavour, avrebbe poi soggiunto il suo parere in modo così esplicito, e tino a dire che l'argomento allegato dal Governo di Napoli sul ritorno probabile del Cagliari a Ponza è uno scherno? Lord Clarendon evidentemente intendeva oppugnare l'assunto del Governo napolitano, e l'errore del signor Erskine fu pretto errore di forma, il quale non intaccava né punto né poco la sostanza della cosa. Al successore di lord Clarendon invoco è sembrato che lo sbaglio abbia una importanza sostanziale, ed ha stimato necessario dover consultare nuovamente gli avvocati della Corona. Il parere degli esimii giureconsulti è stato unanime nel dichiarare illegale l'arresto dei due macchinisti: intorno alla questione della legalità ovvero della illegalità della cattura del battello, due hanno opinato per la legalità ed uno —il più autorevole tra essi, sir Fitzroy-Kelly, deputato alla Camera dei Comuni ed attorney-general nell'attuale amministrazione — ha parteggiato recisamente per la sentenza contraria. Il Governo inglese, conformandosi a questo parere, ha chiesto l'indennità per i due macchinisti, ed ha offerto i suoi buoni uffici al Governo piemontese perché il Cagliari abbia ad essere restituito e l'equipaggio liberato: poiché, giova osservarlo, ammettendo per buona e legale la cattura del Cagliari, si riconosce pure che il Governo napolitano non ha diritto di confiscarlo e debba restituirlo. Il Governo francese è dello stesso avviso: e tutte le potenze fanno attualmente uffizii in questo senso presso la Corte delle Due-Sicilie.

In qual guisa si voglia conciliare l'assunto della legalità della cattura del Cagliari con quello della illegalità della confisca non sappiamo: se per legalità della cattura si vuole intendere il diritto che avevano le navi da guerra napolitano


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 di fermare il Cagliari, di visitarlo ed anche di condurlo a Napoli per ottenere gli schiarimenti che facevano d'uopo, non c'è che dire: ma se le parole legalità della cattura sono interpretate nel loro senso più ampio, con qual mezzo logico si definisce poi illegale una detenzione che è conseguenza immediata e legittima di un fatto che si dichiara essere legale? Il solo fatto della domanda d'indennità per i macchinisti Park e Watt — domanda che il signor Lyons ha già comunicata al Governo di Napoli, e che ha fatto venire i brividi al commendatore Carafa — sembra ornai più che sufficiente a stabilire fra l'Inghilterra ed il Piemonte quella comunanza di principii e di opinioni che nella pratica dovrebbe sortir per effetto la comunanza e la solidarietà dell’azione. Né crediamo che l'opinione pubblica in Inghilterra giudichi le coso altrimenti: e di ciò porge documento irrefragabile la mozione del signor Kinglako, deputato di Bridgewater, che dev'essere discussa nella tornata della Camera dei Comuni il martedì 4 maggio prossimo, e che da Ioni John Russell è stato detto implicare l'onoro o la dignità della nazione inglese. Ecco qual è fino ad oggi lo stato della vertenza del Cagliari: qualunque sia per esserne lo scioglimento, nessuno potrà contendere al Governo piemontese il giusto vanto di avere provveduto alla propria dignità, e di essere stato il campione dei diritti e della sicurezza degli Stati marittimi del mondo civile. Il contrapposto fra il Governo napolitano ed il piemontese non potrebbe essere più evidente: il primo si atteggia dapprima all'eroica, e poi quando vede che l'Inghilterra gli manda a chiedere la liberazione di Park e di Watt per mezzo del figlio del vice-ammiraglio Lyons, ordina quella liberazione senza darsi nessun fastidio di ciò che possano dire o fare quei medesimi magistrati di cui esso tanto decanta la indipendenza e la integrità: il secondo chiede che i diritti degli Stati marittimi vengano osservati o non siano oltraggiati quelli dell'umanità: il Governo piemontese, persuaso della giustizia della propria causa, non cangia parere col mutare delle occasioni: d Governo napolitano dice e disdice nel giro di pochi giorni, e nel medesimo volger di tempo concede al più forte ciò che nega a chi stima essere più debole. Vuoisi del restò sapere in qual conto quet Governo tenga la vita degli uomini e la osservanza della giustizia? Nei pubblici dibattimenti del processo che si agita dinanzi alla Gran Corte criminale di Salerno parecchi imputati hanno dichiarato che da nove mesi non avevano facoltà di mutar camicia: né il procurator generale, né alcuno dei giudici ha contraddetto questa asserzione! Un altro imputato si doleva di essere molestato da pidocchi; il presidente della Corto, signor Dalia, gli rispondeva con rara ingenuità: quando io ero in collegio dai Gesuiti mi succedeva lo stesso!

Che più? il Park, reduce in Inghilterra, ha pubblicato un rendiconto della sua cattura e della sua cattività, e narra fra le altre cose che quando egli ebbe dichiarato come fosse stato costretto a cedere alla violenza, gli fu domandato: perché non faceste saltar la macchina? Questo è il Governo che dichiara confidare nella giustizia della sua causa e nella saviezza dell'Europa!

In cosifatte gravi congiunture il Governo piemontese non dimenticava l'adempimento dei doveri che ha assunti partecipando alla guerra d'Oriente ed ai negoziati che vi posero fine.



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È noto il suo parere sulla questione dell'ordinamento dei Principati Danubiani: ora i lavori della commissione europea Sodo terminati, ed il cav. Raffaele Bensi, al pari di tutti gli altri suoi colleghi, è tornato in patria, lasciando molto desiderio di so presso le popolazioni moldovalacche, e ricevendo da esse alla sua partenza gli attestati più cordiali della riconoscenza e dell'affetto che nutrono verso il Re ed il Governo che il cav. Bensi degnamente rappresentava. Il Congresso deciderà tra poco delle sorti della Moldavia e della Valachia: e se l'unione politica non sarà attuata, se il regno rumano non sarà formato, ciò non avverrà per fermo per colpa del Piemonte. La questione della libertà di navigazione danubiana fornirà puro argomento alle deliberazioni del Congresso: l'atto conchiuso a Vienna a dì 7 novembre 1857 fra l'Austria, la Turchia, il Wirtemberga, la Baviera, la Moldavia, la Valachia e la Servia, e te cui ratifiche sono già stata scambiate, è desso valido, oppure no? si riscontra forse con lo spirito e con la lettera dei trattati di Vienna e di Parigi? il suo risultamento non sarebbe forse quello di assicurare all'Austria il privilegio esclusivo, il monopolio della navigazione di un fiume, che il Congresso dichiarò abbia ad essere libera per tutti gli Stati? A questa domanda già rispondeva il Governo prussiano impugnando la validità dell'atto del 7 novembre 1857, ed ha risposto non è guari il Governo piemontese con un memorandum saviamente pensato ed abilmente scritto, nel quale col sussidio dei trattati e con argomenti vittoriosi è dimostrato che per quanto concerne la forma, l'atto di Vienna, a malgrado delle ratifiche scambiate, non può essere tenuto per valido finché il Congresso non lo abbia esaminato, o che per quanto concerne la sostanza, quell'atto non può essere accettato dal Congresso, perché in realtà esso renderebbe illusoria la libertà, e contraddirebbe in modo fragrante alle massime ed ai principii che il Congresso ebbe in animo di sanzionare. Il memorandum piemontese è stato accolto con molto plauso dai principali governi di Europa, ed i principii in esso propugnati non hanno incontrata contraddizione. In questa occasione, come in tante altre, l'Europa ha avuto nuovo motivo di lodarsi di aver chiamato nei suoi consigli uno Stato così sollecito di difenderne i diritti, e di promuove l'osservanza dei trattati.

Lo spazio ci manca per discorrere di altre cose, che pure meritano riscuotere attenzione: le accenneremo di volo. La sentenza assolutoria pronunciata dal giurì di Londra a favore del francese Bernard, accusato di complicità con gli autori dell'attentato del 14 gennaio, fece gran senso, e destò il timore che l'alleanza tra la Francia e l'Inghilterra avesse a patirne scossa. Questo timore per buona ventura, i fatti lo hanno dimostrato, era infondato: l'alleanza invece va divenendo più salda, e le accoglienze ricevute a Douvres ed a Londra dal nuovo ambasciatore francese ne sono il consolante indizio.

I modi franchi e leali del duca di Malakoff, la stessa bizzarria della sua indole, vanno molto a sangue agl'Inglesi, e il maresciallo fa proprio furore a Londra. La nazione inglese si tiene grandemente onorata di avere a rappresentante di Francia il vincitore di Sebastopoli, e questi ha piena coscienza dei suoi doveri e della importanza del suo mandato, ed è risoluto a fare quanto è in poter suo, perché dalla sua missione l'alleanza abbia a sortire più forte e più stretta che mai.


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Né con mutare di ministri in Inghilterra questa condizione di cose potrà mutare, poiché lord Palmerston e lord Derby, lord Aberdeen e lord John Russell, dissenzienti su molte cose, concordano nel considerare l'alleanza anglo-francese, come reciproca necessità per i due Governi e per le due nazioni.

L'amministrazione del conte di Derby è sempre in condizioni assai precarie, e la discussione sull'ordinamento del governo nel vasto impero anglo-indiano pende minacciosa sul suo capo. Il ministero Derby vivrà finché piacerà ai suoi avversarii: quando costoro stimeranno giunto il momento, si collegheranno, ed allora i ministri attuali dovranno cedere il loro posto. Una risoluzione definitiva sull'ordinamento del governo anglo-indiano è tanto più necessaria ora che la ribellione volge al fine (Lucknow essendo caduta intieramente, addi 19 marzo, nello mani degli Inglesi), ed è mestieri provvedere efficacemente ai mezzi di prevenirne il rinnovamento.

L'amministrazione liberale nel mese scorso composta in Olanda dal signor Van Rochussen si è accattivato prontamente il pubblico favore, ed i collegi elettorali di Amsterdam, di Utrecht e di altre località de’  Paesi Bassi hanno scelto rappresentanti che daranno appoggio a quell'amministrazione. Uno dei più eloquenti oratori liberali della seconda Camera degli Stati generali, l'ex-ministro Thorbecke, ha già dichiarata la sua adesione al ministero. In Ispagna il Parlamento disserta se si debbano innalzar statue agli uomini illustri. In Portogallo stanno per esser fatte nuove elezioni generali.

Ed eccoci ora giunti alla parto dolorosa del nostro compito, a quella delle funebri commemorazioni! dolorosissima questa volta più che mai, perché ci tocca ricordare la morte di un amico carissimo, cui pochi mesi or sono stringevamo affettuosamente la mano... e doveva esser l'ultima volta! Nei primi giorni di questo mese il conte Pietro Ferretti di Ancona spirava in Firenze dopo brevissima ed irrimediabile infermità. Egli era uno di quei privilegiati uomini, di cui è facile e ragionevol cosa desiderare ve ne sia gran numero, ma che non occorre incontrare se non di rado assai. Che eletta intelligenza, che nobile cuore, che sicuro criterio! Ebbe ingerenze frequenti e non lievi noi principali eventi dell'Italia, e furono sempre oneste, sempre disinteressate, sempre inutili o dannose a lui, sempre utili alla patria: la vita di quell'ottimo galantuomo fu un continuo consorzio col buono, col giusto, con l'onesto; egli operava il bene senza badare al frutto che ue poteva raccogliere, ed in tutte le occasioni il frutto non fu mai a di lui personate vantaggio: fu anzi l'opposto, poiché ricompensa ai servizi resi alla patria gli furono la persecuzione, l'esilio, la povertà. Non v'era nessuno elio potesse gareggiare con lui nella cognizione profonda e minuta dell'indole italiana: le virtù e le miserie, i vizii ed i pregi dell'Italia in generale, e dello diverse provincie che la compongono in particolare, gli erano note pienamente:

e diceva schietto il suo pensiero, poiché non era tra quelli che scambiano il patriottismo con l'adulazione, e si credono di aver raggiunto l'apice del liberalismo quando hanno detto che gli Italiani sono immuni da pecche e non hanno nessuna colpa de’ mali che li travagliano.


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Pietro Ferretti era un libro vivente, dove si leggevano a chiari e veri caratteri i dolori e lo colpe, i lutti ed i torti di questa infelice Italia: aveva vissuto a Roma, a Napoli, a Firenze, e sapeva dirvi per filo e per segno quali ne fossero le vere condizioni, quali le origini de’  mali, quali sarebbero potuti essere i rimedii ragionevoli, opportuni, efficaci.

E tanta esperienza di cose e di uomini, tanti disinganni non avevano inaridito il suo cuore, non avevano turbata la serenità invitta dell'animo: non era di lui uomo di più ameno conversare, di più gioconda parola, né più squisito, né più piacevole narratore di fatti e di aneddoti. Implicato in tanti negozii, depositario di tanti segreti, pars magna di tanti avvenimenti, Pietro Ferretti non partecipava in nessun modo a quel brutto vezzo tanto frequente ai giorni nostri, che spinge tanti a far di se medesimi il centro dell'Italia, quando pure sono modesti al segno da non farsi centro del mondo, ed a mutare la storia della patria in una digressione della loro biografia; quando narrava un avvenimento era pure d'uopo rivolgergli incalzanti e reiterate domande per risolverlo a pronunciare il proprio nome: in quel gran galantuomo non era neppur t'ombra della vanità, non il menomo indizio di quella malattia, che cosi giustamente Massimo d'Azeglio addimandava dall’Io pertinace. Poche individualità erano cosi belle, così splendide, così originali, come quella di Pietro Ferretti: pochi uomini ebbero al pari di lui tanta sagacia nei pubblici negozii: eppure poche individualità erano modeste come la sua, pochi uomini erano al pari di lui tanto alieni dal parlare di se medesimo.

Pietro Ferretti conobbe poche gioie, e tutte le miserie della vita: costretto ad esulare da Ancona nel 1831, visse vita di stenti e di privazioni in terre straniere: ma né gli stenti, né le privazioni ebbero facoltà di piegarlo ad atti meno che decorosi: modesto e mansueto in tutto, egli diveniva fiero e superbo, quando si trattava della propria dignità: egli era onestissimo, e dell'onestà possedeva tutta la verecondia e tutta l'alterigia. Caritatevole e generoso nella prospera fortuna verso gli altri, non ebbe nell’avversa fortuna ricorso ad altro aiuto se non a quello del proprio lavoro.

In Pietro Ferretti la rettitudine della mente, che è l'onestà dell'intelletto, mirabilmente si congiungeva con la virtù del cuore: onde quella sicurezza di criterio, quel penetrante e fino accorgimento politico, che lo tenevano alieno da' precipitati giudizii e dalle arrischiate congetture. Avvezzo a porre a calcolo i fatti, non li scambiò mai co’  proprii desiderii, nella pratica della vita politica non tolse a scorta le sue speranze, ma l'attenta considerazione della realtà: non ebbe puerili impazienze, non codarda rassegnazione: cercò il bene ne' limiti del possibile, non cessando giammai dal vagheggiare il bene assoluto: perciò il suo consiglio era maturo e preciso, e chi lo ricercò ebbe sempre a lodarsene ed a vantaggiarsene.

In tutte le vicende della travagliata sua esistenza fu sempre pari a se medesimo: né per imperversare di contrarii avvenimenti, né per errori e per ingiustizia di fortuna e di uomini smarrì quell'equilibrio della mente, che è tanto necessario per non esser vinti dalle illusioni e per non essere sgomentati dalla disperazione. Galantuomo nella vita privata, galantuomo in politica, Pietro Ferretti era il tipo di quella vera sapienza politica italiana, di cui pur troppo sono tanto scarsi gli esempi.


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Nel 1847 fu chiamato da Pio IX a confortarlo dei suoi consigli; ei si recò a Roma volonteroso, e, con sagrifizio della sua pace e de’  suoi interessi, vi soggiornò alcuni mesi. Non poche volte giovò a conservare la concordia allora felicemente stabilita tra il popolo romano ed il Pontefice: sventò molte insidie: mandò a vuoto molti intrighi.

Finché fu ascoltato le cose volgevano a bene: ma non durò fatica l'accorto uomo ad avvedersi che l'opera sua sarebbe tornata vana, e quindi si affretto a tornare in Napoli, dove attendeva a negozii di commercio. Si volle ad ogni patto farlo ministro di finanze in quel reame nel mese di aprile 1848: gli fu mestieri accettare, e fece quanto era in poter suo per ammannir danaro per la spedizione napolitana contro gli Austriaci: né ci voleva poco, perché, oltre alle difficoltà finanziarie, aveva a combattere tutt'i giorni difficoltà di ogni genere che gli venivano suscitate con lusso di pretesti da chi non voleva a nessun patto partecipare all'impresa della indipendenza italiana. Durò in carica pochi giorni, e poi venne scelto dagli elettori di Napoli a deputato a quel Parlamento nazionale, in cui tenne seggio onorato. I suoi colleghi lo amavano qual fratello, lo consultavano con premura e con riverenza. Nel 1849 seppe essere minacciato di prigione: gli si voleva far scontare il vecchio peccato di essere un italiano sviscerato, ed un amico della libertà ragionevole ed onesta. Cercò ed ottenne ricovero in casa di un eccellente uomo, che oggi pure non è più, e che in quelle lugubri congiunture fu la Provvidenza salvatrice di tanti Napolitani. Pietro Ferretti s'ebbe — e ne sia lode al Governo toscano — tranquillo e sicuro asilo in Firenze, dove uomini in carica e i più illustri Toscani si recavano spesso a visitarlo, e lo onoravano con ogni maniera di affettuose dimostrazioni. L'ottimo uomo era il giudice di pace del quartiere dove abitava: quando tra quei popolani sorgeva qualche dissidio, qualche lite, invece di andare dal giudice andavano da lui, e del suo giudicio partivano sempre contenti. Anche questo particolare è caratteristico dalla sua indole benevola; e porge fede di quell'ardore di generosità indefessa che Io contrassegnava.

Pietro Ferretti non è più!... ecco dunque un altro nome da aggiungere a quella falange sacra e gloriosa, in cui sono Pellegrino Rossi, Giovanni Berchet, Giuseppe Giusti, Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Gaetano Recchi, Giacinto Collegno, Giuseppe Siccardi, e molti altri che in questi ultimi dieci anni la morte ha rapito al nostro affetto ed alla nostra ammirazione. Ad uno ad uno ci abbandonano.... Anime elette, ricordatevi degli amici vostri superstiti, ed impetrate dal Cielo ch'essi abbian sempre la forza di serbare scolpiti nell'animo i vostri esempi, e di saperli praticare.

Torino, 30 aprite 1858.

Giuseppe Massari.


GENNAIO 2010 - Pubblicazioni - Articoli - Documenti








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