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Tratto da:
Usi e costumi
di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard

1866

(Pag. 39-42)
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Abbiamo fatto una selezione dall'opera di De Bourcard, fra cui ve ne segnaliamo due in particolari, “Il pizzaiolo” e “La Camorra”. Non meno interessante comunque anche “Lo spazzaturaio”.

Tra le pagine dei testi si nosta il respiro di quella che viene chiamata da uno degli estensori degli scritti la “decapitalizzata Napoli”.

Una città prima splendida, certamente con problemi comuni alle varie metropoli europee (non ci vorranno dare a intendere che la Londra e la Parigi ottocentesche fossero una oasi di benessere per tutti gli abitanti, che non vi fossero miseria e degrado!), ma che con l'unità era stata declassata a provincia del reame.

Zenone di Elea – 22 gennaio 2010


LA CAPÈRA


Portiamo opinione che pressoché tutt'i nostri leggitori non nati in Napoli non intenderanno il significato di questa parola, che cercheranno invano nella Crusca. Pel converso, non vi ha napolitano di qualsivoglia ceto che non sappia che cosa, o, per dir meglio, che donna è una capèra.

Dovendo fare la fisiologia o la storia naturale di questa importante specialità delle nostre popolane, è mestieri che tocchiamo un poco dell'origine sua, la cui data non é gran fatto da noi distante.

Una ventinella d'anni fa, quando le signore portavano le torri in testa, come gli elefanti le portano in groppa, aveano ciascheduna un parrucchiere stipendiato che ogni dì, dalle 10 antimeridiane all'una pomeridiana, era occupato a rialzare il peloso edificio sul capo della dama, la quale, senza questa importante operazione, non potea decentemente mostrarsi. Però siffatta costumanza addimandava una certa agiatezza; giacché ei bisognava tenere a stipendio un professor capillare e compensarlo in ragion del tempo che ogni dì spendeva nello aggiustamento del capo di madama.


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Questa pratica avea eziandio non pochi inconvenienti, tra cui quello precipuissimo che fé nascere nel capo di Beaumarchais il grazioso concetto della commedia, la quale ebbe di poi tanta celebrità, intitolata Il Barbiere di Siviglia. In fatti, i Figari hanno fatto sempre paura a' padri, a' tutori, agli zii ed a' mariti; imperocché i galanti non sapeano trovare un canale più comodo per fare scorrere nelle mani delle loro belle quei vigliettuzzi profumati, a cui le damine avean sempre le risposte belle ed apparecchiate, in modo da far esclamare all'attonito Mercurio:

Veh che bestia! Veh che bestia!

Il maestro io faccio a lei!

Donne, donne, eterni dei!

Chi vi giunge a indovinar!

Il Barbiere di Siviglia, renduto popolarissimo ed immortale dalle note del sommo Pesarese, fece aprir gli occhi agli arghi delle Rosine d'ogni sorta; onde, pigliarono subitamente il partito di allontanare gli arditi contrabbandieri di amorosi messaggi, che, sotto il pretesto di alzare il parrucchino sulle teste delle pupille, spesso l'alzavano a' tutori. La generazione dunque de’ Figari fu messa al bando d'ogni casa dov'era qualche fanciulla da marito.

Intanto, le teste delle donne venivano, a gran discapito del buon senso, neglette e abbandonate al loro naturale disordine.

Appo il ceto più ricco, le cameriere supplivano, come anche oggidì, all'oficio de’ Figari; ma tra le classi meno agiate, dove l'impiego di cameriera è cumulato dalla così detta vajassa o serva, non conveniva affidare la importante operazione del capo alle mani lerce e succide di queste ancelle in sandali.

Surse la capèra a sciogliere l'arduo problema. Le cautele richieste dagli arghi si combinavano questa volta coll’economia domestica. La capèra divenne la padrona assoluta delle femminee teste de’ ceti medio e popolare.

La capèra è dunque una creazione recente nella storia de’ costumi napolitani; ma se non vanta antica origine, essa può andar superba della nobil conquista fatta sul territorio de’ mestieri maschili.



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Per ordinare il capo d'una donna, a noi pare che una donna è meglio atta; giacché i misteri delle teste donnesche non li posson comprendere che le donne. D'altra parte, la testa non ha forse il suo pudore?

La Capèra è una giovinetta popolana, per lo più nubile e aggraziata, giacché la giovinezza e la beltà sono pregiudizi a favore del gusto. E una capèra senza gusto è come un dipintore senza genio, un poeta senza estro, un romanziero senza immaginazione.

La Capèra si chiama ordinariamente Luisella, Giovannina, Carmela; ella veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debbe essere una specie di mostra, di campione, di modello non pur per le donne popolane, bensì per quelle di civil condizione.

Comechè in sulle prime ella non acconciasse il capo che alle donne del volgo, pure a poco a poco ella si alzò, e da' bassi o case a terreno salì fino a calpestare i mattoni incerati; fino alle teste aristocratiche.

La mercede che riceve la Capèra varia a seconda della qualità e condizione delle sue clienti, per modo che, da tre carlini mensuali, cioè un grano al giorno (vedi a che meschino prezzo si accomoda una testa ogni giorno!) ella riceve lino a trenta carlini o tre piastre al mese.

Già qualche Capèra si vede correr per le vie della capitale in cappelletto, guanti e ombrellino. Non andrà guari, e la vedremo in caprio o in tilburg. Tutto dipende da un genio nell'arte che, se sorgerà, innalzerà la classe a' più eminenti fastigi.

Egli è ben facile riconoscere la Capèra tra un crocchio di giovani donne. Eccola, è la più alta, la più svelta, la più elegante; il suo capo è il meglio acconciato, la sua veste la meglio formata, i suoi piedi i meglio calzati, perocchè ella non porta in tutte le stagioni che gentili stivaletti al pari di bennata damina. Colle mani a' fianchi, col piede sinistro sporto innanzi, colla testolina lievemente inchinata di lato, ella sembra una bajadera in atto di danzar la Cachuca. Ella parla sempre, sa i fatti di tutti, ed in ispezialità in materie amorose; è l'oracolo delle sue vicine. La Capèra è l'amica più confidente delle donne che hanno varcato i


1 Vedi la figura.


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Trent'anni, ed il motivo è chiarissimo. A questa età cominciano ad insinuarsi nelle chiome i candidi annunzi dell'autunno della vita. Ogni anno che la signora o la signorina fa sparire dal suo atto di nascita si vendica con una bianca vendetta nelle trecce dell'ingrata. E diciamo ingrata, dappoichè è una vera ingratitudine il vergognarsi di quegli anni cui tanto si desidera arrivare. Ma l'uomo e più la donna è un ammasso di stranezze e di contraddizioni. Si teme di morire, e in pari tempo si teme di esser vecchio; si vuol viver lungo tempo e non si vorrebbe giugnere alla vecchiezza.

La Capèra è dunque indispensabilmente a parte degli alti segreti delle sue clienti da trent'anni in su. Il suo genio consiste appunto nel saper nascondere i difetti che l'età adduce sulle loro teste. Qui è un gruppetto di fili d'argento che si ha da far sparire o da rendere fili di ebano; là è un trucioletto ribelle; qui è un'isoletta di quelle che si osservano nell'Arcipelago di Calvizie; più oltre, è una sfoltezza che ricorda le campagne nel mese di Gennaio. La Capèra provvede a tutto, accomoda tutto; qua impinza, là toglie, su imbruna, giù allustra, là gonfia, qua sgonfia; e le sue mani fan prodigio;. e dieci o quindici anni spariscono sotto le sue dita con una invidiabile felicità.

FRANCESCO MASTRIANI


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 39-42)






PULCINELLA


E LA MASCHERA NAPOLITANA



PULCINELLA! Questo argomento per uno scrittore sembra il più volgare che possa immaginarsi. Il rappresentante comico della goffaggine e della ridicola semplicità non può divenire per opera della critica e della storia un personaggio neppur di lieve importanza. Così dicono i pensatori improvvisi.

Ma io ho molte ragioni da provare che questo volgar Pulcinella è un essere pel quale la razza umana strappò qualche spina al sentiero della vita, e pel quale la verità fu detta sotto la forma del ridicolo. Qualcuno che mi sta alle coste, mentre io scrivo, e sa com'io la pensi, si proverebbe a rendermi anche più temerario — Non solo, egli mi sussurra, io rappresenterei Pulcinella sotto la forma di un mito, non solo sotto l’aspetto di una caricatura fatta a taluni uomini per emendarli, ma oserei dire di Pulcinella, ch'egli fu uno de’ benefattori della società.

Io  non vado tant'oltre e mi fermo. L’amico o il consigliero continuerà l'articolo, se a lui piace.

Parecchi scrittori tanto italiani quanto stranieri non ebbero a sdegno di toccar dell'indole e dell'origine di questo personaggio, al quale è dovuta la maschera napolitana.

1 Vedi la figura.


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Di lui scrissero il Maffei, il Ferrano, il Signorelli, senza dire degli enciclopedisti e degli storiografi della commedia. Scrissero di lui, sebben brevemente Inglesi ed Alemanni, e da ultimo Alessandro Dumas ne' suoi viaggi, ed il bibliofilo Jacob che gli consacrò intero un articolo della sua penna.

Non sarò io dunque reputato uomo dappoco o balzano di mente, se intingo la penna in questo inchiostro. Pulcinella, detto da molti commediografi Pulcinella Cetrulo ha due origini, e come Ercole al bivio lo scrittore trovasi esitante e confuso nello scegliere la sua via. Una origine è antica, l'altra è moderna, e pecca davvero di esser troppo moderna. Tutti sanno che dall'accozzaglia di un nome e di un cognome venne formato l'insieme di Pulcinella. Tutti sanno che un cotal Paolo Cinelli per vaghezza di baloccare, dicesi, andasse ballando e facendo cavriuole innanzi allo esercito francese che entrava in Napoli, e che i Francesi chiamandolo in lor favella Paul Chinelli e quindi Polichinelle dessero origine alla creazione del nome di Pulcinella.

Ma io pianto di botto la mia opposizione a questa origine, la quale potrà piacere come emana/ione di spirito francese, ma non potrà venir tollerata né accettata dallo spirito italiano. Eccone le ragioni. Il nome di Paolo non è punto napolitano, così non ha cadenza napolitana il cognome Cinelli, a meno che non voglia cangiarsi questo Cinelli in Cimelio o Ciciniello. 2. Il personaggio di Pulcinella ha data più antica del citato ingresso in Napoli dell'esercito francese.3. L'indole del Pulcinella è di uomo e cittadino ligio fino alla superstizione alle assuetudini del suo paese nativo, e di uomo tenace a' propri costumi, amante de’ suoi, dileggiatore di ogni uso straniero, e schernitore caustico oltremodo e pungente. Nulla di più schernevole pel nostro Pulcinella che il lindo ed attillato seguace di mode e il Monzù (Monsieur).

Il Pulcinella napolitano, volgare e timido ch'ei fosse, non ha mai ballato innanzi agli eserciti francesi. L'è una storiella ingegnosa, ma non plausibile.

Sappiamo d'altra parte che la maschera è di antica data. Senza ricordar Venezia che se ne avvaleva nelle vie e ne' teatri, in politica ed in pace, tra cittadini e tra esecutori del Consiglio, basta portarsi con la studiosa mente sino a' Greci ed a' Romani per trovarne l'uso assai sparso.


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La creazione della maschera è la più naturale delle invenzioni. L’uomo tende molte fiate a nascondersi, poiché la sincerità non Fu sempre in lui. Dove è simulazione o colpa, è rossore. Non furono le foglie, la maschera del nostro primo padre?

Gli uomini surrogarono un tempo alle larve il lembo delle vesti e le mani addossate sul volto, e questa fu una maschera spontanea ed improvvisa; poi veduto il bisogno, surse quasi una moda di fingere e di saper fingere; nacque lo spettacolo pel quale la finzione diventa diletto e la maschera prese a covrire i volti, non più chiari ed ingenui, della viziosa umanità. Ebbero teatri Roma e Grecia, ma quel ch'è più, ne ebbero il Perù, la Cina, le Indie, e tutti i teatri cercarono nelle loro rappresentazioni un eroe o protagonista. I Greci incensarono personaggi mitologici, i Romani seguirono i Greci, gl'Indiani tolsero ad eroe delle loro rappresentazioni un nume o un semideo. I Cinesi prescelsero un mandarino, un ricco mercante etc. Gli Ebrei non ebbero né spettacoli né maschere, perché trovarono delitto queste allusioni innanzi al principio della loro fede.

L'eroe della commedia napolitana è il Pulcinella, e che questo eroe sia antico lo dimostrerò prima con appoggiarmi al sapiente e dotto ricercatore archeologo Filippo De Jorio, l'altro col rivedere le pitture Ercolanensi e Pompeiane.

Filippo canonico De Jorio scrisse un'opera intitolata La Mimica degli antichi paragonata al moderno gestire napolitano.

Per raggiungere il suo scopo il paziente archeologo si parti dalla osservazione delle antiche figuline, vasi, bassorilievi, lavori in plastica, purché offrissero figure in movenza ed atteggiate secondo lo spirito dell’azione, furon bastevole documento per mostrare che il gesticolare e il muoversi soperchio de’ Napolitani sono abito espresso anche ab antico, e sì facendo il De Jorio assegnò il suo gesto al dolore, all'ira, alla gioia. Il dotto ricercatore si piacque fino di trovar relazioni col gestire antico nel muover delle dita, sicché gli stessi atteggiamenti del Pulcinella, considerati sotto questa forma speculativa, divennero per esso abitudini di antichi personaggi. Al che accenna pure il Ferrano quando nel passare a rassegna le maschere italiane dice. «Non istaremo a ricercare se alcuni di questi personaggi sia il medesimo, quanto all'abito ed al carattere che già era ne' mimi degli antichi Greci e Romani».


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Certo è che antiche sono la maggior parte delle maschere italiane, e ciascuna di esse nacque dal voler porre in canzona e gittare lo scherno in qualche ridicola costumanza. Però veggiamo nelle commedie comparire i Dottori caricatura di medici o di cattedratici, i capitani Spaventa caricatura dei Rodomonti Spagnuoli, gli Arlecchini caricatura de’ ghiotti e de’ balordi, nobilitati poi dalla satira, gli Scopini emporio di furberie, ed altre maschere delle quali parla il Riccoboni nella storia del teatro italiano.

Da questi poi originali caratteri e maschere, ne vennero altri, come derivazione e suddivisione di una stessa materia. Meneghino introdotto dal Maggi, Scaramuccia dal napolitano Fiorilli, Coviello dal famigerato Salvator Rosa, e Pedrolino e Tabarrino e Fitoìicello, e il Tartaglia che appartenne a più teatri, essendo universa caricatura di un difetto naturale e non ispecialita di paese. Lo stesso Dottore introdotto dall'immortale Molière nelle sue commedie, fu invenzione di Lucio comico italiano che fioriva nella metà del cinquecento.

Ma più antico fra tutti è il nostro Pulcinella. Continuando I'analisi delle antiche scolture noi troviamo negli antichi scavi Ercolanesi e Pompeiani avanzi di colonne portanti in cima a guisa di capitello una testa a grandi orecchie a bocca aperta, e coronata talvolta di foglie, la quale dalla fronte al di sotto del naso è nera, bianca fino al mento. E questa specie di maschera hanno i presenti fabbricatori di creta adottata come vaso di fiori. Ecco dunque un volto a due tinte, una maschera infine. ma una maschera permanente. E questa è la maschera del Pulcinella. A giustificar la medesima è volgar tradizione che il cittadino dell'Acerra u\ quale si dà nome di Pulcinella, fosse un uomo che aveva in volto una macchia o voglia di donna incinta che ne mascherasse la superior parte delle sembianze.

Nel volume sullo stato della poesia in Italia è ricordato che nel museo del Marchese Alessandro Capponi era la statua di un istrione antico così mascherato, val quanto dire con un camiciotto mal assestato e assai goffo, con una sanna a ciascuno degli angoli della bocca, con gli occhi stralunati, col naso lungo prominente ed adunco, e più (come troviamo nel Pulcinella francese) colla gobba e nel petto e nel dorso e coi socchi ai piedi.

Né il carattere stesso del personaggio è dissomigliante da quello che a coloro davano gli antichi, cioè uomini stolidi, accomodati coll'abito, colle parole e col gesto a mover le risa.


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Col decader delle antiche usanze, questa maschera (a forma Pulcinellesca) andò a perdersi; ma il Fiorillo la restituì al teatro, dandogli il dialetto de’ Calabresi. Un sartore di nome Andrea Calcese detto il Ciuccio ritenne le spoglie Pulcinellesche, ma gli diè il linguaggio de’ villanzoni bernoccoluti della antica città di Acerra, ove tenevasi originato. Le quali indagini ci riportano sempre all'idea madre che il Pulcinella è l'antico buffone nella sua mellonaggine, piccante nelle sue gofferie, accozzamento strano ed originale di una natura semplice e beffarda.

Scherzando su tal subietto dice Carlo Nodier «Scompaiono le nazioni dalla faccia della terra, le sette spariscono nell'abisso del passato, e Pulcinella resta. Non vi è altri che Pulcinella il quale sia vero ed artista. Pulcinella è invulnerabile, e l'invulnerabilità degli eroi dell’Ariosto è meno comprovata della sua. Non so dirvi se il suo tallone sia restato nella mano di sua madre, e se ella lo tuffò come Achille. Quel che havvi di certo si è (se questi lodevoli studi allettano qualche gentiluomo) che Pulcinella, bastonato dai birri, aggredito dai bravi, impiccato dal boia, e portato via dagli spiriti ricomparisce infallibilmente un quarto d'ora dopo al più tardi, così vispo, così vivace e più garbato che mai. No, Pulcinella non è morto. Viva Pulcinella!»

Leggendo queste parole di un accreditato autore francese, egli è forza credere che anche in Francia abbia il Pulcinella potenti influenze.

Senza ricordare Tiberio Fiorilli che fu la gioia del Gran Luigi, basterà ricordare Michelangelo Fracanzano fratello de’ famosi e sventurati pittori napolitani Cesare e Francesco. Michelangiolo Fracanzano, viste chele arti belle dan sovente a chi le coltiva un duro compenso, stimò porgere altrui diletto per altra guisa, cioè rappresentando il Pulcinella. Piacque il buffone ai Francesi, e Luigi XIV lo invitò a far ridere la Francia. Ed egli, non certo dando pan per focaccia, portò il riso nella famiglia di un Re, quando un altro aveva portato il pianto nella sua famiglia. Morì lo stipendiato Pulcinella presso il 1685, e la famiglia dei celebrati pittori Fracanzano si spense in un pittore povero ed in un ricco istrione.

Questi assicurò le forme del Pulcinella, ed ancora oggidì si veggono le sue tele ove è dipinto Pulcinella a mezza figura col suo cappello a pan di zucchero e la spiegacciata camicia.


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Ma da quel tempo in poi molti furon quelli che vestirono le spoglie del semplice cittadino dell'Acerra, per richiamare il riso, anche tra le sciagure, sul volto dei poveri Napolitani.

Là dove oggi in via S. Bartolomeo vedesi un arcuato corridoio celebre per la bisca ove vendè la camicia S. Camillo de Lellis, era un teatro chi il tempo e le rivolture distrussero, e la cui celebrità è rimasa ancor viva, come di cosa recente.

Celebrità giusta, in quanto che su queste scene, dette di S. Bartololomeo, spiegarono i loro fasti que' musicisti che insegnarono l'armonia all'Italia ed oltre i monti. I quali usciti in buona parte dal piccolo conservatorio di S. Onofrio alla Vicaria, fondato intorno al 1500, ebbero la gloria di aver creato in uno stesso secolo Niccolò Jommelli, Niccolò Piccinni. Giovanni Paesiello. I drammi del Mctastasio vestiti d'armonia da Porpora e Leo fecero risuonar pateticamente questa contrada, poi vi risuonò l'opera buffa, ed allora i nostri teatri crebbero di numero e vi si aggiunse quello de’ Fiorentini, dove or si recita in prosa ed allora si cantava.

Apparve in questi teatri il Pulcinella, e il riso con lui. Accrebbero la dote de’ suoi sali e delle sue arguzie molti scrittori napolitani di non vulgare erudizione, ma colui che meglio lo scolpì fu di questi scrittori il meno erudito cioè Francesco Cerlone, in sua origine lavoratore di seta. Poi fra gli altri venne un Filippo Cammarano di famiglia teatrale, ed allora il tempio di Pulcinella fu S. Carlino, il piccolo teatro ove si desta l'ilarità, e che una mano invisibile preserva ancora dalla rovina, mentre svisa e deforma l'ampia piazza del Castello. Si direbbe che le case onde è circondato per riconoscenza del riso che sua mercé udiron sempre echeggiare colà dentro, se lo tengano stretto, affinché non isfugga. Ma chi assicura queste case che lo splendore della città nostra non chiegga il loro sacrificio? Il che se non potrà tardare, io oserei desiderare che nel luogo ove sorse il nostro teatro nazionale fosse posta una lapide, la quale ricordasse che a temperare i dispiaceri della vita, veniva colà eretto il tempio della ilarità. E forse in questa lapide avrebbe dritto a menzione il cittadino di Acerra. A riassumere dunque il nostro articolo nel quale toccammo il meglio che da noi si poteva in piccolo spazio del Pulcinella, della maschera, e del teatro napolitano, diremo che anche in questi giorni in che la maschera si va dileguando dalle scene,


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è il Pulcinella il nostro migliore amico, e S. Carlino il teatro che fuga e tronca le nostre malinconie. Sicché meriterebbe questo teatro-Io stesso nome di Posilipo che vuol dire Pausa alle tristezze.

Senza parlare di Gian Cola, di Luzio, del piccolo Casaceia che non profanarono la intemerata camicia di Pulcinella; sono gloria oggi di questo personaggio i due Pelito, de’ quali il primo, sendo innanzi negli anni cesse il posto al secondo, sicché il padre assiste alle serali glorie del figliuolo e si compiace dell'opera sua.

Oh Pulcinella! Creatura degli antichi venuto sino a noi discendenti della Magna Grecia, no, tu non ballasti mai innanzi agli eserciti stranieri, tu nascesti nel riso e nella gioia,, prediletto figliuolo della commedia, e se Plauto e Terenzio, se Aristofane e Menandro non ti diedero polpe ed ossa, essi udirono la tua voce, la quale è quella della semplice ambiguità di parole posta a lottare con le ambagi e con la tortuosità di maligni sapienti.

CAV. CARLO T. DALBONO.


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 65-70)





LA MESSA VOTIVA



Per quasi tutti i popoli della terra, qualsivoglia sia la loro religione, sonosi levate al ciclo preci e voti per ottener grazie. Quando ogni umano conforto vien manco, l'uomo nella sventura si volge per istinto al suo Creatore e ne implora l'assistenza; e, come se non osasse direttamente alzar le sue preghiere fino alla maestà di un Dio, cerca il più delle volte l'intercessione di quelle creature che Gli sono più accette. La Religione Cristiana, la più consona a' bisogni dell'uomo, offre nella Santissima Madre di Dio la più possente interceditrice di grazie; ed Ella innumerevoli ne ottiene ogni giorno dal trono dell'Altissimo a pro de’ suoi divoti. Venerata dall'orbe cattolica sotto diverse denominazioni a seconda de’ tanti privilegi di che Dio volle colmare questa Prediletta fra tutte le creature, ed a seconda di alcune particolari circostanze di tempi e di luoghi, Ella spande i tesori delle sue grazie a tutti i suoi figliuoli indistintamente che con vera fede a Lei si volgono.

Se presso tutte le cristiane genti la divozione alla SS, Vergine è quasi un bisogno del cuore e dello spirito, massima Io è presso i Napolitani.

Basta gittar lo sguardo ne' nostri templi per vedere quasi in essi tutte le Immagini della Madre di Dio circondate da' così detti voti, che sono tante dipinture colle quali vien rappresentato a' riguardanti quel caso particolare di malattia o di altra sciagura, a risanar dal quale si fa il voto alla Madonna.

1 Detta volgarmente la Messa pezzuta.


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A questi quadretti si congiunge pel consueto una effigie in cera di quella parte del corpo che è stata soggetta a infermità, a ferita, a percosse e simili. È costume de’ nostri popolani andar raccogliendo dai pietosi vicini le limosine per far dire la Messa votiva che in dialetto domandasi Messa pezzuta.

Le chiese dove maggiore è l'affluenza de’ voti sono Santa Maria del Carmine presso le porte della città, S. Brigida, la Chiesa alla Sanità e S. Vincenzo alla Sanità, Montevergine e la Madonna dell'Arco.

La chiesa di S. Maria del Carmine, poco discosta dalla piazza del Mercato, fu edificata da' d' Angiò, e racchiude un convento che è de’ più famosi di Napoli. Per lo addietro, questa chiesa non era che una semplice cappella col nome di Santa-Croce che venne distrutta, e poscia rifabbricata e magnificamente arricchita dalla madre dell'infelice Corradino Svevo, decapitato in quella piazza del Mercato ed il cui umil sepolcro si vede dietro l'altare maggiore. Nel 1707, la chiesa venne restaurata nel modo come ora si vede. Oltre di una bellissima Immagine di Nostra Donna, antica dipintura greca, vi si venera un Crocifisso, il quale, narrasi che nell'assedio di Napoli del 1439 avesse piegato il capo per iscansare una palla di cannone. Non è a dire di quanta divozione è compreso il popolo Napolitano per questo Crocifisso, che densi ricoperto in tutto l'anno, eccetto che nella prima festa di Natale, giorno in cui un grandissimo numero di abitanti e il Corpo della Città si reca a venerarlo.

Riguardo alla Chiesa di Montevergine, già se n'è parlato con apposito articolo nel primo volume di quest'opera. In quanto alla Madonna dell'Arco, se ne scriverà un articolo per la descrizione della festa che vi si fa. La chiesa di S. Brigida fu edificata nel 1(ì10 da una spagnuola per nome Giovanna Queveda.

Or ci piace raccontare un fatto che meglio farà conoscere questo particolar costume della Messa votiva.

Non è gran tempo da noi discosto che in quella certezza addimandata la Salita di Tarsia, che pon capo sul colle affienissimo dell’Infrascata, e propriamente un poco prima: di giugnere a quella piazzetta che dalla chiesa di S. Antonio toglie suo nome, due donne abitavano in un fondacuzzo piuttosto oscuro che vedesi a sinistra nel salire — Erano una madre e una figliuola.

Tutt'i villeggianti che nella bella stagione traevano in sul Vomero o nelle adiacenti campagne, nel salire o nello scendere per quella


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 scoscesa di Tarsia, vedean sempre in sulla soglia di quel fondaco starsi a sedere una donna di non grave età, comechè non potea dirsi più giovine; la quale con un rosario tra le mani recitava avemmarie in tutte le ore del giorno. La poveretta non potea meglio spendere il suo tempo quando non si occupava a filare; giacché da molti anni mancavale il senso più necessario al lavoro, la vista — La Si Giuditta, madre di Concetta la insaldatrice, era cieca.

Eppur, con quanta cristiana rassegnazione ella avea portato sì crudele sciagura! Quando la misera donna ebbe certezza di non poter più ricuperare i suoi occhi, che una violenta e ostinata oftalmia avea per sempre acciecati, non versò una lagrima, non mise un lamento; ed altro non disse che: — Non vedrò più la benedetta mia figlia! —

Quelli che si ostinano a non veder nell'uomo che una malvagia creatura, han negato incontrarsi nel cammino della loro vita gli atti della più eroica virtù o i più inauditi sacrifici di annegazione, senza por mente che gli eroi ed i martiri della virtù non son rari specialmente allorchè si cercano tra i poveri, tra i sofferenti, tra i rassegnati.

Per quale sciagura o infermità la madre di Concetta perdesse il godimento degli occhi, mal sapremmo noi dirlo, né giova alla commovente istoria che abbiamo a narrare. Ben possiamo dire che dal dì ch'ella orba rimase della luce del ciclo, l'unico scopo di sua vita parve aver concentrato nell'affetto tenerissimo che aveva alla sua cara figliuola, l'unica sopravvanzatale di cinque nati. Era vedova da parecchi anni.

Nel tempo di questa istoria, Concetta non avea più di diciotto anni. Sedicessimo che ella era l'una sorprendente bellezza, si crederebbe che ciò, diciamo per quella specie di consuetudine de’ novellatori di dipinger belle tutte le donne che entrano ne' loro racconti ma noi ce ne appelliamo a tutti quelli che ricordano la Concetta di Tarsia, dieci o undici anni or sono. Il più accigliato Senocrate non potea Salir per quella via senza gittare uno sguardo nel fondacuzzo dov'era la Concetta.

Non sapremmo far meglio il ritratto di questa fanciulla che col rassomigliarla alla più gentil donnina di queste d'alto lignaggio.


1 Della volgarmente in Napoli stiratrice.


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 Avea carnagione assai fina e dilicata, due occhi neri di quelli che pigliano i cuori d'assalto, e un bocchino aggraziato, sul quale un sorriso tra il mesto e l'ingenuo vagava quasi sempre come un vezzo incantatore.

Or. questa Concetta, che per quanto bella era buona, esercitava il mestiero d'insaldatrice per essere di alcun pro alla povera mamma, che ella amava con una tenerezza impareggiabile. Non ci era famiglia mezzanamente agiata su per quella via di Tarsia o per l'altra parallela di Pontecorvo, che non desse i suoi panni lini a stirare alla Concetta, la quale era. valentissima, soprattutto a dar la salda alle camice per uomini, alle maniche delle quali dava tante graziose pieghette. Il sabato era giorno d'inferno per la povera insaldatrice: era un compito di sette o otto ore di buona fatica che avrebbe spossato Ercole stesso o Achille quando filava accanto alla sua bella. Il sabato, bisognava vederla, quella gioia di figlia curvata in su un gran tavolo, ricoperto da un lenzuolo ripiegato in quattro! Con che garbo e lestezza ella spiegava in su quel tavolo l'uno dopo l’altro i panni che aveva a stirare! Con quanta grazia intingeva dapprima le sue dita ben affilate in un piattello colmo d'acqua e ne spruzzava i siti lisci de’ panni; indi, tuffato le rosee punte delle sue dita in altro piattello dov'era l'amido, dava a' colli, a' petti, a' polsini delle camice la giusta misura di salda!

Come quella miniatura divisinosi colorava di leggiadrissimo incarnato pel calore de’ ferri caldi e pe' vapori che da' panni bagnati esalavano sotto l'azione de’ ferri. Come quegli occhi inverniciati luceano vie più su quelle guance d'alabastro e di minio! Non poche volte nel ritirarmi alla mia dimora, la possanza di quella bellezza m'incatenava dappresso a quella bottega, né sapea discostarmene che quando gli occhi di quella fata si levavano pieni di maraviglia su me, e le sopracciglia leggiermente aggrottavanlesi! Fin d'allora io promisi a me stesso che di questa vaga fanciulla avrei falto l'eroina di qualche mio racconto; ma, lasso! ch'io non sapea quale sciagura avessi a narrare della meschina!

Un bel dì, salendo alla mia dimora, trovai chiuso il fondaco dov'era la Concetta, e in sull'alto dell'uscio, incollato l'appigionasi. Quel dì non era il quattro maggio, in cui da' Napolitani costumasi mutar le abitazioni; perché forte ne maravigliai e della cagione di quella novità richiesi una donna che ogni mattina solea, poco discosto dall'uscio della Concetta,


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 porsi a vendere ballotte, noci, pinocchi ed altre frutta. Costei mi disse; quella notte scorsa la sì Giuditta (che era la madre cieca) aver fatto rintronar quella via di strida acutissime, però che le avean rapita la figlia sua; esser venuta nel corso della notte una donna a lei ben nota, la quale avea chiesta che le si aprisse l'uscio per carità, per amor di Dio, giacchè ella fuggiva dall’ira dell’ebbro marito che volea quella notte stessa spacciarla per l'altro mondo per mali sospetti e gelosie — Soggiunse la cieca che non sì tosto avea aperto l'uscio che si sentì afferrar di dietro e serrar la bocca come da un panno ben stretto; indi, non aver udito altro che un gran trambusto, un gemer sordo; e poi niente altro; esser corsa al letto dove la cara figlia era a riposare e non avervela ritrovata!

La donna che mi dava queste notizie aggiunsemi che da alquanti giorni ella vedea transitare continuamente per quella salita un barbuto, che soffermavasi a riguardar la Concetta, e che precisamente il dì avanti, quel brutto ceffo era quivi ristato a confabulare con certi altri tristanzuoli all'aspetto, siccome in quel volger di tempo se ne vedeano di molti. Queste novelle nel suo ingenuo linguaggio mi sfoderava la buona donna, aggiugnendomi che, quando la mattina si era alzata, avea trovato chiuso l'uscio della sì Giuditta, e appiccatovi l'appigionasi. Di che non sapea dar contezza veruna, ma credea che l'autorità si fosse messa in sulle peste del mal fatto.

Varie voci e congetture si erano sparse intanto su questo straordinario avvenimento, che mi facea ricordar de’ Promessi Sposi del Manzoni; e ognuno dicea la sua e spiattellava sentenze, allorché un dopopranzo, erano scorsi un cinque o sei mesi, si suonò all'uscio della mia abitazione, e mi vidi innanzi la Concetta e la madre. La giovinetta era pallida, vestita a nero con cordellina bianca alle costure della veste, con le sole calze, ma senza scarpe, co’ capelli scarmigliati e con un vassoio nelle mani dov'erano vari pacchi di torchietti da chiesa, un quadro rappresentante una donna ferita da un colpo di stile alla spalla destra, e che sembrava invocasse l'aiuto della Madonna del Carminera, la cui Immagine, poggiata su gruppi di nubi e di angioli, era sull'alto di quella dipintura.

Era sul vassoio puranche una spalla di cera con in mezzo un solco dipinto a rosso simulante la ferita. Qui cade in acconcio osservare che l'abito di voto non si abbandona da chi lo porta se non quando è ridotto nello stato di non potersi più usare.


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Concetta facea, come più su abbiamo detto, la questua per la Messa votiva, per un voto che avea fatto a Nostra Donna del Carmine, qualora risanata ella fosse dalla grave ferita avuta all'omero.

Ella mi narrò il fatto. Un bricconaccio ch'era di paese straniero avea da qualche tempo gittato gli occhi su lei; parecchie infami proposizioni le avea fatto fare, alle quali ella avea risposto con isdegno. Lo scellerato pensò di ottenere a viva forza ciò che non avea potuto con tutte le arti infernali. Avea subornata una donna assai familiare della Concetta e della madre; erasi quella notte introdotto in casa di lei, per mezzo di quella donna, con altri malviventi; aveale impugnato al collo uno stile e costretta a vestirsi in fretta e seguirla. Una carrozza ben chiusa aspettavali su alla piazzetta di Tarsia.

Quasi morta di spavento e di cordoglio ella fu strascinata ben lungi.

Si arrivò ad un sito ch'ella non conosceva. Si smontò di carrozza. Un fanale dava luce alla strada. La Provvidenza vegliava sulla innocenza della povera giovine. Nello smontar di carrozza, ella ebbe da lungi veduto appressarsi un gruppo di persone; attinse coraggio nella propria disperazione; gittò un grido acutissimo e chiamò al soccorso. Nel mettere il grido, ella si sentì ferita alla spalla, e, invocando la Vergine del Carmine, cadde priva di sensi. La mattina si trovò appo una famiglia onesta e caritevole che l'avea soccorsa, e dove era rimasta, in compagnia della buona madre, per tutto il tempo necessario alla sua guarigione, di che ella era debitrice ad un miracolo della Santissima Vergine; che le avea pur sì prodigiosamente salvata l'innocenza.

Le lagrime solcavano le guance della giovinetta nel raccontarmi questo accaduto.

Non mancai di porre una moneta bianca nel vassoio. Un sorriso incantevole di quella cara fanciulla mi ringraziò nel suo ingenuo linguaggio.


1 Vedi la figura.

FRANCESCO MASTRIANI


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 123-127)



IL PIZZAJUOLO



Lettore, sei stato mai frequentator dei pizzajuoli?

— No.

— Ebbene, questo scritto non è per te.

Il frequentatore dei pizzajuoli è un giovane scapato, che non ha occupazione alcuna o è semplicemente occupato a star seduto dalle undici alle tre, fornito di stomaco forte e di poca moneta. Nelle ore vespertine va a trovare la sua bella, e o la conduca al passeggio, o l'accompagni a qualche teatro dove si è avuto in dono un biglietto di palco, o le tenga compagnia in casa dove si fa il diavolo a quattro, o in qualunque altro modo si passi la serata (che finisce a mezzanotte o più tardi), sempre si conchiude col mangiare la pizza, per lo più nel luogo dove si fanno, talvolta facendosela venire in casa.

Ma perché tutto proceda ordinatamente, cominciamo dalla definizione.

La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché si fa col fiore, e perché è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli.

Prendete un pezzo di pasta, allargatelo o distendendolo col matterello o percotendolo colle palme delle mani, metteteci sopra quel che vi viene in testa, conditelo di olio o di strutto, cocetelo al forno, mangiatelo, e saprete che cosa è una pizza. Le focacce e le schiacciate sono alcunché di simile, ma sono l'embrione dell'arte.


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Le pizze più ordinarie, dette coll'aglio e l'oglio, han per condimento l'olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l'origano e spicchi d'aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle ecc. Talora ripiegando la pasta su di sé stessa se ne forma quel che chiamasi calzone.

La bottega del pizzajuolo si compone di un banco su cui si manipolano le pizze, sormontato da una specie di scaffale ove sono in mostra i comestibili, e ingombro di vasi contenenti sale, formaggio grattugiato, origano, pezzetti di aglio ecc.; di una serie più o meno estesa di camerini dove si mangia, che spesso hanno l'accompagnamento di una camera superiore dove si sta con più libertà; e di un forno sempre acceso che mai non sazia la bramosa bocca. Oltre alle pizze, vi si può mangiare tutto ciò che può essere messo in una tegghia o in un tegame e cotto nel forno.

Ogni bottega ha i suoi posti avanzati, cioè dei venditori di piccole pizze di un grano o di grosse pizze tagliate in più pezzi sopra tavolini leggerissimi con cui cangiano agevolmente di luogo, II grido ordinario di costoro è nu ra una e meza (un grano una e mezza); ed è celebre l'infaticabile monotona cantilena del pizzajuolo a S. Cosmo e Damiano: Na prubbeca, na prubbeca 1.

I monelli o i fanciulli che vanno a bottega fan colazione colla pizza, e per lo più hanno la pasta inacetita rimasta dal dì innanzi. Più tardi, a misura che le pizze si fanno più fredde^ i pezzi si fanno più grandi per allettare il compratore. Poi il forno rimane quasi interamente in ozio fino alla sera, e, si passa il tempo a intridere e dimenar la pasta, a grattugiar formaggio, ad affettar muzzarelle, a tagliuzzare agli, a soffregar fra le mani l'origano per tome via gli steli, e a mille altre operazioni preparatorie.

 Quindi s'incomincia a provvedere alle merende e alle cene dei fattorini e degli operai.


1 Vedi la figura.


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Nelle ore più tarde compariscono dei plenipotenziari che hanno l'alta missione di ordinar pizze da portarsi in casa, e contemporaneamente qualche allegra truppa viene ad occupare i luridi camerini del pizzajuolo.

Chi sono quei giovanastri che v'entrano sghignazzando e bociando? È una turba di scioperati, che han passata la notte al bigliardo giocando e scommettendo, e mentre son forse attesi alle case loro da una troppo amorevole madre, da un vecchio padre, o da una trascurata infelice consorte, trovandosi forti di appetito e deboli di borsa, pensano di farsi una pizza (s'intende che essi la mangiano e il pizzajuolo la fa) coll'ultimo avanzo d'un'infelice fortuna. Stipati in un camerino, il primo che ad essi si presenta non è già il pizzajuolo, ma il garzone della prossima cantina, che dice loro: Che vino comandale?

Provveduto all'imperioso bisogno d'inaffiare le aride fauci, si procede ad ordinare la pizza, e cotta che sia, a mangiarla. A questo succedono le dolenti note, cioè il pagamento: spesso a questo punto sparisce qualcheduno dell'allegra brigata, sotto il pretesto di qualche urgente necessità; spesso si stenta a raggranellare fra tanti il prezzo di quel che sì è mangiato e trincato; spesso un solo che ha un resto di pudore, per non fare una trista figura, paga per tutti senza speranza di potersene rifare.

Ma la scena si cambia: ecco un altro stormo che si cala alla macca, e con che fame divoratrice lascio a voi immaginarlo. Si compone di una mamma compiacente e di facile composizione, di due figlie da marito emulatrici delle qualità della mamma e di una ancor ragazza che aspira ad emular le sorelle, di tre figli oziosi che credono aver dritto a partecipare de’ complimenti che si fanno alle sorelle, di due orrevoli messeri che han promesso a mammà di sposare le due fanciulle appena che essi avranno i mezzi di mantenere una moglie. I primi ad entrare, con aria di padroni e baldanzosi del proprio dritto, sono i signori fratelli. Seguono le sorelle, ridendo fra loro e fingendo di voler nascondere quel riso, simulando di vergognarsi come Resina nel Barbiere o Norina nel D. Pasquale, colla pretensione di far credere ch'è la prima volta che si abbassano ad entrare in un luogo simile.


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Fan le viste d'imbrogliarsi, di confondersi, di non volere esser viste, e non ommettono mai di far sentire ad alta voce che sono uscite così come stavano vestite per casa.

La mamma non dice una parola, e va a prender posto o in fondo a un camerino o su nella camera dove si è più fuor di vista e con maggior libertà. I due futuri sposi dispongono la cenetta colla maggiore economia possibile, raccomandando che il vino non sia forte da andare al cervello, che la pizza sia sottile. Vane precauzioni! tutto è ingollato e tracannato in un momento, e o un qualche ardito fratello o una qualche vergognosetta sorella o la silenziosa e concentrata mamma manifesta il desiderio di qualche altra cosetta. Si domanda al pizzajuolo che cosa abbia di buono, e costui naturalmente propone le cose di maggior costo. Non c'è che fare: i due proci di quelle Penelopi fanno di necessita virtù, e debbono finanche pagare i sigari pei tre fratelli, i quali per unico compenso sono i primi a battere la ritirata e nel ritornare a casa formano la vanguardia lasciandosi dietro a rispettosa distanza le due fortunate coppie. Durante il baccano che questa comitiva fa nella stanza superiore, nell’angolo più oscuro della bottega prendono posto un uomo e una donna: il primo ha una fanciullina per mano, l'altra tiene alla mammella un bambino magro e pallido. Senza por niente ai loro vestiti, basta guardarli in viso per leggervi l'indigenza e Io squallore. Domandano una pizza di tre grana, condita solo di olio e di aglio; non prendono vino, e il pizzajuolo si fa pregare più volte prima di dar loro un orciuolo d'acqua; aspettano un buon tratto che la loro meschina pizza sia cotta; la mangiano con un'ansietà che ben rivela come il loro pranzo abbia dovuto esser frugale e sottile. La bimba ben dimostra cogli atti del volto intento a ciò di che è piena la bottega, che la sua fame è tutt'altro che appagata: il padre e la madre al contrario sembrano, se non contenti, rassegnati. Il bambino in quel punto comincia a piangere, forse perché trova arida la fonte del suo nutrimento. Il pizzajuolo volge uno sguardo truculento a quel gruppo, e mormora non so che parole. A questo la famigliuola si mette in via procurando di non urtar nessuno sul suo passaggio, e va a cercare in un sonno tranquillo nel suo bugigattolo nuove forze alle fatiche e ai travagli della dimane.


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Lettore, vorrai forse accusar costoro di andare a spargere tristezza e malinconia in un luogo che spira gioia e tripudio? Se così pensi, hai torto: chi vuoi tu che s'incarichi di coteste miserie! Non che rendersene mesto, non c'è un'anima che vi ponga mente.

Si paga spesso per l'amante e pei suoi fratelli, si paga per l'amico o per gli amici, si paga finanche per gente che si conosce solo di vista: ma per cotesti miserabili chi vuoi che spenda un soldo? Passano inavvertiti; e se il pizzajuolo se ne accorge, è perché vorrebbe che mangiassero fuor della porta e non venissero a profanare col loro miserabile aspetto il tempio della spensierata allegria.

EMMANUELE ROCCO.

Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 147-151)




NAPOLI DOPO MEZZANOTTE



N vasto subbietto imprendo a trattare: descrivere lo interno della città di Napoli nelle ore in cui la maggior parte de’ suoi abitanti paga il notturno tributo alla natura, rinfrancando nel sonno le forze esauste dalle fatiche o da' divertimenti del giorno.

Quando la solenne campana di S. Martino distende su tutta la capitale i suoi lunghi rintocchi che annunziano esser giunta la notte a mezzo il suo corso, non crediate che tutti gli uomini e tutte le cose riposino in questa Napoli vispa e fosforescente, che, a somiglianza delle donne nervose, mai non si abbandona a lunghi sonni. In està sovrammodo Napoli non dorme affatto: le notti per questa infingarda regina del Tirreno sono ore di tripudio, di ebbrezza, d'incanto e di poesia.

Se voi leggete i vecchi romanzi, le cronache de’ mezzi tempi, vi formate presso a poco un' idea di quel che era la notte pe' nostri buoni antenati: la si può compendiare in due parole; tenebre e delitti. Infatti, se si considera che in quei tempi per le strade non vi erano fanali, si comprenderà di leggieri che gli animali immondi e gli uomini di anima nera far doveano delle pubbliche vie il teatro delle loro turpitudini e nequizie.


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I ladri, gli assassini, gl'impudichi e le streghe uscivano al tocco di mezzanotte per le infernali loro opere. Strisciando come rettili lungo le mura, essi benedicevano il favor delle tenebre ed avrebbero voluto anco sottrarsi al fulgido occhio delle stelle, che per essi era minaccioso e terribile al pari dell'occhio di Dio. Mezzanotte era l'ora de’ nefandi ritrovi, de’ diabolici convegni delle maliarde, della posta scellerata dell'assassino, dell'agguato insidioso del ladro; era insomma l'ora maledetta, l'ora de’ misteri. l'ora più segnata nel libro della Giustizia di Dio.

Ma mutano i tempi e con essi i costumi. Uscite in Napoli a mezzanotte nel mese di luglio o di agosto, ed anche in tempo di carnevale, mettetevi nella via di Toledo, e farete le più grandi meraviglie nel veder tanta gente andare e venire come se fosse appunto la prima ora di notte. Altro che streghe e assassini! Tutto al più, sono streghe e assassini di altro genere, streghe in ermo/ina e in reticella che vi lanciano certe occhiate da farvi impazzare almeno per quella notte, assassini in guanti color paglino che tutto al più si rubano tra loro il.... sonno. Forse in altra nostra più lunga monografia parleremo della vita della sera, della vita interna, della vita del gran mondo che gl'Inglesi domandano high life (alta vita): per ora ci limiteremo a toccare il quadro di Napoli in mezzo alla strada. Cominceremo dalla state.

Dilettosissime sono le notti estive in questa nostra deliziosa Partenope. Vogliono i viaggiatori che sulle rive del Bosforo e nel greco Arcipelago bellissime del pari sien le notti di està. Noi non siamo stati uè in Turchia né in Grecia, e non possiamo però stabilir paragoni; ma egli è indubitabile che sotto questo ciclo incantato, quando una bianchissima luna spande su i colli e sulla marina i suoi veli di odalisca, quando milioni di stelle sembrano affacciarsi nel firmamento a bella posta per guardar le bellezze di questa Napoli addormentata su i fiori, quando le aure del ciclo hanno le carezze più lusinghiere, le colline i profumi più eletti e le onde del mare i mormorii più armoniosi; quando tutto ciò si riunisce per formare il più bel vezzo della creazione, noi crediamo che il vedi Napoli e poi muori non sia già una figura rettorica.


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Andate a Posilipo, a Frisio, e ditemi se ci è qualche cosa al mondo che possa superare in bellezze una notte di està in Napoli. Ci è paese nel mondo che abbia i nostri vermicelli col sugo di pomidoro o colle arselle, e massime quando sovra un piatto fumigante di queste auree fila cade uno sguardo invidioso della pallida regina delle notti? Non ci è che Napoli che abbia potuto inventare la sua luna, la sua marina e i suoi vermicelli al sughillo.

Nelle ore dopo mezzanotte di està escono i suonatori di violino e le suonatrici di chitarra che traggono a S. Lucia, a Posilipo e a Frisio per allietare co’ canti e co’ suoni le già allegre brigate ivi riunite a darsi bel tempo e a gavazzare in giocondissime cene. Talvolta si vede qualcuna di queste cantatrici accompagnate dal suo suonatore girovagando pe' caffè, dove dà nelle ore avanzate della notte accademie più o men lucrose; ma egli è a Frisio, a Posilipo, ed anco a Foria presso Antonio delle tavolette, che vedesi qualcuna di queste piccole compagnie ambulanti, composte per lo più da un vecchio che suona il violino, da uno più giovine che pizzica la chitarra (istrumento delle cene e degli amori) e d'una giovinetta che canta le canzoni popolari ed eziandio qualche pezzo teatrale. Alcune volte vi si mischia il flauto; altre volte è il mandolino che fa da primo e che sposa le sue strimpellate alla voce stonata d'un baritono da cànova.

La chitarra è lo strumento notturno per eccellenza, lo strumento delle serenate, de’ concerti all'aria aperta, delle dichiarazioni in tuono minore. Quando mezzanotte fa tacer nelle case la voce dell’importuno pianoforte, la chitarra assume nelle strade il suo impero usurpato da quell'anfibio istrumento. Celebre è la canzone del felice notte si Sarvatò 1, che pel consueto pon termine alle feste cantinesche de’ nostri popolani.

Non vogliamo qui parlar delle serenate: in parecchi articoli di questa opera se n'è fatta menzione. Cionondimeno vogliamo dire che questo nostro secolo di piombo ha ucciso le serenate, come ha ucciso ogni onesto e grazioso divertimento. Il secolo scorso era il secolo delle serenate. Gli Spagnuoli aveano introdotto appo noi questa gentil costumanza.


1 Felice notte Salvatore.


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Un animal notturno che esce pure allo scoccar di mezzanotte è il raccoglitore de’ mozziconi di sigari. Vedetelo sbucare a Toledo da' vicoli circostanti: ha in mano la sua piccola lanterna; la sua faccia è cupa e tenebrosa, e la guardatura di gatto selvaggio.

Dopo mezzanotte, di està e d'inverno, voi non incontrate per le strade di Napoli che le specie seguenti:

A mezzanotte — Passeggieri d'ambo i sessi che si ritirano dalle feste, da' teatri, da' tavolini di mediatore; il mozzonaro col suo lanternino; l'accenditore colla sua scaletta; gli ubbriaconi per sistema; i cocchieri colle loro cittadine.

All'una dopo mezzanotte — Passeggieri d'ambo i sessi (in più picciol numero) che si ritirano dalle feste di ballo, da' tavolini di primiera; qualche innamorato extra moenia, cocchieri e carrozzelle; qualche vagabondo di sinistro aspetto; le ballerine di S. Carlo; il caffettiere ambulante, il quale per lo più esce a' rintocchi di mezzanotte, e recasi dapprima a visitare tutt'i posti di guardia, offrendo la sua merce a quelli che han da passare in veglia la notte.

Alle due dopo mezzanotte — Passeggieri come sopra sempre in numero decrescente; qualche carro di fieno o di paglia che attraversa maestosamente la diserta via di Toledo, per la quale vedesi a quando a quando qualche carrozzella che si ritira, e il cui cavallo stanco si mostra ribelle alle frustate del suo implacabile padrone; qualche giuocatore disperato; qualche garzone di caffè; gli zampognari (novembre e dicembre).

Alle tre — (d'inverno): assenza completa di esseri umani, tranne qualche accattone dormiente sotto le stelle: a quest'ora non incontrerete che qualche maiale, qualche gatto o cane: a quest'ora l'incontro di un uomo non e sempre una ventura; (d'està): qualche brigata di ritorno da una festa; qualche figlio d'Adamo che non ha un letto su cui riposarsi; l'acquavitaro 2 che incomincia a dar la voce.

Alle quattro (d'inverno, poiché di està è giorno chiaro): qualche caffè che si apre.

Alle cinque (sempre d'inverno) comincia la giornata de’ lavoratori, de’ caffettieri e di alcune specie di venditori ambulanti. Assenza completa dell'aristocrazia e del ceto medio.


1 Vedi la figura nel vol. 1

2 Vedi nel 1° volume.


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Durante il carnevale e nelle notti di festino a S. Carlo, veggonsi in quasi tutte le ore notturne arlecchini e bautte a crocchi od anche soli che vanno o vengono da S. Carlo o da altre feste private.

Alle sei—Comincia la vita, il movimento, il rumore; le botteghe si aprono, i lanternini girano, la luce de’ fanali impallidisce; si sentono svariate voci in istrada, tra le quali predominano quelle dell’acquavitaro, del caffettiere ambulante gli menzionato, della venditrice di baloge. Di questi il caffettiere ambulante è il miglior levatore, il più assiduo, il più universalmente sparso in tutt'i dodici quartieri della capitale. Egli si reca appresso la sua piccola bottega con tutt'i focolari che debbono tener calda la sua merce. Eccolo, ve ne presentiamo la immagine. Il caffettiere ambulante non vende pel consueto che a tacchetto (un grano di caffè), e non rare volte ha dato l'esempio di vendere a minima (un tornese di caffè somministrato in un bicchiere da rosolio). La solita è un lusso di smercio al quale non è avvezzo. Né crediate che la merce del nostro caffettiere ambulante sia dispregevole. Egli non adopera né l'orzo né le fave né la liquorizia; tutto al più, allunga il caffè coll’acqua, e ciò per rispetto ch'egli ha per la suscettibilità nervosa del secolo. La classe lavoratrice è tutta in piedi e in istrada. A quest ora s'incontrano pure parecchie persone civili, e sono gli studenti di legge o di medicina che traggono da' loro maestri, i mercadanti di seconda sfera, che si recano alle loro botteghe o vanno a pigliarsi la loro solita al caffè; gli uscieri, gli agenti di polizia, e da ultimo qualche creatura di genere femminile.

L'alba fa la spia attraverso le imposte delle finestre.

Sorgon dal letto gli uomini di buona volontà; vi giacciono ancora per molte ore i neghittosi, i ricchi, i dissoluti e tutti quelli che non meriterebbero di mangiare, perché no» sudano a lavorare.


FRANCESCO MASTRIANI.


1 Vedi Ia figura.


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 177-198)


Nun c'è n'ora, no mumentu

Che può schitto retciatà,

Neve, trottola, acqua e bbiento.

Non c'è maje pe mme piatà,

Curre, arranca, afferra, acchiappa.

Suse, lana, piglia, scappa ;

Quanno pò vaco nseggetta

Mpupazzata a rattejà

Nc'è la folla che m'appretta,

E se mette ad alluccà

La Mammana, la figliata

E pò siente na sescata!

Anonimo.



LA LEVATRICE



E nell'uomo è dovere di natura, non men che di religione, la gratitudine inverso i genitori, per le tante cure e sollecitudini onde gli furon larghi, anche prima del suo apparire sulla scena del mondo,  vuole giustizia non vada dimenticato un altro essere che, sebbene in isfera meno ampia, concorre pure a tutelarne lo sviluppo sin dall’alvo materno e la sanità nel nascimento.

Questo animale benigno, ma non sempre grazioso, è la levatrice, detta anche ostetrice dall'arte che professa, ricoglitrice perché raccoglie i parti, o mammana (volgarmente vammana) quantunque questa voce abbia oggidì un significato ben diverso da quel di un tempo. quando così addimandavasi colei che era messa a custodia delle zitelle, e che corrispondeva, per quanto pare, ad un'aia o donna di governo dei nostri tempi.


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Ma il nome onde è più volentieri conosciuta nella società e segnatamente nelle famiglie è quello di comare, derivatole non solo dal tenere i bambini al battesimo ma anche per di notare una specie di vin-colo di affinità che, come or vedremo, intercede tra lei e le sue clienti. Dipingemmo con colori abbastanza foschi la serva e la nutrice: avremmo torto di fare altrettanto per la mammana. I Francesi infatti nella denominazione di sage-femme le concedono il più raro attributo, quello della saviezza, sebbene sia coscienzioso l'aggiungere che spesso ciò non esca puramente da' limiti di una eccessiva galanteria.

Affin di procedere ordinatamente, tenteremo in primo luogo dimostrare che, per una singolare eccezione, le donne, le quali sogliono amarsi pochissimo fra loro, si accordano nell’amare la levatrice, per così dire istintivamente; in secondo luogo che la levatrice ha dritto a tale amore.

Indagando le ragioni di questa tenerezza bilaterale ci è facile scorgere innanzi tutto come il genio della maternità si riveli nella donna fin dalla infanzia. Il suo trastullo prediletto è quello infatti di fasciare e sfasciare una pupattola, di stringerla al seno, di cullarla, di porgerle la pappina, di dondolarla sulle ginocchia. Descuret (Medicina delle Passioni), dipinge così la primitiva età ne' due sessi. «Il primo (l'uomo) eccitato in qualche modo dall’istinto del combattere, cammina con maggior fermezza, brandisce fieramente la sciabola o suona il tamburino, l'altra (la donna) come se pregustasse l'amor materno preludia alle soavi funzioni che è destinata a compiere, abbigliando con artificiosa cura la bambola amata, oggetto delle sue più tenere attenzioni. Si direbbe che fin da quella età si dividono l'impero del mondo: l’uomo si riserba la forza e la gloria, e lascia alla donna la debolezza e l'amore».

Se però la donna ama istintivamente la prole, uopo è che ami del pari istintivamente la comare, che ne è la custode e la curatrice. Arroge tra i giuochi delle fanciulle esservene uno che consiste nel formare un fantoccio di cenci, tìngendo alcuna di loro aver partorito e ricever le visite solite di occasione. Questo giuoco dicesi per l'appunto delle comari!


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Provato il naturale amore del bel sesso verso la comare tiriamo innanzi.

Non appena una donna senta di esser madre, anzi non appena abbia un lontano sospetto di gravidanza (frase in gran voga nel vocabolario matrimoniale) va in cerca della comare, se pure non ve ne abbia già una ereditaria di famiglia, cui per antico titolo tocca la preferenza.

Da quel momento quest'amorosa pittima si affibbia con tenacità alla sua cliente. A quando a quando va a vederla, ed or le tasta il polso, or le esamina i visceri e le reni, ora le assicura uno sgravo felicissimo, predicendole un bel maschio che dovrà essere un vescovo o un cardinale, prognostico che sebbene quasi sempre vada a vuoto, nondimeno riesce pur lusinghiero alla tenerezza delle madri (in ispecie napolitane) animate sempre da religiosi sentimenti. Così del pari le vieta le passeggiate lunghe e faticose, le emozioni troppo vive e cento altre cose onde le donne sono minutamente istruite: certo assai meglio di me. Fra le quali cose va osservato con impecialità il dovere che si prescrive ad ogni gravida di soddisfare, affine di evitare gravi conseguenze, a qualsiasi brama potesse venirle; dovere di cui, dal ceto più elevato all’ultimo, è riconosciuta l'importanza. Stando alle assicurazioni de’ dotti non sarebbe questa soltanto una credenza volgare, un semplice pregiudizio. Descuret 1 fa derivare un tale accidente dall'azione simpatica dell'utero sopra gli altri organi, nella condizione di gravidanza. Ippocrate lo attribuisce alla forza della immaginativa, il che viene confermato ancora da Avicenna, come pure S. Agostino dice essere questa poteutissima cagione che il feto esca fuori col segno della cosa desiderata. I fatti ne convincerebbero del medesimo. Chi non ha veduto fanciulli, or con un boglio di cioccolatte improntato sulla gamba, or con una macchia di vino sul volto, or di ciliegia sul braccio; segni (come vuolsi) di altrettanti oggetti bramati e non conseguiti dalle madri, ovvero di terrori avuti durante la gravidanza?

Niccolò Malebranche, fra l'altro, cita l'esempio di una donna gravida la quale per aver assistito al supplizio della ruota partorì un figliuolo con le ossa rotte.


1 Meraviglie del corpo umano.


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Comunque sia, queste voglie sono spesso molto curiose, spesso di difficile o d'impossibile soddisfamento. Mi è nota qualche signora che andava a teatro con un'elegante scatoliua di capperi, e tratto tratto, fra una scena ed un'altra, masticavane alcuno come fatto avrebbe di un confettino o di un joujoub. Taluna si vide trangugiar deliziosamente de’ ceci o dell'orzo, taluna trar diplomaticamente dalle tasche qualche ciriegia o qualche radice; tale masticar pepe, tale altra mangiar farina, tale iìnanco masticar cera, terra, carbone, cuoio, ed altrettali sostanze affatto inusitate per alimenti 2.

Presso il popolo, sopra tutto, è con tanta religiosità osservato questo debito inverso le gravide che tocca il ridicolo, e non di rado diventa una sorte di speculazione. Così incontra che sentiate picchiar l'uscio dalla siè Porziella o dalla siè Concettella, la quale abita due miglia lontano dalla vostra casa, per avere un capitone, una quaglia, un frutto ecc. che la sorella o la zia gravida ha veduto recare dalla fantesca, passando pel suo basso, ovvero che la portinaia mandi a domandare lo stufato al settimo piano, adducendo averne inteso l'odore e che potrebbe sconciarsi senza gustarne. Alle quali richieste guardi il Ciclo che alcun si rifiuti: sarebbe un infanticida, forse anche un omicida!

Hannovi di quelle cui ad ogni momento, ad ogni passo, sol che escano in sulla strada, vien la voglia di mille oggetti; di quelle (anche peggio) cui salta il ticchio delle fragole in novembre, delle castagne in luglio, delle nespole in ottobre, dell'uva in gennaio; per la qual cosa inchiniamo a pensare che cotesta specie di femmine nello stato di gravidanza cessi di far parte degli animali ragionevoli. Laonde può argomentarsi di leggieri che quando un povero diavolo capita una moglie guliosa, come si esprime il nostro dialetto, vale a dire che abbia molti e frequenti di cosiffatti desideri, può noverar questa senza dubbio tra le prime delle innumerevoli delizie che accompagnano lo stato coniugale!

Il Cortese nella sua Vaiasseida lepidamente accenna a questo fenomeno:


1 Descuret. —Medicina delle passioni.

2 Specie di depravazione di gusto, difinita, secondo il citato Descuret, coi nomi di pica o malacia.


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Se viene a sciré prena ed hai golio

De quarche cosa tiene mente all'ogna,

O te tocca la nateca, saie ch' io

Fice a frateto ncapo na scalogna,

Che se nne desperaie lo figlio mio

E foiette pe collera a Bologna

A lo leparo falle na rasata,

Se no lo ninno ha la vocca spaccata,


Ed il Guadagnali, con la solita arguzia, nelle sestine su i Baffi:

Sapete ben che se una donna gravida,

Mentre mira un oggetto innanzi agli occhi

E desiosa se ne mostra ed avida,

Del corpo in qualche parta ella si tocchi,

Impresso vien corrispondente segno

Sul corpo al feto di cui il ventre ha pregno.

Chi sa che la lor madre similmente

Nella sua gravidanza non bramasse,

D'un capitano i baffi o d'un Tenente

E le labbra frattanto si toccasse,

Poi partorisse in grembo di Lucina

Con la voglia de’ baffi la bambina?


Sull’argomento medesimo scherzava anche altro poeta in questo  frammento di una poesia intitolata la Nuora:

E quel babbion, cui tante volte ho detto

Non vedi come ogni tuo ben ti toglie?

Mancandomi, com'usa, di rispetto

Mamma, dice, ella è prossima alle doglie,

E sai che per coscienza è l'uom costretto

A soddisfar le brame della moglie.

Chiede il fagian... pazienza... non vi è caso

Vuoi ch'abbia un figlio col fagian sul naso?

La levatrice la fa a sua volta anche da medico, e se talora accade che prescriva il salasso invece della ipecacuana, o il purgativo invece del bagno, niun pensi esservi in ciò negligenza o cattiva intenzione, ma anzi derivare da soverchio zelo.

Né è d'altra parte a maravigliare se qualche donna, troppo fiduciosa nella levatrice, non si lasci guidare e consigliare che da lei


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 in tutto il periodo della gestazione, quando vi son di quelle che han per medico esclusivo il salassatore, e talune pure che si avvalgono nelle loro indisposizioni fisiche unicamente del semplicista o dei segreti di qualche vecchia!

Secondo va innanzi la gravidanza raddoppiano le cure, la sollecitudine, l'assistenza della levatrice, fino al momento del parto, che per lo più, come una curiosa esperienza ha dimostrato, arriva intempestivo e quando meno era ad attendere.

A questo proposito valga la descrizione di una scenetta ritratta dal vero.

È una perfida notte d'inverno, l'acqua vien giù a catinelle, il firmamento è nero come l'anima di una spia, guizzano i lampi, rumoreggiano i tuoni, ecco il momento in cui i dolori del parto ingagliardendo annunziano ad una onesta madre di famiglia il prossimo apparire al mondo del suo undecimo erede e la conseguente necessità della levatrice.

Allora il povero marito, che chiameremo, a mo' di esempio, D. Marcantonio, destato nel più. bello, quando forse sognava le ridenti colline del Vomero e di Antignano o le amene piagge di Mergellina, salta dal letto, si veste a precipizio, dopo non pochi stenti gli riesce accendere un lume; la chiave dell'uscio non si trova, pesca, ripesca, è nella veste della serva, che sorge spaventata e sonnacchiosa come Ambrogio nel Barbiere e scarmigliata come una strega del Macbeth. Contemporaneamente una turba di ragazzi, disturbati dal sonno, danno il segno di allarme: per essi quel momento è un'allegria, una festa, una baldoria, imperocchè quella eta abbia la prerogativa di saper convertirc tutto in divertimento — l’uno vuole l'asciolvere, l'altro strepita per vestirsi, un terzo chiama ad alta voce la mamma, un quarto salta giù in camicia gongolando per la gioia che in quel giorno papa non potrà menarlo a scuola — prova irrecusabile dell'amore istintivo dell'uomo pel sapere!

In mezzo a questo subuglio D. Marcantonio è disceso. Ma che? Il portinaio, cotto come monna, russa in modo che non lo scuoterebbe un cannone. D. Marcantonio all'uscio picchia, ripicchia, grida, tempesta, strepita, sbuffa, finché l'onorevole dormiente si scuote con soprassalto e, lontano dall'immaginare quel che è, levasi borbottando e dopo avere mandato con sufficiente energia


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a quel paese il disturbatore del suo pacifico chilo, si risolve finalmente ad aprire.

D. Marcantonio è in istrada. L'uragano continua ad imperversare. È necessaria una carrozza. Dopo un lungo aspettare, sì che al poveretto è giocoforza fare un buon terzo di cammino a piedi versando acqua come una grondaia per tutti i lati del corpo, finalmente spunta una di quelle cittadine di notte che ben conoscete 1. Comunque sia è l'arca nel diluvio; ed il nostro Noè non esita un momento a precipitarvisi, finché l'onorevole rozza non arresti le sue tre gambe, le sole in istato locativo, innanzi ad un portoncino non certo famoso per la decenza e che, quantunque al Settimo Cielo « ritrae mirabilmente una bolgia dell’inferno.

Fa mestieri conoscere che ogni portone, portoncino o portella corrispondente all'abitazione di qualsiasi levatrice è immancabilmente corredato di un campanello, affinché costei possa esser chiamata prontamente al bisogno, in ispecie la notte. Queste chiamate delle levatrici si succedono spesso con tale frequenza, che quando alla porta di una casa vien picchiato più volte dicesi, per similitudine, dal nostro popolo: pare la porta de la vammana.

Ed ecco, mentre il nostro personaggio ha cominciato a trarre il campanello, schiudersi una finestra e far capolino un uomo in mutande e berretto da notte:

— Chi è?

— Chiamatemi Donna Susanna.

— Non posso servirvi perché è in parto (frase di uso, che vuole indicare quando la levatrice trovasi ad assistere qualche partoriente) Se volete che vi accompagni da lei

— Ve ne saprei grado.

D.Marcantonio suda freddo ma non ci è rimedio. Poco stante l'uomo dalle mutande è al suo fianco. È un marito, un fratello, un cugino della levatrice: questo non monta. Una levatrice non ha il dovere di dichiarare la legittimità delle sue attinenze. Per buona fortuna la predetta cittadina è tuttavia in disponibilità: i due interlocutori vi saltano dentro ed obbligano il cocchiere a trottare, per quanto lo permettono le condizioni locative del legno e del cavallo.


1 V. l'Articolo su I Cocchieri nel 1° Vol.

2 Nome di una strada in Napoli.


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Ma ohimè, giunti al sito designato la comare neanche è là! D. Marcantonio è più morto che vivo: quasi quasi preferirebbe avere le doglie della sua metà.

Alla fin fine, come vuole Dio, si trova la comare.

È una donna sulla quarantina, pingue come un otre, brutta come un pesce cane, pesante come un obice, e che già conosciamo col nome di Donna Susanna. La cittadina e il cavallo a tre piedi fanno gli ultimi sforzi. D. Marcantonio è costretto ad accomodarsi in predella. Dicano i padri di famiglia se vi sia dello esagerato in questo quadro che ho tentato abbozzare a grossi tratti, e se in simili casi non soglia verificarsi anche di peggio!

Spesso accade che la levatrice non possa in modo alcuno prestarsi all'invito, ed allora in sua vece manda Valutante, la quale (si ritiene almeno) abbia un merito inferiore a quello della principale. Quindi se la levatrice è di una mediocre abilità, la partoriente può staro certa di essere ammazzata dall'aiutante.

Nulladimeno si comincia da aiutante per divenire levatrice. Quando però l'aiutante (come è pure delle professioni) progredisca e migliori nelle sue cognizioni, laddove invece, la principale, per età, per salute o per altra causa venga a scapitare della sua attività ed energia, la clientela di quest'ultima passa per lo più alla prima, che in questo caso diviene una principale e mette a sua volta le proprie aiutanti.

Il merito dell'aiutante, come dicemmo, essendo, o almeno supponendosi da meno di quello della levatrice, è facile comprendere come anche il suo officio esser debba del tutto materiale e di molto inferiore a quello della levatrice. Ella non è altrimenti che una iniziata, non ha che una parte esecutiva ben circoscritta; non ha il dritto di prescrivere ricette, di dar consigli, di ragionare di scienza ecc.

Quando le levatrici si appartengono ad un ordine più distinto possono anche discernersi per l'abito dalle aiutanti, chè quelle vestono con una tal quale eleganza, hanno lo chàle e il cappellino; queste si acconciano a modo delle donnicciuole avvolte in un semplice fazzolettone. Tale almeno è la regola generale, ma come tutte le altre va soggetta ad eccezioni.

Torniamo ora a Donna Susanna che, già al fianco della sua comari, trovasi, come suol dirsi, nel suo centro.


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In quel momento supremo in cui la donna, per dar luogo ad una novella esistenza pone a repentaglio la propria. In famiglia tutta vedesi sossopra, e la casa (specialmente se il parto accade di notte) può paragonarsi ad un campo di battaglia in minori dimensioni. Qui è il padre di famiglia che trac la secchia, lì una zia che attizza il fuoco, altrove una cognata che riscalda le pezzuole o versa l'acqua nella caldaia.1 cassettoni, le sedie, il letto, tutto in iscompiglio: la stanza coniugale presenta un caos da disgradarne quello primitivo: caraffine, bicchieri, pezzoline, fiale, scatole di mille fogge e dimensioni, e poi la polvere di cipro, il filo, la conca, ecc. ecc. e mille altri utensili di simil fatta. Di questo campo di battaglia il generale è un solo, rivestito d'illimitato potere — la levatrice. Ella dirige, comanda, dispone, prepara ed esegue all'occorrenza, e tutti, dal capo di famiglia sino alla fante, ubbidiscono ciecamente a' suoi cenni, senza replica, senza osservare, senza fiatare.

Quando i dolori del parto ingagliardiscono, la levatrice, attenta mente vegliando sulla partoriente, non si apparta più un sol momento da lei, ed ora confortandola con dolci parole, ora invocando l'aiuto della Madonna e de’ Santi, innanzi alle cui immagini ardono cere e lampadi, ne accompagna i non lievi travagli Iino al momento in cui il novello essere, aprendo, come dice il poeta, «pria che al sole gli occhi al pianto» si annunzia da sè— momento leggiadramente espresso da Papinio

….. ruptum protìnus alvo

Sustulit exultans, ac prima lucida voce

Astra salutans...........

Dopo ciò la levatrice, adagiata in letto apposito la puerpera, rivolge tutte le cure al novello nato, addirizzandogli le membra, tergendolo nel bagno, avvolgendolo nelle fasce ecc.

Il Cortese, nella Vaiasseida, accenna ad altre operazioni della levatrice, come di Ungere il volto del bambino col sangue spruzzato dall'umbelico perché egli addivenga pin vegeto ed appariscente; di tagliare il filo della lingua spargendovi sopra zuccaro, o simili, come dai suoi versi:


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Ma la mammana disse: mo Compare

La mecco riterra e po tu pigliatella,

Ma lassamella nnanze covernare

Ca piglia friddo po la pacionella,

Cosi pigliaie lo filo pe legare

Lo vellicolo, e po la forfecella

E, legate che l'appe, lo tagliaie

Quanto pareite ad essa eh'abbastaie.


E de lo sango che sghizzato nn'era

Le tegnette la faccia, azza che fosse

La Nenna pò cchiù rossolella ncera

(Ferzó ne vide cierte accossì rosse)

E po la stese ncoppa la lettera

E conciaile le bracete gamme e cosse.

Lo filo de la lengua po rompette

E zuccaro e cannella nce metieile.


Po saliaje dinto a la sportello

No pocorillo de sale pesato,

Dicenno: te, cà chiù saporetella

Surrà quann'haie po lo marito allato,

E le mettette la tellecarella,

Dopò che lo mifilln appe affelato,

Ca lo cotriello e co lo fasciatura

L'arravogliaie che parse pesaturo,


Po pesate maiorana e fasolara

Aruta, menta, canfora e cardille,

E n'erva che non saccio, pure amara

Che se dace pe bocca a peccerille,

E disse: Te, se la tenite cara

A becere le date sii zuchille,

Ca n'havarrà de ventre maie dolore,

E se farrà comme nu bello sciore.


È giustizia non pertanto avvertire che molti fra gli usi mentovati dal Cortese, figli di pregiudizi e d'insulse fattucchierie, ai quali pòIrebbero aggiungersene altri non meno ridicoli,


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come quello di trarre, avvenuto il parto, gl’interiori ad una gallina ancor viva, stimandolo prosperoso alla salute della puerpera; come quello presso gran parte fra le donnicciuole di tener nelle stanze qualche vaso di ruta, erba che credono efficace a preservare il bambino da sofferenze, non veggonsi adottati dalle mammane che godono di una certa reputazione, ma solo dalle plebee e di poco merito, talune delle quali neppure autorizzate; specie di guastamestieri, come se ne trovano dappertutto e di ogni specie.

Or, per toccare un tantino dell’arte ostetrica, è osservabile come essa (sebbene i primi precetti, secondo gli scrittori, se ne trovino in Aurelio Celso) sia stata quasi sempre sotto auspici di Deità feminee ed esercitata dalle donne, riputandosi officio molto onorevole.

Le Greche invocavano ne' dolori del parto Giunone Ilicia, e le Romane Giunone Licinia, con questa formola serbataci da Terenzio:


Iuno Lucilia, fer opem, serva me observo


Properaio (lib IV. Eleg. I) allude ai voti che le si facevano per impetrare la faciltà del parto, ed a ciò pure accenna un'antica iscrizione:


IUNONI LUCINAF.

PRO FILIA PARVA LABORANTE

SUSCEPTO VOTO

STATILIA. D. D.


Gli Ateniesi tenevano Diana come protettricc delle partorienti. Era costume delle donne presso quei popoli di deporre la cintura nel tempio di questa Dea, rito che celebravasi con la maggior solennità e che poi diè origine alla frase zonam solvere con cui vuolsi esprimere l'ingravidar della donna.

Grazio nell'ode XXII lib.3. c'istruisce come presso i Romani anche Diana Nemorense venisse invocata nella occasione di parto:


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Di monti e boschi o

Vergine custode,

Ch'odi, il triplice prego e fai che viva

Sposa, cui l'egro al parto alvo si annode

Triforme Diva.

Nell’antica Grecia troviamo commendate, tra le più celebri levatrici, Aspasia, Laio)e, Agnodice, Salpe; ed a Cleopatra regina di Egitto si attribuisce un trattato di ostetricia che l'addimostra esperta anche in quest'arte.

E, per tralasciare di quelle che ne' diversi secoli fiorirono in Alemagna, in Francia, in Inghilterra ed altrove, accenneremo solo che l'Italia, in qualsivoglia disciplina a niun'altra nazione seconda, ebbe nel XIII secolo una levatrice chiamata Trotula che, per la prima, dettò un'opera speciale di ostetricia. Nel museo della dotta Bologna ammirasi una serie di preparazioni in cera, rappresentanti le diverse posizioni che può offerire il feto nell'utero all'epoca del parto, le quali sono esclusivamente opera di una donna.2 Eccellenti ostetrici ebber cuna anche nella nostra Napoli, e ci basterà per tutte accennare la levatrice maggiore dell'ospedale degli Incurabili Anna Maria Granchi, conosciuta volgarmente col nome di Donna Mimrna, valentissima, sia come esercente sia come maestra, avendo prodotto abilissime discepole, ora venute in lama tra le prime, e che accoppia al valore modi affatto distinti e signorili; cosa per avventura non comune in questo ceto.

Né solo nella storia profana ma anche ne' libri santi (I. dell'Esodo) troviamo fatta onorevole menzione delle levatrici, nominandosene due, Sephora e Phua per avere, con manifesto pericolo della propria vita, salvato i bambini delle Ebree, da Faraone condannati a morte;


1 Versione del Gargallo.

2 Molte rare collezioni in cera rappresentanti l'anatomia del corpo umano veggonsi ancora nel Museo di Fisica e Storia Naturale in Firenze; fra le quali il corpo di una donna (lavoro di Clemente Susini) che può smontarsi pezzo per pezzo lasciando scoperte le cavità si del torace che del basso ventre. Per tai mezzo puossi esaminare la situazione de’ differenti visceri, staccarli, riunirli ed aprirli per conoscerne la forma interna. Questo corpo intero e le altre preparazioni parziali dimostrano tutti gli organi che servono alla riproduzione, allo sviluppo progressivo del feto, e alla sua comunicazione con la madre. Vi si vedono anche rappresentate in cera diverse circostanze d'un parto sia naturale che prematuro, o doppio. e differenti parti del corpo umano.

Guida di Fir. e Cont.


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 per lo che il Signore le colmò di benefici con le loro case e con le loro famiglie. Tuttavolta, per quanto le levatrici abbiano potuto meritare il plauso e il suffragio di tanti e sì remoti secoli, pure la sperienza ha dimostrato che in molti difficili casi la sola opera di loro (pognamo anche espertissime) sia insufficiente senza il soccorso de’ professori, ossia chirurgi ostetrici, che il nostro volgo per una curiosa analogia chiama vammanoni.

Ed in vero tutte le nazioni più incivilite, ebbero uomini chiarissimi in questo ramo, che lungo sarebbe enumerare; rimanendoci contenti a citarne alcuni fra' Napolitani, per tacer di altri di minor grido, come Luca Gamico, che fiorì nel secolo XIV, Galeotti nel XVIII e nel XIX Civita, Ippolito Verducci, la Cattolica.

Incontra sovente che taluna levatrice, o per poca conoscenza dell'arte, o per un mal fondato orgoglio, ostinandosi ad operare da sè, trascuri il consiglio ed i precetti di questi periti, quando il bisogno lo esiga; per la qual cosa non rare son le vittime della ignoranza e della presunzione, tanto maggiormente che una tal professione è in gran parte esercitata da donne del volgo ed analfabete. Arroge come ancora i casi più semplici ed ordinari possano degenerare in gravi, quando non si sappiano opportunamente adoperare i mezzi che l'arte suggerisce; da che nasce che presso tutte le nazioni siasi sempre osservata la massima oculatezza e siensi adottate le misure più efficaci a fine di assicurarsi della espertezza e dell'attitudine delle levatrici.

Difatti nel Codice della Pubblica Istruzione per le due Sicilie, dell'anno 1810, al Capitolo secondo del Regolamento per la Collazione dei gradi dottorali, vien prescritto dover le levatrici sostenere presso la Facoltà medica un competente esame essere munite all'uopo della fede di battesimo; di quella di morale, nella quale si contenga altresì la dichiarazione del parroco com'elleno sieno al caso di amministrare in caso urgente il battesimo della fede di perquisizione criminale e correzionale; della fede d'idoneità all’esercizio del proprio mestiere; della fede di filiazione; ed infine pagare il dritto di ducato uno per l'esame e di ducato uno e grana cinquanta per la cedola, la quale vien loro rilasciata dopo l'esibizione non solo delle fedi indicate, ma ancora di un attestato della levatrice maggiore degli Incurabili.


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Nel locale di clinica ostetrica della Università degli Studi, per le cure del Professore di cosiffatta disciplina, vengono altresì in ciascun anno esercitate le levatrici nella pratica del mestiere, nelle ore pomeridiane del martedì, giovedì e sabato, ed un apposito Regolamento. approvato il 12 aprile 1859, stabilisce le basi per lo insegnamento pubblico delle apprendiste levatrici del Regno. Oltre questo insegnamento pubblico àvvene altro privato della già nominata levatrice maggiore signora Granchi, egualmente pratico, e dove le alunne restano sei mesi in permanenza, pagando un mensile di ducati trenta per la istruzione e per l'abitazione.

Ha poi il dottor Aurelio Finizio, dalla cui gentilezza teniamo queste notizie, fra altre opere in questo genere, pubblicato un manuale col titolo: I doveri della levatrice, nel quale, sotto forma dì lezioni, adattale alla loro intelligenza, vengono elleno ammaestrate in quanto concerne i principi e la pratica del mestiere.

Ci rimane a notare come altre condizioni essenzialmente richieste in una levatrice, la morale, la probità, la discretezza. Consapevoli, in grazia del proprio officio, de’ fatti più intimi della società nobile e plebea, ciascuna levatrice ha sempre in pronto qualche spiritoso aneddoto nel genere erotico o qualche galante novelletta da narrare. Sovente la voluttuosa aristocrazia, dimentica del fasto che la circonda, discende nel povero tugurio, convenendosi in pioggia d'oro per adescare qualche facile Danae, sovente la nobile dama si permette qualche passatempo arcadico, e delle conseguenze che soglion derivare da queste intimità la depositaria non è altra che la levatrice.

Non pochi esempi si veggono di gravidanze simulate, a fine di defraudare della successione i legittimi eredi; non di rado, per lo scopo medesimo, si sono tolti a prestito bambini facendoli creder propri, le intere famiglie sonosi vedute spogliate di ogni sostanza, eluso il sacro dritto delle leggi, per la connivenza di una qualche poco onesta levatrice; ed altri anche più gravi danni, cui per altro le leggi non han trascurato di ovviare, sì che nel Codice penale 1 trovansi prevedute le pene per ciascun reato onde una levatrice render si potesse colpevole.

Le levatrici, per ultimo, come i medici, hanno il dovere di prestarsi, anche gratuitamente, in soccorso de' pover


1 Articoli 395 a 398 — 344, 346, 347, 352, 399.


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che dell'opera loro abbisognano: epperò le vediamo non solo ricoverare in propria casa infelici partorienti prive di tutto (spesso vittime della seduzione) e prodigare a queste rimedi ed assistenza, ma talfiata ancora provvederle di vitto, di roba e di danaro.

Compiute le operazioni relative al parto, per altro tempo determinato dalle condizioni più o meno felici del puerperio, la levatrice continua le sue cure alla donna ed al novello nato. Quando pertanto esse non eccedano le ordinarie e solite a praticarsi in simili casi, la levatrice, senza incomodarsi personalmente, è solita, in sua vece, mandare l'aiutante.

Il giorno del battesimo è però quello in cui la levatrice apparisce nella sua maggior pompa e decorata di tutti gli onori del suo ministero. Il consueto suo uniformerà tale solennità, consiste in un abito più o meno ricco, a seconda della sua posizione sociale e del posto che tiene fra le sue compagne di mestiere, sul quale abito vedi, come sovra una tavolozza da pittore, riuniti quanti colori ha l'iride più vivaci, ed il carminio ed il giallo ed il celeste ed il verde ed il rosso ed il castagno, di tal che in quell'arnese la buona comare, rende molto somiglianza di un pappagallo o di un uccello-paradiso in dimensioni teloscopiche. A questo abito vanno aggiunti, per compierne l'abbellimento, ricchi orecchini, più collane di oro da cui pende immancabilmente un consimile orologio, ed una quantità di anelli alle dita. Tutto questo elegante edifizio termina in una cuffia al pari montata con merletti e nastri di lusso, e che forma il distintivo caratteristico della levatrice-modello, ancorchè le più nobili usino eccezionalmente il cappello.

Così addobbata ponsi in bussola e si avvia alla casa della comare.

Queste bussole o portantine, chiamate dal popolo seggette, sono specie di sedie chiuse, trasportate da due facchini, detti perciò portantina!. Se ne usa per trasportare ammalati o feriti; in cambio di carrozze nel giovedì e nel venerdì Santo; per condurre seralmente le cantanti e le ballerine a teatro; e pel battesimo. È facile pertanto discernere, fra tutte, quelle destinate al battesimo da una maggiore eleganza, talune anche dal lusso onde sfoggiano, apparendo al di fuori adorne di fregi, intagli, bassirilievi dorati e simbolici,


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con angioletti laterali, egualmente modellati; sormontate da qualche vaso da fiori o cose simili, e al di dentro gentilmente addobbate con istoffe o chiuse con tendine di seta e con lastre opache a vedute ed a figure 1.

Il nolo di queste portantine, che sono depositate in appositi magazzini o rimesse, non è stabilito da regolamenti ma va pattuito secondo le distanze.

È curioso osservare una consimile eleganza, i consimili adorni simbolici anche ne' nostri carri funebri; quasi a far testimonianza come il fasto e la pompa accompagnino del pari l'uomo nel suo entrare al mondo e nel suo uscirne


E l'uom d'esser mortal par che si sdegni

o nostra mente cupida e superba!


Giunta la levatrice col suo equipaggio a casa lu puerpera, discende dalla bussola e fa il suo ingresso trionfale. Ivi con anticipazione il novello nato dagli amorosi parenti è stato rivestito di elegante camicetta a merletti a frange ed a nastrini, e della veste di battesimo, che in tutte le famiglie si conserva con una religiosa scrupolosità, e che passa soventi di generazione in generazione. Sul capo ha una cuffietta adorna al modo medesimo, e vedesi sovente adagiato a piedi del letto materno in min specie di cestellino che la eletta società, quasi vergognando del proprio linguaggio, si piace di addimandare più volentieri corbeille.

La levatrice quindi, tolta la creaturina, avendo scrupolosa cura di adagiarne il capo, giusta il rito, sul braccio destro, se maschio, e sul sinistro se femmina, risale la portantina, per andare al battesimo, sovente accompagnata per le strade da sonori Iìschi ed urli àe'guagliune che le vaii gridando appresso: La Vammana... La figliala...

Uopo è notare che nelle famiglie più distinte le portantine sono spesso surrogate da carrozze proprie, o, per chi non ne ha, da quelle così dette di rimessa, le quali, abbenchè da nolo, pel modo decente e per la proprieta onde sono mantenute rassomigliano molto alle padronate, talune anzi non ne differiscono punto.

Quantunque sia discutibile la felicità dell'uomo che diventa padre,


1 Vedi la figura.


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il giorno del battesimo è, e fu sempre, giorno solenne di gioia. S'invitano i parenti, gli amici, si banchetta, si da ballo, si permette a ciascuno di profetizzare sulle future sorti della creaturina, istupidita ed assordata da mille clamori, come Giove tra i Coribanti, seguendo in ciò una costumanza pressochè simile a quella de’ Cinesi, ciascuno dei quali ha il dritto di pronunziare liberamente il suo avviso sulla novella sposa all’ingresso della casa maritale.

Nel volgo, del pari, conviti, baccano, gozzoviglie: fra i poverissimi le ciambelle ed il vino, se non altro, sono immancabili. Si ha cura allo spesso di riunire una orchestra composta degli strumenti a fiato più fragorosi, la quale, a cagione dell'angustia del locale—spesso consistente in una meschina e malconcia stanzuccia o in un lurido lasso—e della calca che vi si accoglie, è costretta a prender posto presso il capezzale della puerpera, la quale è un prodigio che non crepi stordita ed asfissiata! Questo costume ha senza dubbio dell'Unno, del Vandalico; tuttavolta serbasi religiosamente nelle famiglie popolane: questa specie di musica non manca mai ove si tratti di novella sposa o di novello nato. Vuolsi nondimeno por mente esser la vita ed i costumi presso il volgo ben diversi da quelli del ceto più elevato, ove al lusso ed alla mollezza va per lo più accoppiata la poco vigoria del corpo. Così, laddove fra i nobili s'impiega ogni maggiore studio perché niun odore, niun frastuono, niuna agitazione, niun turbamento, anche menomo, abbia a disturbare la puerpera, per tema di funeste conseguenze; dall'altra parte, suoni, schiamazzo, baccani, clamori sono nel tugurio della donna del popolo, senza che però ne abbia nocumento; e quando bisognano mesi pria che la gran dama possa levarsi di letto e ripigliare le sue abitudini, la donnicciuola, talvolta un giorno dopo il parto, fa il suo bucato ed esce per sue bisogne. Sublime legge di compenso nell'ordine provvidenziale!

Reduce dal battesimo la levatrice, recantesi sulle braccia il novello Totò, Fifi o Popò, o la novella Sisma, Checchina, Lenina (vezzeggiativi che rimangono in fidecommesso all'individuo di qualunque sesso anche dopo i 60 anni) la sua prima cura è di presentarlo al genitore affinché lo baci. Questo bacio, che in certo modo, per parte della levatrice, rassomiglia a quello di Giuda, non è mica a titolo gratuito. Come i Romani al nascer di un fanciullo solevan deporre una moneta (nummus) sull'ara di Giunone Lucina,


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il padre di famiglia, dopo il bacio, ha il dovere di donare alla comma-m il cartoccio, cioè un regalo di dolci o in danaro secondo le particolari consuetudini.... probabilmente per simboleggiare le prime dolcezze della paternità!!

Terminate infine del tutto le cure, tanto inverso la puerpera quanto inverso il novello nato, la levatrice ha dritto al suo compenso che va regolato secondo le condizioni, il ceto della famiglia ed il merito della levatrice medesima. Questo compenso è ordinariamente tra i 6 ed i 9 ducati nel ceto medio per le levatrici comuni, ma può estendersi Uno ai 15 ed anche a' 20 per le primarie.

Non si creda pertanto che la levatrice, dopo ciò, abbandoni mai più le sue clienti: ella rimane l'amica di casa, la confidente intima delle sue commare, non manca di visitarle e di prender conto a quando a quando, con tenerezza veramente materna, se sieno gravide e di quanti mesi.

E se spesso la vedrete rivolgersi ad una poveretta che sta per dare in luce il suo ottavo o nonogenito e dirle col labbro atteggiato al sorriso, col cuore gongolante di gioia e sulla barba di un disgraziato padre che vive Dio sa come! Comma chesta vota ne farraje duje! non per questo vogliate giudicarne sinistramente. Ella non indaga i particolari dell'individuo o della famiglia; ella cerca la prole come elemento indispensabile del mestiere; ed abbonisce le donne sterili, non per malignità di cuore, ma per mostrarsi qual'è, zelatrice impareggiabile e promotrice della legge divina imposta alla umana specie di crescere e di moltiplicare.

ENRICO COSSOVICH.


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 201-204)



LO SPAZZATURAIO





Lo Spallanzani proclamò l'aforisma che non v'ha nulla di sporco in natura, e a tal dichiarazione arricciarono il naso e torsero il grifo non solo gli! schifiltosi e gli stomacuzzi di cartapesta e di carta nonnata, ma anche molti di coloro che vantano) stomaco forte e gusto di universale estensione. Or che sarà quando io, senza l'autorevole e veneranda dottrina di uno Spallanzani, senza poter nemmeno da lungi aspirare ad una minima particella della sua riputazione, avrò proclamato di mia privata autorità che le cose più sporche sono le più utili, dirò anzi le più indispensabili alla materiale prosperità dell'universo mondo!

Al lettor malizioso e malignamente sagace! Tu credi di aver capito a modo tuo, e mi stai preparando un diploma di epicureo per poi mandarmi con sentenza della coda di Minosse al cerchio primajo dell'inferno dantesco. Di grazia, bada a non far giudizi temerari. Io ti parlo di utile non di dilettevole; e, quantunque queste due qualità il più delle volte si trovino riunite e debbono andar riunite colle debite riserve e cautele, non son poi certo una medesima cosa né possono l'una con l'altra confondersi.


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Epperò ricordati che ho accennato a ciò che è utile, anzi indispensabile al materiale incremento dell'umanità, dà uno sguardo al titolo che vedi in fronte a questo scritto o alla figura che l'accompagna, e poi usa pure di tutta la sagacia a indovinare e a combattere il mio paradosso.

La gran fucina del nostro alimento è la terra: tutto ciò che mangiamo viene dalla terra, o non esisterebbe senza i prodotti della terra. Non crediate già ch' io parli dei tartufi esclusivamente o delle patate: oibò: io parlo colla massima generalità e comprensione di tutto ciò che introdotto per l’esofago viene a mettere capo in quel tristo sacco che Dante nominò con una crudezza di espressione che non piacque all'autore del Forno e del Galateo. Or tutta questa roba si distingue in vegetabile ed animale, poiché non ancora abbiamo trovato il magistero di convenire i minerali in cibo come si convertono in medicina. In quanto ai vegetabili, egli è chiaro, che vengono dalla terra, e spero che non ne domandiate la dimostrazione. In quanto agli animali che da noi si mangiano, è più chiaro che essi non potrebbero vivere senza far uso dei prodotti vegetabili. Dunque... lascio ai miei benigni lettori la cura di trar questa conseguenza, la quale fortunatamente questa volta non à bisogno di argani, di mangani o altri meccanici argomenti per essere cavata e tratta dalle premesse.

Epperò se la terra è il gran laboratorio dove si plasmano i nostri alimenti o immediatamente o mediatamente, ogni cosa che giovi e a mantenerlo in attività e a migliorare le sue produzioni deve esser tenuta come occupante la cima della gran piramide delle cose utili: e se proverò che le cose più sporche sono quelle senza di cui questo effetto non si ottiene, avrò provato, o che m'inganno, che sono esse non solo le più utili cose, ma le indispensabili alla nostra prospera esistenza.

La terra, abbandonata a sé stessa, in breve sterilisce, e invece di cavoli, spinaci e sparagi, invece di grano, riso e piselli, invece di fragole, fichi ed uve, produce ghiande e spine, faggiuole e cardi, bacche e triboli, stramonio ed aconito, cicuta e belladonna.


1 Inf. 28, 26.


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Quindi perché ci dia i suoi doni e ce li dia buoni ed abbondanti, fa d'uopo adoprare unguenti e profumi, come si adopera colle vecchie, e la terra è un pò vecchietta. I suoi unguenti, i suoi profumi, il suo belletto, è il concio, il letame, il fimo, lo stabbio. E di che si compone questa roba; questo cosmetico e ingrasso che la deve rendere fertile e feconda quando è sfruttata o isterilita? Non di altro che dei residui e romasugli di tutte le cose digeribili o indigeribili, vegetabili o animali e fin delle minerali, e soprattutto di quelle tali cose che per essere le più sporche si gettan via dalla plebe e dai nobili, e che raccolte a grande stento e con somma fatica da uomini a ciò dedicati, divengono perciò le più utili al progresso e all'incremento della specie umana.

E però lo spazzaturajo è l'essere più benemerito della civil comunanza, perché raccoglie le nostre sporcizie e le converte in nostro alimento. Vedetelo da mane a sera,


Dall'aurora al tramonto del di


come direbbe il conte d'Almaviva, non d'altro coperta la sua nudità che di un paio di mutande, armato di uno zappolino e di un cofano, talvolta tenendo ai suoi servigi un asino o un vecchio cavallo messo agli invalidi, percorrere le strade ele case, salire e scendere allegro le altrui scale senza che ciò sia per lui duro calle, gridare monnezze monnezze! raccogliere la spazzatura delle camere e delle vie, il rigetto delle cucine e delle latrine, e quanto muove dagli umani privati, far tesoro di tatto nel suo cofano aiutandosi con mani e piedi a caricarlo, arrovesciare ogni cosa sul suo giumento, o ammonticchiarlo in un vicolo remoto, per poi farne il carico di una carretta, e nelle ore pomeridiane muovere ad arrichirne i campi e le paludi che circondano questa decapitalizzata Napoli. Inginocchiatevi sul suo passaggio, stringendovi col pollice e l'indice le delicate narici del vostro naso: quel convoglio racchiude le più sporche cose che siano al mondo, che lo spazzaturajo converte nelle più utili, nelle più indispensabili al nostro sostentamento. E voi vorreste che il municipio ponesse fine a questa industria santissima, pel futile pretesto di non vedere quel cumulo di porcherie in qualche sito della città?


1 Vedi la figura.


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O ingrati! il vostro desiderio rimarrà un desiderio Nel santuario della vostra famiglia, nell'adito arcano e misterioso della vostra cucina, non entrerà lo spazzatore municipale che è pagato per menare a fondo una granata o una scopa, insozzandovi e coprendovi di polvere al passar per le vie; ma seguirà a penetrarvi il noto ed il primitivo spazzaturajo che senza alcun distintivo sul cappello; anzi senza cappello, senza sporcarvi le scarpe inverniciate o impolverarvi da capo a piedi, si prenderà il vostro superfluo per trasformarlo in nostro necessario. Non vi spaventino i progetti per lo spazzamento, gli appalti e le contrattazioni per lo stesso fine, le igieniche proposte divulgate dall'egregio Marino Turchi: tutto ciò rimarrà nel campo delle astrattezze, e la bella Napoli seguirà a rimanere nelle mani degli spazzaturai, che alcuni filantropi in sole chiacchere vorrebbero ridotti alla condizione di oggetti di curiosità da mostrarsi ne' musei e ne' gabinetti.

EMMANUELE ROCCO


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 215-236)


IL CAMORRISTA E LA CAMORRA


Da quando in qua l'orrore esclude lo studio ?

V. Hugo, I Mis.

Nnje nun simmo Cravunari

Nuje nun simmo Rialisti.

Ma facimmo i Cammurristi

Jammo n'... a chille e a chisti.

CANT.   POPOLALE.


Così come nelle cose naturali a ben guardare un orizzonte fa d'uopo allogarsi là dove l'occhio abbia piena facoltà di veduta, nelle cose politiche o nelle industriali, uopo è allogarsi nel giusto punto)di veduta. Le questioni di ogni genere mal guardate o mal prese a considerare assumon sovente proporzioni non analoghe alla loro importanza: la esagerazione s'impadronisce delle più lievi incidenze per farne fatti speciali, il caso o la combinazione si eleva a sistema, ovvero è riputato fatto di tutti i giorni quello che è solamente maggiore o minor conseguenza di un tempo.

Il nostro bellissimo paese, non sappiamo se per sua sciagura o per sua attraenza speciale chiama a sé la diligente attenzione di tutta Europa, eccita le svariate suscettibilità, aguzza gli spiriti indagatori e vaghi della moderna letteratura, e di ogni suo vizio o viziosa sua velleità e pieghevolezza forma obietto di esame, di commiserazione, di biasimo agli scrittori di voga.

La parola barbarie che pronunziasi agevolmente come quella di civiltà, condanna sovente senza remissione un popolo e lo dichiara degno di non partecipare all'alto consorzio e di non prender posto al banchetto della libertà civile ed onesta, per aver ecceduto in alcuna sua tendenza.

Queste cose dette in protasi di teoria applichiamo ricisamente alla Camorra nel nostro paese, della quale non solo si è fatto un gran discorrere e ragionare dappertutto, ma quel ch'è più s'è fatto uno scriver continuo in libri, opuscoli, relazioni, opere, giornali.


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Ma, per ben giudicare della camorra, egli è d'uopo farsi a disaminarla, guardandola dal suo vero punto di vista.

In tutte le associazioni delle classi perniciose è il vizio certo quello che predomina e dà la prima spinta. Qui se ressemble, s'assemble, dice l'adagio francese e l'italiano dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Gli elementi impuri, se con l'operazione chimica mutan posto, per operazione naturale si agglomerano, si fondono, si assimilano talvolta. Disgregarli, tenerli lontani, renderne difficile il contatto sarebbe l'opera diretta a frustrarne i rei malori che produr possono nella società, ma questa non è l'opera più facile del governare o regger provincie: qui se ressemble s'assemble. Solo è da vedere e da sperimentare con successo l'analisi.

L'analisi infatto nel proceder governativo mena al conoscimento delle cagioni; e nel popolo, anzi nelle classi perniciose, come dicemmo, il mal procedere e il delinquere si partono da due punti, l'ozio e il turpe abito. Della camorra si è tanto scritto a questi ultimi giorni di disorganamento e riorganamento, che non v'ha quasi altra novità da esporre sul subietto, pur tuttavia cui non sia profano alle cose governative ed allo studio sui procedimenti del passato, troverà forse alcuna cosa inosservata da mettere in veduta, e chi sa questa volta non chi parlò ultimo avra ragione ma chi scrisse ultimo in sul diffuso argomento.

La plebe napolitana è da' pubblicisti di più nazioni tacciata d'indolenza. Dacchè i Francesi appresero a cinguettare la frase il dolce far niente, trovarono nel vivere napolitano l'applicazione di questo motto. Ma se i poeti latini chiesero ozio alle muse, non esclusi i latini, non è questa ragione per chiamare oziosi e indolenti tutti i popoli derivanti o vicini al Lazio.

Certo i geli, il rigidissimo clima, la privazione del sole, non obbligano qui l'uomo a tenere il suo corpo in assiduo movimento di parti. L'uomo della plebe napolitana che, cessato il suo lavoro, prende riposo al sole, non merita per questo la taccia d'indolenza. II non pensare al dimani è di vero l'indizio del suo tipo spensierato, ma non infingardo: questo abito parte dallo appagarsi facilmente.

E qui è pur da osservare che la plebe napolitana soprabbonda nella misura delle diverse classi, e però se la operosità della media classe s'asconde o si concentra nelle officine e negli uffici,


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l'oziosità della plebe in sì gran numero usa a vivere sulla pubblica via, si manifesta subito come un gran fatto, mostrandosi alla presenza di tutti.

L'ozio ne' paesi Nordici non è palese come tra noi. Chiudersi e ripararsi dal freddo è un bisogno. In questa guisa l'ozio straniero sfugge alla osservazione. Il voluto ozio napolitano, si manifesta all'aperto. Ma dal fondo di queste osservazioni non deriva già che non v'abbiano oziosi tra noi. Il paese esser potrebbe eminentemente commerciale, e se il commercio venisse spinto all'apogeo, i napolitani laboriosi avrebbero di che viver meglio; gl'infingardi si metterebbero all'opera. La restrizione di un governo; che pose lacci a tutto ed anche al pensiero espresso dall’uomo di lettere e dall'artista, fece per lo addietro di più commerci altrettanti privilegi. Il privilegio, la eccezione, e diciamo pure l'astensione della legge divengono abiti, natura. Il privilegio, la eccezione menano alla deferenza, al favoritismo; e il favoritismo è il peggiore de’ dispotismi. Tutti hanno dritto al lavoro, e chi ne forma l'elemento o l'alimento di una casta, trasvia dalle leggi più sacre.

I facchini nelle Amministrazioni passavano un tempo di padre in figlio; così quelli addetti a lavori manuali: per essere accolti in qualsiasi opificio, laboratorio, instituto era d'uopo di una maniglia. La maniglia era la protezione di un signore o di un influente che doveva raccomandare. Tutto era commendatizia: e il caso di uomo che si fosse presentato non dico, ex abrupto, per lavorare, ma anche recando seco un certificato di buona condotta, senza maniglia, cioè protezione, era un caso per la sua specialità, scandaloso.

Vigorosi giovani, sane intelligenze popolari, spigliati e svelti faccendieri non avevano mezzi di trarvita laboriosa, e si faceva una colpa al tale di chiamarsi Esposito, cioè di non aver padre, al tale altro di esser figliuolo di un liberale o supposto liberale in duri ferri chiuso o relegato. Gli uomini bramosi di lavoro e di attività si sdegnano della inerzia e questi uomini della plebe abbandonati a sé stessi, sentivano il bisogno di adoperarsi. Qui se ressemble, s'assemble. Lasciate in abbandono le classi perniziose e sorgeranno le società segrete. La bettola, il postribolo saranno il tempio nuziale de’ vizi dell'ozio, destinati poscia a divenir vizi produttivi.

La parola Camorra vale da una parte associazione, dall’altra unione di lucri.


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Gente che in tutti i giorni s'incontra, sente il bisogno di far qualche cosa, in breve di agire, di operare. Da un'accozzaglia di gente di prava indole, checchè dicasi del buon instinto popolare, non può venir fuori la repubblica di Platone. La via pubblica diventa a lungo andare il patrimonio di chi la consuma. Le arterie di una capitale, gli angoli, gli svolti, i capo via, sono le vedette del ribaldo che specula l'avventura o la sorte. La camorra divenuto ritrovo generò il camorrista.

Che cosa è il camorrista e chi poté inspirare a questo degenere cittadino quella nuova specie di tornaconto che divenne poi alimento di una classe intera.

Il camorrista è un uomo che vuole rendersi utile ad ogni costo, che vogliate o no vi offre l'opera sua. Siete in facoltà di rifiutarla, ma dovete compensarla: egli dice lasciate mangiare. Il faut que tout le monde vive disse Arrigo IV: il camorrista soggiunse debbo mangiare!

Tutte le nostre più triste assuetudini si partono dal governo Viceregnale. Gli Spagnuoli. separando le classi e ponendo l'aristocrazia agli antipodi della plebe, fecero di ciascuno di esse un corpo compatto. Nell'una si agglomerarono tutti i vizi della vanità, nel l'altra tutta la vanità del vizio. Spiego ancor più lucidamente questa idea, dichiarando che il camorrista è un guappo, che il guappo o gradasso toglie origine dal guapo spagnuolo, e se l'aristocrazia si fa bella d'ogni vanità di privilegio e di forma; se specula sul titolo di Eccellenza, la plebe specula sulla vanità del vizio, vai dire sulla forma di uomo temuto o temibile, sul tipo ili guappo o di camorrista.

Ma la origine spagnolesca di questo elemento di prostituzione e dissoluzione nella civil società ebbe un incentivo anche maggiore a' tempi del governo Borbonico.

Per una inqualificabile oscitanza di rettitudine e anche di forma e di legalità il Municipio di Napoli invece di provvedere con ordinamenti stabili alla nettezza e allo sgrombro delle principali vie di questa nostra città, invece di chiamare i faccendieri e i venditori all'osservanza della legge, dava facoltà a' suoi dipendenti di procedere sui recidivi e i renitenti con misure provvidenziali e discrezionali.


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In nessun paese il potere discrezionale trabocca più facilmente che a Napoli. Più gli uomini sono facili a trascendere, più retta deve sorgergli innanzi la legge. La legge, sempre la legge, e le acque del torrente non usciranno dall'alveo prescritto. Il napolitano è singolarmente svelto, pronto, perspicace: egli vi ruba la mano come il cavallo caldo di bocca, e se la legge stessa gli offre un angolo oscuro, un vuoto, egli di botto lo invade e lo colma.

I venditori ambulanti, invadono le vie, profittano dei chiassuoli, speculano sul passo del vicino per inoltrarsi. Pur che il loro genere sia visibile a tutti, purché la merce si faccia comprare, il commestibile ecciti il desiderio, faccia venir l'acquolina in bocca a chi meno vi pensa, i venditori, chiudon la via, circondano gli edifici ragguardevoli e dimenticano sempre che Cristo cacciava i venditori dal tempio. Essi voglion aver il dritto di vendere dove e come loro più aggrada. Il Municipio allora, non pago dello eletto municipale che è chiamato a farne rispettare le leggi e disposizioni edilizie, annonarie che pose in giro un suo agente che chiamò il chiazziere, cioè l'esattore della piazza. Francesco Saverio Del Carretto Ministro della polizia si pensò fare del Gendarme un magistrato armato ma gli fallì il concepimento, perché gli mancava l'uomo, il Municipio volle fare del Chiazziere l'esattore giro vago, ma eziandio in questo caso gli mancò 1' uomo probo. Il chiazziere correva da un capo all'altro le vie, era sopra ai venditori, tratteneva asini ed asinai e minacciando, percotendo sovente, riscuoteva un soldo da ciascun contadino, plebeo e venditore ambulante, sconoscendo talvolta chi lo avea pagato ed usando modi sempre villani e barbari.

Quella forma di esigere quel soldo, preso così tra minaccia e sorpresa, suscitò le libidini del camorrista.

Il governo esigeva senza norma e senza forma legale dal contadino in piazza, egli si fece un passo indietro e lo aspettò più innanzi.

«Vai a vendere con le some cariche, sei certo di tornar con le some vuote e le tasche piene (disse il camorrista) paghi un soldo al governo, pagane uno a me che ne ho più bisogno di lui.» Una illegalità è fonte e scaturigine d'illegalità mille.

Il camorrista ne' contratti si pose a guardia del genere: nessuno lo chiamò, ma egli vi stette: ed a contratto fatto come suol dirsi, dimandò la camorra.


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Da mihi portionem, sono il figliuolo della strada, debbo vivere dei fatti compiuti nella strada.

Il battelliere o barchettaiuolo, il carrozziere gli pagavano l'obolo puntualmente, ma egli, non rade volte, mescevasi alle loro risse, facea cessare i loro alterchi, distribuiva nell'equa lance del suo ladro spartanismo il diritto e la ragione. Egli, il camorrista, pretendeva di veder chiaro, perché era uomo independente, non suggetto ad umani riguardi. Egli aveva Dualità, tutte sue proprie, perocchè, esercitando una professione libera, egli non aveva la vergogna di aver servito il governo da spia, da uomo di polizia, da gendarme o da soldato di marina, milizia assai partegìana della corona e dedita più di altra a vizi nefandi.

La camorra, originata nel popolo dall'abbandono delle classi perniziose a sé medesime, fu originata nello esercito dalla creazione di due reggimenti Siciliani, in buona parte cavati dagli ergastoli e da altri luoghi di punizione. Come è chiaro dalle cose anzidette, era sempre la guapperia o la gradasseria che presiedeva all'opera del camorrismo, il capo camorrista era sempre un guappo; e in un esercito, come in un sito di detenzione ovvero in una qualsiasi associazione, i timidi, i neofiti e gl'incipienti non mancano.

Formata l'associazione, era ben regolare che una specie di legge ne prescrivesse i limiti e le attribuzioni. Il disordine non può esser mai stato permanente: tutto tende ad equilibrarsi, e non appena cinque persone si riuniscono, sorge il patto cioè la legge. Portati alle illegalità per abbandono di coscienza, cioè per tornaconto, noi sentiamo d'altra parte il bisogno di legalizzarci per via. E la legge è santa e venerata e tremenda, sol perché noi sentiamo di doverla subire. L'uomo può agire e comportarsi iniquamente e in onta d'ogni legge, ma l’uomo sente la legge e la riconosce e, se la impreca col labbro, la venera nel fondo del suo cuore.

La camorra ebbe bisogno delle sue leggi per potersi reggere e durare.

Oltre le condizioni e qualità necessarie a chi volesse concorrere nella associazione del camorrismo, i requisiti chiesti e voluti dai regolamenti della camorra furono i seguenti.

Il camorrismo esige l'obbedienza, l'abnegazione, la temerità.


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L'obbedienza è il requisito di chi comincia e s'inizia, l'abnegazione di chi convalida i frutti dell'obbedienza, la temerità è di chi opera..

Si cominciava dall'essere ammessi nella consorteria di camorristi col titolo di picciotto di onore. Picciotto è voce più sicula che napolitana, il picciotto è il paggio d'armi di questa nuova cavalleria. Il picciotto di onore nel camorrismo è il valletto del camorrista, gli fa la spia, gli reca le armi, gli spiana la via dell'esecuzione se egli deve portarsi nel tal luogo, o fra quella determinata gente, per ripetere il suo dritto o meglio la sua tassa.

Un anno circa è dato di tempo al picciotto di onore per iniziarsi nel mestiere. Se egli è riuscito a ben servire senza avidità di compenso, come sacerdote di un culto, da picciotto di onore passa a picciotto di sgarra; ma spesso, ove timido appaja l'animo dell'iniziato o dell'adepto, si richiedono maggiori prove da lui e sono l'abnegazione e la temerità. L'abnegazione consiste nell'assumere la responsabilità di un fatto non suo in sospetto della podestà governativa o giudiziaria, dichiarandosi colpevole per vanteria e lasciandosi chiudere in una carcere: la temerità consiste nel lanciarsi a corpo perduto in qualche impresa arrischiata o in un semplice cimento, sebben di forze ineguali. Senza ripeter qui quello che con colori più o meno drammatici ha detto lo scrittore della Camorra pubblicata dal tipografo la Barbèra di Firenze, colori che sentono l'accozzamento di notizie attinte da un ingegno straniero, noi sappiamo che l'antica polizia borbonica riconosceva i consoci del camorrismo dalla visita delle loro mani. Molta parte di volgari giovani vennero in un tempo chiamati all’appello di una larga camorra e i cimenti prescritti furono quelli di azzuffarsi coi coltelli alla mano e la massima bravura esse quella di afferrar la lama a mano nuda e farla cedere all'assalitore. Da questo ineguale scontro di forze, da questa prova irragionevole di coraggio non potea venirne che lo sfregio e il guasto delle articolazioni tanto necessarie alla vita.

Era questa come chiaro si vede una protrazione dei deliri del Medio Evo, e pretendevano riconoscer l'innocenza dalla sorte delle armi, dal passaggio de’ fuochi accesi, dal trionfo de’ pericoli.

Parecchi giovani, dopo queste prove, restavano rattratti nelle dita; e alcuni rinunziar dovevano a quella medesima professione, della quale il prisma facile a generarsi nelle aspirazioni delle fantasie meridionali prometteva loro sì splendido avvenire.


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Splendido avvenire! ripeterà taluno de’ nostri lettori e quale?

Lo spiegheremo brevemente.

Il picciotto di onore che aveva superato le penose astinenze e le fatiche dell'obbedienza, il picciotto di sgarro che avea vinto le prove dell'abnegazione ed era uscito dalle carceri nutrito a spese della consorteria, diveniva camorrista.

Il camorrista era rispettato da' suoi, avea sott'occhio le paranze cioè i drappelli comandati dai capi paranze, come altrettanti capi squadre, stringeva relazione co’ camorristi delle prigioni; egli era al fatto de’ movimenti della polizia; eseguiva e faceva eseguire qualche utile estorsione a proprio conto: era vestito dalla società a proprie spese, decorato di anella alle dita, di orologio e catena, di berretto a gallone d'oro, talvolta egli era il bello e il bravo della contrada; e la fanciulla più piacente, la popolana più bizzarra non poteva appartenere che a lui se nubile, e la meretrice più scialosa e fastuosa a lui, se fatalmente coniugato.

La povera creatura del popolo che stringe sotto l'egida della chiesa la mano del camorrista non sa soventi volte cui s'accoppia. Sa che si accoppia ad un insieme di bell'uomo che ne impone alla piazza e si fa rispettare, che non è servo di nessuno e può disporre della sua piastra. Sa che andando di costa a lui il quale la mena a' diporti ed alle feste popolari mal si avviserebbe chi le facesse bella od insulto, sa che il suo cavaliere è armato, e il coltello o il rasoio col quale ha sfregiato forse il volto di una donna che gli destò sospetto di slealtà prima di lei, fa quasi capolino dalla tasca del suo giubbone o del panciotto filettato di verde o di turchino coi bottoni di metallo. Ma non sa la disgraziata che quando suo marito è tradotto alle carceri, le conviene menar vita di stenti, perché i suoi provventi e i lucri non son precisamente gli stessi e la società camorristica la tien guardata, e guai se risponde al sorriso di un giamberga cioè di un gentiluomo, se fa buon viso a un capo lasagne cioè ad un Commissario di polizia o ad un tre lasagne cioè ad un ispettore o finalmente ad un palo, cioè ad una spia.

Non sa che la consorteria dei camorristi la vuole casta in mezzo alle insidie e decente senza mezzi. Ella ha l'obbligo di esser pronta ad ogni chiamata del marito, di secondare qualsiasi desiderio del suo tiranno e di recargli sempre, quando lo visita nelle carceri, il dolce del pranzo e qualche cosa pour la bonne bouche.


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Togliamo a prestito qualche parola dai francesi che ne van pigliando da noi e lo facciamo volentieri in cosiffatti argomenti da essi spremuti tutti i giorni e spremuti fino alle midolla per cavarne un capitolo d'avanzo.

Qualche volta la giovine sposa dell'infausto camorrista recasi dal Contarulo della società per isvelargli le sue angustie e le sue privazioni. Il Contarulo è il contabile, l'amministratore della cassa o del barattolo, il distributore delle propine di domenica in domenica. Questi la rassicura, le dice che suo marito si porta bene, che la società è contenta, la mette in speranza di farle guadagnar qualche serpentina, val dir piastra; e perché in un paese dove la religione è orpello o superstizione, la Vergine e i Santi van sempre di mezzo a tutto, la incuora perché si raccomandi a nostra Donna del Carmine che è la patrona, cioè protettrice dei camorristi.

Questo atroce vilipendio, questa profanazione nota ai preti, non parve mai talea quelli che ne' postriboli permettevano le immagini lampeggianti al limitare di oscene camere e i coltelli imbrattati di sangue presso alle zinne e alle natiche di cera sospese per voto alla Madonna nella chiesa di S. Brigida e del Gesù Vecchio.

Or come farà il camorrista detenuto nelle prigioni, quando saprà che la sua donna, lasciata senza guida e senza mezzi in sulla via quasi senza letto ed esposta a lutti i pericoli, abbia violato non il talamo, che più non possiede, ma la onestà promessa? Gli espedienti escogitati da' camorristi per punire e vendicarsi delle loro donne sono parecchi, e non di rado essi si posero sul volto l'infamia dei piedi e fecero colpire le loro donne in casa di prostituzione, per prostituirle e cavarne un cotidiano o settimanile assegno. Graziella per trar la vita onorata nel tempo della cattura del marito si fa venditrice di acqua solfurea, cui la state è prodiga di avventori. Ella è pronta a versarne con una mano ben fornita, i cui anelli son gia pegno di danaro avuto.

Ma nel versar l’acqua a questo o a quel giovane avviene che taluno non chieda l'avanzo della moneta che piomba sul tavolo, e avvien pure eh' ella finga dimenticarlo.

Or quando non si da a Cesare quel che è di Cesare, ne deriva che Cesare domanda e pretende più di quello che a Cesare appartenga, e allora Graziella si perde, e perché e come? Mi si consenta la celia,


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Graziella si perde in un bicchier d'acqua.


Perduta ogni fede nel vincolo la povera creatura, senza guida e senza risorte, lascia la fresca acqua solfurea, ma le esalazioni di quell'acqua, come nelle famose stufe Puteolane la fanno sudar fredda, ella si avvezza ai ricever danaro senza dar cambio di acqua. Un bicchier d'acqua vai poco, ma pure è qualche cosa. E Graziella smette dal recar mummere cioè tremoli d'acqua fresca, Graziella dimentica qualche giorno suo marito, la consorteria, il contarulo; e, come il suo procedere è riprensibile per più versi e come ella ascende di soppiatto le scale di certe case dove il pigione è più caro e la dimora è più breve, sente la necessità di tenersi da conto qualche asparago, val dire qualche gendarme o qualche poliziotto. Nelle chiuse pareti il camorrista, che niente ignora per opera della consorteria, sa del procedere della sua donna, la rivede ma non fa mostra di saperne dei fatti suoi, e la prega soltanto di recargli nell’anfora consueta o mummera la sua diletta acqua sulfurea. La donna non ne incetta più pel pubblico, ma ne compra col danaro del suo proiettore novello; ed un bel giorno il marito camorrista vuol che gli rechi un coltello nascosto e come? Ficcato nell'interno dell'anfora e coperto dall'acqua. La donna mal suo grado fora l'anfora e v'introduce il ferro, né sa schermirsi dalla mala opera, dal reato di occultazione d'arma per fini criminosi: la figura del camorrista gli sta sempre di fronte. Va difilata alla prigione, ma il carceriere dal camorrista ebbe già sentore di una congiura nelle carceri, della quale gli darà il bandolo: il carceriere, cerio de’ buoni uffici del camorrista, per meritarsi favore dai suoi superiori e dal Commessario Delegato delle prigioni, accorda maggior larghezza al carcerato secondo le proprie facoltà; e questi nel giorno che vede venir la donna con l'anfora armata, prescrive al carceriere di visitarla. All'uscir del cancello ecco il carceriere seguir la prescrizione del camorrista. \» donna è scoperta, freme, s'arrovella e riman dentro.

Uccello che sta in gabbia

Vini canta per amor canta per rabbia.

E Graziella uccellata in questa guisa canta in carcere contro la mala stella che l'ebbe congiunta ad un camorrista, e se ne duole amaramente quando sa che il camorrista è fuori, rimesso in libertà e si diporta con altra donna per non volerne più sapere di lei.


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Di questi fatti, di queste slealtà e tradimenti è piena la storia dei fasti camorristici. Non si cesserebbe mai dallo ascoltarne dal labbro dei proseliti della setta. La vita dei camorrista non si compiva altra fiata che tra queste vicende: si cominciava di coltello a farsi largo nel mondo e di coltello si finiva. La colpa si vestiva di onore, il furto d'industria, la sottrazione del colpevole o l'occultazione del reato era talento, ingegno, la difesa del vizio bravura.

Il Governo non pensava a questa gente: era genie che viveva da sé, che cercava la propria sussistenza senza dimandare impiego o infestare le soglie di un ministro. Per intervenire tra le fila della consorteria il Governo aspettava, la colpa, il reato a dir chiaro, l'involamento, lo sfregio, la ferita, la morte.

Questa oscitanza diveniva un assassinio continuato dirà taluno e chi lo disse non mentì, ma v'ha qualche cosa di più rilevante in mezzo a tanta prostituzione d'uomini e di cose e fra tanto fango. E  quale?

Questa oscitanza era soventi volte una connivenza. La bassa polizia lasciava sorgere i camorristi, li occhieggiava destramente, poi li ghermiva, e finalmente ne traeva profitto.

E come?

Ecco quello che più urge a sapersi per ispiegare il mistero dell’associazione criminosa, ecco il punto dal quale è forza partirsi, allogarsi per mirar l'orizzonte di sì strana e sì complicata consorteria.

La Camorra aveva aderenti, proseliti e sozi entro luoghi di pena e di espiazione, negli ospedali, tra le file dell'esercito, ma se la bassa polizia, non l'avesse adoperata per suo conto e l'alta polizia non l’avesse tollerata.

Dopo la bassa polizia, l'alta polizia cominciò ad avvalersi del camorrista. E come? Allogandone e distribuendone taluno precariamente o temporaneamente nelle prigioni politiche.

Allora il camorrista diveniva un liberale perseguitato: egli imprecava tutto dì contro il governo, sfidava l'ira dei Commissari delegati, sfidava il Ministro, ma i liberali non eran sì facili a credere: essi subivano il loro incubo. E il camorrista?'

V'ha cose nel mondo con le quali non si scherza. Il fuoco riscalda poi brucia; e la libertà che si deride (come una donna che si disprezza) accende talvolta e conquide.


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E da questa studiata comunanza avvenne pure che qualche camorrista che avea barattata la vita pel carcere, barattò la vita per la libertà. L'incubo d'altrui diveniva l'incubo di sé stesso, egli finiva col desiderare i ferri che onorano il pensiero.

Ma venne un momento nel quale, come scrivemmo altra fiata, il nostro bel paese per disfarsi di un male, cioè l’arbitrio della reggia, ne incontra cento nell'arbitrio della piazza. «Un governo nuovo per tor  via una macchia adoperò gli acidi, per sostenere il dritto francheggiò la colpa. Ad un ministro della vecchia polizia era venuto in mente di disfarsi della camorra: ne prese molti e li deportò: ma come le tarde opere buone di rado giovano, gl'iniqui ebbero il disopra. Scoppiata la rivoluzione i camorristi deportati e rilegati si dissero martiri, tornarono trionfanti, ed un ministro liberale, che ebbe bisogno di cavar chiodo con chiodo, li prese a soldo e cacciò per così dire i Goti con gli Unni, e adoperò l'arsenico per la cura del cancro. La camorra allora divenne onnipossente».

Essa impadronivasi quasi de’ cespiti dello stato nel ramo delle Dogane: esigeva per suo conto, ricattava, svaligiava e l'opera di un ministro dové allora disfare un altro.

Le paranze del camorrismo formavano una catena che si spandeva dagli angoli o dai chiassuoli delle strade fin entro agli edifici, dove il continuo agitarsi in faccende favoriva le mene e il corrispondersi degli affiliati alla camorra. Nei tribunali medesimi l'ardita camorra, col mezzo dei suoi tammurri o avvisaglie, esplorava uomini, attingeva notizie, e le sentenze emanate in una o altra causa e il parere de’ più chiari criminalisti del paese e più tortuosi eran sempre note alla schiera dei camorristi. I quali sebbene di legge non sapessero e di codici, bene e molto sapevano di ciò che risguarda il delinquere, delle pene comminate ai rei per qualsiasi delinquenza con le sue scusanti.

Nessuno meglio di un camorrista vi sapeva dire qual differenza corresse tra omicidio mancato e omicidio tentato, a quali castighi andasse incontro l'omicida volontario, in rissa, o quello che lo eseguiva con premeditazione.

Di che costasse la premeditazione e sino a quali termini l'omicidio potesse dirsi in rissa e rientrar nei delitti comuni.


1 V. Causa dell'orologiaro ricordata a' Napolitani da C. T. Dalbono.


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Il camorrista sapea bene qual differenza importi nel criterio della legge la ferita con coltello a manico fisso o con lama a piegatoio, che si volesse intendere per arma impropria o per arma propria, quali fossero le condizioni, i termini, i modi della presentazione, sapeva tosto fino a qual tempo fosse lecito profittare di un indulto, come evitare l'empara di polizia, sottrarsi legalmente ad una ricerca, rispondere senza incriminare, mettere in dubbio le firme: il camorrista infine era un legale di pratica se non di scienza, e quando prendeva parte alle magagne de’ giuochi illeciti e delle tresche furtive egli si lasciava sempre la sua legale sfuggita per la quale deludeva l'applicazione della legge. Come l'agnome nascondeva il suo vero nome, il gergo nascondeva il senso delle sue parole, ma è puerile il supporre che la bassa polizia del passato tempo ignorasse, sia quel gergo sia quella forma di segni di riconoscimento.

Ponendo da bando i delirii e le fantasie dei romanzieri della camorra egli è d'uopo convincersi che la sbirraglia e la camorra eran due forze opposte l'uno contro l'altra armata, e se i camorristi erano tali da far la pelle a' poliziotti e da freddarli co no sciuscio, con un soffio, quando ne fosse suonata l'ora, come fecero i poliziotti praticando pe' loro ritrovi, avendoli spesso di fronte nella via e sapendo bene dove s'agguatavano, conoscevano tutti i loro segni convenzionali e i motti d'ordine. Il piccolo colpo di tosse, lo starnuto, il fischio del camorrista era ben noto al poliziotto, l’ave maria, il gloria palri quando tenean di mira per loro fini chi passava, il loro frasario infine non era un segreto per quelli che, viziosi forse più de’ loro invigilati, venivano chiamati a denudare il vizio anzi a farne loro messi e propina.

Il poliziotto non poteva essere sotto un governo di sistematica repressione né uomo onesto né probo. Se l'uomo destinato ad abusar d'ogni confidenza, a mescersi fraudolentemente o proditoriamente ovunque fosse associazione o convegno di volgar gente, a lusingar di protezione questi e quegli per cavarne profitto, a macchinare come i suoi invigilati, avesse potuto uscir illeso dall’infame contano e mondo dal fango che lo avvolgeva, quest'uomo sarebbe stato un eroe o un santo. Confondersi nel fango e non imbrattarsene è cosa impossibile, e il poliziotto dedito a mettere in luce le turpitudini del camorrista e suoi consorti era già mezzo camorrista anch'egli e, se pur vuolsi, era camorrista d'altro genere.


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I romanzieri della camorra ne hanno fatta un'associazione sì tenebrosa che la luce di tutti i secoli riunita in una epoca non avrebbe potuto a lor vedere renderla chiara del tutto. Gli uomini assenti del tutto dal procedere governativo, i letterati puro sangue, cioè letterati e non altro, cittadini casalinghi un dì, poi venuti fuori di balzo, come gli animali uscenti a frotta dall’arca dopo il diluvio, hanno veduto la Camorra tutta di un colpo, gigante, misteriosa, ravviluppata, tremenda. Essi hanno gridato Eureka l'ho trovata; ma quando essi le han voluto dar forma di una massoneria volgare, le hanno attribuito un tipo troppo solenne o per dir con maggiore evidenza han fatto scaricare con un processo chimico un disegno sopra un altro.

Il poliziotto, e talvolta l'Ispettore di polizia, che chiudeva gli occhi sul camorrista e si prendeva diletto di spogliarlo, dopo che quegli aveva spogliato (cagione dell'odio fra la due parti) non ometteva, quando gli capitasse, di adescarlo con qualche aura di protezione o di favore per trarlo a sé ed indurlo a prender parte in una così detta sorpresa, in un arresto. Il camorrista fiero come egli era o pretendeva di essere, sentivasi uomo d'importanza nel venire interpellato o adibito per un affare di polizia. Comunque avverso a quella instituzione governativa contro la quale diceva di avere il sangue guasto sino agli occhi anzi sino al vertice de’ capelli; pur tuttavia egli avrebbe disertata la camorra per essere capo squadra di una pattuglia di polizia. Ricordiamo pur troppo uomini che si offerivano al governo, dichiarandosi capaci di farsi una stracciata o di accoltellarsi con chicchessia. Egli è vano ed è puerile il supporre che lo spartanismo e la santità del secreto, quando non leda la propria esistenza, possa divenire un dogma sì incrollabile in chi difetta nei cardini d'ogni fede. Il camorrismo era un legame criminoso, era un'associazione di uomini tendenti tutti alla rapina, ovvero all'usufruire dell'altrui, mediante braveria vanteria e intimidazione. In alcuna parte del popolo napolitano questa forma aveva seguaci ed ammiratori.

Il bravaccio, come dicemmo, era una successione del guapo spagnuolo, e i guappi de’ primi tempi Borbonici e de’ successivi, erano una derivazione della milizia baronale ladra, disordinata e temeraria per abito.


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Con la caduta de’ feudi, con lo sbattimento de’ Baroni, le classi del popolo, tra le quali si spigolava lo scherano e il tagliacantoni, serbavano ancora nel loro grembo il seme inverecondo e sozzo di tal genia.

I Governi grandi ed abili che sieno non riescono né riuscir possono mai sì presto a sperdere una sementa di vizi e ili tendenze secolari. I Borboni vi sarebbero riusciti, se avessero coadiuvato e protetto la diffusione del leggere e del sapere i conati dell'istruzione e del desiderio d'istruirsi, ma come essi videro sempre a capo della istruzione la rivoltura e lo abattimento dei troni, così lasciarono che il mal seme e la rea genia si consumasse da sé lentamente d'anno in anno, e per dirla breve senza rancori e senza rispetti inutili dove si tratti di migliorare il paese con l'analisi dei fatti e delle passioni di una stessa pasta quasi si componevano il poliziotto ed il camorrista. L'uno trovava la maniglia ed era ammesso a servir pel governo, l'altro non la trovava e gittavasi dal lato opposto. Due bravi che non avevano la stessa sorte si dividevano col fiele sulle labbra e si giuravan vendetta. Era una guerra di astuzia e di stratagemma che l'uno all'altro faceva. Occultarsi — scoprire —nascondersi—snidare— sviare — colpire. — Se queste due parti avessero proceduto ambedue seguendo principi onesti ed incrollabili, lo intendersi o il ravvicinarsi sarebbe stato difficile, ma sozze ambedue, trovavano un punto nel quale ravvicinarsi ed era l'interesse. Camorra e bassa polizia erano in gara: si sgambettavano a vicenda: certo il governo non poteva proteggere la parie opposta, ma il governo cedendo ad una sfiducia generale degli uomini che si partiva dal capo, lasciava consumarsi da sé in opere neghittose questo impuro materiale e semprechè gli fu mestieri di trovare un malvagio lo trovava, né mai venne costretto a ripetere con Metastasio....

quando

Un malvagio vogl'io son tutti eroi.

Un governo di sistematica repressione e compressione era convinto di dover man mano consumare quel che produceva la sua terra. Non intendeva punto né poco lo incontrar spese e pene e studi gravi e lunghi per migliorar la sua derrata, val quanto dire i suoi rei sudditi. Se vi arrivava il prete a furia di superstizioni, una candela di più per la chiesa, se il prete non vi riusciva, la casa locanda era aperta: questa locanda era la carcere.


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Dalla esposizione di tali principi è chiaro anzi lampante che il governo, ove si potesse ammettere che il miglioramento delle classi viziose fosse quasi impossibile, non volendo far fronte a' gravissimi ostacoli del miglioramento sociale, divideva gli uomini a fasci, il buono da una parte, il cattivo dall'altro. Quando la regina dava in luce un principe, il re facea grazia a molti degli incarcerati. Del Carretto Ministro di polizia, a cui peso sì demoralizzati e bollenti spiriti stavan sopra, ne moveva querele al Re, pregandolo di dare altra direzione a quella sua grazia. E Ferdinando II con un sorriso ironico gli rispondeva. —Hai paura che i miei scarcerati non ritornino in Vicaria? — Ma la polizia dee seguirli, pedinarli— E se non fa questo la polizia che cosa vuol fare?

Di vero gli aggraziati tornavano a mangiare il loro pane di detenzione sia per delinquenze di camorra, sia per tristi effetti di libertà mal concessa. La Vicaria rappresentava per molti un viver casalingo, e per quante asprezze ed incurie venissero rimproverate al governo sul modo di tener le prigioni, le prigioni parevan sempre discreto asilo alle degeneri classi.

Però quest'affluenza sì spessa e quasi indeclinabile nelle carceri era ontosa e gravosa all'erario, massime per sì turpe causa. Però si risecava negli appalti di commestibili ed utensili, si risecava nelle spese e nei compensi dovuti a chi guardava i carcerati. Custodi, secondini, guadagnavano sui detenuti e il pane che il governo retribuiva loro era assai scarso, eppur le fatiche di questi uomini, erano continue: la responsabilità immensa. Essi tenevano a freno uomini, de’ quali l'ultimo o il più debole li avrebbe fatti in brani, disposti a tutto rischiare, ausati al sangue, pronti al tumulto, lieti nel lutto altrui, ricchi nella miseria. Ebbene in cosiffatto stato di cose il capo camorrista era utile al governo. Egli, permettendolo il carceriere o l'ispettore, assumeva una cotal preponderanza sugli altri e diveniva l'ausiliario del custode.


1 Questa Vicaria più volte nomata, per chi nol sappia, è lo edificio di Castel Capuano, antica dimora di re, che gli spagnoleschi dedienron tutta ad uso di dibattimento o discussione causidica, notariato, cancelleria, detenzione e trattenimento per cose criminali. L'edificio è in via di miglioramento ed in parte rifatto, ed oltre più di un ricordo antico, e sale non indegne di esser visitate dal forestiero. Il nome di Vicaria gli venne da Vicariato, Vicario o da chi teneva le veci dell'alto potere rappresentante giustizia.


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 I cameroni dove cotesta feccia di uomini annidava riconoscendo un superiore fra loro, assicuravano ai custodi una specie di disciplina per la quale essi, facendo capo da un solo, tenevano gli altri a freno. La qual cosa non sempre impediva che sanguinose risse si destassero come improvvise fiamme di un vulcano, che il sangue dei perditori spruzzasse sulle immonde pareti del carcere, che nel colmo della lotta, meno il lontano fucile di una sentinella, niuno osasse intervenir giudice nella contesa, ma cessato ogni tafferuglio, pronunziata per così dire l'orazione funebre sul condannato della camorra per esser capitato tra loro, la giustizia entrava freddamente per la parte legale. Al di più provvedeva a suo tempo il Capo-cavallo, cioè il procurator Generale della G. C. Criminale.

Un giorno, che una lotta spietata erasi impegnata in una delle famose, gallerie e fra imprecazioni ed assalti sembravan tremarne le pareti del carcere, un giovane ispettore, un neofito della polizia, correva tutto ansante al Commissario M.... perché si accorresse con pronto rimedio. Il Commessario firmava alcuni ordini, e, senza levar gli occhi dalla carta che segnava del suo cifrone, rispose. Aspettate che si scannino e poi vi manderò in servizio. Il giovane ispettore non conosceva la sentenza, di Tayllerand — Point de zèle!

Di che dovea rammaricarsi il governo, economicamente parlando, se un orologio passato per cinque mani avea dato la campata, val dire la sussistenza, a 30 persone, se un poliziotto giurando sul sangue di Cristo di dar la sfuggita, fujuta, ad un picciotto del quale s'era avvalso, lo avesse invece mandato a far scannare in Vicaria? Un orologio perduto ed un picciotto di meno non alterano l'ordine e la sicurezza dello stato. Questo era il sistema del governo.

D'altra parte va considerato che taluni uomini sui quali il camorrista esercitava la sua brutale e illegale azione, erano già uomini in colpa presso il governo.

Alcuni speculatori, per esempio, in barba del lotto governativo, avevano un lotto privato nel quale, essendo più facili le vincite per concessione di maggior probabilità, gran parte di giocatori accorrevano. La società di cotesti speculatori guarentiva i giuocanti ma con parole. Ebbene il camorrista presentavasi a questa gente che ben conosceva, ed esigeva la sua tassa.

Alcuni preti, che di Cristo e della nostra religione avean fatto bottega, di una in altra chiesa, passando con le debite precauzioni


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celebravan più volte e si lasciavan pagare più messe; ma il camorrista che avea per suo disegno ingoiata più d'una messa, all'ultima di esse gli si faceva innanzi, e, dimandandogli ironicamente se avesse finito, gli richiedeva il suo scotto.

L'ozio adunque faceva girovago il camorrista. Da girovago diveniva indagatore, da indagatore censore, da censore depositario prezzolato d'un segreto, avvisatore, difensore, procuratore per conto altrui.

Se le prigioni, come d'ogni intorno i buoni e i dotti andavano consigliando, avessero subìto quelle riforme umanitarie e civili che il secolo esigeva, il miglioramento delle classi degradate avrebbe trovato un veicolo onde aver effetto, ma gli amministratori della finanza del reame alla spesa del le prigioni, divenuta consuetudine, esitavano ad aggiunger quella delle riforme, temendo incogliere nell'ira del capo del governo, che nelle riforme vedeva la rivoluzione. Postochè l'associazione secreta era il fomite dei vizi e della camorra, lo isolamento ne sarebbe stato di corto la più proficua medela. Né la relegazione poteva come panacea universale adoperarsi, pur tuttavia Del Carretto, per isbarazzarsi appunto di questa crescente scuola e genia di camorristi, propose la relegazione di buona mano di essi a Tremiti, una delle isole dell'Adriatico, famosa pel suo castello, per le scorrerie di un Almogavero corsaro, pei tesori che un dì tentò mettervi in serbo il prode e sciagurato Gioacchino Murat. Fama corse intorno tra camorristi della sorte che lor si destinava: la nequitosa associazione seppelo dalle più alte residenze del palazzo, il che non mostra già, come malamente si asserisce che la direzione della camorra si portasse ab alto, anzi che un Principe reale tenesse il bandolo della matassa, ma che le parentele della gente che serviva in vulgari uffici a corte non era di buona lega. I romanzieri della Camorra han dato per certa questa suprema dittatura, sol perché hanno veduto permanente nel reame questo mal di camorra, ma essi invece hanno subito la intimidazione dei camorristi che per mostrare agli adepti ed a' neofiti la loro potenza a fronte di tutte le polizie, facevano intravedere, e tal fiata attestavano apertamente, l'alta supremazia del loro protettorato.

Quando la relegazione di Tremiti in massa fu statuita, il decreto regio trovò qualche oscillazione appunto perché le influenze del Camorrismo e più quello dell'esercito, che si mascherava per via


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dei suoi capì in una censura ostinata al ministro Del Carretto fecero tentennare l'animo regio. Il trabante o serviente nella casa del Generale o del Colonnello aveva un camorrista in famiglia, (il piccolo genio della rapina organizzata) e nel vederselo allontanare per imprecar la sua sorte sopra uno scoglio dei mari d'Adria era un amaro pensiero. II camorrista è di sua natura splendido, sciupone (sguazzane, sciampagnone] egli rapisce e dona, invola e largisce, e, come in comico linguaggio suol dirsi, il camorrista spende e spande e la maggior seduzione dei gretti spiriti nel farsi dominar da lui in tutte cose e segnatamente quel fulgore di anelli, quel disprezzo della piastra, quella ostentazione di sciupio. Con questi espedienti il Capo Camorra crea gli accoliti e ne cresce il numero e la sua famiglia o le sue aderenze mostrano di non aver a bramar oltre.

Tremiti fu lo sgomento dei camorristi. Isolarli, valeva distruggerli. Sulle prime, non mirando ancor dritto nelle intenzioni del governo, si erano fatti illudere da un nuovo centro di moto commerciale, che il governo simulava di voler fermare in quei paraggi. Un uomo avvezzo a tenere i conii del ministero di Polizia avea fatto credere alla bassa canaglia che ciascun picciotto in breve ora sarebbe a Tremiti un Rotschild. Taluni dimandarono di andarvi, ad altri si fece dimandare, ai più si pose il capestro alla gola.

Castinel, un brutto tipo d'uomo, aveva delle sue bravure e della sua maniera di largheggiare riempita una contrada di Napoli. Egli con quell’aria di Rodomonte erasi fatto amare da una bellissima fanciulla di nome Enrichetta Lubrano. Quel cuore era una gemma, tutto affetto, tutta passione, ed egli il Castinel, mi sia consentito la espressione, era un cesso di vizi. Beone, giocatore, beffardo di Dio e dei Santi, bestemmiatore squisito, spergiuro, ma la sera quando egli si recava a visitare la sua Errichetta non era dolciume o vezzo che non le recasse: bastava una parola, e la Enrichetta era soddisfatta. Il Napolitano del volgo suol dire che mazze e panelle fanno i figli belli ed egli, largheggiando con l'amante, picchiavala di quando in quando. Il Napolitano del popolo asserisce che Gesù nascendo volle vedere innanzi a sé i doni dei pastori e poi incenso, mirra ecc. e la Enrichetta idoleggiava quel mostro, perché il camorrista abbondava di petits soins. Castinel era il camorrista delle botteghe, pigliava da tutti e da tutto, e l'orafo del quale egli minacciava la vetrina,



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 se non lo retribuiva di oro puro sì spesso, non gli faceva di quando in quando desiderare una rota o una serpentina, la piastra.

Quando il suo amatore fu preso, ella invase i cancelli della Prefettura, gridò alla ingiustizia, alla violenza, gittò a terra le guardie che le chiudevano la via, si lanciò fra le braccia di Castinel, suscitò un tumulto e quasi una sedizione fra i camorristi già pronti a partire, e ci volle del bello e del buono per trar via questa giovinetta bellissima quasi esanime dalla folla dei nuovi Tremitani. Il Re venne accusato d'irreligione, permettendo che tante giovani esistenze che potevan mutar verso, andassero a spegnersi sopra uno scoglio. Una mesta canzone popolare seguì i camorristi rilegati

Addio patre e maire

Addio frate e sore,

Io vaco a Tremmole e moro

Nce vedimmo all'aternità!

Ma per la distruzione del camorrismo non vi ha miglior espediente che lo smembramento di queste associazioni criminose. Dislegati, sbandati, tolti fuori dal loro paese, dove ogni pietra per così dire sente il passo del cammorista, dove ogni canto di via gli offre un più fermo e direi spagnolescamente una posada, i camorristi cesseranno. Il camorrismo è nel sangue e nello intendersi degli occhi dei nostri uomini del volgo. Si presenta una occasione di ladroneggiare, o di prendere il disopra della posizione di piazza, essi si guardano e divengono camorristi di botto: non hanno bisogno di tendersi la mano per riconoscersi nella loro missione, non hanno bisogno di concretar le loro idee: la camorra è una scienza insita, prestabilita: l'occasione, il momento, e il camorrista io erba va al suo posto.

Però quel lungo speculare, quell'avvolgimento tenebroso, quelle corrispondenze inestricabili sono nutrite alquanto ne' libri della fantasia degli scrittori o meglio dei romanzieri della camorra.

La sua voce di freddare per uccidere è tutta italiana—il rufo per oggetto rubato vien da arraffare o graffiare. — L'uomo dormiente per uomo morto è forma antica — il bo-botta per pistola è derivazione di dialetto, dicendosi botta il colpo o la esplosione di un'arma da fuoco.

Misericordia o martirio per pugnale è voce originata nei mezzi tempi e portata tradizionalmente a noi.


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 Il gatto, nome dato alla squadra di polizia, e sorcio al poliziotto son voci adottate anche altrove.

Il camorrista impone la sua tassa quando si presenta nelle bische e tutela con la sua persona gl'illeciti giuochi, la impone nelle vendite ad asta pubblica, quando sa che non legittimi negozi di taluno vanno col vento in poppa, come suol dirsi: forte del diritto che il governo esercita sulla prostituzione, impone la sua tassa anche a quella classe, intimidendo le donne e minacciandole di un formidabile rasojo coi quale le svisa e le sfregia, se infedeli a qualche patto o renitenti alle sue voglie. Egli riconosce o si fa riconoscere dal suo camerata o parimente affiliato di camorra, col mostrargli le armi e il modo come le reca indosso: sfida e combatte il suo rivale con lealtà di armi eguali e di principii cavallereschi, cioè tirando al petto e come dice nel suo linguaggio m cassa, ma egli non può prender soddisfazione dell'offesa e misurarsi con l'offensore, se non si appella all'autorità del masto, maestro o Capo camorrista. Così ciascuno appartiene alla sua paranza o sezione, e il passar d'una in un'altra non può avvenire che con lo assenso del capo. Il risecamento della moneta in corso, considerato come ramo d'industria non come furto, gli appartiene: asserisce esser anche quella una fatica che va premiata. Il camorrista discute, discetta da erudito, trova le sue ragioni a tutto, e si fa forte delle sue origini e delle consuetudini. La impunità lo fece stazionario tra le piaghe e le calamità del più bel paese d' Europa: la legge lo favorì dappoi, il codice non ebbe articoli acconci a definire la pena del reato ch'egli promuove, favorisce, compie o lascia compiere.

L'isolamento, la deportazione sono la pena del camorrista, e se una chiave può aprirgli il cuore, l'isolamento sarà da tanto. La sua rete non deve trovar più filo di legame; i suoi passi debbono trovare inciampi ad ogni piè sospinto, la donna che lo accoglie deve essere infamata e il suo asilo non deve aver tetto. L’ultimo dei suoi desideri deve restar inesaudito fino a che egli non rinneghi il suo principio; nessun dritto di cittadino gli può spettare sino a che egli non cessi di conculcar gli ordini sociali. Se ciascun uomo togliendo un boccone al suo pasto può dar vita a molti esseri in abbandono, nessun uomo ha dritto di strapparlo con la violenza.

Senza asilo, senza appoggio, senza relazioni, senza famiglia, fuor di legge e di consorzio, il camorrista deve rassegnarsi ad essere


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quello che sono gli uomini nati nella sua classe, o infingardi poveri, o laboriosi agiati. Lavorare per vivere e condire col sudore della propria fronte il pane benedetto da Dio; questa esser deve la mira di chi intende dimorare tra civili uomini. A tutti è consentito sollevarsi, lasciar la bassa zona che lo cinge, ma crescendo l'opera o il lavoro, ovvero aguzzando l'ingegno per raddoppiarne i risultamenti, gli effetti. Febbre di possedere è perdonabile solo in chi ha febbre di lavorare o rendersi utile. Il viver di scrocco o di estorsioni, vuoi nelle alte, vuoi nelle basse classi, deve esser punito come una violazione dei dritti di uomo.

Il Generale Carrascosa venuto nel 1848 a capo del ministero dei Lavori Pubblici, dal quale dipendevano le prigioni, ebbe il pensiero di distruggere la camorra, incominciando dallo espellerla dalle carceri, ma quando chiamate a sé tutte le carte e gli uomini addetti a quell’ufficio vide aprirsi innanzi agli occhi il deplorabile quadro delle sue ramificazioni ed attinenze, ne rimase stupefatto non solo, ma scosso. Per abattere la camorra gli era d'uopo aspettare la demolizione del governo e strapparne la pianta non fino ma oltre le radici di essa. Il Commendatore Bianchini, sdegnato di quell'avvolgimento nefando, comunque non portato a lavori di tal natura, tentò spingersi, vide la marea montante e retrocesse. L'opera era lunga: quella marea non poteva superarsi in un semplice schifo. Era d'uopo di una nave gagliarda con cannoni ai fianchi ed ancore di salvezza.

Oggi si può tutto, poiché il passato più non esiste. Volere, perseveranza e lealtà, e il camorrismo nequitoso e criminoso sparirà dal lezzo delle provincie meridionali, e i nostri nipoti, forse divenuti per migliori condizioni increduli del passato, diranno— Il camorrismo era un mito!

CAV. CARLO TITO DALBONO


Tratto da:

Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti

di Francesco de Bourcard – 1866 (Pag. 237-241)



LE ZEPPOLE


O zeppola, nella tua rotonda ed anulare circonvoluzione simbolo dell'eternità, io ti saluto! O zeppola, nella tua biquadrata conformazione simbolo dell’ordine e della misura, io ti saluto del pari!

Ma che cosa vuol dir questo indovinello, sento esclamare il mio benevolo lettore? Che imbroglio è cotesto di circoli e di quadrati? Forse che colle zeppole si è trovata la quadratura del cerchio che tanti han creduto scoprire sol perché l'avean cercata, o la circolatura del quadrato a cui niuno ha pensato ancora?

Un po' di pazienza. Seguitemi in questo mio trattato, e vi prometto che imparerete molte cose che non sapete, e ch'io stesso non sapeva prima di averle sapute.

La zeppola, sia qualunque la specie a cui appartiene, è una specialità tutta napolitana. Ben potrà la fortunata unita della nazione italiana, che ha fuso in una tutte le casse di tanti stati, espandere e generalizzare per tutta la penisola questo nostro privilegiato prodotto; ma l'introdursi altrove, non potrà torre il vanto secolare alla città della Sirena di essere stata la madre della zeppola e di molte altre cose ancora.

E perché coll'andar del tempo, se mai cotale propagazione avverrà, non resti ignoto ai posteri il nome della città ove la zeppola ebbe la culla, come ignoto è pur troppo il nome glorioso del suo primo inventore, io propongo di ergere una colonna monumentale in una delle piazze di Napoli, ove sia scolpito


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NAPOLI

INVENTÒ LE ZEPPOLE

TUTTA ITALIA

SE NE LECCÒ LE DITA

IL CONSIGLIO MUNICIPALE

POSE QUESTO MONUMENTO


E sarà cosa molto agevole la erezione di questa colonna se vi si adoprerà il consueto metodo delle sottoscrizioni volontarie, alle quali non v'è pur uno che volontariamente sottoscriva, sebbene con molta buona grazia si faccian tutti trarre il danaro di tasca per non [scomparire.

E potrà così il nostro municipio vantarsi di averne azzeccata una dono che tante n'ha sbagliate e che ne va quotidianamente sbagliando.

Ma entriamo in materia che ormai n'è tempo.

Nel genere Zeppola è da distinguere due specie: la rotonda e la rettangolare.

La prima fiorisce in quaresima e soprattutto nel dì di S. Giuseppe, in cui ora si celebra la festa di uno dei più famosi somministratori di zeppole i. In quel tempo per tutte le strade, come nelle domestiche cucine, non si vede altro che padelle sul fuoco, ricolme di olio bollente, in cui si friggono le bionde zeppole.

Se volete sapere come si fanno, consultate la Cucina teorico-pratica del Duca di Buonvicino, quarta edizione, pag. Ì86. Ma perché forse non intendereste la lingua in cui quel libro è scritto, vi dirò in compendio che quando l'acqua con un po' di vino bianco sta per bollire, vi si gitta il fior di farina, e la pasta che ne risulta maneggiata con olio si riduce in ciambellette, che si friggono nell’olio o nello strutto, pungendole perché si vuotino e riducendole a color d'oro, e da ultimo condendole col mele, col giulebbo o collo zucchero polverizzato.

Il 19 marzo, come accennai, è il giorno destinato più particolarmente alla fabbricazione e distribuzione di questa specie di zeppole.


1 Zeppole in napoletano ha pure il significato di busse.


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Ogni donna che ha una padella e una fornacetta, frigge zeppole in mezzo alla strada, checchè ne dicano i regolamenti municipali; e il negozio a ciclo scoperto vien circondato da fantesche coi piatti che se ne vengono a provvedere. Tutti i pasticcieri in quel giorno friggon zeppole, e a seconda della fama che godono, le loro botteghe veggonsi più o meno stipate di compratori. Per le vie non vedi che piatti in salviette che vanno in giro, o che l'amante all’amante, o che l'amico all’amico, o che il parente ne mandi in dono al parente. Beato colui che può riceverle fatte dalle mani di una bella Peppina, o colui che le riceve in dono dal suo caro Peppino!

Ma a chi l'onor del primato nella manifattura delle zeppole?

A questa domanda un grido unanime di mezzo milione di uomini e donne risponde come un sol uomo: Pintauro. A questo nome, che ha superato l'invidia, s'inchinano riverenti tutti i pasticcieri di Napoli. Nel dì di S. Giuseppe, la sua bottega, che da tempo immemorabile occupa un posto a Toledo al cantone del vico Afflitto, rigurgita di gente, e vi si fa la calca all'uscio con tremendi sgrugnoni e colpi di pugni e di gomiti e pestate di piedi, ch'io ne disgrado l'affollarsi dei pensionisti nei giorni che si pagano le pensioni. Spesso i gendarmi o i carabinieri vi han dovuto porre il loro braccio forte per impedire che qualche pover uomo non morisse schiacciato e pigiato in quello strettojo di gente. O Pintauro! il nome tuo vivrà immortale e durerà nel mondo finché avranno vita le zeppole. Se la colonna monumentale ch'io propongo avrà effetto, nessuno ti potrà negare in essa un posto pel tuo medaglione, o se non altro che a lettere majuscolissime vi s'incida il tuo nome nella parte più cospicua dello stilobate.

Fin qui si è discorso della zeppola rotonda, o zeppola di S. Giuseppe, o zeppola del pasticciere. Passiamo ora alla zeppola del zeppolajuolo che costituisce la seconda specie del genere.

Il pasticciere sta al zeppolajuolo come il nobile al plebeo, come il patrizio al popolano. Il primo appartiene all'aristocrazia, e mette il suo forno a Toledo, a Chiaja, e in altre vaste contrade; il secondo è democratico, e stabilisce i suoi fornelli nei più luridi e oscuri bugigattoli dei vicoli angusti che deturpano la nostra bella città, affumicando sé e i suoi vicini col fumo delle sue padelle.


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Egli frigge zeppole, zeppole di riso, scagliuozzoli, tittoli, zigani, vuzzarielli, palle, vorracce, e qualche altra cosa. Questa roba si vende nella sua bottega, dove vi è pure qualche luogo dove sedere e sporcarsi, per chi vuole mangiar quivi quello che ha comprato. Si manda pure vendendo per Napoli sopra leggieri tavolinetti, benché l'uso ne vada scemando nelle contrade più pulite o meno sporche. Talvolta questo spaccio si fa a ribasso perché la mercanzia è fredda. Dei giuochi che si fanno con queste merci parleremo un po' innanzi, perché ora ci preme il dovere di spiegare la fabbricazione di questi cibi.

Il principale di essi è la zeppola, e bene a ragione da essa ha tratto il nome il manipolatore di tanti alimenti affini. La pasta di cui è formata è di farina di granturco; tagliata a sottili rettangoli, si congiungono questi a due a due, e si ricoprono di uno strato di pasta di farina di fromento, prendendo il nome di libretto; e si possono appunto paragonare agli antichi dittici. Quel miscuglio delle due paste loro dà un sapore tutto particolare.

La zeppola di riso è una frittella di pasta ordinaria, nel cui centro trovasi della semola. È roba più sostanziosa, ma meno delicata.

Lo scagliuozzolo è tutto di farina di granturco e tagliato irregolarmente a triangoli e a trapezi!. Se la pasta si taglia in piccole fettoline, queste prendono il nome di tittoli; se le si da la forma dei sigari, ricevono appunto la denominazione di zigani o fusi.

Il vuzzariello è vuoto al di dentro. È il lusso dei plebei, perché lo stomaco non se ne sazia.

Palle sono piccoli globetti di pasta. I Siciliani introdussero l'uso di porvi nel centro un po' di muzzarella, e le dissero sfingi. Piacque l'idea, e tosto i Napoletani l'adottarono.

La borrana circondata di pasta e ridotta in frittelle è quella che chiamiamo vorraccia e vurracce.

Tutti questi son cibi sani per gli stomachi sani, e si trovano in tutio l'anno e presso che a tutte le ore, soprattutto per chi si contenta di mangiarli freddi. V'hanno, è vero, zeppolajuoli che sospendendo la loro manipolazione durante la state, tramutano il loro negozio in ispaccio dì melloni (cocomeri e poponi), zucca e peperoni fritti, e frittelle con baccalà, con fiori di zucche, ecc. ecc.


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Ma v'hanno pure in gran numero di quelli che rimangono fedeli al culto della zeppola per tutto l'anno, ed emuli delle antiche Vestali, serbano perpetuo ed incontaminato il fuoco sacro delle loro fornacette.

I venditori girovaghi che vanno attorno coi loro tavolini succidi e bisunti, si fermano nei luoghi più frequentati, nei trivii, nelle piazze, e tosto fanciulli e monelli e perdigiorni si fan loro dintorno e formano un capannello. Che cosa fanno? Si scommette a far di una zeppola tre parti con un sol colpo, e con uno zappettino a ciò destinato un degli astanti sta per assestare il colpo fatale, mentre gli altri pendon da lui per giudicare della riuscita; ovvero si scommette di tagliar nettamente di un colpo un cumulo di zeppole soprapposte, senza che nessun filamento rimanga di comune fra i due pezzi; ovvero si scommette di configgere un zigano in una zeppola, e così portarlo una o più volte dal tavolino ad un dato luogo senza che la zeppola se ne distacchi; o finalmente si fa scommessa di mangiare un friabile ruzzartelo, che ha dimensioni più ampie di quelle della bocca umana, senza farne cadere pure un minimo briciolo.

Or questi giuochi sen vanno in disuso e chi vuol vederli dee cercare per le piazze di Porto, del Pendino, del Mercato, di Porta Capuana, dove più tenacemente si serbano i costumi e le usanze locali. A seconda che sparisce il lazzarone napolitano, spariscono di necessita i suoi usi e le sue costumanze, per divenire retaggio degli antiquari e dei rivangatori di patrie memorie. Ma che di cotesti giuochi si perda fin la rimembranza, a noi non duole né punto né poco, anzi ce ne rallegriamo. Essi son sempre cagione di risse, e di risse spesso sanguinose; ed a noi piace che ciascuno mangi il suo in santa pace, senza cercar di togliere l'altrui coll'abilità in un giuoco qualunque. Per«oi è del pati colpevole il ricco che biscazza le sue facoltà sopra una carta nei bagni di Svizzera e di Germania, ed il monello che arrischia e perde il suo soldo sulla tavoletta dello zeppolajuolo.

Meglio cento volte che il ricco e il nobile spendano il loro danaro in zeppole di Pintauro, e il povero ed il plebeo vadano a rifocillarsi lo stomaco nelle luride e sozze catapecchie degli zeppolajuoli.

EMMANUELE ROCCO



GENNAIO 2010 - Pubblicazioni - Articoli - Documenti













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